Corte Costituzionale, sentenza 28 ottobre 2021 n. 201
Va dichiarata:
1) l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 23 (Norme in materia di costruzione, esercizio e vigilanza degli sbarramenti di ritenuta e dei bacini di accumulo di competenza regionale), nella parte in cui prevede che l’ambito applicativo della legge sia limitato «agli sbarramenti ed ai manufatti di qualsiasi tipo e forma in alveo e fuori alveo, anche temporanei, che non superino i 15 metri di altezza o che determinino un volume di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi», invece che «agli sbarramenti ed ai manufatti di qualsiasi tipo e forma in alveo e fuori alveo, anche temporanei, che non superino i 15 metri di altezza e che determinino un volume di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi»;
2) l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020 nella parte in cui prevede, alle lettere a) e b), la congiunzione «e/o», anziché la congiunzione «e»;
3) l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020;
4) non fondata la questione di legittimità dell’art. 1, comma 3, lettera a), della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri;
5) non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri;
6) inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri;
7) non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, promosse, in riferimento agli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri;
8) non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, 5 e 9 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere l) ed s), e terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri;
9) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri;
10) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 73 del 2020), questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1, 2 e 3, lettera a), 2, 3, 4, 5, 9, 11 e 12 della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 23 (Norme in materia di costruzione, esercizio e vigilanza degli sbarramenti di ritenuta e dei bacini di accumulo di competenza regionale), in riferimento agli artt. 97, 117, secondo comma, lettere l), m) ed s), e terzo comma, della Costituzione.
2.– Le norme impugnate contengono le disposizioni operative per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle dighe e degli altri sbarramenti idrici di competenza regionale.
Le relative attribuzioni, originariamente spettanti al Ministero dei lavori pubblici in base al decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1959, n. 1363 (Approvazione del regolamento per la compilazione dei progetti, la costruzione e l’esercizio delle dighe di ritenuta), sono state assegnate alla competenza delle Regioni dall’art. 1, comma 3, del decreto-legge 8 agosto 1994, n. 507 (Misure urgenti in materia di dighe), convertito, con modificazioni, nella legge 21 ottobre 1994, n. 584, limitatamente agli sbarramenti idrici che presentino il doppio e concorrente requisito di un’altezza non superiore a 15 metri e di una capacità di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi.
3.– Su tale ultimo criterio di riparto si appunta la prima censura del Presidente del Consiglio dei ministri, che ha ad oggetto gli artt. 1, commi 1 e 3, lettera a), e 2 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, e che il ricorrente articola su due profili.
3.1.– Il primo profilo concerne l’art. 1, comma 1, che delimita l’ambito applicativo della legge regionale impugnata «[al]la costruzione, l’esercizio e la vigilanza delle opere di sbarramento, quali argini, dighe e traverse e relativi bacini di accumulo […] secondo le attribuzioni trasferite alla Regione dalla legislazione statale vigente relativamente agli sbarramenti ed ai manufatti di qualsiasi tipo e forma in alveo e fuori alveo, anche temporanei, che non superino i 15 metri di altezza o che determinino un volume di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi»; nello stesso senso, è impugnato il successivo art. 2, a mente del quale «[l]e opere di cui all’articolo 1, comma 1, sono classificate nelle seguenti categorie: a) sbarramenti con altezza superiore a 5 metri e fino a 15 metri e/o che determinano un volume d’invaso superiore a 5.000 metri cubi e fino a 1.000.000 di metri cubi; b) sbarramenti che non superano i 5 metri di altezza e/o che determinano un volume d’invaso non superiore a 5.000 metri cubi».
Secondo il ricorrente, l’uso della disgiuntiva “o” nella prima disposizione impugnata e della doppia congiunzione “e/o” nella seconda comporterebbe l’estensione dell’ambito di applicazione della norma ad impianti che presentano uno solo degli indicati requisiti dimensionali, in contrasto con la normativa statale che, nel ripartire le competenze in base al possesso di entrambi, esprime un principio fondamentale della materia «governo del territorio».
3.1.1.– La Regione eccepisce anzitutto l’inammissibilità della censura, per omessa indicazione del parametro interposto asseritamente violato.
L’eccezione non è fondata.
Va premesso, al riguardo, che il criterio di riparto delle attribuzioni in materia di sbarramenti idrici, di cui al richiamato art. 1, comma 3, del d.l. n. 507 del 1994, è poi stato trasfuso nell’art. 61, comma 3, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), ove è stabilito che «[r]ientrano nella competenza delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano le attribuzioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1959, n. 1363, per gli sbarramenti che non superano i 15 metri di altezza e che determinano un invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi».
Il ricorso, pur senza menzionare espressamente quest’ultima disposizione, denunzia una violazione del riparto di competenze in materia, richiamando, in particolare, la necessaria sussistenza di entrambi i requisiti dimensionali delle opere quale elemento necessario e decisivo – in base alla legge statale – per l’attribuzione alle Regioni della relativa disciplina.
Così come formulato, pertanto, il motivo contiene una, seppur sintetica, argomentazione di merito a sostegno dell’impugnazione, per cui può ritenersi raggiunta quella «soglia minima di chiarezza e di completezza» che rende ammissibile l’impugnativa proposta (ex plurimis, sentenze n. 194 del 2020 e n. 83 del 2018).
3.1.2.– Nel merito, la questione è fondata.
Nel delimitare l’ambito di applicazione della legge regionale impugnata, l’art. 1 opera un espresso riferimento «alle attribuzioni trasferite alla Regione dalla legislazione statale vigente»; la successiva individuazione degli impianti oggetto di disciplina non è tuttavia coerente con tale premessa, in quanto indica espressamente come alternativi i requisiti di altezza e capacità che la legge statale prevede, invece, come concorrenti.
Un analogo criterio di riparto è poi rinvenibile nell’art. 2, che suddivide le opere in due ulteriori categorie, indicando – nelle lettere a) e b) – i requisiti dimensionali come alternativi fra loro.
Né l’inequivocabile tenore letterale delle disposizioni impugnate consente di attribuire alle locuzioni disgiuntive il significato unificante che la difesa regionale vorrebbe invece attribuirvi.
3.1.3.– L’art. 1, comma 1, della legge reg. Veneto n. 23 del 2020 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che l’ambito applicativo della legge sia limitato «agli sbarramenti ed ai manufatti di qualsiasi tipo e forma in alveo e fuori alveo, anche temporanei, che non superino i 15 metri di altezza o che determinino un volume di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi», invece che «agli sbarramenti ed ai manufatti di qualsiasi tipo e forma in alveo e fuori alveo, anche temporanei, che non superino i 15 metri di altezza e che determinino un volume di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi».
3.1.4.– L’art. 2 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede, alle lettere a) e b), la congiunzione «e/o», anziché la congiunzione «e».
3.2.– Il secondo profilo di censura concerne l’art. 1, comma 3, lettera a), della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, che esclude dall’ambito applicativo della legge «le opere poste al servizio di grandi derivazioni di acqua».
Secondo il ricorrente, anche tale disposizione violerebbe l’art. 117, comma terzo, Cost., poiché si pone in contrasto con la normativa statale di principio che ripartisce la competenza a disciplinare le opere di sbarramento con esclusivo riferimento alle dimensioni delle stesse.
3.2.1.– La censura non è fondata.
Il citato art. 61, comma 3, cod. ambiente, dopo aver individuato i limiti di altezza e capacità degli sbarramenti la cui disciplina compete alle Regioni e alle Province autonome, prosegue precisando che «[p]er tali sbarramenti, ove posti al servizio di grandi derivazioni di acqua di competenza statale, restano ferme le attribuzioni del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti».
La disposizione impugnata, pertanto, si conforma alla normativa statale di principio; conseguentemente, essa non viola l’art. 117, terzo comma, Cost.
4.– La seconda censura concerne l’art. 1, comma 2, della legge regionale impugnata, che consente che le opere oggetto di disciplina siano «adibite a qualsiasi uso compatibile con la disciplina urbanistica dell’area in cui vengono realizzate, ivi compresi i diversi usi turistici e la balneazione».
Il Governo denuncia l’invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «tutela dell’ambiente», poiché la previsione regionale, pur interferendo su beni di interesse paesaggistico quali i corsi d’acqua, non contiene alcun richiamo alle previsioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137); ciò impedirebbe, in particolare, che la destinazione urbanistica delle opere sia valutata nel necessario quadro di disciplina costituito dal piano paesaggistico, da elaborare previa intesa con lo Stato, ai sensi degli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali.
4.1.– La censura non è fondata, nei termini di seguito precisati.
La tutela ambientale e paesaggistica – gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto – costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali, nonché a quelle residuali. In tali casi, infatti, e come questa Corte ha precisato anche in tempi assai recenti, «[i]n sostanza vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 164 del 2021; nello stesso senso, sentenze n. 66 del 2018, n. 11 del 2016, n. 309 del 2011).
Il principio di prevalenza della tutela paesaggistica, quindi, «deve essere declinato nel senso che al legislatore regionale è impedito […] adottare normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, ossia con previsioni di tutela in senso stretto» (sentenze n. 141 e 74 del 2021).
Occorre, tuttavia, che tali deroghe, condizioni o limitazioni siano esplicite e specifiche; e su tale presupposto, ripetutamente affermato (tra le tante, sentenze n. 240 del 2020, n. 86 del 2019, n. 178, n. 68 e n. 66 del 2018), questa Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale di norme regionali che non deroghino espressamente ai principi della pianificazione paesaggistica (sentenze n. 101, n. 74, n. 54, e n. 29 del 2021).
Tali considerazioni, peraltro, valgono anche con riferimento alla «concertazione rigorosamente necessaria» (così sentenza n. 64 del 2015) tra Stato e Regione che presiede all’attuazione della tutela del paesaggio, in particolare imponendo la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento di conformazione e adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica (sentenze n. 74 del 2021 e n. 240 del 2020).
4.2.– Dall’art. 1, comma 2, della legge reg. Veneto n. 23 del 2020 – impugnato solo per il mancato richiamo dei vincoli paesaggistici – non è ricavabile alcuna deroga ai principi della pianificazione paesaggistica, ed in particolare al principio di concertazione necessaria; in altri termini, poiché l’oggetto della norma impugnata è circoscritto ai profili di compatibilità delle opere di sbarramento con la disciplina urbanistica, restano inalterati i vincoli evocati dal ricorrente, compresa la necessaria valutazione di tali opere nel quadro di disciplina costituito dal piano paesaggistico, secondo le previste forme di concertazione con lo Stato.
5.– È poi impugnato l’art. 3 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, che attribuisce alla Giunta regionale la definizione dei criteri e delle modalità procedurali per il rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione di un impianto di sbarramento.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, tale norma si porrebbe in contrasto con l’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge 8 agosto 1994, n. 507 (Misure urgenti in materia di dighe), convertito, con modificazioni, nella legge 21 ottobre 1994, n. 584, espressivo di un principio fondamentale della materia «governo del territorio», con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.
5.1.– La questione è inammissibile per inadeguata ricostruzione del quadro normativo.
5.2.– Conviene, al riguardo, premettere una sintetica rappresentazione del contesto normativo nel quale si colloca la disposizione impugnata.
L’art. 2, comma 1, del d.l. n. 507 del 1994 prevedeva che entro sei mesi dall’entrata in vigore del decreto fosse emanato, «nella forma di cui all’articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dei lavori pubblici e con il Ministro dell’ambiente», il regolamento per la disciplina del procedimento di approvazione dei progetti e del controllo sulla costruzione e l’esercizio delle dighe, contenente disposizioni relative ai punti che contestualmente venivano specificati.
Il successivo comma 2 prevedeva, poi, che «[f]ino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 1 continua[ssero] ad avere applicazione il regolamento approvato con decreto del Presidente della Repubblica 1 novembre 1959, n. 1363, e le disposizioni tecniche ed amministrative emanate sulla base di questo, salve le innovazioni apportate dalla legislazione successiva».
Da ultimo, il comma 2-bis, evocato dal ricorrente, ha disposto che le Regioni adottino «un regolamento per la disciplina del procedimento di approvazione dei progetti e del controllo sulla costruzione e sull’esercizio delle dighe di loro competenza» entro sei mesi dall’emanazione del regolamento indicato dal precedente comma 1, alle cui prescrizioni dovranno fare «opportuno riferimento».
Il regolamento di cui al comma 1 non è stato emanato nel termine previsto; allo stesso, successivamente, ha fatto riferimento l’art. 10, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 24 marzo 2003, n. 136 (Regolamento concernente l’organizzazione, i compiti ed il funzionamento del Registro italiano dighe – RID, a norma dell’articolo 91 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112), nel disporre che, quando emanato, esso avrebbe dovuto altresì definire «le modalità di espletamento dei compiti del RID, concernenti, fra l’altro, gli aspetti ambientali e di sicurezza idraulica derivanti dalla gestione del sistema costituito dall’invaso, dal relativo sbarramento e da tutte le opere complementari e accessorie, nonché la vigilanza sulle condotte forzate con dighe a monte».
Tuttavia, ad oggi il regolamento non consta essere mai stato adottato, mentre i compiti e le attribuzioni facenti capo al Registro italiano dighe sono stati trasferiti al Ministero delle infrastrutture, dall’art. 2, comma 171, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, in legge 24 novembre 2006, n. 286.
5.3.– Il ricorrente trascura di confrontarsi con tale articolata concatenazione normativa, limitandosi ad affermare che la disposizione impugnata contrasterebbe con il regolamento indicato dall’art. 2, comma 2-bis, del d.l. n. 507 del 1994; nulla specifica, inoltre, circa il contenuto di tale ultimo o del d.P.R. n. 1363 del 1959, destinato a fungere da referente normativo in via transitoria.
Tale carenza non consente un adeguato scrutinio della questione, che va dunque dichiarata inammissibile.
6.– Un’ulteriore censura ha ad oggetto l’art. 4 della legge regionale impugnata.
Il Governo sostiene che tale disposizione, nel disciplinare il procedimento finalizzato all’approvazione del progetto di costruzione o di modifica strutturale degli impianti, si porrebbe in contrasto con la normativa statale in materia di valutazione di impatto ambientale (VIA), laddove, in particolare, omette ogni riferimento agli artt. 19 e 27-bis cod. ambiente.
Di qui la denunziata invasione della competenza esclusiva statale in materia ambientale, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e con ricadute anche sulla regolarità del relativo procedimento amministrativo, tali da arrecare una lesione al principio di buon andamento dell’azione amministrativa, con conseguente ed ulteriore violazione dell’art. 97 Cost.
6.1.– Le censure non sono fondate, nei termini di seguito precisati.
Valgono anche in questa sede le considerazioni prima svolte in relazione all’art. 1, comma 2, della legge regionale impugnata: il solo fatto che la disposizione in esame non faccia menzione della normativa attinente alle verifiche in ambito VIA, prerogativa del legislatore statale, non è significativo della volontà di quello regionale di derogarvi o limitarla.
In particolare, deve ritenersi che la disciplina regionale del procedimento autorizzatorio abbia natura cedevole rispetto a quella statale, ove quest’ultima, per la realizzazione dello sbarramento idrico, richieda una valutazione di impatto ambientale; ciò, del resto, trova conferma anche nel fatto che lo stesso art. 4, all’ultimo periodo del comma 1, prescrive che il progetto sia «presentato alla struttura della Giunta regionale territorialmente competente unitamente, ove previsto, alla relativa domanda di concessione di derivazione d’acqua, alla istanza di valutazione di impatto ambientale (VIA), di cui all’articolo 23 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 “Norme in materia ambientale” o ad ulteriori richieste di autorizzazioni previste dalla vigente normativa per la realizzazione di tali opere».
Ciò comporta che non sussista nemmeno il contrasto con l’art. 97 Cost.
7.– Analoghe considerazioni valgono per la quinta censura, che ha ad oggetto gli artt. 4, 5 e 9 della legge regionale impugnata, che va quindi dichiarata non fondata, nei termini di seguito precisati.
Anche tali norme disciplinano il procedimento autorizzatorio, regolando, rispettivamente, la fase preliminare di approvazione, l’adozione del provvedimento di autorizzazione e l’eventuale ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi conseguente al cessato utilizzo dell’opera per rinuncia, decadenza o revoca della concessione della derivazione d’acqua.
Il ricorrente assume che una siffatta complessiva disciplina del procedimento determinerebbe la formazione di un titolo edilizio (finalizzato, a seconda dei casi, alla costruzione o alla demolizione dell’opera), senza la necessaria, preventiva acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, richiesta dall’art. 146, comma 4, cod. beni culturali e dall’art. 22, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», che il legislatore regionale non menziona.
Il contrasto con la richiamata normativa statale determinerebbe invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia ambientale e violazione della normativa statale di principio della materia «governo del territorio».
7.1.– Anche in questo caso, il denunziato contrasto non è desumibile dal tenore letterale delle disposizioni impugnate, che non recano alcuna deroga o limitazione espressa all’operatività dei vincoli paesaggistici; pertanto, le disposizioni impugnate vanno interpretate nel senso che tutti gli interventi ch’esse consentono – siano essi edificatori o demolitori – si intendono subordinati al rispetto della normativa in materia di autorizzazione paesaggistica.
8.– Ancora, è impugnato l’art. 5, comma 3, della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, nella parte in cui prevede che «[l]’approvazione delle opere di cui al comma 2 tiene integralmente luogo degli adempimenti tecnici ed amministrativi di cui alla legge 5 novembre 1971, n. 1086 (Norme per la disciplina delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica)».
Secondo il Governo, tale previsione varrebbe ad elidere l’obbligo di sottoporre le opere a collaudo statico, previsto invece come obbligatorio dalla citata legge n. 1086 del 1971 e dal decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 26 giugno 2014, recante «Norme tecniche per la progettazione e la costruzione degli sbarramenti di ritenuta (dighe e traverse)»; essa, pertanto, contrasterebbe con la normativa statale di principio delle materie «protezione civile» e «governo del territorio», comportando inoltre un’invasione della competenza legislativa statale esclusiva in materia di ambiente.
8.1.– La Regione Veneto ha eccepito l’inammissibilità della censura in quanto «gravemente carente sotto il profilo motivazionale», poiché il ricorrente non ha esplicitato in quali termini sarebbe derogato l’obbligo di collaudo statico, né il contenuto della norma statale asseritamente derogata.
L’eccezione non è fondata.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, il ricorrente ha l’onere di individuare le disposizioni impugnate e i parametri costituzionali dei quali denunzia la violazione, proponendo una motivazione che non sia meramente assertiva, ma contenga una specifica e congrua indicazione delle ragioni per le quali vi sarebbe il contrasto con i parametri evocati, con il sostegno di una sintetica argomentazione di merito (ex plurimis, sentenze n. 25 del 2020, n. 201 del 2018 e n. 261 del 2017).
Nella specie, il Governo assume che la norma impugnata derogherebbe all’obbligo di sottoporre a collaudo statico le opere di cui alla legge n. 1086 del 1971, secondo le specifiche prescrizioni tecniche contenute nel menzionato d.m. 26 giugno 2014. Tale indicazione consente di individuare con sufficiente chiarezza i parametri interposti su cui si fonda la questione di legittimità costituzionale e fornisce, seppur in termini sintetici, un adeguato supporto argomentativo a sostegno della stessa, sì da raggiungere quella «soglia minima di chiarezza e completezza» che rende ammissibile l’impugnativa proposta, secondo quanto si è già evidenziato in precedenza, al punto 3.1.1.
8.2.– Nel merito, tuttavia, la censura non è fondata.
Nel disporre che l’approvazione delle opere «tiene integralmente luogo degli adempimenti tecnici ed amministrativi di cui alla legge 5 novembre 1971, n. 1086», la disposizione impugnata rinvia alle previsioni di tale legge, ivi compresa la prescrizione del collaudo statico per le opere che la stessa elenca all’art. 1 (opere in conglomerato cementizio armato normale e precompresso, opere a struttura metallica), secondo una tecnica normativa già adottata anche dalla legge statale; la disposizione impugnata, infatti, riproduce in parte qua il testo dell’art. 1, comma 7-bis, del già ricordato d.l. n. 507 del 1994, a mente del quale «[l]’approvazione tecnica dei progetti da parte del Servizio nazionale dighe tiene integralmente luogo degli adempimenti tecnici ed amministrativi di cui alle leggi 25 novembre 1962, n. 1684, 2 febbraio 1974, n. 64, e 5 novembre 1971, n. 1086».
Quanto, poi, alle prescrizioni di cui al d.m. 26 giugno 2014, va premesso che queste ultime sono destinate a trovare applicazione «a tutti gli sbarramenti di ritenuta del territorio nazionale» (Allegato A, punto A.1) e integrano, in quanto norme tecniche per le costruzioni, i principi fondamentali nelle materie «protezione civile» e «governo del territorio» (sentenze n. 68 del 2018 e n. 225 del 2017).
Tuttavia, anche con riguardo a tale tipo di previsioni, questa Corte ha ritenuto che il mancato richiamo da parte di una legge regionale non valga automaticamente a significare che nel territorio sia consentita «la realizzabilità degli interventi senza il rispetto di quelle norme, in violazione della competenza legislativa dello Stato nella materia della sicurezza», occorrendo una più specifica illustrazione dell’ipotizzato vulnus ai criteri generali di sicurezza (sentenza n. 78 del 2021).
Peraltro, nel caso di specie lo stesso art. 5, comma 3, ultima parte, opera comunque un richiamo alla normativa statale di principio applicabile, laddove dispone che il soggetto che richiede il rilascio del titolo autorizzativo non sia in ogni caso esentato «dall’acquisizione di altre autorizzazioni o nullaosta, comunque denominati, previsti da ulteriori disposizioni di legge».
Va dunque respinto il dubbio di legittimità costituzionale sollevato.
9.– Il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia inoltre la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed s), Cost., da parte dell’art. 11 della legge regionale impugnata.
Con tale disposizione, il legislatore veneto ha consentito che le opere di cui al precedente art. 10 – vale a dire le opere che «non siano state denunciate ovvero siano state realizzate in difformità dai progetti approvati» – siano regolarizzate previa presentazione, da parte del proprietario o del gestore, del progetto esecutivo completo dello stato di fatto e comprensivo della certificazione di idoneità statica. L’approvazione del progetto è riservata alla Giunta regionale, che vi provvede all’esito del procedimento già descritto nello scrutinio delle precedenti censure.
Il dubbio di legittimità costituzionale discende dal fatto che, disciplinando la norma impugnata opere esistenti alla data di entrata in vigore della legge regionale, la stessa si porrebbe in contrasto con l’art. 167 cod. beni culturali, che dispone un generale divieto di sanatoria per gli interventi non autorizzati su beni paesaggistici, salvi i limitati casi di cui al comma 4, estranei alla presente fattispecie e che necessitano, comunque, del previo parere vincolante della soprintendenza.
9.1.– La censura è fondata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., con assorbimento del restante profilo.
L’art. 146, comma 4, cod. beni culturali, afferma che l’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al titolo che legittima l’intervento edilizio, e non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, dell’intervento stesso, all’infuori dei casi previsti dal successivo art. 167, commi 4 e 5.
Detti ultimi consistono negli interventi edilizi che non abbiano determinato la creazione o l’aumento illegittimo di superfici utili o di volumi, negli interventi che abbiano comportato l’impiego di materiali difformi da quelli indicati dall’autorizzazione paesaggistica, e, infine, negli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 t.u. edilizia. Per tali tipologie di intervento, in ogni caso, la normativa statale consente la sanatoria solo all’esito del preventivo parere vincolante della soprintendenza.
9.2.– La norma impugnata si discosta da tali prescrizioni.
Nel riferirsi, senza distinzione alcuna, a tutte le opere che «non siano state denunciate ovvero siano state realizzate in difformità dai progetti approvati», essa delinea infatti un novero amplissimo di ipotesi, sostanzialmente illimitato e comunque idoneo a ricomprendere anche tutti gli sbarramenti idrici realizzati in assenza di autorizzazione paesaggistica, ovvero in difformità dalla stessa.
In tali ultime ipotesi, pertanto, la norma consente la possibilità di regolarizzare le opere non autorizzate o difformi in data successiva alla loro realizzazione anche al di fuori dei casi tassativi indicati dall’art. 167 cod. beni culturali, senza, peraltro, alcun richiamo alla necessità di acquisire il preventivo parere vincolante della soprintendenza.
9.3.– Un tale contrasto non appare sanabile in via interpretativa, tramite una lettura della disposizione impugnata che ne postuli un’implicita conformità alla normativa statale in materia paesaggistica, così come ritenuto in relazione alle precedenti censure scrutinate; ciò in considerazione del fatto che la disciplina regionale è completa, per cui il silenzio serbato in relazione ad alcuni profili qualificanti non può intendersi quale tacito richiamo ad essi.
9.4.– Conseguentemente, richiamato l’orientamento di questa Corte secondo cui «l’autorizzazione paesaggistica […], deve essere annoverata tra gli “istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale”» (sentenze n. 238 del 2013 e n. 101 del 2010), l’art. 11 della legge regionale impugnata va ritenuto costituzionalmente illegittimo, in quanto, derogando alla normativa statale in materia di regolarizzazione delle opere sotto il profilo paesistico, invade la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», con assorbimento del restante profilo di censura.
10.– Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 12 della legge reg. Veneto n. 23 del 2020, che prevede il trattamento sanzionatorio per le diverse ipotesi di realizzazione o gestione degli impianti di sbarramento in assenza di autorizzazione, ovvero in difformità dalla stessa, ovvero ancora in violazione delle prescrizioni che il titolo autorizzativo impartisce.
Ad avviso del Governo, nel prevedere e modellare tale trattamento il legislatore regionale non avrebbe considerato che le condotte sanzionate potrebbero integrare fattispecie di reato, con conseguente prevalenza del corrispondente regime sanzionatorio, secondo quanto previsto dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale); la norma impugnata, infatti, parrebbe riconoscere alla condotta da sanzionare una sola valenza amministrativa, con conseguente invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento penale», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.
10.1.– La questione non è fondata.
Con la disposizione impugnata, il legislatore veneto ha previsto e regolato le sanzioni amministrative conseguenti all’inosservanza delle prescrizioni attinenti alla realizzazione ed all’esercizio degli impianti di sbarramento regionali; si tratta, pertanto, del legittimo esercizio di una prerogativa sua propria (si vedano le sentenze n. 84 del 2019 e n. 271 del 2012).
Una tale previsione non vale in alcun modo ad escludere la possibile rilevanza penale delle condotte che integrano le ipotesi di inosservanza; per tale evenienza è infatti destinato ad operare proprio il criterio di prevalenza enunciato dall’art. 9, comma 2, della legge n. 689 del 1981, evocato dal ricorrente, a mente del quale «quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest’ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali».
Non vi è ragione per ritenere che la norma impugnata sovverta tale criterio; ed anzi, dell’operatività del relativo meccanismo il legislatore veneto si è dimostrato ben avveduto, nel prevedere, al comma 9 dello stesso art. 12, che l’accertamento di ogni violazione venga notificato all’autorità giudiziaria, all’evidente fine di consentire alla stessa, ove ne ricorrano i presupposti, l’esercizio dell’azione penale.
La censura va pertanto ritenuta priva di fondamento.