Con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da un Istituto scolastico, confermando la natura discriminatoria per orientamento sessuale, individuale e collettiva, della condotta posta in essere dallo stesso Istituto ricorrente in ordine alla selezione per l’assunzione degli insegnanti. Più specificamente, la medesima Suprema Autorità Giudicante condanna definitivamente l’Ente scolastico a risarcire al docente il danno – individuale – patrimoniale e morale e alle associazioni controcorrenti il danno c.d. collettivo.
Il Collegio sviluppa la presente pronuncia soffermandosi particolarmente sulla natura di giudizio a critica vincolata propria del giudizio di cassazione e sui profili probatori, sconfinanti in valutazioni sul fatto, non sindacabili in sede di legittimità.
Sul primo versante, in particolare, la Corte censura il difetto di precisione e di specificità da parte dell’Istituto ricorrente nell’indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, assunte dallo stesso in contrasto con il d.lgs. n. 216 del 2003 nonché con la l. n. 121 del 1985, anche in relazione agli articoli 3 e 33 della Costituzione. Di qui, la Corte critica la parte ricorrente che, con il terzo motivo, «invoca disposizioni, anche costituzionali, a fondamento della libertà di organizzazione dell’Istituto religioso, ma non spiega adeguatamente come questa libertà possa legittimare condotte apertamente discriminatorie come quelle ritenute ed accertate dai giudici trentini».
Sul secondo versante, il Collegio chiarisce come alcune doglianze si sostanzino in un accertamento di fatto riservato all’esclusiva competenza del giudice di merito; e così, in particolare:
- l’accertamento della volontà negoziale, riguardante anche l’interpretazione dello statuto di un’associazione, rispetto alla quale le valutazioni del giudice di merito «soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (ex plurimis, n. 21576 del 2019; Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003)» e
- la determinazione equitativa di un importo a titolo di risarcimento, nel caso di specie ex 28, d.lgs. 150/2011.
In merito a tale ultimo profilo, la Corte, dopo aver ribadito la ristorabilità della lesione di valori costituzionalmente garantiti, dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali della persona, sostiene che «come affermato anche dalla Corte di Giustizia, Grande Sezione, nella sentenza 23 aprile 2020, causa C-507/18, l’art. 9 par. 2 della direttiva 2000/78 non osta a che uno Stato membro, nella propria normativa nazionale, riconosca alle associazioni aventi un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva stessa senza agire in nome di una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa identificabile (sentenza del 25 aprile 2013, Asociatia Accept, C-81/12, EU:C:2013:275, punto 37) e qualora uno Stato membro operi una scelta siffatta, è tenuto a precisare la portata di tale azione, in particolare le sanzioni irrogabili all’esito di quest’ultima, tenendo presente che tali sanzioni devono, a norma dell’art. 17 della direttiva 2000/78, essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non vi sia alcuna persona lesa identificabile (pagg. 15-16, CGUE 23 aprile 2020, cit.)». Pertanto, la lesione degli interessi rappresentati dalle associazioni, quali enti esponenziali di interessi collettivi, è risarcibile, considerato altresì il vigente ordinamento della responsabilità civile «al quale “non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile” (Cass. SS.UU. n. 16601 del 2017)».
Cassazione civile, sez. lav., ordinanza n. 31071/2021