CORTE COSTITUZIONALE – ordinanza 8 febbraio 2019 n. 17
Non può ritenersi legittimata, nel caso di specie, a sollevare conflitto di attribuzioni (ex art. 37 della legge n. 87 del 1953) la minoranza di 1/10 dei componenti del Senato, perché la quota di attribuzioni che la Costituzione conferisce a una tale frazione del corpo dei parlamentari riguarda ambiti diversi da quelli oggetto del presente conflitto; segnatamente, la Costituzione attribuisce, in via definitiva, a tale quota qualificata di parlamentari unicamente il potere di attivare la procedura di sfiducia per il Governo in carica tramite presentazione di mozione di sfiducia (art. 94, quinto comma, della Costituzione) o di rimettere alla Camera l’approvazione di un disegno di legge deferito alla commissione deliberante (art. 72, terzo comma, Cost.), con tutta evidenza trattandosi di poteri non oggetto di menomazione nel caso di specie e financo estranei alle censure oggetto del pertinente ricorso. Va poi risolta negativamente anche la questione della legittimazione ad agire del «Gruppo parlamentare “Partito democratico”» per l’assorbente ragione che manca, nel ricorso in esame, la necessaria indicazione delle modalità con le quali il gruppo parlamentare avrebbe deliberato di proporre conflitto davanti alla Corte costituzionale (sull’indispensabilità di tale indicazione si veda l’ordinanza n. 280 del 2017).
La giurisprudenza costituzionale, anche recente, ha in talune ipotesi espressamente negato la legittimazione dei parlamentari uti singuli a elevare conflitto di attribuzione; ad esempio, si è escluso che il singolo parlamentare sia legittimato a sollevare conflitto di attribuzione nei confronti del Governo a tutela di prerogative attribuite dalla Costituzione all’intera Camera a cui appartiene (ordinanza n. 163 del 2018, richiamata dall’ordinanza n. 181 del 2018); costante (sin dalla sentenza n. 1150 del 1988) è poi l’orientamento in base al quale, in materia di insindacabilità, competente a sollevare conflitto di attribuzione nei confronti dell’autorità giudiziaria è esclusivamente la Camera di appartenenza e non il singolo parlamentare, posto che la ratio dell’immunità è proteggere la funzione dell’organo costituzionale (come la Corte ha sempre affermato, a partire dalla risalente sentenza n. 9 del 1970); i singoli componenti di una Camera neppure possono lamentare la violazione del procedimento legislativo svoltosi presso l’altro ramo del Parlamento, essendo evidente l’inidoneità di tali lesioni a incidere sulle loro attribuzioni e sulle loro prerogative (ordinanze n. 181 del 2018 e n. 277 del 2017). È parimenti vero tuttavia che nelle medesime occasioni la Corte ha costantemente ribadito di dover lasciare «impregiudicata la questione se in altre situazioni siano configurabili attribuzioni individuali di potere costituzionale, per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri dello Stato» (ordinanze n. 181 e n. 163 del 2018 e, già in passato, ordinanza n. 177 del 1998; nello stesso senso, sentenza n. 225 del 2001), la giurisprudenza costituzionale non avendo dunque negato in radice la legittimazione del singolo parlamentare a sollevare conflitto di attribuzione, ed avendone piuttosto specificamente escluso in concreto la sussistenza nelle specifiche ipotesi che si sono via via presentate.
Nella giurisprudenza costituzionale la nozione di “potere dello Stato” ai fini della legittimazione a sollevare conflitto di attribuzione (ex art. 37 della legge n. 87 del 1953) abbraccia tutti gli organi ai quali sia riconosciuta e garantita dalla Costituzione una quota di attribuzioni costituzionali (ex plurimis, sentenze n. 87 e n. 88 del 2012) o sia affidata una pubblica funzione costituzionalmente rilevante e garantita (ordinanza n. 17 del 1978), sicché il vaglio della legittimazione dei ricorrenti – quali singoli Senatori – deve muovere dalla ricognizione della sfera delle attribuzioni conferita appunto ai singoli parlamentari dalla Costituzione, verificando se in relazione a esse il singolo senatore possa ritenersi abilitato a esprimere in via definitiva la volontà del relativo potere.
Va ribadito quanto è stato da tempo rilevato dalla Corte, onde la Costituzione individua una sfera di prerogative che spettano al singolo parlamentare, diverse e distinte da quelle che gli spettano in quanto componente dell’assemblea, che invece è compito di ciascuna Camera tutelare (sentenza n. 379 del 1996); si tratta in generale della facoltà, necessaria all’esercizio del libero mandato parlamentare (art. 67 Cost.), di partecipare alle discussioni e alle deliberazioni esprimendo «opinioni» e «voti» (ai quali si riferisce l’art. 68 Cost., sia pure al diverso fine di individuare l’area della insindacabilità); segnatamente, nell’ambito della funzione legislativa che viene in rilievo nel presente conflitto, le prerogative del singolo rappresentante si esplicitano anche nel potere di iniziativa, testualmente attribuito «a ciascun membro delle Camere» dall’art. 71, primo comma, Cost., comprensivo del potere di proporre emendamenti, esercitabile tanto in commissione che in assemblea (art. 72 Cost.); del resto, è proprio attraverso la presentazione di iniziative legislative ed emendamenti da parte dei parlamentari, sulla base di una disciplina procedurale rimessa ai regolamenti parlamentari, che si concretizza l’attribuzione costituzionale alle Camere della funzione legislativa (art. 70 Cost.), che altrimenti risulterebbe ridotta a una mera funzione di ratifica di scelte maturate altrove, lo status costituzionale del parlamentare comprendendo, dunque, un complesso di attribuzioni inerenti al diritto di parola, di proposta e di voto, che gli spettano come singolo rappresentante della Nazione, individualmente considerato, da esercitare in modo autonomo e indipendente, non rimuovibili né modificabili a iniziativa di altro organo parlamentare, sicché nell’esercizio di tali attribuzioni egli esprime una volontà in se stessa definitiva e conclusa, che soddisfa quanto previsto dall’art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953 (e che dunque lo identifica – ratione materiae – quale potere dello Stato). Nell’ambito di istituzioni complesse, articolate e polifunzionali, qual è il Parlamento e quali sono le singole Camere, molteplici sono gli organi che possono configurarsi come poteri a sé stanti, idonei a essere parti nei conflitti di attribuzione. I parlamentari che, come si è detto, sono organi-potere titolari di distinte quote o frazioni di attribuzioni costituzionalmente garantite debbono potersi rivolgere al giudice costituzionale qualora patiscano una lesione o un’usurpazione delle loro attribuzioni da parte di altri organi parlamentari; la Corte, del resto, ha già riconosciuto la legittimazione al conflitto ad esempio alla Commissione parlamentare inquirente per i giudizi d’accusa (abolita a seguito del referendum del 1987 dall’art. 3 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, recante «Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione»; si veda comunque la sentenza n. 13 del 1975), alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (ex plurimis, in questo senso, le sentenze n. 69 del 2009 e n. 502 del 2000, fin dalla risalente ordinanza n. 171 del 1997) e alle Commissioni di inchiesta istituite a norma dell’art. 82 Cost. (a partire dalle ordinanze n. 229 e n. 228 del 1975).
La legittimazione attiva del singolo parlamentare a sollevare conflitto di attribuzioni, pur riconoscibile in astratto, deve tuttavia, essere rigorosamente circoscritta quanto al profilo oggettivo, ossia alle menomazioni censurabili in sede di conflitto, occorrendo anzitutto ribadire che non possono trovare ingresso nei giudizi per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato le censure che riguardano esclusivamente violazioni o scorrette applicazioni dei regolamenti parlamentari e delle prassi di ciascuna Camera (tra le altre, sentenza n. 9 del 1959 e, più recentemente, ordinanza n. 149 del 2016): quando derivano dal diritto parlamentare la loro esaustiva qualificazione, le prerogative rivendicate dai membri delle Camere trovano infatti all’interno delle Camere stesse le loro forme di tutela; ad esempio, la Corte ha escluso che le modalità di voto nelle Camere siano assoggettate al potere di accertamento di soggetti esterni (nella specie, il giudice penale), in quanto esse sono disciplinate solo dalle regole parlamentari (sentenza n. 379 del 1996); anche l’intervento della Corte trova dunque un limite nel principio di autonomia delle Camere costituzionalmente garantito, in particolare dagli artt. 64 e 72 Cost. La giurisprudenza costituzionale ha già riconosciuto che l’autonomia degli organi costituzionali «non si esaurisce nella normazione, bensì comprende – coerentemente – il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l’osservanza» (da ultimo, sentenza n. 262 del 2017); tale momento applicativo comprende «i rimedi contro gli atti ed i comportamenti che incidano negativamente sulle funzioni dei singoli parlamentari e che pregiudichino il corretto svolgimento dei lavori» (sentenza n. 379 del 1996). Pertanto, analogamente a quanto accade negli altri ambiti in cui la Costituzione affida ampi spazi alle valutazioni politiche, è necessario che alle Camere sia riconosciuto un ampio margine di apprezzamento nell’applicazione delle regole parlamentari, il dovuto rispetto all’autonomia del Parlamento esigendo che il sindacato della Corte sia rigorosamente circoscritto ai vizi che determinano violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari e palesandosi è necessario che tali violazioni siano rilevabili nella loro evidenza già in sede di sommaria delibazione. In definitiva, in ossequio al principio di autonomia delle Camere e nel solco dei precedenti giurisprudenziali poc’anzi richiamati si deve ritenere che, ai fini dell’ammissibilità del conflitto, non è sufficiente che il singolo parlamentare lamenti un qualunque tipo di vizio occorso durante l’iter legislativo, bensì è necessario che alleghi e comprovi una sostanziale negazione o un’evidente menomazione della funzione costituzionalmente attribuita al ricorrente, a tutela della quale è apprestato il rimedio giurisdizionale innanzi a questa Corte ex art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953, circostanza che non si riscontra nel caso di specie.
Le forzature procedurali denunciate dai ricorrenti inducono la Corte a richiamare l’attenzione sulla necessità che il ruolo riservato dalla Costituzione al Parlamento nel procedimento di formazione delle leggi sia non solo osservato nominalmente, ma rispettato nel relativo significato sostanziale; in proposito, l’art. 70 affida la funzione legislativa alle due Camere e il successivo art. 72 Cost. articola l’esame di ogni progetto di legge in una fase da svolgersi in commissione e in una che coinvolge l’intera Assemblea ed esige che la votazione si svolga dapprima articolo per articolo e poi sul testo finale. Tali principi sono volti a consentire a tutte le forze politiche, sia di maggioranza sia di minoranza, e ai singoli parlamentari che le compongono, di collaborare cognita causa alla formazione del testo, specie nella fase in commissione, attraverso la discussione, la proposta di testi alternativi e di emendamenti. Gli snodi procedimentali tracciati dall’art. 72 Cost. scandiscono alcuni momenti essenziali dell’iter legis che la Costituzione stessa esige che siano sempre rispettati a tutela del Parlamento inteso come luogo di confronto e di discussione tra le diverse forze politiche, oltre che di votazione dei singoli atti legislativi, e a garanzia dell’ordinamento nel suo insieme, che si regge sul presupposto che vi sia un’ampia possibilità di contribuire, per tutti i rappresentanti, alla formazione della volontà legislativa, ciò valendo in particolare in riferimento all’approvazione della legge di bilancio annuale, in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico e in cui si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e dell’allocazione delle risorse pubbliche: decisioni che costituiscono il nucleo storico delle funzioni affidate alla rappresentanza politica sin dall’istituzione dei primi parlamenti e che occorre massimamente preservare. La Corte ha già avuto in proposito modo di sottolineare (sia pure in riferimento alle Regioni) che «il bilancio è un “bene pubblico” nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte […], sia in ordine all’acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche» (sentenza n. 184 del 2016; in senso conforme sentenze n. 247 e n. 80 del 2017). Ciò vale a maggior ragione dopo l’attuazione della riforma costituzionale del 2012 realizzata con la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), che ne ha accentuato la centralità: il «bilancio – nella nuova veste sostanziale – è destinato a rappresentare il principale strumento di decisione sulla allocazione delle risorse, nonché il principale riferimento della verifica dei risultati delle politiche pubbliche» (sentenza n. 61 del 2018). Del resto, il procedimento di formazione della legge di bilancio è da sempre circondato da particolari garanzie, trattandosi di una di quelle leggi che, ai sensi dell’art. 72, quarto comma, Cost., esigono il procedimento ordinario a tutela della più ampia partecipazione di tutti i soggetti politici alla loro elaborazione.
Se da un lato non v’è dubbio che le carenze lamentate dal ricorso odierno abbiano determinato una compressione dell’esame parlamentare, nondimeno il ricorso medesimo trascura alcuni elementi procedimentali e di contesto, i quali, se fossero stati debitamente tenuti in considerazione, avrebbero offerto un quadro più complesso e sfumato rispetto a quanto rappresentato dai senatori ricorrenti e all’interno del quale le violazioni lamentate non appaiono di evidenza tale da superare il vaglio di ammissibilità del conflitto. Le forzature procedimentali censurate derivano infatti essenzialmente, nella prospettazione dei ricorrenti, dalla “estremizzazione” della prassi dei maxi-emendamenti approvati attraverso il voto della questione di fiducia, che avrebbe limitato i tempi a disposizione per la discussione al punto da vanificare l’esame in Commissione e da pregiudicare la stessa possibilità per i parlamentari di conoscere il testo ed esprimere un voto consapevole; questa Corte ha già avuto occasione di segnalare gli effetti problematici dell’approvazione dei disegni di legge attraverso il voto di fiducia apposto su un maxi-emendamento governativo, osservando che in tal modo, per effetto del “voto bloccato” che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, sono precluse una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina e impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo (sentenza n. 32 del 2014). E tuttavia, occorre anche considerare che tale prassi si è consolidata nel tempo e che se ne è fatto frequente uso sin dalla metà degli anni Novanta anche per l’approvazione delle manovre di bilancio da parte dei governi di ogni composizione politica, in cerca di risposte alle esigenze di governabilità; una prassi che aveva trovato, per quanto riguarda le leggi di natura finanziaria, qualche forma di compensazione nel coinvolgimento della Commissione Bilancio nella definizione del testo su cui il Governo poneva la fiducia, tenendo conto delle proposte emendative in quella sede discusse e approvate. Ora, una perdurante usanza costituisce un fattore non privo di significato all’interno del diritto parlamentare, contrassegnato da un elevato tasso di flessibilità e di con sensualità; ciò non può giustificare, però, qualunque prassi si affermi nelle aule parlamentari, anche contra Constitutionem. Anzi, occorre arginare gli usi che conducono a un progressivo scostamento dai principi costituzionali, per prevenire una graduale ma inesorabile violazione delle forme dell’esercizio del potere legislativo, il cui rispetto appare essenziale affinché la legge parlamentare non smarrisca il ruolo di momento di conciliazione, in forma pubblica e democratica, dei diversi principi e interessi in gioco. Nondimeno, la prassi fin qui consolidatasi non può essere ignorata in sede di delibazione sull’ammissibilità del presente conflitto, ove si deve valutare se le lesioni lamentate dai ricorrenti raggiungano quella soglia di evidenza che giustifica l’intervento della Corte per arginare l’abuso da parte delle maggioranze a tutela delle attribuzioni costituzionali del singolo parlamentare.
Le peculiarità dell’andamento dei lavori al Senato in fase di approvazione della legge di bilancio dello Stato per il 2019 rispetto al passato, anche recente, si sostanzia nel fatto che il testo finale contenuto nel maxi-emendamento 1.9000 ha – nel caso di specie – modificato in larga misura il disegno di legge su cui le Camere avevano lavorato fino a quel momento, senza che su tale contenuto la Commissione Bilancio avesse avuto modo di svolgere alcun esame di merito, in sede referente. L’esame che tale Commissione ha compiuto, nella seduta del 22 dicembre 2018, era infatti finalizzato esclusivamente all’espressione di un parere relativo ai soli profili finanziari di tale emendamento, ai sensi del nuovo art. 161, comma 3-ter, regol. Senato. Il ricorso non rileva queste peculiarità, così come non dà conto del fatto che esse derivano dall’innesto, sulla ricordata prassi dei maxi-emendamenti votati con la fiducia, di due fattori concomitanti: ovvero, da un lato, la lunga interlocuzione con le istituzioni dell’Unione europea ha portato a una rideterminazione dei saldi complessivi della manovra economica in un momento avanzato del procedimento parlamentare e ha comportato un’ampia modificazione del disegno di legge iniziale, confluita nel maxi-emendamento 1.9000; il ricorso si limita ad affermare che il maxi-emendamento sostituiva integralmente il testo della legge di bilancio, senza considerare che il disegno di legge originario era già stato esaminato alla Camera dei deputati e ivi votato in commissione e in assemblea e che su di esso era in corso l’esame al Senato: il nuovo testo recepiva almeno in parte i lavori parlamentari svoltisi fino a quel momento, inclusi alcuni emendamenti presentati nel corso della discussione (si veda la tabella di raffronto contenuta nel dossier del Senato della Repubblica dedicato al maxi-emendamento governativo, edizione provvisoria del 23 dicembre 2018, pagine 15 e seguenti); d’altro lato, le riforme apportate al regolamento del Senato della Repubblica nel dicembre 2017 – applicate al procedimento per l’approvazione del bilancio dello Stato per la prima volta nel caso di specie – possono gettare una diversa luce su taluni passaggi procedimentali censurati nel ricorso odierno, il nuovo testo dell’art. 161, comma 3-ter, regol. Senato richiedendo che i testi sui quali il Governo intende porre la questione di fiducia siano sottoposti alla Presidenza per le valutazioni di ammissibilità, tra cui quelle relative alla copertura finanziaria, per le quali la Commissione Bilancio è chiamata a esprimere un parere ai sensi dell’art. 102-bis (anch’esso modificato in data 20 dicembre 2017), mentre il successivo art. 161, comma 3-quater, consente al Governo, prima della discussione di un emendamento su cui sia posta la questione di fiducia, di precisarne il contenuto esclusivamente per ragioni di copertura finanziaria o di coordinamento formale del testo e di formulare ulteriori precisazioni per adeguare il testo alle condizioni indicate nel parere della Commissione Bilancio. Ed è in applicazione di tali disposizioni che la Commissione Bilancio è stata convocata solo per esprimere un parere sui profili finanziari e che il Governo ha presentato ulteriori precisazioni durante l’esame in Commissione. La breve durata dell’esame e la modifica dei testi in corso d’opera, lamentate dai ricorrenti, potrebbero allora essere state favorite dalle nuove regole procedurali, verosimilmente dettate allo scopo di rafforzare le garanzie della copertura finanziaria delle leggi, ma foriere di effetti problematici, in casi come quello di specie, che dovrebbero essere oggetto di attenzione da parte dei competenti organi parlamentari ed eventualmente rimossi o corretti.
Se non si può fare a meno di rilevare che le modalità di svolgimento dei lavori parlamentari sul disegno di legge di bilancio dello Stato per il 2019 hanno aggravato gli aspetti problematici della prassi dei maxi-emendamenti approvati con voto di fiducia; neppure si può trascurare il fatto che i lavori sono avvenuti sotto la pressione del tempo dovuta alla lunga interlocuzione con le istituzioni europee, in applicazione di norme previste dal regolamento del Senato e senza che fosse stata del tutto preclusa una effettiva discussione nelle fasi precedenti su testi confluiti almeno in parte nella versione finale: in tali circostanze, non emerge un abuso del procedimento legislativo tale da determinare quelle violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari che assurgono a requisiti di ammissibilità nella situazione attuale. Ciò rende inammissibile il presente conflitto di attribuzione e, nondimeno, in altre situazioni una simile compressione della funzione costituzionale dei parlamentari potrebbe portare a esiti differenti.