Corte Costituzionale, sentenza 02 dicembre 2021 n. 231
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, e 76 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Brescia, in funzione di tribunale di sorveglianza.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– In via prioritaria, è necessario esaminare la censura che ritiene violato l’art. 76 Cost.
La questione non è fondata.
2.1.– Occorre premettere che, da tempo, la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che «la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (sentenza n. 142 del 2020; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 170 del 2019, n. 198 e n. 182 del 2018).
Alla luce di questi principi, deve ritenersi che le disposizioni censurate non abbiano disatteso i principi e i criteri direttivi impartiti dalla legge delega.
2.2.– La legge n. 103 del 2017 – al comma 85, lettera p), dell’art. 1 – ha posto i criteri per l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età.
In particolare, al numero 5) del comma 85, lettera p), è previsto l’«ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori all’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà», mentre al numero 6) è contemplata «l’eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento».
Si tratta di principi e criteri direttivi che rispondono all’esigenza di un’esecuzione penale calibrata sulla personalità in evoluzione del minore e sulla preminente finalità educativa dell’esecuzione penale minorile (ex plurimis, sentenze n. 263 del 2019, n. 90 del 2017 e n. 125 del 1992). Sulla base dei principi di socializzazione, individualizzazione del trattamento e di promozione della persona, il legislatore esige che il nuovo sistema dell’esecuzione penale minorile operi secondo valutazioni basate su prognosi personalizzate e funzionali al recupero del minore.
2.3.– Con riferimento al criterio impartito dalla legge delega al richiamato numero 5), va rilevato che la disciplina delle misure penali di comunità introdotta dal d.lgs. n. 121 del 2018 – pur essendo largamente modellata su istituti già previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – se ne discosta sotto alcuni profili, realizzando un ampliamento delle possibilità di applicazione delle misure extramurarie nei confronti dei condannati minorenni.
Infatti, ai fini dell’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, il limite di tre anni previsto dall’art. 47, comma 1, ord. pen., per i minorenni è elevato a quattro anni dall’art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 121 del 2018. È pur vero che il comma 3-bis dell’art. 47 ord. pen. – introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 – consente in alcuni casi di valutare, ai fini dell’affidamento in prova, condannati che debbano espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni. Tuttavia, si tratta di una possibilità che è comunque subordinata alla verifica giudiziale di talune condizioni soggettive, previste dal comma 2 dello stesso art. 47 ordin. penit. Inoltre, l’apprezzamento di queste condizioni si differenzia dalla valutazione giudiziale compiuta ai fini dell’ammissione dei condannati minorenni alle misure di comunità, poiché esso prescinde dalla considerazione del programma di intervento educativo, che viceversa è centrale nel sistema dell’esecuzione penale minorile, qualificando in termini personali e individualizzati il relativo trattamento penitenziario.
Quanto alla detenzione domiciliare minorile, il censurato art. 6, comma 1, innalza a tre anni il limite di pena residua, a fronte di quello di due anni previsto dall’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit. Pertanto – oltre a essere potenziati i profili trattamentali dell’esecuzione, con la previsione di prescrizioni relative alle attività di istruzione, di formazione, di lavoro, volte a promuovere l’educazione e l’inclusione sociale – sono stati innalzati i limiti di pena, rispetto ai quali è possibile l’applicazione delle misure penali di comunità in esame. La disciplina censurata, dunque, non ha trascurato il principio, posto dalla legge delega, dell’ampliamento dei criteri di accesso alle misure penali di comunità e vi ha dato una specifica attuazione.
2.3.1.– È pur vero che, come puntualmente osservato dal rimettente, nel raffronto con i corrispondenti istituti di cui alla legge n. 354 del 1975, i riflessi applicativi di questa estensione possono in concreto rivelarsi piuttosto esigui. Peraltro, l’estensione del prescritto “ampliamento” – da valutarsi con riferimento alla precedente disciplina applicabile ai condannati minorenni – è stata affidata alla discrezionalità del legislatore delegato chiamato a darvi attuazione, non avendone la legge di delegazione predeterminato la misura.
Se ciò vale ad escludere la violazione dei criteri posti dalla legge delega, è innegabile, peraltro, che al fine di regolare l’accesso alle misure penali di comunità siano configurabili assetti diversi, più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale, così come era stato previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dallo schema governativo di decreto legislativo recante disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, poi modificato nel senso ora sottoposto all’esame.
L’adozione di scelte volte ad ampliare la sfera applicativa delle misure alternative alla detenzione inframuraria rimane, peraltro, auspicabile, in considerazione della preminenza attribuita alla finalità educativa e socializzante dell’esecuzione penale minorile, anche allo scopo di evitare controproducenti interruzioni dello specifico percorso già intrapreso.
2.4.– Quanto all’ulteriore criterio direttivo di cui il rimettente denuncia la violazione, relativo alla eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la concessione e la revoca dei benefìci penitenziari (art. 1, comma 85, lettera p, numero 6), occorre evidenziare che, nel contenuto precettivo della legge delega, esso risulta espressamente qualificato dal «contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento».
A parte i dubbi sulla riconducibilità dei limiti stabiliti dalle disposizioni censurate alla nozione di automatismo, va rilevato, al riguardo, che da siffatta qualificazione discende che non può ritenersi in contrasto con il criterio direttivo in esame ogni e qualsiasi preclusione alle misure penali di comunità, ma solo quella che – indefettibilmente – comporti un effetto contrastante con la finalità educativa del condannato minorenne e con l’individualità del suo trattamento penitenziario.
Un tale risultato deve certamente escludersi con riferimento alla disciplina censurata.
Da un lato, i limiti stabiliti dalle disposizioni in esame non sono correlati al titolo astratto di reato, né all’entità della pena edittale, né a quella della pena irrogata o applicata, ma alla durata di quella residua ancora da espiare e, quindi, all’arco temporale che separa il condannato dalla fine della pena. In questo modo, nell’attribuire specifico rilievo allo stato di avanzamento del percorso rieducativo, le disposizioni censurate non trascurano la progressione del trattamento di recupero del singolo condannato.
Dall’altro lato, i limiti posti alle misure in esame, pur essendo basati sulla durata della pena residua da espiare – e quindi su un criterio astratto di idoneità della misura extramuraria a fronteggiare le esigenze di educazione e socializzazione del condannato – non sono disgiunti da una valutazione giudiziale del caso concreto e dall’elaborazione di una prognosi individuale. Ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 121 del 2018, infatti, l’applicazione delle misure penali di comunità presuppone, oltre alla verifica della durata della pena residua, un apprezzamento giudiziale che ha ad oggetto sia l’idoneità della misura a favorire l’evoluzione positiva della personalità, sia l’assenza di pericolosità sociale del condannato e quindi una prognosi favorevole in ordine ai suoi futuri comportamenti. Nel caso della detenzione domiciliare, poi, è richiesto un ulteriore presupposto negativo, rappresentato dall’impossibilità di applicare la più ampia misura dell’affidamento in prova, ciò che necessariamente richiede una valutazione del caso concreto. L’apprezzamento giudiziale del percorso rieducativo compiuto dal singolo non è quindi escluso, ma risulta delimitato all’interno delle coordinate stabilite dal legislatore delegato.
Deve escludersi, pertanto, che il mantenimento dei limiti normativi nell’accesso alle misure penali di comunità, stabilito dalle disposizioni censurate, configuri una preclusione contrastante con la funzione rieducativa della pena e lesiva del principio dell’individualità del trattamento penitenziario.
3.– Anche le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., non sono fondate.
In primo luogo, non è ravvisabile una manifesta irragionevolezza nella scelta legislativa di limitare l’accesso alle due misure penali di comunità in esame a coloro che debbano espiare pene particolarmente elevate. Invero – rispetto a pene superiori ai limiti stabiliti dalle disposizioni censurate – non può ritenersi né irragionevole, né sproporzionato, esigere che al condannato sia (temporaneamente) inibito l’accesso all’affidamento in prova o alla detenzione domiciliare. E ciò nel rispetto di altrettanto fondamentali esigenze di tutela connesse a condotte criminose che siano state ritenute, in concreto e attraverso un rigoroso accertamento giudiziale, meritevoli di sanzioni penali elevate.
Va inoltre escluso che ne risulti vanificata la funzione rieducativa della pena. Da un lato, la disciplina in oggetto, relativa all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare, non preclude la possibilità di fruire di altri benefici penitenziari previsti dal d.lgs. n. 121 del 2018, alle condizioni stabilite dalle disposizioni che regolano ciascun istituto. D’altra parte, la possibilità di accedere all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare è riconosciuta allorché la pena da espiare, anche quale residuo di maggior pena, sia inferiore ai limiti stabiliti dalle disposizioni censurate.
Su un piano sistematico, occorre infine rilevare che il complessivo disegno riformatore del d.lgs. n. 121 del 2018 si è mostrato sensibile alle opportunità di socializzazione che devono essere offerte in ciascuna fase del percorso trattamentale, in funzione dell’educazione e del recupero dei condannati. A questi fini, vanno sottolineate le rilevanti innovazioni nell’organizzazione degli istituti penali per i minorenni, introdotte dal Capo IV del d.lgs. n. 121 del 2018, allo scopo di garantire una permanenza rieducativa efficace all’interno degli stessi istituti.
In definitiva, le disposizioni censurate realizzano una ponderazione degli interessi coinvolti che è espressione non irragionevole di discrezionalità legislativa. Esse forniscono perciò una risposta che non contrasta con le esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai principi costituzionali di protezione dell’infanzia e della gioventù (art. 31, secondo comma, Cost.) e di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). Va peraltro ribadito che, ai medesimi fini, assetti più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale – così come era stato previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dall’originario schema governativo di decreto legislativo – risulterebbero particolarmente appropriati.