Cassazione penale, II, n. 47306, ud. Dep. 30.12.2021
Pretendere una somma di denaro che non trovi corrispondenza in un reale credito vantato determina la sussistenza del reato di estorsione. Così la recentissima sentenza della Corte di Cassazione ribadisce quello che è il confine tra il reato di cui all’art. 629 c.p. e quello di cui all’art. 393 c.p., non sempre ritenuto pacifico, soprattutto nell’analisi della materialità della condotta che è oggetto di analisi giuridica.
La massima, che segue le orme della, sempre, recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la n. 29541 del 16/07/2020, rappresenta come le due fattispecie si distinguano per la sussistenza di due elementi psicologici, e dunque per la diversità dell’elemento subiettivo.
Qualora si tratti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si è in una situazione psicologica nella quale il soggetto è oggettivamente e concretamente consapevole che quello che va a reclamare è un diritto che gli spetta e, in quanto, tale sarebbe tutelabile ed esigibile attraverso i mezzi ordinari, leciti, forniti dal sistema giudiziario.
L’elemento psicologico è strutturato sulla base del fatto che l’agente persegua il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria.
Per quanto concerne il reato di estorsione, invece, l’agente agisce col fine di ottenere un profitto, pur nella consapevolezza di non averne diritto (Cass. Pen. 12 giugno 2021, n. 22935; Cass. Pen., 4 marzo 2010, n. 12329).
Se la materialità della condotta può essere simile, anche se non sovrapponibile, la configurabilità del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in luogo di quello di estorsione, dipende dal concreto atteggiarsi della volontà dell’agente, richiedendosi per la sua sussistenza che questi sia soggettivamente – anche se erroneamente – convinto dell’esistenza del proprio diritto e che lo stesso risulti giuridicamente azionabile.
Ciò che la Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha voluto specificare, sottolineando un dato dirimente per evitare la sovrapponibilità delle due fattispecie, è proprio che, da un punto di vista subiettivo, il soggetto agente del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni agisca per ottenere un bene che, parallelamente, troverebbe tutela giuridica da parte dell’ordinamento proprio perché sarebbe già quest’ultimo a ritenerlo meritevole di tutela.
Non deve necessariamente intendersi che la tutela, dunque, sia ampia proprio perché, come precisato, si intende parallela e non simultanea; ciò significa che il soggetto agente, pur sapendo che la tutela del suo bene potrebbe essere esercitata ed ottenuta attraverso altro mezzo, lecito, che l’ordinamento gli riconosce, sceglie la strada parallela, illecita “di farsi giustizia da sé”.
L’elemento subiettivo del soggetto è animato dalla consapevolezza di sostituire lo strumento pubblico lecito con quello privato illecito per un diritto che gli spetta e che gli verrebbe riconosciuto come tale e dunque tutelato dall’ordinamento.
In fatto
La precisazione, fin qui esposta, fatta dalla Corte, sull’elemento scriminante i due reati, nasce dal fatto che nel processo, in esame, per reato di tentata estorsione aggravata in concorso, uno degli imputati proponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia di secondo grado adducendo quale motivazione la violazione di legge ed il vizio di motivazione circa la valutazione della prova relativa all’elemento soggettivo del reato (in particolare, non sarebbe stato dimostrato, in termini univoci, il tentativo di estorcere denaro, in concorso con C.L. , alla titolare di un bar/tabacchi, con l’aggravante delle più persone riunite), posto che l’unico episodio accertato si riferiva alla consegna di un biglietto, con la richiesta di una somma di denaro per conto del C., nella convinzione del diritto di costui a riscuoterla, senza formulare alcuna minaccia, con la conseguenza che doveva trovare applicazione nel caso di specie l’errore di fatto disciplinato dall’art. 47 c.p.
La Corte, però precisa che nel caso in esame, come ben evidenziato dalla corte di merito, non c’è corrispondenza tra il credito vantato (di 400 o 500 Euro) e la somma oggetto dell’imposizione (di 1.500 Euro), avendo i complici agito per ottenere un importo che non avrebbe potuto essere oggetto di una domanda giudiziale, senza alcun errore percettivo da parte del ricorrente, consapevole della pretesa estorsiva del C. , supportata anche dal correo rimasto ignoto.