In tema di momento consumativo del reato, il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater d.lgs.74 del 2000 si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale.
In materia di concorso dell’extraneus nel reato proprio, è configurabile la responsabilità concorsuale tra il consulente fiscale ed il contribuente per il reato di cui all’art. 10-quater d.lgs.74 del 2000 , soprattutto nel caso di violazioni tributarie seriali e ripetitive.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con sentenza del 19 febbraio 2021, la Corte d’appello di Milano, decidendo il gravame proposto da O.M.G., ha confermato la sentenza con cui la stessa, all’esito del giudizio abbreviato, era stata condannata alle pene di legge in ordine al reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 quater, commesso in qualità di consulente fiscale professionista, per aver concorso con il marito, legale rappresentante di una società, nell’indebita compensazione di crediti inesistenti e nel conseguente omesso versamento dell’IVA dovuta dalla stessa società per l’anno 2015. 2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputata ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, con il primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione per essere stato ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del contestato reato, sub specie di dolo eventuale, e, comunque, la sua compartecipazione criminosa pur essendo stato provato che era stato il marito a compilare e trasmettere il mod. F24 con cui era stata operata la contestata compensazione e senza altrimenti specificare quale fosse stato il suo contributo causale. Avendo ella delegato al marito la gestione di alcune pratiche del proprio studio professionale, tra cui quella in questione, a causa di una grave malattia che in quel periodo l’affliggeva, all’imputata poteva al più essere mosso un addebito di carattere colposo. Del resto, contraddittoriamente, già in primo grado ella era stata assolta dal reato di cui al D.Lgs.474 del 2000, art. 4, pure contestatole in concorso con il marito, con riferimento all’infedele dichiarazione ai fini IVA della stessa società, proprio in ragione della ritenuta assenza dell’elemento soggettivo. Inconferente, inoltre, era il riferimento fatto in sentenza al rilascio del visto di conformità, posto che il medesimo era stato apposto con le stesse credenziali dell’imputata utilizzate dal marito. 3. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 533 c.p.p., e il difetto di motivazione per non essere stato escluso il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputata. 4. Con il terzo motivo si lamentano violazione dell’art. 62 bis c.p., e vizio di motivazione per non essere state riconosciute le circostanze attenuanti generiche sull’illogica affermazione di un contributo decisivo e connotato da piena condivisione d’intenti con il marito nell’azione criminosa. 5. Il ricorso è inammissibile perchè manifestamente infondato e generico, posto che, in primo luogo, ci si limita a reiterare le medesime doglianze contenute nel gravame di merito, non illogicamente disattese dalla Corte territoriale – come già dalla conforme sentenza di primo grado – senza che la ricorrente si confronti con le argomentazioni spese dai giudici di merito (cfr. Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 2594254; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838). In secondo luogo, si ripropongono inammissibilmente a questa Corte doglianze attinenti alla ricostruzione e valutazione del fatto e delle prove (cfr. Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507; Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362). 5.1. In diritto, premesso che il delitto di indebita compensazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater, si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale (Sez. 3, n. 23027 del 23/06/2020, Mangieri, Rv. 279755; Sez. 3, n. 4958 del 11/10/2018, dep. 2019, Cappello, Rv. 274854), è certamente configurabile la responsabilità concorsuale tra il consulente fiscale ed il contribuente, soprattutto nel caso di violazioni tributarie seriali e ripetitive (Sez. 3, n. 1999 del 14/11/2017, dep. 2018, Addonizio, Rv. 272713). 5.2. Nel caso di specie, la sentenza impugnata (pagg. 5-7) ha individuato numerosi indizi – gravi, precisi e concordanti – che univocamente deponevano per il consapevole concorso dell’imputata nel reato pur commesso anche dal marito: con molti di tali elementi la ricorrente non si confronta, donde la genericità dell’impugnazione sul punto, ed in relazione agli stessi ella sottopone a questa Corte una non consentita rivalutazione e ricostruzione del fatto. Diversamente da quanto allegato in ricorso – che sul punto richiama la valutazione del primo giudice – a ben vedere la decisione impugnata ha ritenuto dimostrato non già un dolo soltanto eventuale, ma un dolo diretto dell’imputata, non illogicamente argomentato in base alla sistematica creazione di crediti IVA fittizi con successivo utilizzo degli stessi in compensazione per più periodi d’imposta, anche ulteriori all’unico qui fatto oggetto di contestazione, alla totale inattendibilità della documentazione contabile tenuta dallo studio dell’imputata, al diretto e personale coinvolgimento della stessa nella gestione della società beneficiaria delle illecite compensazioni, di cui ella assunse il ruolo di legale rappresentante in data 10 gennaio 2017. Il rilievo che questa valutazione si porrebbe in contraddizione con l’assoluzione dal reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, intervenuta in primo grado non coglie nel segno, posto che di quel delitto la sentenza impugnata non si è occupata – non dovendolo nè potendolo fare – in assenza d’impugnazione del pubblico ministero sul punto. 5.3. La univocità e pluralità degli elementi indiziari a carico ha, dunque/ consentito alla Corte territoriale di ritenere certamente superato il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputata e la conclusione, siccome congruamente argomentata, si sottrae a censure in questa sede di legittimità. Ed invero, la modifica dell’art. 533 c.p.p., operata con L. n. 46 del 2006 non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza e non può essere invocata per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che – come nella specie accaduto – tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell’appello, giacchè la Corte è chiamata ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito (Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Cammarata e a., Rv. 270519; Sez. 1, n. 53512 del 11/07/2014, Gurgone, Rv. 261600). 5.4. Per le medesime ragioni non è illogica l’articolata argomentazione, criticata dalla ricorrente, con cui la sentenza impugnata (pag. 8) ha ritenuto l’imputata non meritevole delle circostanze attenuanti generiche. Trattasi, del resto, di giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899). 6. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza della Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
Cassazione penale, sez. III, sentenza 6 dicembre 2021, n. 44939