Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 30 dicembre 2021 n. 41994
PRINCIPIO DI DIRITTO
I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge succitata e dell’art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Le censure sono infondate ed in parte inammissibili.
2.1. Va anzitutto rilevato che, a norma dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990: «1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari. 2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; […]. 3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto».
2.2. Ebbene, nell’ottobre del 2002, l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) ebbe a predisporre uno schema negoziale tipo per la fideiussione a garanzia di operazioni bancarie, che – prima della diffusione tra gli istituti di credito – fu comunicato alla Banca d’Italia, all’epoca Autorità Garante della Concorrenza tra gli Istituti di Credito, la quale, nel novembre 2003, avviò un’istruttoria finalizzata a verificare la compatibilità dello schema contrattuale di «fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie», predisposto dall’ABI, con la disciplina dettata in materia di intese restrittive della concorrenza. A tal fine, la Banca d’Italia interpellò – in via consultiva – l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale – nel parere n. 14251 – ebbe ad evidenziare come la disciplina della «fideiussione omnibus», di cui allo schema predisposto dall’ABI, presentava clausole idonee a restringere la concorrenza, poiché suscettibili – in linea generale – «di determinare un aggravio economico indiretto, in termini di minore facilità di accesso al credito», nonché, nei casi di fideiussioni a pagamento, «di accrescere il costo complessivo del finanziamento per il debitore, che dovrebbe anche remunerare il maggior rischio assunto dal fideiussore».
2.2.1. I rilievi critici dell’Autorità Garante riguardarono, in particolare, le clausole nn. 2, 6 e 8 del citato schema contrattuale, e precisamente: a) la cd. «clausola di reviviscenza», secondo la quale il fideiussore è tenuto «a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo» (art. 2); b) la cd. «clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 cod. civ.», in forza della quale « i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 cod. civ., che si intende derogato» (art. 6); c) la cd. «clausola di sopravvivenza», a termini della quale «qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate».
2.2.2. Sulla scorta di tale parere, e rilevato che dall’istruttoria espletata era emerso che diverse banche avevano ormai adottato lo schema predisposto dall’ABI, e che dai dati raccolti era altresì risultato che la maggior parte delle clausole esaminate fosse stata ritenuta dalle banche applicabile anche ai contratti stipulati da soggetti privati, in qualità di fideiussori, la Banca d’Italia ha emesso il menzionato provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005.
2.2.2.1. Nel provvedimento l’Autorità Garante ha anzitutto osservato che «le condizioni generali di contratto comunicate dall’ABI relativamente alla “fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie”, in quanto deliberazioni di un’associazione di imprese, rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 2, comma 1, della legge n. 287/90, laddove recita: “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari”».
2.2.2.2. L’Autorità ha, quindi, rilevato che le determinazioni di un’associazione di imprese, costituendo elemento di valutazione e di riferimento per le scelte delle singole associate, possono contribuire a coordinare il comportamento di imprese concorrenti. «Relativamente a quest’ultimo profilo, la restrizione della concorrenza derivante da una siffatta intesa risulterebbe significativa nel mercato rilevante, atteso l’elevato numero di banche associate all’ABI».
2.2.2.3. Il provvedimento ha posto, infine, l’accento sul fatto che – mentre altre clausole contenute nello schema esaminato non comportano un ingiustificato aggravio della posizione del fideiussore, in quanto funzionali a garantire l’accesso al credito bancario – «per la clausola relativa alla rinuncia del fideiussore ai termini di cui all’art. 1957 cod. civ. e per le c.d. clausole di “sopravvivenza” della fideiussione non sono emersi elementi che dimostrino l’esistenza di un legame di funzionalità altrettanto stretto. Tali clausole, infatti, hanno lo scopo precipuo di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa».
2.2.2.4. Il provvedimento ha disposto, in conclusione: «a) gli articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a), della legge n. 287/90; b) le altre disposizioni dello schema contrattuale non risultano lesive della concorrenza».
2.3. A seguito di tali fatti, si è – pertanto – posta nel presente giudizio la questione, rimessa al vaglio di queste Sezioni Unite, degli effetti che, sulle fideiussioni stipulate a valle tra Intesa Sanpaolo e Giacinto Bosco, abbia prodotto l’illecito antitrust rilevato, a monte, dal provvedimento della Banca d’Italia, ovvero se, nel caso di fideiussioni rilasciate dal cliente della banca, nelle quali siano state inserite le predette clausole, la cui natura anticoncorrenziale è stata accertata dall’Autorità competente, al garante spetti una tutela «reale», ossia a carattere «demolitorio», oppure una tutela esclusivamente risarcitoria.
2.4. Ebbene, occorre muovere, in proposito, dal rilievo che, se in forza dell’art. 41, primo comma, Cost., «l’iniziativa economica privata è libera», tuttavia la stessa norma si preoccupa di precisare, al secondo comma, che l’iniziativa economica «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale», mentre al terzo comma soggiunge che «la legge determina i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». In forza della previsione costituzionale, pertanto, la «concorrenza» tra imprese si connota come una situazione di mercato che postula una grande libertà di accesso all’attività economica da parte degli imprenditori, ma altresì una altrettanto ampia possibilità di libera scelta per gli acquirenti e, in generale, la possibilità per ciascuno di cogliere le migliori opportunità disponibili sul mercato, o proporre nuove opportunità, senza imposizioni da parte dello Stato o vincoli predeterminati da coalizioni d’imprese. Di qui l’introduzione, in pressochè tutti i Paesi occidentali, della disciplina antitrust, che regola i rapporti tra imprenditori e consente un corretto svolgimento dei rapporti concorrenziali.
2.4.1. Al bilanciamento tra le giustapposte esigenze di garanzia della libera esplicazione della iniziativa economica privata e della tutela dei consumatori – quali soggetti del mercato al pari degli imprenditori – ha provveduto, quindi, in Italia, la legge antitrust n. 287 del 1990, il cui art. 2 considera – come si è visto – vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare – in qualsiasi forma e in maniera sostanziale – il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
2.4.2. Nello stesso senso, l’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (originario art. 81 del Trattato CE e, ancor prima, art. 85 del Trattato dì Roma) – in applicazione dell’art. 3, secondo cui «L’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori»: […] b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; […]» – dispone: «1. Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno ed in particolare quelli consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione; […]. 2. «Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto».
2.5. Tale essendo il quadro normativo – interno ed europeo – di riferimento, va, tuttavia, osservato che il formante giurisprudenziale in materia è quanto mai variegato ed articolato, e non offre soluzioni univoche.
2.5.1. Una prima decisione sul tema ha, nondimeno, effettuato talune importanti precisazioni, sulle quali dovrà ritornarsi in prosieguo. Si è, per vero, affermato che l’art. 2 della legge n. 287 del 1990 (cosiddetta legge “antitrust”), allorché dispone che siano nulle ad ogni effetto le «intese» fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, non ha inteso riferirsi solo alle «intese» in quanto contratti in senso tecnico, ovvero negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà tendenti a realizzare una funzione specifica attraverso un particolare «voluto». Il legislatore – infatti – con la suddetta disposizione normativa ha inteso, in realtà ed in senso più ampio, proibire il fatto della distorsione della concorrenza, in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche. Tale distorsione ben può essere il frutto anche di comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali». Si rendono – così – rilevanti qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale), purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di «intesa» rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici [n.d.r. come nel caso oggetto del presente giudizio] meramente «unilaterali». (Cass., 01/02/1999, n. 827).
2.5.2. Una successiva decisione in materia ha affrontato lo specifico tema delle tutele azionabili dal privato, cliente della banca, che abbia stipulato un contratto di fideiussione che riproduca, in tutto o in parte il contenuto di un’intesa conclusa in violazione della succitata normativa antitrust, escludendo in radice la legittimazione del consumatore a proporre una qualsiasi forma di azione. Nella decisione in parola la Corte ha, infatti, affermato che, in tema di normativa per la tutela della concorrenza e del mercato apprestata dalla legge n. 287 del 1990, ed alla luce di quella che è la caratterizzazione tecnica degli istituti in essa delineati, lo strumento risarcitorio – connesso alla violazione dei divieti di intese restrittive della libertà della concorrenza, e di abuso di posizione dominante, in essa normativa fissati rispettivamente agli artt. 2 e 3, contemplato dall’art. 33 ed in quella sede rimesso, per la sua cognizione (nel testo applicabile ratione temporis), alla competenza esclusiva della Corte di Appello in un unico grado di giudizio di merito – non è aperto – in quanto tale – alla legittimazione attiva dei singoli c.d. «consumatori finali» (Cass., 09/12/2002, n. 17475).
2.5.3. Un’altra pronuncia, invece, quasi coeva alla precedente, pur estendendo la legittimazione a far valere la nullità dell’intesa anche ai privati, non imprenditori, che abbiano stipulato contratti a valle, ha, tuttavia, ristretto la tutela alla proponibilità della sola azione risarcitoria, escludendo in radice la tutela reale. Al riguardo, si è statuito, infatti, che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990, non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa, i quali mantengono la loro validità e possono dar luogo solo ad azione di risarcimento danni nei confronti delle imprese da parte dei clienti (Cass., 11/06/2003, n. 9384).
2.5.4. La svolta decisiva è segnata in materia – in termini di maggiore tutela dei privati – da una sentenza di queste Sezioni Unite, secondo la quale la legge antitrust n. 287 del 1990 detta norme – segnatamente l’art. 2 – a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata.
Al riguardo va tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto «a valle» costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Ne discende che, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione «a monte», ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990, azione la cui cognizione è rimessa da quest’ultima norma – nel testo vigente al tempo della pronuncia – alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d’appello.
2.5.4.1. Va rilevato, al riguardo, che la Corte – pur non affrontandola in maniera specifica – ha, tuttavia, operato un importante riferimento, in motivazione, alla problematica concernente il contratto stipulato a valle dell’intesa vietata. Ed invero, la decisione in esame ha affermato che «il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito.
A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anti-competitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile». In altri termini – stante il «collegamento funzionale» con la volontà anti-competitiva a monte – ai contratti a valle non può attribuirsi un rilievo giuridico diverso rispetto all’intesa che li precede: nulla essendo quest’ultima, la nullità non può che inficiare anche l’atto conseguenziale.
2.5.4.2. Nel caso sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, dopo l’irrogazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato a numerose compagnie di assicurazione di una sanzione per la partecipazione a un’intesa restrittiva della concorrenza, il consumatore finale aveva convenuto in giudizio, dinanzi al giudice di pace, la propria compagnia di assicurazioni, chiedendo il rimborso di una parte – il 20% – del premio corrisposto per una polizza di RC auto, assumendo che l’ammontare del premio era stato abusivamente influenzato dalla partecipazione dell’impresa assicuratrice all’intesa vietata (Cass. Sez. U, 04/02/2005, n. 2207).
2.6. Una problematica particolare – non affrontata dalle Sezioni Unite, atteso che la fattispecie che le investiva era relativa ad un contratto stipulato da un’assicurazione che aveva partecipato all’intesa vietata – concerne, peraltro, il caso – oggetto, invece, del presente giudizio – in cui, sebbene l’impresa (assicurativa o bancaria), che ha stipulato un contratto a valle con il consumatore, non abbia partecipato all’intesa a monte, dichiarata nulla dall’autorità di vigilanza, tuttavia detto contratto recepisce, in tutto o in parte, il contenuto dell’intesa vietata. Al problema la più recente giurisprudenza di legittimità – successiva all’arresto nomofilattico delle Sezioni Unite – non ha dato risposte uniformi ed univoche, come bene evidenziato dall’ordinanza di rimessione, sebbene l’indirizzo prevalente è senz’altro orientato – ormai – ad ammettere la «tutela reale», a fianco di quella risarcitoria.
2.7. Particolare importanza riveste nel presente giudizio giacchè attiene alla medesima vicenda che ne costituisce oggetto, benchè concernente il rapporto di fideiussione intercorso tra il Bosco ed una banca diversa da Intesa Sanpaolo – una decisione con la quale la Corte ha richiamato, e fatto proprio, il menzionato precedente di cui a Cass. n. 827/1999, laddove ha affermato che la distorsione della concorrenza ben può essere posta in essere anche mediante comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali».
2.7.1. In tal modo – osserva in motivazione la Corte – diventa, difatti, rilevante «qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale), purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di “intesa” rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente “unilaterali”. Da ciò consegue che, allorché l’articolo in questione stabilisce la nullità delle “intese”, non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza». E’ evidente, pertanto, che – in tal modo – la pronuncia in esame si pone nell’ottica della nullità complessiva e totale, sia della intesa a monte (peraltro dichiarata dall’Autorità Garante), sia della successiva fideiussione a valle.
2.7.2. La sentenza afferma, infine, che l’accertamento di condotte anticoncorrenziali ai sensi dell’art. 2 della I. n. 287 del 1990, si applica a tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato (Cass., 12/12/2017, n. 29810).
2.8. Nella medesima prospettiva, della nullità totale della fideiussione a valle, si pone anche una successiva pronuncia che, affrontando la questione relativa alla competenza della sezione specializzata per le imprese, ha affermato che tale competenza «attrae anche la controversia riguardante la nullità della fideiussione riproduttiva dello schema contrattuale predisposto dall’ABI, contenente disposizioni contrastanti con l’art. 2, comma 2, lett. a), della legge n. 287 del 1990, in quanto l’azione diretta a dichiarare l’invalidità del contratto a valle implica l’accertamento della nullità dell’intesa vietata» (Cass., 10/03/2021, n. 6523).
2.9. Secondo un’impostazione parzialmente diversa, invece, le fideiussioni riproduttive di clausole frutto di intesa anticoncorrenziale, sanzionata dalla Banca d’Italia, sarebbero nulle, ma non integralmente, bensì limitatamente a siffatte clausole. Si tratta della tesi, menzionata anche dall’ordinanza di rimessione, della nullità parziale del contratto di fideiussione a valle dell’intesa vietata, richiesta nel primo grado presente giudizio – in via subordinata, alla domanda di nullità totale – dall’odierno resistente.
2.9.1. Sempre con riferimento ad una fattispecie nella quale nel contratto di fideiussione stipulato tra la banca ed il cliente erano presenti le clausole nn. 2, 6 e 8 sopra riportate, riproducenti il contenuto delle clausole ABI dichiarate illegittime dall’Autorità Garante, la Corte ha osservato che, «avendo l’Autorità amministrativa circoscritto l’accertamento della illiceità ad alcune specifiche clausole trasfuse nelle dichiarazioni unilaterali rese in attuazione di dette intese […], ciò non esclude, ne è incompatibile, con il fatto che in concreto la nullità del contratto a valle debba essere valutata dal giudice adito alla stregua degli artt. 1418 e ss. cod. civ. e che possa trovare applicazione l’art.1419 cod. civ., come avvenuto nel presente caso, laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalle intese illecite» (Cass., 26/09/2019, n. 24044).
2.9.2. In senso conforme, del pari con riferimento alla fattispecie dell’inserimento nel contratto di fideiussione a valle di clausole dichiarate nulle dall’autorità di vigilanza, in quanto frutto di intese anticoncorrenziali, la Corte ha rilevato che «i ricorrenti danno implicitamente per scontato che la (pretesa) nullità di quelle specifiche clausole comporterebbe la nullità integrale del contratto di fideiussione, ma non è affatto così, in quanto, ai sensi dell’art. 1419 c.c., la nullità integrale del contratto in conseguenza della nullità di singole clausole si determina solo se risulta che i contraenti non avrebbero stipulato il contratto in mancanza di quelle clausole; il che non è né specificamente dedotto né dimostrato e, anzi, è da escludere, sul piano logico, trattandosi di clausole a favore della banca» (Cass., 13/02/2020, n. 3556).
2.10. Tale essendo il variegato quadro giurisprudenziale di riferimento, va osservato che la questione della sorte del contratto a valle non trova una soluzione uniforme neanche in dottrina.
2.10.1. Una prima tesi, invero, è nel senso che la nullità delle intese anticoncorrenziali, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett a) e comma 3 della legge n. 287 del 1990, comporta che le fideiussioni, riproducenti le clausole nn. 2, 6 e 8 del suddetto schema predisposto dall’ABI, sono da considerarsi integralmente nulle per «nullità derivata» e conseguente al rapporto strumentale esistente tra la garanzia a valle e l’intesa a monte. In tal senso si rileva che il collegamento funzionale in parola si tradurrebbe in un vero e proprio «collegamento negoziale» tra l’intesa a monte e la fideiussione a valle, che comporterebbe l’esigenza di una considerazione unitaria della fattispecie e l’applicazione del principio simul stabunt simul cadent. I due accordi sarebbero, in altri termini, parte di una pratica «complessivamente illecita», sicchè la nullità prevista per l’intesa si trasmetterebbe tout court anche ai contratti che a questa danno attuazione.
2.10.1.1. Altri autori – sempre nell’ambito dello stesso indirizzo – hanno ritenuto, invece, che la nullità della fideiussione a valle deriverebbe dalla illiceità della causa della stessa fideiussione, ai sensi dell’art. 1418, secondo comma, cod. civ., giacchè tale negozio realizzerebbe una funzione illecita, siccome contrario alle norme imperative sulle intese anticoncorrenziali.
2.10.1.2.. Secondo una terza impostazione, invece, il contratto a valle – nella misura in cui assorbe nella sua interezza, o anche all’interno di singole clausole, le statuizioni della concertazione a monte, sarebbe integralmente nullo in quanto l’oggetto si rivelerebbe funzionale al perseguimento del risultato vietato cui l’intesa è finalizzata, con conseguente nullità del negozio fideiussorio, ai sensi degli artt. 1418, secondo comma, e 1346 cod. civ. L’oggetto illecito che dà corso all’intesa, in altri termini, tale rimarrebbe «lungo l’intera catena negoziale», determinando la nullità radicale della contrattazione a valle.
2.10.1.3. Altri autori ancora – sempre nell’ambito della tesi della nullità assoluta – ritengono che la nullità in questione sarebbe non testuale, ma virtuale, derivando dalla violazione diretta delle norme imperative anticoncorrenziali. Si afferma, al riguardo, che le previsioni degli artt. 1941, 1939 e 1957 cod. civ. sarebbero singolarmente derogabili, nondimeno la loro deroga cumulativa – in quanto si tradurrebbe in un effetto distorsivo della competizione di mercato – verrebbe a collidere con la norma imperativa di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), dando luogo all’integrale nullità del contratto.
2.10.2. Altra dottrina ritiene, per contro, che nel caso in esame si versi in un’ipotesi di nullità parziale, ossia delle singole clausole contenute nei contratti bancari a valle dell’intesa vietata, in quanto trasposizione delle clausole dichiarate nulle dall’Autorità Garante. Una «nullità derivata» che conseguirebbe, dunque, a siffatta trasposizione, nella contrattazione standardizzata, di quelle clausole (nn. 2, 6 e 8) illecite contenute nel modello ABI.
2.10.2.1. Si osserva, al riguardo, che le deroghe all’archetipo codicistico sarebbero state lecite, se le condizioni contrattuali censurate non fossero state reiteratamente proposte dalle banche, destinandole ad una pluralità di singoli operatori. In tal modo, la vista connotazione del mercato come mercato libero, non solo per chi svolge l’attività imprenditoriale, ma anche per i consumatori, verrebbe ad essere alterata significativamente. E’ intuitivo, infatti, che proprio la costante reiterazione della deroga al modello codicistico, con l’inserimento di clausole pregiudizievoli per il fideiussore, determina un abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili, erodendo la libera scelta del clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato.
2.10.2.2. Si aggiunge, poi, che – nel sistema del codice civile – la «conservazione» del negozio giuridico costituisce la regola, sicchè la deroga a tale principio non può che essere relegata a quelle ipotesi sporadiche, nelle quali – secondo un giudizio di «volontà ipotetica» – risulti che le parti con avrebbero avuto interesse alla conclusione del contratto senza le clausole nulle.
2.10.3. Un terzo filone interpretativo, infine, ritiene che l’unico rimedio esperibile dal garante – coinvolto, suo malgrado, nell’attuazione dell’intesa anticoncorrenziale – sia esclusivamente quello risarcitorio. Si osserva, al riguardo, che ciò che emergerebbe, nel rapporto tra intesa a monte e fideiussione a valle, sarebbe la mancanza di una vera libertà di determinazione e scelta da parte del contraente-cliente della banca, il quale – a fronte della predisposizione di un modello contrattuale che non gli consente possibilità alternative, neppure rivolgendosi ad altri imprenditori bancari, stante il generalizzato recepimento dello schema ABI – non avrebbe altra scelta, essendo la fideiussione perfettamente valida, che quella di proporre l’azione per il risarcimento dei danni. Il modello di tutela sarebbe, pertanto, quello del dolo incidente ex art. 1440 cod. civ., che consente di reagire a comportamenti di mala fede del contraente forte, che abusi della propria posizione in presenza di un’anomalia di mercato, nel quale la relazione contrattuale di garanzia matura, e che egli stesso ha concorso a ingenerare e perpetuare.
2.11. Tutto ciò premesso – pur nella consapevolezza dell’estrema problematicità della scelta tra le diverse forme di tutela riconoscibili al cliente-fideiussore – deve ritenersi che, tra le tre diverse soluzioni individuate da dottrina e giurisprudenza, quella che perviene a risultati più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust sia la tesi che ravvisa nella fattispecie in esame un’ipotesi di «nullità parziale». 77 Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.12. Al riguardo, va anzitutto osservato che non può reputarsi convincente il riferimento – operato dal Procuratore Generale – al fatto che i contratti tra l’impresa bancaria ed il cliente costituirebbero esercizio dell’autonomia privata dei contraenti, ex art. 1322 cod. civ., sicchè «l’avere inserito all’interno del contratto alcune clausole estratte dal programma anticoncorrenziale non appare circostanza sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragion di essere e della sua validità». Né sembra in linea con la ratio della normativa antitrust, oltre che con la lettera dell’art. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990, l’ulteriore assunto del Procuratore Generale secondo cui l’impostazione ampliativa delle tutele finirebbe con l’introdurre «tutele reali atipiche con il fine esclusivo di garantire l’astratta correttezza dei contratti […] per affiancare al rimedio tipico (nullità dell’intesa) forme di nullità derivata atte a travolgere (in parte o per intero) i contratti a valle».
2.12.1. E’ del tutto evidente, infatti, che – se le parti ben possono determinare il «contenuto del contratto», ai sensi dell’art. 1322, primo comma, cod. civ. – esse sono, tuttavia, pur sempre tenute a farlo «nei limiti imposti dalla legge», da intendersi come l’ordinamento giuridico nel suo complesso, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale (Cass. Sez. U., 24/09/2018, n. 22437).
Ebbene – come dianzi detto – l’art. 41 Cost. prevede espressamente che l’iniziativa economica privata non debba svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana», e che essa debba essere comunque sottoposta a «programmi e controlli opportuni» che la indirizzino e la coordino a «fini sociali». In tal senso si pone, del resto, la stessa norma antitrust succitata, la cui ratio è diretta a realizzare un bilanciamento tra libertà di concorrenza e tutela delle situazioni giuridiche dei soggetti diversi dagli imprenditori. Lo evidenzia, con estrema chiarezza, la sentenza di queste Sezioni Unite n. 2207/2005, nella parte in cui precisa che la legge antitrust «detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari, non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato», in particolare i consumatori, tenuto conto che il «contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale e realizzarne e ad attuarne gli effetti». In tale prospettiva – come si è detto – la pronuncia legittima il destinatario ad esperire sia la tutela reale che quella risarcitoria.
2.12.2. Se tale è la ratio della predetta normativa, il tenore letterale dell’art. 2, comma 3, della legge n. 287 del 1990, poi, è a sua volta inequivoco nello stabilire che «le intese vietate sono nulle ad ogni effetto». E’ del tutto evidente, infatti, che siffatta previsione – ed in particolare la locuzione «ad ogni effetto», riproduttiva, nella specifica materia, del principio generale secondo cui quod nullum est nullum producit effectum – legittima, come affermato da molti interpreti, la conclusione dell’invalidità anche dei contratti che realizzano l’intesa vietata, come – sia pure incidentalmente – affermano le stesse Sezioni Unite nella pronuncia summenzionata.
A fronte di tale inequivoca previsione di legge, pertanto, il riferimento del Procuratore Generale a «tutele reali atipiche» non può, pertanto, ritenersi convincente. Non a caso, la totalità delle sentenze più recenti di questa Corte si è espressa – prendendo come riferimento proprio siffatto dato testuale – nel senso della nullità del contratto di fideiussione a valle, differenziandosi tali pronunce soltanto sulle conseguenze di detta nullità, ovverosia se essa debba essere totale o parziale.
2.12.3. Ma – in verità – nel senso della invalidità di tale contratto si è posta, oltre alla giurisprudenza più recente, anche parte di quella meno recente, trovandosi affermato che la legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di nullità e di risarcimento del danno prevista dall’art. 33 della legge n. 287 del 1990, spetta non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del suo carattere competitivo e, quindi, anche al consumatore finale che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione tra gli imprenditori del settore, ancorché egli non sia partecipe del rapporto di concorrenza con gli autori della collusione.
E ciò tanto ove sia spiegata un’azione risarcitoria, quanto se sia promossa un’azione restitutoria ex art. 2033 cod. civ., poiché il soggetto che chiede la restituzione di ciò che ritiene di aver pagato per effetto di un’intesa nulla allega pur sempre quest’ultima, nonché l’impossibilità giuridica che essa produca effetti successivi (Cass., 13/07/2005, n. 14716; Cass., 21/01/2010, n. 993). Se ne deve inferire che, anche per le decisioni citate, la nullità dell’intesa a monte si riverbera sul contratto stipulato a valle, che ne costituisce un conseguenziale effetto, tanto da legittimare anche un’azione di ripetizione di indebito fondata sulla nullità del contratto medesimo.
2.12.4. Sotto tutti i profili suesposti, pertanto, l’assunto secondo cui la sola tutela risarcitoria sarebbe ammissibile nella fattispecie oggetto di esame, con esclusione della «tutela reale», non può essere condiviso.
2.13. Va rilevato, invero, che la tesi secondo cui al consumatore sarebbe consentita la sola azione risarcitoria non convince, sia perché contraria a pressochè tutti i precedenti di questa Corte successivi alle Sezioni Unite n. 2207/2005, sia – e soprattutto – per ragioni inerenti alle specifiche finalità della normativa antitrust. Tuttavia, tale affermazione si riferisce – è bene ribadirlo – alla tesi più radicale, che esclude del tutto la tutela reale, ammettendo in via esclusiva quella risarcitoria, non potendo revocarsi in dubbio che – come, nella specie, ha correttamente ritenuto la Corte d’appello – tale forma di tutela è certamente ammissibile – come ha affermato la giurisprudenza unanime sul punto – ma non in via esclusiva, sebbene in uno all’azione di nullità.
2.13.1. Deve – per vero – osservarsi, al riguardo, che l’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest’ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto. Ed invero – come rilevato da autorevole dottrina – l’obbligo del risarcimento compensativo dei danni del singolo contraente non ha una efficacia dissuasiva significativa per le imprese che hanno aderito all’intesa, o che ne hanno – come nella specie – recepito le clausole illecite nello schema negoziale, dal momento che non tutti i danneggiati agiscono in giudizio, e non tutti riescono ad ottenere il risarcimento del danno.
2.13.2. Per converso, è evidente che il riconoscimento, alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale, oltre alla tutela risarcitoria, del diritto a far valere la nullità del contratto si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele, non nell’interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e della correttezza del mercato, posto a fondamento della normativa antitrust. 2.14. Né a diversa conclusione induce l’esame del diritto eurounitario. Va osservato, infatti, che la decisione della Commissione CE n. 93/50 del 23 novembre 1992, al par. 33, ha previsto – con riferimento ad un’impresa comune ritenuta restrittiva della concorrenza – che «lo scioglimento del contratto di impresa comune garantirà l’autonomia commerciale delle parti. Tuttavia, i contratti con i clienti stipulati da BT nel quadro degli accordi di impresa comune continuano ad essere validi senza alcuna modificazione».
La stessa decisione subito precisa, però, che «ciò non significa che i contratti con i clienti rientrano anch’essi nel campo di applicazione dell’articolo 81, paragrafo 1, unicamente a causa dei loro collegamenti con gli accordi orizzontali restrittivi. Tuttavia, gli effetti restrittivi che questi contratti perpetuano potranno essere eliminati solo quando i clienti avranno acquisito il diritto di revisione. Di conseguenza, essi dovranno avere la facoltà di restare legati ai contratti conclusi con BT, di recedere da tali contratti o di rinegoziarne i termini».
Dal che si evince, del tutto chiaramente, che la nullità dell’intesa a monte (nella specie nella forma di un’impresa comune) non produce automaticamente la nullità dei contratti a valle, per violazione dell’art. 81 del Trattato, in quanto collegati all’accordo restrittivo della concorrenza. Ma ciò non implica che da tali contratti il consumatore non possa comunque sciogliersi, secondo le modalità previste dagli ordinamenti nazionali.
2.14.1. La giurisprudenza della Corte di Giustizia è – a sua volta – inequivoca nel senso che la portata e le conseguenze della nullità delle intese, per violazione dell’art.101 (ex 81 Trattato CE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, non dipendono direttamente dal diritto unionale, ma devono essere individuate dai giudici nazionali in base al diritto di ciascuno Stato membro. Si è, invero, statuito che – fermo restando il diritto al risarcimento del danno – la sorte dei contratti a valle di intese antitrust – che non vengono automaticamente travolti, in forza del diritto europeo, dalla nullità dell’intesa a monte – è riservata ai diritti nazionali (Corte Giustizia, 14/12/1983, C- 319/82, Societè de Vente de Cimentes; Trib., 21/01/1999, T- 190/96, Chrístophe Palma). Se ne deve inferire che – fermo restando l’essenzialità, sul piano del diritto comunitario, del diritto del consumatore di far valere la nullità dell’intesa a monte e di chiedere il risarcimento dei danni subiti, come minimo comune denominatore in materia di tutela – la maggiore tutela del medesimo consumatore, in guisa da garantire la piena attuazione del diritto comunitario, è affidata ai giudice dello Stato di appartenenza.
2.14.2. In maniera ancora più puntuale, altre decisioni – dopo avere stabilito il diritto al risarcimento del danno derivante alla propria sfera giuridica da un’intesa anticoncorrenziale – ha stabilito che «l’art. 85 del Trattato di Roma costituisce, ai sensi dell’art. 3, lett. g), del Trattato CE […], una disposizione fondamentale indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per il funzionamento del mercato interno […] Del resto, l’importanza di una disposizione siffatta ha indotto gli autori del Trattato a prevedere espressamente, all’art. 85, n. 2, che gli accordi e le decisioni vietati in virtù di tale articolo sono nulli di pieno diritto». Contestualmente si afferma che «tale nullità, che può essere fatta valere da chiunque, s’impone al giudice quando ricorrono i presupposti per l’applicazione dell’art. 85, n. 1, e l’accordo di cui trattasi non può giustificare la concessione di un’esenzione ai sensi dell’art. 85, n. 3, del Trattato […]. Posto che la nullità di cui all’art. 85, n. 2, è assoluta, l’accordo che ricada sotto questa disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e non può essere opposto ai terzi».
Ed inoltre, si afferma, «spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza dell’effetto diretto del diritto comunitario, purché dette modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (cd principio di equivalenza) né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (cd. principio di effettività)» (cfr. Corte Giustizia. 10/07/1997, C-261/95, Palmisani; Corte Giustizia, 20/09/2001, C453/99, Courage Ltd v. Crehan; Corte Giustizia, 13/07/2006, da C295/04 a C- 298/04, Manfredi; Corte Giustizia, 14/06/2011, C360/09, Pfeiderer v. Bundemskartellant; Corte Giustizia 06/06/2013, C- 536111Donau Chemie, con riferimento al diritto di accesso agli atti ai fini della tutela piena del consumatore leso dalla violazione dell’art. 101 del Trattato UE).
2.14.3. Le succitate decisioni confermano, in tal modo, che – fermo restando il principio cardine del diritto al risarcimento del danno subito per effetto della condotta anticoncorrenziale – la sede naturale per la regolamentazione della sorte dei contratti a valle è quella dell’ordinamento interno degli Stati membri, non essendovi nessuna lettura obbligata dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento della UE, che consenta di far rientrare – automaticamente – nella nozione di intesa vietata la contrattazione a valle. E tuttavia, le medesime decisioni hanno cura di precisare – punto fondamentale, ai fini della problematica oggetto di giudizio – che la nullità di tale intesa è assoluta e che, pertanto, la stessa non può essere opposta ai terzi, tra essi ricomprese, quindi, le parti – estranee all’intesa – della contrattazione a valle della stessa.
2.14.4. Infine, la Direttiva Enforcement n. 104/2014/UE stabilisce che «a norma del principio di efficacia, gli Stati membri provvedono affinché tutte le norme e procedure nazionali relative all’esercizio del diritto di chiedere il risarcimento del danno siano concepite e applicate in modo da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto, conferito dall’Unione, al pieno risarcimento per il danno causato da una violazione del diritto della concorrenza.
A norma del principio di equivalenza le norme e procedure nazionali relative alle azioni per il risarcimento del danno a seguito di violazioni dell’articolo 101 o 102 TFUE non devono essere meno favorevoli, per i presunti soggetti danneggiati, di quelle che disciplinano azioni simili per danni derivanti da violazioni del diritto nazionale» (art. 4). Ed inoltre, la stessa Direttiva prevede che «gli Stati membri provvedono affinché, in conformità delle norme stabilite nel presente capo, il risarcimento del danno possa essere chiesto da chiunque lo abbia subito, indipendentemente dal fatto che si tratti di acquirenti diretti o indiretti dell’autore della violazione» (art. 12). Se ne deve inferire che, sul piano del diritto unionale, il diritto al risarcimento del danno derivante dalla contrattazione a valle dell’intesa vietata a monte, costituisce il comune denominatore – per l’intero spazio europeo – e la forma di tutela di base da assicurare ai consumatori, ferma restando la competenza interna degli Stati nell’assicurare le misure per la più completa tutela delle situazioni soggettive garantite dal diritto comunitario.
2.15. Una volta esclusa la idoneità della sola tutela risarcitoria, disgiunta dalla tutela reale, a garantire la realizzazione delle finalità perseguite dalla normativa antitrust, deve ritenersi che la forma di tutela più adeguata allo scopo, ma che consente di assicurare anche il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda, segnatamente quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, espunte le clausole contrattuali illecite, sia la nullità parziale, limitata – appunto – a tali clausole. Né va tralasciato il rilevo che la nullità parziale è idonea a salvaguardare il menzionato principio generale di «conservazione» del negozio.
2.15.1. Va osservato – al riguardo – che la regola dell’art. 1419, primo comma, c.c. – ignota al codice del 1865, come pure al code civil, provenendo dall’esperienza tedesca – insieme agli analoghi principi rinvenibili negli artt. 1420 e 1424 c.c., enuncia il concetto di nullità parziale ed esprime il generale favore dell’ordinamento per la «conservazione», in quanto possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorchè difformi dallo schema legale. Da ciò si fa derivare il carattere eccezionale dell’estensione della nullità che colpisce la parte o la clausola all’intero contratto, con la conseguenza che è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto.
2.15.2. La giurisprudenza ha osservato – in proposito – che la nullità della singola clausola contrattuale – o di alcune soltanto delle clausole del negozio – comporta la nullità dell’intero contratto ovvero all’opposto, per il principio «utile per inutile non vitiatur», la conservazione dello stesso in dipendenza della scindibilità del contenuto negoziale, il cui accertamento richiede, essenzialmente, la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all’eventualità del mancato inserimento di tale clausola, e, dunque, in funzione dell’interesse in concreto dalle stesse perseguito (Cass., 10/11/2014, n. 23950).
La nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende, pertanto, all’intero contratto, o a tutta la clausola, solo ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, nè persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità (Cass., 05/02/2016, n. 2314).
Agli effetti dell’interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 1419 c.c., vige, infatti, la regola secondo cui la nullità parziale non si estende all’intero contenuto della disciplina negoziale, se permane l’utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto accertato dal giudice. Per converso, l’estensione all’intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce eccezione che deve essere provata dalla parte interessata (Cass. 21/05/2007, n. 11673).
2.15.3. E tuttavia, tale ultima evenienza è di ben difficile riscontro nel caso in esame. Ed invero, avuto riguardo alla posizione del garante, la riproduzione nelle fideiussioni delle clausole nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI ha certamente prodotto l’effetto di rendere la disciplina più gravosa per il medesimo, imponendogli maggiori obblighi senza riconoscergli alcun corrispondente diritto; sicchè la loro eliminazione ne alleggerirebbe la posizione.
D’altro canto, però, il fideiussore (nel caso di specie socio della società debitrice principale) – salvo la rigorosa allegazione e prova del contrario – avrebbe in ogni caso prestato la garanzia, anche senza le clausole predette, essendo una persona legata al debitore principale e, quindi, portatrice di un interesse economico al finanziamento bancario. Osserva – al riguardo – il provvedimento n. 55/2005 che il fideiussore è normalmente cointeressato, in qualità di socio d’affari o di parente del debitore, alla concessione del finanziamento a favore di quest’ultimo e, quindi, ha un interesse concreto e diretto alla prestazione della garanzia. Al contempo, è del tutto evidente che anche l’imprenditore bancario ha interesse al mantenimento della garanzia, anche espunte le suddette clausole a lui favorevoli, attesa che l’alternativa sarebbe quella dell’assenza completa della fideiussione, con minore garanzia dei propri crediti.
2.15.4. La nullità dell’intesa a monte determina, dunque, la «nullità derivata» del contratto di fideiussione a valle, ma limitatamente alle clausole che costituiscono pedissequa applicazione degli articoli dello schema ABI, dichiarati nulli dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 (nn. 2, 6 e 8) che, peraltro, ha espressamente fatto salve le altre clausole. 2.16. Occorre muovere – in tale prospettiva – dal rilievo che la disciplina dettata dall’art. 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 ha per oggetto la protezione, in via immediata, dell’interesse generale alla libertà della concorrenza sancito – come si è detto – dall’art. 41 Cost., nonché, in ambito comunitario, dal Trattato di Maastricht del 1992 e – attualmente – dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (artt. 3 e 101).
Ai sensi di tale normativa antitrust, qualsiasi fattispecie distorsiva della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, anche – come nel caso di specie – mediante una combinazione di atti di natura diversa, costituisce comportamento rilevante ai fini del riscontro della violazione della normativa in parola. In altri termini, il legislatore sia comunitario che nazionale – quest’ultimo adeguatosi al primo, in forza del disposto dell’art. 117, primo comma, Cost. – ha inteso impedire un «risultato economico», ossia l’alterazione del libero gioco della concorrenza, a favore di tutti i soggetti del mercato ed in qualsiasi forma l’intesa anticoncorrenziale venga posta in essere.
2.16.1. Per tale ragione, i contratti a valle di accordi contrari alla normativa antitrust – in quanto costituenti «lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti» (Cass. Sez. U., n. 2207/2005) – partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell’atto a monte, e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi. Il legislatore nazionale ed europeo – infatti – intendendo sanzionare con la nullità un «risultato economico», ossia il fatto stesso della distorsione della concorrenza, ha dato rilievo -anche a comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali». In tale prospettiva, si rende perciò rilevante qualsiasi forma di condotta di mercato, anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale, ed anche laddove il meccanismo di «intesa» rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente «unilaterali».
Da ciò consegue – come ha rilevato da tempo la giurisprudenza di questa Corte – che, allorché l’articolo 2 della legge n. 287 del 1990 stabilisce la nullità’ delle «intese», «non ha inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza» (Cass., n. 827/1999). Il che equivale a dire che anche la combinazione di più atti, sia pure di natura diversa, può dare luogo, in tutto o in parte, ad una violazione della normativa antitrust, qualora tra gli atti stessi sussista un «collegamento funzionale» – non certo un «collegamento negoziale», come opina parte della dottrina, attesa la vista possibilità che l’«intesa» a monte possa essere posta in essere, come nella specie, anche mediante atti che non rivestono siffatta natura – tale da concretare un meccanismo di violazione della normativa nazionale ed eurounitaria antitrust. In altri termini, detta violazione è riscontrabile in ogni caso in cui tra atto a monte e contratto a valle sussista un nesso che faccia apparire la connessione tra i due atti «funzionale» a produrre un effetto anticoncorrenziale.
2.16.2. La funzionalità in parola si riscontra con evidenza quando il contratto a valle (nella specie una fideiussione) è interamente o parzialmente riproduttivo dell’«intesa» a monte, dichiarata nulla dall’autorità amministrativa di vigilanza, ossia quando l’atto negoziale sia di per sé stesso un mezzo per violare la normativa antitrust, ovvero quando riproduca – come nel caso concreto – solo una parte del contenuto dell’atto anticoncorrenziale che lo precede, in tal modo venendo a costituire lo strumento di attuazione dell’intesa anticoncorrenziale. Non è certo la deroga isolata – nei singoli contratti tra una banca ed un cliente – all’archetipo codicistico della fideiussione, ed in particolare agli artt. 1939, 1941 e 1957 cod. civ., a poter, invero, determinare problemi di sorta, come è ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, in termini di effetto anticoncorrenziale.
E’, invece, il predetto «nesso funzionale» tra l’«intesa» a monte ed il contratto a valle, emergente dal contenuto di tale ultimo atto che – in violazione dell’art. 1322 cod. civ. – riproduca quello del primo, dichiarato nullo dall’autorità di vigilanza, a creare il meccanismo distorsivo della concorrenza vietato dall’ordinamento. In siffatta ipotesi, la nullità dell’atto a monte è – per vero – veicolata nell’atto a valle per effetto della riproduzione in esso del contenuto del primo atto.
2.16.3. E ciò è tanto più evidente quando – come nella specie – le menzionate deroghe all’archetipo codicistico vengano reiteratamente proposte in più contratti, così determinando un potenziale abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili sul mercato. La serialità della riproduzione dello schema adottato a monte – nel caso concreto dall’ABI – viene, difatti, a connotare negativamente la condotta degli istituti di credito, erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato.
2.16.4. Sotto tale profilo, è del tutto palese che la previsione di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 287 del 1990, laddove stabilisce che «le intese vietate sono nulle ad ogni effetto», costituisce una chiara applicazione del diritto eurounitario, il quale – come statuito dalla citata giurisprudenza europea – afferma che la / nullità (sancita, dapprima dall’art. 85, n. 2 del Trattato di Roma, dipoi dall’art. 81 del Trattato CE, infine dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) è assoluta, e che l’accordo che ricada sotto questa disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e «non può essere opposto ai terzi». Si tratta, invero, proprio di quella nullità «ad ogni effetto» che sancisce la norma nazionale succitata, e che si riverbera sui contratti stipulati a valle dell’intesa vietata anche con soggetti terzi, estranei all’atto a monte, ma ai quali tale atto non è comunque opponibile.
2.17. Si è, pertanto, evidentemente in presenza di una «nullità speciale», posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 – a presidio di un interesse pubblico e, in specie, dell’«ordine pubblico economico»; dunque «nullità ulteriore a quelle che il sistema già conosceva» (Cass., n. 827/1999). In tal senso depone la considerazione che siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 cod. civ.) e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento – come la «nullità di protezione» nei contratti del consumatore (cd. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (cd. terzo contratto) – in quanto colpisce anche atti, o combinazioni di atti avvinti da un «nesso funzionale», non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale. La ratio di tale speciale regime – come detto – è da ravvisarsi nell’esigenza di salvaguardia dell’«ordine pubblico economico», a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed europee antitrust.
2.17.1. Lo stretto collegamento tra normativa anticoncorrenziale ed ordine pubblico economico, anche nelle ipotesi in cui – come nell’ordinamento italiano – l’istituto in parola non trovi una specifica previsione di diritto positivo, è – del resto – ben noto al diritto comunitario. Al riguardo, si è – per vero – statuito che, nei limiti in cui un giudice nazionale deve, in base alle proprie norme di diritto processuale nazionale, accogliere un’impugnazione giurisdizionale (nella specie per nullità di un lodo arbitrale), che sia fondata sulla violazione delle norme nazionali di ordine pubblico, esso deve ugualmente accogliere una domanda siffatta se ritiene – a prescindere dalla normativa nazionale che non contempli l’istituto dell’ordine pubblico economico – che tale lodo sia contrario all’art. 85 del Trattato (divenuto art. 81 CE).
Si afferma infatti, al riguardo, che, da un lato, questo articolo costituisce una disposizione fondamentale indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per il funzionamento del mercato interno e, dall’altro, che il diritto comunitario esige che questioni relative all’interpretazione del divieto sancito da tale articolo (poi trasfuso nell’attuale art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) possano essere esaminate dai giudici nazionali chiamati a pronunciarsi su di una qualsiasi impugnazione – anche se proposta in relazione alla validità di un lodo arbitrale – e possano essere oggetto, all’occorrenza, di un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte (Corte Giustizia, 01/06/1999, C- 126/97, Eco Swiss China Time Ltd).
2.17.2. D’altro canto, anche la giurisprudenza nazionale ha applicato – sia pure con riferimento a materie diverse da quella in esame – l’istituto dell’«ordine pubblico economico», astraendo da disposizioni imperative dettate a tutela della correttezza e della trasparenza del mercato, con particolare riferimento a fattispecie negoziali poste in essere da un’impresa in stato di conclamato dissesto, aggravato da operazioni dilatorie dirette esclusivamente a ritardare la dichiarazione di fallimento, con grave pregiudizio per altre imprese operanti nel mercato nello stesso settore o in settori contigui (cfr. Cass., 05/08/2020, n. 16706).
2.18. E tuttavia, nei casi – come quello oggetto del presente giudizio – in cui dello schema dichiarato nullo dalla Banca d’Italia, vengano riprodotte solo le tre clausole succitate, il menzionato «principio di conservazione» degli atti negoziali, costituente nell’ordinamento la «regola», impone di considerare nulli i contratti di fideiussione a valle solo limitatamente alle clausole riproduttive dello schema illecito a monte, poiché adottato in violazione della normativa – nazionale ed eurounitaria – antitrust, a meno che non risulti comprovata agli atti una diversa volontà delle partì, nel senso dell’essenzialità – per l’assetto di interessi divisato – della parte del contratto colpita da nullità.
2.18.1. Va, per contro, esclusa – per diversi ordini di ragioni – la nullità totale del contratto a valle, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio. Ed invero, anche a prescindere dalle critiche mosse a siffatta impostazione – sotto i diversi profili della inconfigurabilità di un collegamento negoziale tra intesa e fideiussione, della non ravvisabilità di un vizio della causa o dell’oggetto, ecc.) -, è proprio la finalità perseguita dalla normativa antitrust di cui alla legge n. 287 del 1990 e dall’art. 101 del Trattato succitato ad escludere l’adeguatezza del rimedio in questione.
E’ di tutta evidenza, infatti, che – stante la finalizzazione di tale normativa ad elidere attività e comportamenti restrittivi della libera concorrenza – i contratti a valle sono integralmente nulli – come rilevato da autorevole dottrina – esclusivamente quando la loro stessa conclusione restringe la concorrenza, come nel caso di una intesa di spartizione, riprodotta integralmente nel contratto a valle. Quest’ultimo è, invece, nullo solo in parte qua, laddove esso riproduca le clausole dell’intesa a monte dichiarate nulle dall’organo di vigilanza, e che sono le sole ad avere – in concreto – una valenza restrittiva della concorrenza, come nel caso dello schema ABI per cui è causa. Tutte le altre clausole, coerenti con lo schema tipico del contratto di fideiussione, restano invece – come nel caso concreto ha affermato il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005 – pienamente valide.
2.18.2. Le clausole del contratto di fideiussione a valle che riproducano quelle nulle dell’intesa a monte (nn. 2, 6 e 8) vengono, invero, a recepire – nel contenuto del negozio – le determinazioni di un’associazione di imprese, l’ABI, che – in quanto costituiscono elemento di valutazione e di riferimento per le scelte delle singole associate – possono contribuire a coordinare il comportamento di imprese concorrenti, falsando – il tal guisa – il gioco della libera concorrenza.
Ed è per questo che, esclusivamente sotto tale profilo, la Banca d’Italia ha osservato che «la restrizione della concorrenza derivante da una siffatta intesa risulterebbe significativa nel mercato rilevante, atteso l’elevato numero di banche associate all’ABI», e, di conseguenza, ha dichiarato la nullità dei soli articoli nn. 2, 6 e 8 dell’intesa a monte. Per converso, tutte le altre clausole del contratto di fideiussione – in quanto finalizzate, attraverso l’obbligazione di garanzia assunta dal fideiussore, ad agevolare l’accesso al credito bancario – sono immuni da rilievi di invalidità, come ha stabilito la Banca d’Italia nel citato provvedimento, nel quale ha espressamente fatte salve tutte le altre clausole dell’intesa ABI.
2.18.3. La conclusione cui è pervenuto, nel caso di specie, l’organo di vigilanza, è – del resto – pienamente conforme a quanto la Corte di Giustizia ha da tempo affermato in materia. Fin da tempi non recenti, infatti, la Corte ha stabilito che la sanzione della nullità si applica alle sole clausole dell’accordo o della decisione colpite dal divietò, a meno che dette clausole risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione stessi, nel qual caso soltanto essi saranno travolti integralmente (Corte Giustizia, 30/06/1966, C- 56/65, LTM; Corte Giustizia, 01/09/2008, C- 279/06, CEPSA). Di conseguenza, alla nullità parziale dell’accordo o della deliberazione a monte corrisponde – per le ragioni suesposte – la nullità parziale del contratto di fideiussione a valle che ne riproduca le previsioni colpite da tale forma di invalidità, e limitatamente alle clausole riproduttive di dette previsioni, salvo che la parte affetta da nullità risulti essenziale per i contraenti, che non avrebbero concluso il contratto «senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità», secondo quanto prevede – in piena conformità con le affermazioni della giurisprudenza europea, riferite alla normativa comunitaria – il diritto nazionale (art. 1419, primo comma, cod. civ.).
E sempre che di tale essenzialità la parte interessata all’estensione della nullità fornisca adeguata dimostrazione. Evenienza, questa, di ben difficile riscontro nel caso di specie, per le ragioni in precedenza esposte.
2.19. Orbene, nella fattispecie in esame, la Corte d’appello ha accertato – con valutazione di merito incensurabile in questa sede – che le clausole contenute nelle fideiussioni in questione erano del tutto coincidenti con le clausole nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI, facendo applicazione del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui la produzione del provvedimento dell’Autorità Garante costituisce prova privilegiata della condotta anticoncorrenziale, a prescindere dal fatto che siano state irrogate, o meno, sanzioni pecuniarie agli autori della violazione.
2.19.1. Si è, invero, affermato – al riguardo – che in tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2 della I. n. 287 del 1990, e con particolare riguardo alle clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento della Banca d’Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche apportate dall’art. 19, comma 11, della I. n. 262 del 2005, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano – eventualmente – in esso pronunciate.
Il giudice del merito è. quindi. tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il suo esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento, con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario (Cass., 22/05/2019, n. 13846).
2.19.2. La Corte territoriale ha, quindi, correttamente dichiarato la «nullità, per violazione dell’art. 2, comma 1, lett. a) I. 287/1990 degli articoli 2, 6 e 8 dei contrati di fideiussione per cui è causa», lasciando in vita tutte le altre clausole negoziali.
2.20. Dalla ritenuta nullità parziale del contratto di fideiussione a valle dell’intesa vietata – nella specie diretta a falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, mediante un’attività consistente nel fissare direttamente talune «condizioni contrattuali» – discende una serie di conseguenze sul piano sostanziale e processuale.
2.20.1. Da siffatta opzione interpretativa deriva, anzitutto, che le fideiussioni per cui è causa restano pienamente valide ed efficaci, sebbene depurate dalle sole clausole riproduttive di quelle dichiarate nulle dalla Banca d’Italia, poiché anticoncorrenziali, in conformità a quanto stabilito dall’art. 1419 cod. civ., nonché dalle affermazioni della giurisprudenza europea succitate. 2.20.2. Ne discende, poi, la rilevabilità d’ufficio di tale nullità da parte del giudice, nei limiti stabiliti dalla giurisprudenza di questa Corte, a presidio del principio processuale della domanda (artt. 99 e 112 cod. proc. civ.). Si è – per vero – stabilito, al riguardo, che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la sua nullità solo parziale.
E tuttavia, qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di accertamento in tal senso, deve rigettare l’originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo (Cass. Sez. U., 12/12/2014, nn. 26242 e 26243; Cass., 18/06/2018, n. 16501). La fattispecie oggetto del presente giudizio è, peraltro, del tutto conforme a tali principi, avendo il Bosco proposto domanda subordinata di nullità parziale delle fideiussioni per cui è causa.
2.20.3. Alla qualificazione di nullità parziale della fideiussione consegue, inoltre, l’imprescrittibilità dell’azione di nullità (Cass. 15/11/2010, n. 23057) e la proponibilità della domanda di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ., ricorrendone i relativi presupposti (Cass. 08/11/2005, n. 21647), nonché dell’azione di risarcimento dei danni.
2.21. Da tutto quanto suesposto discende, dunque, con riferimento al caso concreto, la nullità parziale delle fideiussioni stipulate dal Bosco con Intesa Sanpaolo, ossia limitatamente alle clausole nn. 2, 6 e 8, come correttamente ritenuto dalla Corte d’appello, con conseguente rigetto del primo e secondo motivo di ricorso, restando assorbite le questioni – contenute nei motivi terzo e quarto – concernenti la natura delle fideiussioni a valle e la derogabilità della norma di cui all’art. 1957 cod. civ. E’ del tutto evidente, infatti, che la nullità speciale delle clausole in questione discende dalla loro natura – in quanto attuative dell’intesa a monte vietata – di disposizioni restrittive, in concreto, della libera concorrenza, e non certo dalla effettuata deroga alle norme codicistiche in tema di fideiussione.
- Per tutte le ragioni esposte, il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Va affermato il seguente principio di diritto: «i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge succitata e dell’art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti».
- La novità e controvertibilità delle questioni giuridiche trattate inducono ad un’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.
- Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per i ricorsi, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).