Corte di Cassazione, III Sezione Civile, ordinanza 30 settembre 2021, n. 26545
PRINCIPIO DI DIRITTO
La condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, deve giungere all’esito di un accertamento che il giudicante è chiamato a compiere caso per caso, anche tenendo conto della fase in cui si trova il giudizio e del comportamento complessivo della parte soccombente, onde verificare se essa abbia esercitato le sue prerogative processuali in modo abusivo, cioè senza tener conto degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente o sproporzionatamente in relazione all’utilità effettivamente conseguibile.
Detto abuso del processo non richiede che il giudice indaghi, nel senso che normalmente si attribuisce a tale espressione, la eventuale riprovevolezza del comportamento del soggetto agente, ma non lo esonera dalla necessità di ricavare detta riprovevolezza in termini oggettivi dagli atti del processo perché la colpa o il dolo rilevanti sono quelli che si manifestano proprio attraverso il compimento dei suddetti atti processuali o attraverso l’adozione di certe condotte processuali e non sono percepibili separatamente da essi. Deve escludersi, pertanto, che il giudizio sulla antigiuridicità della condotta processuale possa farsi derivare automaticamente dal rigetto della domanda o dalla inammissibilità o dall’infondatezza della impugnazione.
L’esercizio delle prerogative processuali, costituendo esplicazione del diritto costituzionalmente garantito del diritto di azione e di difesa, merita la sanzione di cui all’art. 96 c.p.c., comma 3, quando il suo concreto atteggiarsi, nonostante il rispetto in senso stretto della legge processuale, a seguito di una indefettibile valutazione secondo correttezza, si connoti in concreto in termini di antigiuridicità. Pur potendo attingere elementi di valutazione dall’assunzione di comportamenti processuali sleali, il giudice deve tener conto che il comportamento scorretto non coincide con quello processualmente non leale, essendo la correttezza un parametro di valutazione esclusivamente giuridico ed ex ante imposto all’agente
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Con il primo motivo le ricorrenti lamentano la “Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 2”, deducendo che non era stato provato da parte della locatrice l’inadempimento, che il giudice a quo aveva rigettato le richieste istruttorie, ma poi aveva contestato la mancata formulazione di una prova da parte delle appellanti ed aveva persino negato la CTU, senza motivazione. In aggiunta, la sentenza impugnata viene censurata per avere affermato che le richieste risarcitorie erano indeterminate ed imprecise, senza concedere ciononostante la CTU richiesta. Le censure sono plurime, ma tutte inaccoglibili.
Quanto alla prova dell’inadempimento, la Corte d’Appello ha respinto il motivo di gravame avente lo stesso contenuto della censura mossa alla sentenza di primo grado, con una motivazione ampia, così articolata: i) l’art. 658 c.p.c., conferisce all’intimante lo sfratto la facoltà di chiedere anche il pagamento dei canoni scaduti; ii) le appellanti, una volta accertato giudizialmente che la sottoscrizione in calce alla procura conferita a P.L. era proprio quella di O.S., avevano rinunciato alle domande inerenti l’esistenza, la validità e l’efficacia del contratto di locazione; iii) il giudice di prime cure aveva correttamente applicato tanto il principio di non contestazione – perché le appellanti si erano limitate ad eccepire l’inesistenza, l’invalidità e l’inefficacia del contratto e la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni si era a sua volta basata sulla asserita inesistenza, invalidità ed inefficacia del contratto – quanto quello della distribuzione dell’onere della prova, giacché, in sintonia con la giurisprudenza di legittimità, aveva posto l’onere di provare la fonte del proprio diritto ed il termine di scadenza dell’obbligazione a carico della parte che agisce in giudizio per la risoluzione per inadempimento del contratto, limitandosi a pretendere l’allegazione dell’altrui inadempimento.
In definitiva, osserva la Corte, la sentenza impugnata non ha fatto che applicare principi consolidati in ordine alla distribuzione dell’onere della prova in una fattispecie in cui era stata chiesta la risoluzione del contratto per inadempimento ed a rilevare che da parte delle odierne ricorrenti non era stata neppure contestata la morosità. E quanto al rigetto delle istanze istruttorie, mette conto osservare che tutto l’apparato argomentativo delle ricorrenti, oltre a muovere da una errata premessa in iure, cioè che spettasse alla locatrice provare la morosità, non consente, per la genericità e l’assertività delle censure mosse alla sentenza impugnata, neppure di individuare quali siano le statuizioni ritenute erronee.
Viene lamentato, infatti, che la Corte abbia rigettato le richieste istruttorie – peraltro, senza neppure individuarle – perché non rispondenti ai requisiti di cui all’art. 342 c.p.c., quindi perché irrilevanti ed ininfluenti, aggiungendo che “appare eclatante il rigetto della CTU”; è evidente, tuttavia, che le suddette richieste istruttorie, così come la richiesta di CTU, si riferiscono non alla prova dell’adempimento, ma alla prova di un controcredito che le odierne ricorrenti avrebbero vantato nei confronti della locatrice a titolo di indennizzo. Tale indennizzo si chiedeva venisse liquidato oppure compensato con il credito della locatrice. La Corte d’Appello ha rilevato la novità della richiesta dell’equo indennizzo, giacché in primo grado era stato domandato il risarcimento del danno, nonché la genericità dell’eccezione di compensazione, e ha rigettato il motivo di appello, avente ad oggetto la decisione reiettiva del risarcimento del danno, perché “le censure difensive (…) non costituiscono rituale motivo di appello, perché non contengono alcuna censura precisa della sentenza, né indicano violazioni di legge e non rispondono ai requisiti tutti previsti dall’art. 342 c.p.c.”.
Risulta evidente, dunque, che le deduzioni difensive delle ricorrenti non meritano accoglimento, perché non sono in grado di assolvere alla funzione che dovrebbe essere propria della denuncia di un vizio cassatorio: individuare l’errore e descriverne le ragioni. Per denunciare un errore bisogna, infatti, identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione; il che non avviene quando, come in questo caso, l’esercizio del diritto d’impugnazione non sia valso ad esplicitare né a specificare i motivi per cui una data statuizione sarebbe errata, i quali, per essere enunciati come tali, debbono concretamente considerare le argomentazioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere (ex multis. cfr. Cass. 16/04/2021, n. 10128; Cass. 10/08/2017, n. 19989).
- Con il secondo motivo la sentenza è censurata per omessa o contraddittoria motivazione, perché le contestate omissioni nell’esposizione difensiva si riferivano proprio ai punti in cui alla difesa delle odierne ricorrenti sarebbe stato di fatto negato di provare le sue argomentazioni. Anche questo motivo non può essere accolto. Esso riguarda da una prospettiva diversa la stessa questione oggetto del mezzo impugnatorio precedente: la sentenza sarebbe viziata perché avrebbe impedito alle ricorrenti di soddisfare l’onere probatorio posto a loro carico – non è chiaro se le ricorrenti si riferiscano alla prova dell’avvenuto adempimento, dell’indennizzo/risarcimento e/o ad entrambi – non ammettendo i mezzi di prova richiesti.
Deve darsi seguito, precisa la Corte, ad un principio pacifico, secondo il quale, qualora con il ricorso per cassazione siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonché di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove non ammesse. Tantomeno le ricorrenti possono lamentarsi per la mancata ammissione della consulenza tecnica che a loro avviso avrebbe consentito di provare il danno, dato che tale mezzo istruttorio (che non costituisce una prova vera e propria) è sottratto alla disponibilità delle parti ed è affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione in ordine al se disporre la nomina di un ausiliario.
- Con il terzo motivo è denunciata la nullità del procedimento, per la ricorrenza di un vizio della procura notarile che, ove accertato, porterebbe alla nullità dell’intero procedimento. La procura, non risultando registrata, come sarebbe emerso solo successivamente alla decisione di appello, mancherebbe, ad avviso delle ricorrenti, di data certa. Pur trattandosi di una questione che può essere rilevata d’ufficio in qualsiasi stato e grado del procedimento, e quindi anche dal giudice di legittimità, deve rilevarsi che non è in discussione il potere di rappresentanza processuale di P.L.: l’art. 77 c.p.c., prevede solo la forma scritta per il conferimento del potere di stare in giudizio a nome di un altro soggetto, non richiede ulteriori requisiti formali, quali l’adozione dell’atto notarile (Cass. 08/01/2002, n. 128). Né, in genere, per l’efficacia di una procura, atto unilaterale non recettizio che può avere rilevanza nei confronti di un numero indeterminato di soggetti, è richiesta la previa adozione di particolari strumenti di pubblicità. E, nel caso di specie, quanto alla prova dell’anteriorità della procura rispetto alla costituzione in giudizio, è valorizzabile l’attendibilità del documento stesso, in quanto atto autenticato dal notaio in data 24 giugno 2014.
- Con il quarto motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3. Oggetto di censura è la statuizione di condanna per responsabilità processuale aggravata delle ricorrenti, giustificata additando un uso strumentale e dilatorio dell’atto di impugnazione. Le ricorrenti, in particolare, lamentano la mancanza dei presupposti per la condanna in esame, rimarcano di avere tenuto un comportamento ispirato a senso di giustizia ed onestà intellettuale, avendo rinunciato a parte delle proprie domande dopo l’esito del procedimento per la querela di falso, insistono sul fatto che l’appello era stato rigettato per difetto di prova, negando loro la possibilità di provare alcunché, essendo state rigettate tutte le istanze istruttorie formulate.
4.1. Il motivo merita accoglimento.
4.1.1. L’applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, richiede la ricorrenza di specifici presupposti, su cui cfr. infra, che la Corte d’Appello, limitatasi a richiamare le ragioni che avevano giustificato il rigetto dell’appello avverso la decisione di prime cure (cfr. p. 10), non ha dato prova di aver riscontrato nel caso di specie.
4.2. Deve ritenersi escluso, infatti, che il giudice goda di assoluta discrezionalità nel condannare la parte soccombente al pagamento di una somma determinata equitativamente, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, e/o che possa limitarsi a giustificare detta condanna evocando un astratto uso strumentale e dilatorio, da parte del soccombente, del mezzo impugnatorio (cfr. p. 10 della sentenza). E ciò a maggior ragione, soggiunge la Corte, considerando che il criterio di liquidazione della somma posta a carico della parte soccombente, oltre ad essere rimesso all’equità del giudice, risulta, ai sensi della disposizione evocata, svincolato da ogni parametro e che la condanna ha carattere officioso, quindi, derogatorio rispetto al principio dispositivo di cui all’art. 112 c.p.c., che informa il processo civile.
4.3. Vero è che la individuazione dei presupposti cui subordinare la condanna è questione che, in verità, continua ad essere discussa, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.
4.4. Non si può negare che l’istituto in esame – introdotto con la L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 12 e a mente del quale “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata” – abbia risentito e continui a subire gli effetti, nelle applicazioni concrete, della sua formulazione alquanto generica, la quale lascia trapelare il difetto di una presa di posizione chiara, da parte del legislatore, quanto alla sua finalità e, di riflesso, quanto ai suoi rapporti con dell’art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, che, a loro volta, determinano i presupposti di applicazione della responsabilità processuale aggravata.
4.4.1. Proprio perché agevolata da quella che ai più è parsa – per l’appunto – una ambiguità persino del legislatore, si è manifestata la tendenza a ravvisare un’anfibologia finalistica dell’istituto, che si è progressivamente concretizzata in un pendolarismo qualificatorio che ha permesso di individuare nella condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, talvolta, un’ipotesi ulteriore – suggestivamente definita di temerarietà attenuata, al confronto con quelle di cui ai commi 1 e 2 – di sanzione risarcitoria per lite temeraria, talaltra, uno strumento del tutto nuovo e, soprattutto, autonomo rispetto alla temerarietà della lite, da impiegare per sanzionare specificamente l’abuso del processo.
4.4.2. Il dibattito sull’art. 96 c.p.c., è ancora oggi particolarmente vivace e risulta di ancora maggior significato se letto in parallelo con la disciplina del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 26, in tema di lite temeraria nel processo amministrativo, il quale, benché successivo alla previsione del codice di procedura civile e pur definendo nel suo ambito di applicazione la materia del quantum debeatur, innegabilmente condivide con l’art. 96 c.p.c., comma 3, l’incertezza dei presupposti cui subordinare la condanna. Ogni confronto con la previsione del codice del processo amministrativo deve, tuttavia, tener conto del fatto che il principio internazionale e costituzionale del giusto processo, espressamente richiamato dall’art. 2 c.p.a., comma 1, assume una “valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica e che è infatti icasticamente richiamato dell’art. 26, comma 1”. Lo ha sottolineato la giurisprudenza amministrativa, precisando che la previsione in parola rappresenta uno strumento di reazione che evita “la beffa di norme processuali, prescrittive di oneri ed obblighi, ma minus quam perfectae, ossia prive di una sanzione” (così Cons. Stato, 12/06/2017, n. 2852).
4.5. Vi è larga convergenza – anche da parte del giudice delle leggi (Corte Cost. n. 152 del 23/06/2016 e n. 139 del 6/06/2019) – circa il fatto che l’antesignano dell’art. 96 c.p.c., comma 3, sia l’art. 385 c.p.c., u.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 12 (e presto abrogato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 20), il quale, nell’intento di disincentivare i ricorsi per cassazione, prevedeva la condanna al pagamento di una somma, equitativamente determinata, entro un limite massimo, nel caso di proposizione del ricorso (o di resistenza in giudizio) con colpa grave.
4.6. La Corte Costituzionale – sent. n. 139/2019, citata – ha descritto, peraltro, puntualmente la cornice entro cui si inserisce la misura in esame: “il contrasto dell’abuso del processo, sanzionato, in particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della parte vittoriosa al pagamento di una somma equitativamente determinata dal giudice. Questa obbligazione, che si affianca al regime del risarcimento del danno da lite temeraria, ha natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa (sentenza n. 152 del 2016). Ciò perché l’attribuzione patrimoniale – a differenza di varie altre norme del codice di procedura civile che sanzionano con pene pecuniarie specifiche ipotesi di abuso del processo (…) – è riconosciuta proprio in favore della parte vittoriosa, al di là del danno risarcibile per lite temeraria, e non già – come si sarebbe portati a ritenere – in favore dell’Erario, benché sia anche l’amministrazione della giustizia a subire un pregiudizio come disfunzione e intralcio al suo buon andamento”.
4.7. Il carattere anfibologico della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, chiosa ancora la Corte, trova conferma, dunque, anche nella giurisprudenza costituzionale: per quanto la Consulta ne abbia individuato il carattere aggiuntivo rispetto alla condanna risarcitoria per lite temeraria e la collocazione nell’ambito dell’abuso del processo, ritenuto – sembrerebbe – non (del tutto) coincidente con la lite temeraria, non l’ha disancorata dai suoi presupposti soggettivi. Infatti, proprio rievocandone la comune matrice, ha sottolineato che la sua funzione è la stessa dell’art. 385 c.p.c., comma 4, seppure con due differenze: “da una parte, non si prevede più, come presupposto della condanna, la “colpa grave” della parte soccombente, perché l’incipit della disposizione censurata fa riferimento a “ogni caso”, scilicet, di responsabilità aggravata che, come enunciato nella rubrica della disposizione, ne costituisce l’oggetto, sicché devono intendersi richiamati i presupposti del comma 1: aver la parte soccombente agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (…). E il criterio di quantificazione della somma, oggetto della possibile condanna, è rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari”.
4.8. La Consulta parrebbe, dunque, aver risolto l’interrogativo di fondo, chiarendo che la condanna non può prescindere dall’accertamento della ricorrenza dei presupposti soggettivi del dolo o quantomeno della colpa grave a carico della parte soccombente.
4.8.1. Il condizionale, nondimeno, è d’obbligo, posto che la stessa Corte Costituzionale, riconoscendo natura ibrida alla suddetta condanna – insieme, riparatoria e indennitaria – alimenta la pluralità delle opzioni ermeneutiche circa le finalità della misura, da cui dipende, in ultima analisi, la risposta all’interrogativo da cui si è partiti e cioè quali presupposti debbano ricorrere perché il giudice condanni officiosamente la parte soccombente. E’ la stessa Consulta, non a caso, a precisare che la norma, facendo riferimento alla condanna al pagamento di una somma, segna “una netta differenza terminologica rispetto al “risarcimento dei danni”, oggetto della condanna di cui ai primi due commi dell’art. 96 c.p.c..
Ancorché inserita all’interno del predetto art. 96, precisa la Corte, la condanna di cui all’aggiunto suo comma 3 è testualmente (e sistematicamente), inoltre, collegata al contenuto della “pronuncia sulle spese di cui all’art. 91”; e la sua adottabilità “anche d’ufficio” la sottrae all’impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non e’, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici (…). L’istituto così modulato è suscettibile di rispondere, peraltro, anche ad una concorrente finalità indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata anch’essa da una temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata in giudizio) nelle, non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l’an o il quantum del danno subito, suscettibile di formare oggetto del risarcimento di cui ai primi due commi dell’art. 96 c.p.c.”.
Il fatto che la sanzione pecuniaria sia riconosciuta a favore della parte vittoriosa e non all’erario è connaturato alla natura eterogenea della misura: per un verso, si tratterebbe di un indennizzo che deve essere riconosciuto alla parte vittoriosa che ha subito una conseguenza pregiudizievole dall’abuso del processo, peraltro, vi è la consapevolezza che la parte vittoriosa, più interessata dell’erario, metterà in atto tutti gli strumenti atti a riscuotere interamente, velocemente e coercitivamente la somma pecuniaria oggetto di condanna (in tal senso cfr. Cass. 21/11/2017, n. 27623). Del resto, all’obiezione che la sanzione a tutela di un interesse pubblicistico avrebbe richiesto l’attribuzione della somma alle casse dello Stato, si è replicato che si tratta di una scelta legislativa che non viola alcun principio fondamentale; proprio come deve affermarsi riguardo all’art. 614 bis c.p.c., ispirato alle astreintes dell’ordinamento francese, o anche all’art. 709 ter c.p.c., all’art. 187 undecies Tuf ed ancora al D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 13.
Il ragionamento della Consulta si conclude con un chiarimento del concetto di equità evocato dall’art. 96 c.p.c. che – oltre a non poter essere assimilato all’equità intesa come criterio di giudizio alternativo al diritto – non è né quella dell’art. 1226 c.c., sarebbe diverso se il legislatore avesse voluto solo sopperire alla difficoltà della parte vittoriosa di provare il quantum del danno sofferto a causa della lite temeraria – né quella di cui all’art. 432 c.p.c. – la quale implica, a sua volta, certezza nell’an ed indeterminabilità del quantum – poiché il legislatore “ha rimesso al giudice la determinazione dell’an e del quantum della prestazione patrimoniale imposta alla parte soccombente, già obbligata ex lege al rimborso delle spese processuali e al risarcimento integrale del danno da lite temeraria”.
L’equità – ha affermato – è un “criterio integrativo di una fattispecie legale consistente in una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge“. Non a caso in dottrina è stato puntualmente rilevato che le affermazioni della Corte Costituzionale potrebbero prestarsi ad essere interpretate nel senso che anche l’an della prestazione si concretizzi, ovvero venga ad esistenza, solo se l’equità lo imponga, tanto da non escludere che l’equità sia fonte, nel caso concreto, di una prestazione astrattamente prevista dal legislatore e non solo parametro di quantificazione della stessa.
4.9. Si è immediatamente intuito, prosegue la Corte, che dal significato da attribuire all’espressione “in ogni caso” dipende se la casistica di riferimento della norma in esame sia quella dei primi due commi, dai cui presupposti discenderebbe il raggio di incidenza anche dell’ultimo, o se, al contrario, si debba generalizzare la possibilità di condanna ad ogni ipotesi in cui il giudice, all’atto di procedere alla regolamentazione delle spese di lite, prescindendo, in particolare, dalla sussistenza di un comportamento processuale connotato, sul piano soggettivo, da dolo o colpa grave, ravvisi un uso scorretto/deviato degli strumenti processuali, approfittando della natura di clausola generale che deve essere riconosciuta all’abuso del processo ed alla duttilità ed elasticità che ne costituiscono il corollario; o, più in generale, muovendo dalla premessa, in verità discutibile (cfr. infra), che l’abuso del processo non costituisce un illecito, ma un comportamento privo di antigiuridicità, perché non riprovevole, seppur causativo di conseguenze pregiudizievoli. Si tratterebbe, secondo tale traiettoria qualificatoria, di un atto lecito dannoso che proprio perché tale non può essere sanzionato con la condanna risarcitoria, ma indennizzato con una somma di denaro che non equivale – né nel quantum né nella funzione – ad una condanna risarcitoria.
- E’ opportuno ricordare che dell’art. 96 c.p.c., comma 1, prevede che l’esercizio di un diritto fondamentale, quello di azione e difesa in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., può integrare un illecito ogni volta che le modalità di esplicazione siano temerarie, perché caratterizzate da un atteggiamento di mala fede o di colpa grave della parte o del difensore.
Il comma 2, sanziona, apprezzandole con maggiore severità, giacché basta anche la colpa lieve, la quale risulterebbe condensata nella formula “avere agito senza la normale prudenza”, le ipotesi specifiche dell’esecuzione di provvedimento cautelare, della trascrizione di domanda giudiziale, dell’iscrizione di ipoteca giudiziale, dell’inizio o del compimento dell’esecuzione forzata, ogni volta che il giudice riconosca l’inesistenza del diritto sulla scorta del quale tali attività sono state incautamente compiute (sull’art. 96 c.p.c., comma 2, è opportuno il rinvio alla recente decisione delle Sezioni Unite – Cass., Sez. Un., 22/09/2021, n. 25479 – che, chiamate a pronunciarsi sulla questione di massima di particolare importanza circa l’individuazione del giudice competente a pronunciare la condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2, in relazione ad una esecuzione intrapresa, senza la normale prudenza, sulla base di un titolo venuto meno nel corso del giudizio di opposizione, rimarca, ai fini che qui interessano, che la condanna è fondata su un illecito: cfr. p. 11.2., in particolare).
Entrambe le fattispecie hanno carattere risarcitorio “con funzione compensativa del danno cagionato da c.d. “illecito processuale” e perciò sono usualmente ricondotte al genus della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., benché si pongano rispetto a essa in rapporto di specialità” (in tal senso, ex multis, cfr. Cass. 25/02/2020, n. 5097; Cass. 21/11/2017, n. 27623; Cass. 16/05/2017, n. 12029).
Deve muoversi, infatti, precisa la Corte, dalla considerazione del tipo di relazione entro cui si colloca l’illecito, cioè si deve tener conto che l’elemento materiale consiste nello svolgimento di un’attività processuale – il che riverbera le sue conseguenze anche sui requisiti soggettivi che attengono alla posizione di parte soccombente e parte vittoriosa – la quale, essendo dominata dall’operare del diritto di azione e di difesa costituzionalmente riconosciuto, aveva necessità di una tipizzazione rispetto all’art. 2043 c.c., che permettesse di collocare la responsabilità processuale nel campo proprio della responsabilità civile. Ne’ va omesso che la giurisprudenza di legittimità neppure esclude il ricorso all’azione comune di risarcimento danni, in funzione sussidiaria, là dove l’azione speciale sia rimasta preclusa in forza dell’evoluzione propria dello specifico processo, dal quale la responsabilità aggravata ha avuto origine (Cass. 18/02/2000, n. 1861).
In sintonia con la dedotta natura risarcitoria, i presupposti di operatività di tali figure sono individuati nella necessaria istanza di parte, nella totale soccombenza di colui che ponga in essere l’illecito processuale (cfr., tra le tante in tal senso, Cass. 19/10/2020, n. 22647), nella sussistenza dell’elemento soggettivo della condotta temeraria, caratterizzata da mala fede o colpa grave ovvero, nello specifico caso di cui al comma 2, da colpa lieve consistente nella mancanza della normale prudenza; ed infine, nel danno ingiusto che da tale condotta sia derivato alla controparte vittoriosa.
- Si è molto insistito, chiosa ancora la Corte, sul fatto che le ragioni dell’introduzione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, debbono ravvisarsi nell’opportunità di rendere possibile l’applicazione della sanzione per lite temeraria, emancipando la parte vittoriosa ed il giudice, rispettivamente, dall’onere di provare e di istruire il processo anche relativamente all’an ed al quantum del danno subito dalla parte vittoriosa in giudizio per causa della temerarietà della lite; e ciò malgrado questa Corte (cfr., ad esempio, Cass. 19/10/2015, n. 21079; Cass. 27/02/2013, n. 4925), col tempo – non senza guadagnarsi le critiche della dottrina che ha stigmatizzato il dominio delle presunzioni, perché l’estensione del ragionamento inferenziale alla totalità degli elementi da provare rischia di concretizzarsi in una rimozione dell’onere probatorio – ne avesse reso più agevole l’onus probandi, ammettendo a sostegno della prova del danno derivante dalla deduzione di condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte il ricorso a nozioni di comune esperienza, anche alla stregua del principio della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2) e della L. n. 89 del 2001, in base alla quale, secondo l’id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali, per essere stati costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario, non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari di lite, causano anche danni di natura non patrimoniale che, per non essere di agevole quantificazione, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa.
- Le sorti della lite temeraria e dell’abuso del processo, osserva la Corte, si sono intersecati in tempi relativamente recenti, perché così come l’abuso del diritto sostanziale anche quello del diritto processuale, a lungo, è parso concetto estraneo ad una concezione liberale del diritto processuale, fondata sul dispiegamento del tutto libero delle attività di difesa tecnica realizzabili ad opera degli avvocati. La dimensione del principio qui iure suo utitur neminem laedit relegava, infatti, in una dimensione di eccezionalità ogni sindacato sull’esercizio del diritto all’azione ed alla difesa; per converso, in verità, neppure pareva corretto ipotizzare la ricorrenza di un diritto di non subire turbative processuali che reclamasse, ove leso, una qualche reazione da parte dell’ordinamento. Ne’ veniva considerato irrilevante che, nel progetto definitivo del codice del 1942, il timore per la certezza del diritto avesse prevalso, portando a non menzionare il principio dell’abuso del diritto, già contenuto nel progetto del codice italo-francese delle obbligazioni (art. 74) e previsto dall’art. 7 del progetto di codice.
Ciò non aveva mancato di influenzare in senso negativo – si pensi alle difficoltà di applicare l’art. 833 c.c., ove il terzo danneggiato non avesse dimostrato la ricorrenza dell’animus nocendi del dominus ed alla diffidenza verso l’utilizzo della regola della buona fede – anche la verifica della effettiva immanenza del principio dell’abuso del diritto nel sistema ordinamentale, malgrado la scelta del codificatore di non farne menzione.
- L’insieme di tali considerazioni, prosegue la Corte, non basta a sottrarre spazio ed attualità alla questione dei rapporti tra la fattispecie di cui al comma 3 e quella dei primi due commi dell’art. 96 c.p.c., nel senso che ammettere che si possa ravvisare un abuso del processo anche a prescindere dalla temerarietà della condotta processuale non è sufficiente, onde escludere l’evocazione stringente delle condizioni previste dai primi due commi, in particolare riguardo alla connotazione dell’elemento soggettivo.
8.1. E ciò senza tener conto delle opinioni di chi rimarca che la lite temeraria sia altro dall’abuso del processo – opinioni basate principalmente sulla rilevata distinzione tra le conseguenze derivanti dalla nozione di abuso del processo, siccome delineata dalla decisione a Sezioni Unite 15/11/2007, n. 23726, in tema di frazionamento del credito, ove la sanzione per l’abuso è quella di un rigetto in rito della domanda, e quelle collegate all’abuso del processo, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, atteso che il legislatore non ha affatto previsto che la ricorrenza dell’abuso esoneri dalla decisione di merito, ma ha solo disposto che essa debba essere sanzionata con il pagamento di una somma di denaro – le quali vanno a rafforzare la conclusione che la condanna fondata dell’art. 96 c.p.c., comma 3, non possa essere disgiunta dai presupposti richiesti dai commi 1 e 2, dovendo il comma 3 essere letto in combinato disposto con i due commi che lo precedono.
8.2. A spingere in tale direzione, precisa la Corte, è anche la valorizzazione dell’inserimento della condanna nel contesto dell’art. 96 c.p.c.: inserimento che, essendo spiegabile col fatto che la disposizione è stata concepita per superare gli ostacoli applicativi alla condanna al risarcimento per lite temeraria, attribuirebbe all’inciso “in ogni caso” il significato di richiamo alla possibilità per il giudice di disporre la condanna al risarcimento senza istanza di parte, ferma restando la necessità della mala fede o colpa grave della parte soccombente. Al di fuori della mala fede non potrebbe riconoscersi nel soccombente un atteggiamento che non sia da considerare espressione dell’esercizio del diritto di difesa e ciò in quanto il processo civile persegue non solo l’interesse pubblico ad una giustizia giusta, ma anche quello privato al conseguimento di una sentenza favorevole; di conseguenza, il giudice non sarebbe esonerato dall’obbligo di assicurare il rispetto delle regole processuali, ma dovrebbe contemperare il dovere delle parti di collaborare alla realizzazione degli interessi generali con la garanzia che deve essere riconosciuta al difensore di adottare tutti i mezzi processuali che siano strumentali al soddisfacimento dell’interesse individuale del cliente.
Il diritto di accesso al giudice, come più volte enunciato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (sin dalla sentenza n. 18/75, Golder c. Gran Bretagna) costituisce il fondamento degli altri principi del giusto processo che, in mancanza, sarebbero privi di ogni significato, ivi compreso quello della ragionevole durata dello stesso che norme come quella in esame mirano a preservare. Insomma – e si tratta di un argomento dirimente – l’attività del difensore costituisce esercizio del diritto a meno che non ricorrano i caratteri dell’abuso, cioè dell’esercizio non corretto dello stesso, riscontrabile quando le modalità prescelte non tengano conto degli interessi contrapposti, qui costituiti dall’interesse della controparte processuale e dall’interesse pubblico a un adeguato funzionamento del sistema giudiziario, che ovviamente si riverbera sull’esigenza della ragionevole durata del processo; il che, oltre a non legittimare una ricostruzione della condanna di cui dell’art. 96, u.c., come indennizzo per danno lecito da processo, imporrebbe che i presupposti in forza dei quali il giudice può condannare una parte al pagamento di una somma equitativamente determinata non possano che essere quelli individuati dalla rubrica della norma (Responsabilità aggravata), in una lettura coordinata dei suoi tre commi.
- Dal problema ora accennato, osserva la Corte, discende anche la difficoltà di una soddisfacente qualificazione della natura della responsabilità evocata dalla norma, essendo in bilico la sua riconducibilità ad una responsabilità aquiliana, con tutte le regole che le sono connesse, o il possibile autonomizzarsi da essa per rappresentare una misura afflittiva o piuttosto un “rimedio”, cioè uno strumento che, ponendosi a stretto ridosso con la violazione dell’interesse che si vuoi proteggere, si intinge di realismo e di fattualità, è insofferente verso affermazioni retoriche di tutela non effettiva ed è insensibile alla tassonomia delle forme – di tutela.
9.1. La discontinuità che da più parti si è voluta ravvisare nell’espressione “in ogni caso” che apre il dettato della disposizione le attribuirebbe il preciso obiettivo di porre un freno alle controversie che, anche se non temerarie, siano comunque prive di reale consistenza e semplicemente esplorative o intimidatorie, sganciando la condanna dall’alveo della responsabilità per lite temeraria per collocarla, invece, lungo il solco delle iniziative assunte dal legislatore a supporto della deflazione dei processi, nella prospettiva, più ampia, di responsabilizzare le parti processuali e finanche di disincentivare l’introduzione di un giudizio senza la dovuta diligenza. Il che imporrebbe una chiave di lettura dell’istituto in esame non disgiunta dagli artt. 88,91 e 92 c.p.c., con i quali il legislatore ha dato vita ad una sorta di microcosmo normativo, contraddistinto dalla coniugazione del tema delle spese di lite con quelli della lealtà e correttezza nel giudizio e dell’economia processuale.
Anche questa Suprema Corte, intervenendo sulla questione, non ha mancato di precisare che l’espressione, “secondo corretti canoni interpretativi”, non può che significare “al di fuori di quanto previsto dai commi che precedono”, ossia a prescindere dai presupposti richiesti dai primi due commi dell’art. 96 c.p.c.” e che il fatto che il legislatore abbia attribuito al giudice la facoltà di pronunciare la condanna “quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, se da un lato implica che vi sia stata condanna del soccombente all’integrale pagamento delle spese processuali e che non vi siano state ragioni per compensarle (neanche in parte), lascia intendere, dall’altro, l’applicabilità della disposizione a tutte le ipotesi di soccombenza, a prescindere da ogni valutazione circa la mala fede o la colpa grave della parte”. (Cass. n. 27623/2017, cit.).
- Dopo una parentesi iniziale che aveva visto dominare il campo la soluzione opposta – cfr. Cass. 19/04/2016, n. 7726; Cass. 29/09/2016, n. 19285; Cass. 30/11/2012, n. 21570 – anche la giurisprudenza di questa Corte sembrava essersi mossa in tale direzione, valorizzando, allo scopo, la mancata menzione del danno e di qualsivoglia criterio di imputazione, sì da ravvisarvi il rafforzamento della tesi della matrice sanzionatoria e deterrente rispetto al futuro verificarsi di condotte del medesimo tipo, le quali sarebbero risultate dannose sul piano della politica del diritto; di conseguenza, la condanna era stata ritenuta indipendente dal risarcimento dei primi due commi, potendosi aggiungere ad esso – come avvalorato dall’avverbio “altresì” – alla stregua di una misura di diversa natura che, rinnegando ogni “interpretazione manipolativa della norma contrastante con i dati testuali”, ha difatti, a più riprese, rimarcato l’omissione del dato soggettivo quale “elemento di discontinuità” rispetto all’art. 385 c.p.c., comma 4, disposizione dalla quale dell’art. 96 c.p.c., u.c., trae origine; discontinuità che si fonderebbe sull’esigenza di dotare di effettività e agilità applicativa un rimedio che, nella sua originaria formulazione, aveva avuto scarso impiego, in ragione del gravoso onere probatorio connesso proprio alla prova (del pregiudizio e) dell’elemento soggettivo.
In aderenza a tale logica, soggiunge la Corte, il controllo giudiziale dovrebbe quindi limitarsi alla verifica della sussistenza di una condotta “oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo (…) sulla base degli atti processuali e del loro contenuto”, dai quali emerga che la parte soccombente abbia “agito o resistito pretestuosamente, e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione” (cfr., senza alcuna pretesa di esaustività, in tal senso: Cass. 21/11/2017, n. 27623; Cass. 21/11/2017, n. 27627; Cass. 30/04/ 2018, n. 10327).
- Con Cass. 30/03/2018, n. 7901, seguita da Cass., Sez. Un., 20/04/2018, n. 9912, Cass. 12/06/2018, n. 15209; Cass. 10/09/2018, n. 21943, Cass., Sez. Un., 13/09/2018, n. 22405; Cass. 11/10/2018, n. 25176 sembrava tornata in auge l’interpretazione verticale e sistematica che estende al comma 3 la rilevanza dei presupposti di cui al comma 1 e che fa leva sulla necessarietà di un’interpretazione costituzionalmente orientata della condanna, al fine di garantire il rispetto del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.; soluzione confortata, indirettamente, anche dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 616 c.p.p. (a mente del quale, con il provvedimento che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto è condannata al pagamento delle spese del procedimento. Se il ricorso è dichiarato inammissibile, la parte privata è inoltre condannata con lo stesso provvedimento al pagamento a favore della Cassa delle Ammende di una somma da Euro 258 a Euro 2.065, che può essere aumentata fino al triplo, tenuto conto della causa di inammissibilità del ricorso. Nello stesso modo si può provvedere quando il ricorso è rigettato).
Tale illegittimità era stata motivata (cfr. Corte Cost. 10/11/2000, n. 186) con la contrarietà agli artt. 3 e 24 Cost., poiché la norma poneva sullo stesso piano la posizione “di chi abbia proposto il ricorso per cassazione, poi dichiarato inammissibile, ragionevolmente fidando nell’ammissibilità e quella del ricorrente che invece non versi in tale situazione”, cosicché la parte poteva divenire destinataria della condanna “senza versare in colpa”.
- L’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità è sul punto, però, rimasto piuttosto fluido. Infatti, sono tutt’altro che infrequenti decisioni nelle quali apertis verbis si afferma la non necessarietà della ricorrenza dell’elemento soggettivo a carico del soccombente: tra le decisioni massimate che si muovono in tale direzione cfr. Cass. 15/02/2021, n. 3830; Cass. 24/09/2020, n. 20018; Cass. 18/11/2019, n. 29812. 13. Detta fluidità e’, spesso, più formale, in verità, che sostanziale, perché ritenere non necessario il riscontro dell’elemento soggettivo eppure ricorrere all’evidenza processuale, da un lato, potenzia il riferimento testuale all’officiosità della condanna, dall’altro, però, più che concretizzarsi in un’effettiva irrilevanza della colpevolezza, sottende la ricorrenza di una oggettiva e manifesta conoscenza della condotta pretestuosa del soggetto agente, connessa ad una inescusabilità dell’ignorantia legis nel contesto processuale, cui si salda, nel caso si riscontri anche il mancato rispetto dei principi di lealtà e di probità processuale, una presunzione di temerarietà che sfocia in concreto nella “pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata” (Cass. 06/05/2021, n. 11884; Cass. 17/03/2021, n. 7513; Cass. 09/02/2021, n. 3034) ovvero nella “manifesta inconsistenza giuridica” o nella “palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione” (così Cass., Sez. un., 13/09/2018, n. 22405; Cass., Sez. un., 20/04/2018, n. 9912; Cass. 18/11/2019, n. 29812; Cass. 15/02/2021, n. 3830; Cass. 16/10/2020, n. 22588).
Detta emancipazione dalla dimensione della colpevolezza richiesta, per contro, da parte di chi adotti un comportamento illecito in senso stretto è del tutto connaturata alla circostanza che l’affermazione della responsabilità qui non dipende sic et simpliciter dall’intento riprovevole dell’agente, ma da una valutazione complessiva ed oggettiva di tutte le caratteristiche della fattispecie concreta. Del resto, le pronunce più recenti sono accomunate dal convincimento di fondo, sia pure non sempre esplicitato, che l’abuso del processo integri gli estremi di un comportamento non iure, il quale reclama una reazione in chiave punitiva da parte dell’ordinamento. Si tratta di una costante in tutte le decisioni, che valorizzino o meno l’elemento soggettivo della condotta del soccombente temerario, adottate successivamente a Cass., Sez. Un., 05/07/2017, n. 16601.
Tale ultima pronuncia, precisa la Corte, ha aperto la strada alla concezione polifunzionale della responsabilità civile, superando, ai fini che qui interessano, le remore all’accostamento della sanzione per abuso del processo ai danni punitivi: cfr. Cass. 03/06/2020, n. 10524, secondo cui l’art. 96 c.p.c., comma 3, riflette una delle possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità nell’individuare il beneficiario di una misura che sanzioni un comportamento processuale abusivo e che funga da deterrente rispetto alla reiterazione di siffatta condotta.
- Dopo le pur caute aperture della giurisprudenza di legittimità nei confronti del danno punitivo, si è fatta strada la tesi che non si possa escludere che il riconoscimento della natura polifunzionale della responsabilità risarcitoria le permetta di rivestire anche un “ruolo” sanzionatorio, quando la fattispecie risarcitoria sia espressamente enucleata dalla disciplina di settore in termini punitivi, tanto da poterne previamente prevedere le conseguenze, qualora la fattispecie sia integrata anche in chiave quantitativa.
Tipicità e prevedibilità, prosegue la Corte, costituiscono i tratti indefettibili, in quanto corrispondenti al livello minimo di garanzia richiesto per la previsione di qualunque prestazione pecuniaria, affinché l’intervento punitivo possa essere messo in atto: la “imposizione di prestazione personale esige una intermediazione legislativa in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario”, e un rapporto di proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo (Cass., Sez. Un., n. 16601/17 cit.).
- Tra quelle che l’ordinanza interlocutoria di rimessione alle sezioni unite (Cass. 16/05/2016, n. 9978) aveva individuato quali ipotesi tipizzate di rimedi con funzione non esclusivamente compensativa vi erano anche l’art. 96 c.p.c., comma 3 e l’omologo del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 26, comma 2, cui si è fatto riferimento.
15.1. Le Sezioni Unite, evocando gli studi dell’Ufficio del Massimario nonché la motivazione di uno specifico precedente giurisprudenziale, Cass. n. 7613/15, cui ha aggiunto la pronuncia n. 9978/16, ha fatto riferimento all’istituto in esame, annoverandolo tra le ipotesi vigenti nel nostro ordinamento in cui si attua un uso della responsabilità risarcitoria che trascende lo scopo di dare una diversa allocazione alla perdita subita dalla vittima; ipotesi, in verità, alquanto eterogenee, ma accomunate: i) dal fatto che la condanna al pagamento di una somma di denaro non ha una finalità reintegratoria del patrimonio del danneggiato, sicché la sua irrogazione lascia impregiudicato il risarcimento del danno, la cui quantificazione non può tenere conto della somma dovuta o versata a titolo di sanzione; ii) dalla mancanza di una previa delimitazione quantitativa del dovuto – diversamente dal risarcimento, la cui liquidazione sia in nesso di causa con il nocumento effettivamente patito -; iii) dall’irrogabilità della condanna anche d’ufficio – mentre, invece, il risarcimento dei danni esige la domanda di parte.
Ciò che emerge, osserva la Corte, è la possibilità di tenere distinto il momento risarcitorio da quello sanzionatorio e, a monte, la differenza tra illiceità e risarcimento: nel primo caso, non solo non si può prescindere dall’individuazione di una sfera soggettiva interferita e di un danno che la condotta lesiva ha cagionato, ma inoltre il risarcimento riconosciuto mira a rimediare al pregiudizio subito, in favore di colui che lo ha patito, sebbene sia aggravato da una prospettiva punitiva; viceversa, la comminazione di una sanzione civile pecuniaria pura rappresenta la reazione rispetto ad un comportamento ritenuto antigiuridico e meritevole di punizione, con preminente finalità generale e special-preventiva, oltre che redistributiva, indipendentemente dall’esigenza di reintegrazione di un danno sofferto dalla vittima del comportamento imputato e dall’intento di porvi riparo. Le ripercussioni sul piano operazionale di detta differenza non sono di poco momento, perché incidono sulla possibilità di considerare autonoma la sanzione di cui al comma 3, ma pur sempre cumulabile con quelle di cui ai commi precedenti della disposizione in esame: ipotesi quest’ultima su cui vi è larga convergenza da parte della giurisprudenza di questa Corte (cfr., in tal senso, Cass. 15/02/2021, n. 3830; Cass. 30/10/2020, n. 24125; Cass. 24/09/2020, n. 20018).
- Ciò che conta, nondimeno, ai fini della questione posta all’attenzione di questa Corte con l’ultimo motivo di ricorso, è che il legislatore, pur avendo mantenuto una qualche oscurità di fondo sulle finalità e sui presupposti applicativi dell’istituto in esame e pur affidando al giudice un ampio margine di discrezionalità, non ha affatto inteso esonerare quest’ultimo dall’obbligo di avvalersene “con la dovuta ragionevolezza”. Anche quando la giurisprudenza afferma che non occorre che il giudice accerti che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con “mala fede” o con “colpa grave” (art. 96, comma 1) o “senza la normale prudenza” (art. 96, comma 2), ciò non significa – naturalmente – che la mera infondatezza della domanda o della difesa possa comportare responsabilità ex art. 96 c.p.c., comma 3 (Cass. n. 27623/2017, cit.).
Il fatto che non sia necessario l’accertamento di un profilo soggettivo di responsabilità significa semplicemente che il giudice, all’atto di verificare la sussistenza delle condizioni per pronunciare la condanna ex art. 96, comma 3, deve prescindere dal compimento di una indagine sulla sussistenza dell’elemento psicologico colposo: la condanna può essere pronunciata ogni volta che “oggettivamente” risulti che si è agito o resistito in giudizio in modo pretestuoso, con abuso dello strumento processuale (cfr. Cass. n. 7901/2018, cit.). Devono, insomma trarsi i corollari derivanti dal fatto che, pur trattandosi di comportamento non iure, la sua collocazione nella dimensione relazionale processuale incide sulle modalità di accertamento degli elementi costitutivi dell’illecito, compreso quello soggettivo.
Per riscontrare quest’ultimo, proprio perché la condanna è disposta officiosamente e altresì considerato che la sanzione può essere irrogata anche dal giudice di legittimità, al quale è morfologicamente e funzionalmente estraneo ogni accertamento di fatto, è sufficiente – rectius: è necessario – che esso emerga in termini oggettivi dagli atti processuali. In questo – e non in altro – senso devono intendersi le statuizioni circa la non necessità di alcuna indagine sull’elemento psicologico della condotta: la sua ricorrenza non deve essere “indagata” nel senso che normalmente si attribuisce a tale espressione, ma deve potersi ricavare in termini oggettivi dagli atti del processo, perché la colpa o il dolo si sono manifestati proprio attraverso il compimento dei suddetti atti processuali o attraverso la scelta consistente nell’adozione di certe condotte processuali e non sono percepibili separatamente da essi. Si potrebbe dire che gli atti processuali devono parlare da soli.
16.1. Tale ultima precisazione, chiosa ancora la Corte, è quanto mai opportuna, allo scopo di non lasciarsi suggestionare dall’idea che ci si trovi dinanzi ad una responsabilità oggettiva o semioggettiva. L’elemento soggettivo non è né accantonato né presunto, è bensì vero che esso risente, quanto alle modalità del suo accertamento, della specificità dell’illecito e della dimensione relazionale in cui il medesimo si colloca. Si tratta di una conclusione – quella secondo cui il giudice deve prescindere dall’accertamento dell’elemento psicologico colposo, occorrendo che risulti in termini oggettivi che si è agito o resistito pretestuosamente, con abuso dello strumento processuale – su cui converge anche la giurisprudenza che nell’art. 96 c.p.c., comma 3, ravvisa una ipotesi di responsabilità che non richiede, per evidente scelta legislativa, a differenza di quella degli altri commi della medesima norma, l’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito (Cass. 27623/2017, cit.). Non solo: è l’unica che si concilia con la funzione pacificamente attribuita alla disposizione di reazione all’abuso del processo. Non può, infatti, evocarsi l’abuso e non tenersi conto dei suoi elementi costitutivi, senza incorrere in una insanabile contraddizione (si diffonde proprio su questo aspetto Cass. n. 7901/2018, cui si rinvia).
- Passando alla sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, questo Collegio ritiene che essa, non dando conto dei presupposti sulla scorta dei quali ha ritenuto di fondare la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3 essendosi, come già detto, limitata a richiamare un astratto uso strumentale e dilatorio dell’appello, discendente dalle ragioni di rigetto dell’appello – non abbia applicato correttamente la norma, la quale richiede la dimostrazione dell’uso abusivo del processo.
Si deve rimarcare, osserva la Corte, che l’esito sfavorevole della controversia non basta, perché altrimenti ne risulterebbe frustrato il diritto costituzionale di difesa, e che, proprio perché l’abuso del processo è una clausola generale, essa deve essere riempita di contenuto concreto dal giudice, attingendo dai fatti di causa, e che il giudicante, già alleggerito del compito di istruire la controversia al fine di verificare la ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, ed investito di poteri officiosi, non può, se non perpetrando a sua volta un abuso, ritenersi esonerato dall’individuare, nei termini indicati, i presupposti per comminare la sanzione risarcitoria, valutando il comportamento della parte soccombente e decidendo circa la compatibilità o meno del rispetto del canone della correttezza che è la bussola cognitiva dell’abuso.
- Il fatto che il legislatore non abbia tipizzato l’abuso del processo neppure quanto all’elemento materiale della condotta non può essere assunto a pretesto per una estensione incondizionata dei poteri del giudice circa l’individuazione del quando, del quanto e del perché ricorrere all’art. 96 c.p.c., comma 3. Non può dubitarsi, infatti, che ci si trovi dinanzi ad un fatto illecito connotato da una sua intrinseca specificità. Sicché deve dirsi che il comportamento sanzionato con la condanna pecuniaria non è illecito puramente e semplicemente, cioè non è illecito in senso stretto, ma è un comportamento abusivo, più precisamente un comportamento scorretto, cioè adottato col sacrificio di un interesse alieno di valore superiore rispetto a quello soddisfatto attraverso l’esercizio del diritto o attuato con modalità irrispettose della sfera di interessi dell’interferito – quelli dell’altra parte processuale – o senza alcuna considerazione per l’interesse superiore, ad un efficiente svolgimento del processo, che risulterebbe leso da un aumento del volume del contenzioso, da ogni ostacolo alla ragionevole durata dei processi pendenti nonché dallo spreco di risorse.
- Che la bussola del giudice debba essere la correttezza è ben presente alla giurisprudenza di questa Corte: cfr., per tutte, Cass., Sez. Un., 11/12/2007 n. 25831; Cass. 07/10/2013, n. 22812, ove a base della sanzione si pone “la condotta consapevolmente contraria alle regole generali di correttezza e buona fede tale da risolversi in un uso strumentale ed illecito del processo, in violazione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.”.
19.1. Il comportamento illecito ed il comportamento scorretto sono entrambi non iure; si differenziano perché illecito è il comportamento che viola specifiche regole di condotta, il cui contenuto è predeterminato a priori dal legislatore, non corretto è, invece, il comportamento che in una dimensione relazione, qual è quella che viene qui in considerazione, tenuto presente il canone generale cui deve ispirarsi la condotta del soggetto agente, la quale rimane fondamentalmente libera nell’an, si traduce nel suo concreto esplicarsi, nell’adozione di modalità, rimesse alla valutazione dell’agente, che risultano non conformi rispetto a quel canone; nel senso che, pur non eccedendo formalmente i limiti dell’esercizio del diritto, nella sostanza l’utilità conseguita attraverso l’esercizio delle proprie prerogative processuali risulta sproporzionato rispetto al sacrificio imposto all’interesse contrapposto o agli interessi contrapposti.
Perché si ravvisi l’esercizio abusivo del diritto di azione e di difesa processuale, precisa la Corte, occorre valutare se la condotta (processuale) si sia orientata verso scelte che abbiano o non abbiano tenuto adeguatamente conto del conflitto con interessi che, per qualità e quantità del coinvolgimento in concreto, sono di rango superiore a quello esercitato e se l’agente abbia scelto di esprimere le sue facoltà processuali attraverso modalità rispettose della sfera di interessi con cui interagisce il suo diritto di azione e di difesa.
- Che comportamento illecito e comportamento scorretto non coincidano, pur essendo accomunati dalla antigiuridicità, è dimostrato dalla regolazione del trattamento illecito dei dati personali. Tanto la L. 31 dicembre 1996, n. 675, quanto il successivo D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, costituiscono un modello normativo di riferimento in tal senso. Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, che disciplina le modalità del trattamento e i requisiti dei dati, erede della L. n. 675 del 1996, art. 9, individua, orientando le forme di tutela – anche di quella risarcitoria, giacché va letto in combinato disposto con l’art. 15 (Danni cagionati per effetto del trattamento) che ha incorporato la L. n. 675 del 1996, art. 18 – le modalità di trattamento conformi al diritto, utilizzando a tal fine tanto il parametro della liceità quanto quello della correttezza.
20.1. Attraverso la liceità il legislatore ha dettato specifiche regole di condotta, determinandone preventivamente il contenuto. Se quelle regole sono violate, posto che esse non solo vincolano l’agente, ma anche il giudice, l’esito della valutazione di quest’ultimo non può che indirizzarsi, in via pressoché automatica, verso un risultato di non iure. Tramite la correttezza, parimenti imposta a priori all’agente, il legislatore indica a quest’ultimo un canone di massima cui ispirare la sua condotta – che pur essendo espressione di un diritto soggettivo, non si sottrae ad un giudizio di valore e ad un sindacato di merito quanto al suo concreto dispiegarsi nell’attività di relazione, tenuto conto che più di una condotta può risultare idonea a rispettare il canone della correttezza – ed offre al giudice un criterio per valutare la misura dell’allontanamento della condotta concretamente tenuta da quella capace di assicurare il bilanciamento di contrapposti interessi ed il peso del coinvolgimento eventualmente negativo degli interessi confliggenti in gioco.
20.2. Il richiamo della disciplina normativa del trattamento dei dati personali non è peregrino né costituisce un fuor d’opera. Consente, al contrario, di confermare talune implicazioni già accennate: i) la differenza che esiste tra comportamento processuale illecito in senso stretto, il quale postula la violazione di una specifica regola processuale, e comportamento processuale scorretto o abusivo, che esige una valutazione caso per caso del comportamento specificamente tenuto, onde valutare se esso sia non solo formalmente, ma anche sostanzialmente conforme al diritto, tenuto conto, come si è detto, del se il soddisfacimento dell’interesse presupposto dell’agente abbia avuto luogo con il sacrificio di interessi in conflitto cui l’ordinamento intendeva riservare parimenti o, in quanto ritenuti più meritevoli, maggiormente meritevoli di protezione; ii) la non coincidenza tra comportamento processuale abusivo e comportamento non ispirato ai canoni della lealtà e della probità processuale (art. 88 c.p.c.), stante che la correttezza è un parametro giuridico imposto ex ante al soggetto agente, il quale è da ritenersi avvertito dal legislatore sul tipo di condotte che collocherebbe la sua azione nella dimensione del non iure; iii) la possibilità che comportamento illecito e comportamento scorretto non si escludano a vicenda, potendo, al contrario, trovarsi in una situazione di complementarietà.
- Ci si muove, quindi, in un ambito in cui il legislatore non ha limitato ex ante le libertà di azione e di difesa processuale, ma ha voluto che esse si orientassero verso modalità e verso scelte confacenti al bilanciamento e alla non compressione degli interessi dell’altra parte e di quelli della giustizia amministrata attraverso il processo. Pur essendo evidente che il margine di discrezionalità del giudicante è maggiore rispetto a quello dinanzi cui egli si trovi quando è chiamato a sanzionare la violazione della legge processuale, perché solo quest’ultima integra un comportamento valutabile immediatamente come illecito, deve sempre tenersi a mente che il giudice non è un alter ego del legislatore.
Non solo: anche la giurisprudenza di questa Corte gli impone di tener conto del comportamento processuale complessivamente tenuto dalla parte soccombente; il che, nel caso di specie, implicava che egli prendesse atto, come esattamente invocato dalle odierne ricorrenti, al fine di trarne le debite conseguenze, anche dell’atteggiamento assunto dopo l’esito sfavorevole della proposizione della querela di falso, allorché le ricorrenti avevano rinunciato a portare avanti parte delle loro iniziali richieste. Questa Suprema Corte ha, del resto, ben chiarito che il comportamento processuale sanzionabile si atteggia in maniera diversa secondo la fase in cui si concretizza l’elemento materiale: mentre in primo grado esso è volto a sanzionare il merito di una iniziativa giudiziaria avventata, nel secondo grado, regolato dal principio devolutivo, essa deve specificamente riferirsi alla pretestuosità dell’impugnazione, valutata con riguardo non tanto alle domande proposte, quanto, piuttosto, alla palese e strumentale infondatezza dei motivi di appello e, più in generale, alla condotta processuale tenuta dalla parte soccombente nella fase di gravame (Cass. 26/03/2013, n. 7620).
- La statuizione con cui la sentenza impugnata ha condannato le ricorrenti ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, va cassata, perché il giudice a quo non si è attenuto al principio di diritto che scaturisce dalle considerazioni che precedono, a mente del quale “la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, deve giungere all’esito di un accertamento che il giudicante è chiamato a compiere caso per caso, anche tenendo conto della fase in cui si trova il giudizio e del comportamento complessivo della parte soccombente, onde verificare se essa abbia esercitato le sue prerogative processuali in modo abusivo, cioè senza tener conto degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente o sproporzionatamente in relazione all’utilità effettivamente conseguibile.
Detto abuso del processo non richiede che il giudice indaghi, nel senso che normalmente si attribuisce a tale espressione, la eventuale riprovevolezza del comportamento del soggetto agente, ma non lo esonera dalla necessità di ricavare detta riprovevolezza in termini oggettivi dagli atti del processo perché la colpa o il dolo rilevanti sono quelli che si manifestano proprio attraverso il compimento dei suddetti atti processuali o attraverso l’adozione di certe condotte processuali e non sono percepibili separatamente da essi. Deve escludersi, pertanto, che il giudizio sulla antigiuridicità della condotta processuale possa farsi derivare automaticamente dal rigetto della domanda o dalla inammissibilità o dall’infondatezza della impugnazione.
L’esercizio delle prerogative processuali, costituendo esplicazione del diritto costituzionalmente garantito del diritto di azione e di difesa, merita la sanzione di cui all’art. 96 c.p.c., comma 3, quando il suo concreto atteggiarsi, nonostante il rispetto in senso stretto della legge processuale, a seguito di una indefettibile valutazione secondo correttezza, si connoti in concreto in termini di antigiuridicità. Pur potendo attingere elementi di valutazione dall’assunzione di comportamenti processuali sleali, il giudice deve tener conto che il comportamento scorretto non coincide con quello processualmente non leale, essendo la correttezza un parametro di valutazione esclusivamente giuridico ed ex ante imposto all’agente”.
- Per concludere: i primi tre motivi di ricorso sono inammissibili, va accolto il quarto motivo. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, la decisione è cassata in relazione alla statuizione di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
- In considerazione della reciproca soccombenza, determinata dall’accoglimento del quarto motivo di ricorso, si dispone la compensazione parziale delle spese del presente giudizio, quantificate come da dispositivo, nella corrispondente misura proporzionale di 1/4.
- Seguendo l’insegnamento di Cass., Sez. Un., 20/02/2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della insussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.