Massima
Gemmato dalla locazione di opere, l’appalto emerge come un contratto tipico autonomo nel quale rischio e responsabilità dell’appaltatore fanno il paio con poteri privati tutt’affatto peculiari del committente, che tuttavia assume una peculiare posizione di garanzia nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore; il tutto in un contesto generale in cui la disciplina dell’appalto che vede committente una Pubblica Amministrazione tende a modellarsi in modo disomogeneo rispetto alla contermine figura dell’appalto a committente privato.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Nella codificazione liberale del 1865 l’appalto non figura come contratto sganciato dalla locazione, della quale costituisce piuttosto ancora una species, quale locazione di opera. Più in particolare, secondo l’art.1627 si distinguono 3 diverse locazioni di opere, quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio (riconducibile al moderno lavoro subordinato e al contratto d’opera); quella dei vetturini per terra o per acqua che si incaricano del trasporto delle persone e delle cose (riconducibile al moderno contratto di trasporto); infine, quella degli imprenditori di opera ad appalto o a cottimo (riconducibile appunto all’odierno contratto di appalto, ancorché limitato alle sole opere e con esclusione dei servizi). Quest’ultima figura trova poi una più compiuta disciplina ai successivi articoli 1634 e seguenti; di particolare importanza l’art.1639 onde, se nel corso di 10 anni dal giorno in cui fu compiuta la fabbricazione di un edificio o di altra opera notabile (che dunque viene affiancata all’edificio di nuova costruzione) l’una o l’altra rovina in tutto o in parte, o presenta evidente pericolo di rovinare per difetto di costruzione o per vizio del suolo, l’architetto e l’imprenditore ne sono responsabili.
Il 20 marzo viene varata la legge n.2248, il cui allegato F disciplina le c.d. opere pubbliche e dunque in particolare il rapporto tra PA appaltante ed appaltatore privato.
1923
Il 18 novembre viene varato il R.D. n.2440, c.d. legge di contabilità dello Stato, che individua quali forme di scelta del contraente l’asta pubblica, la licitazione privata, la trattativa privata, l’appalto-concorso. Si tratta di norme orientate a garantire all’Amministrazione la selezione del miglior interlocutore privato, nell’ottica del perseguimento dell’interesse pubblico.
1924
Il 23 maggio viene varato il R.D. n.827 che disciplina le varie forme di scelta del contraente privato, ovvero l’asta pubblica, la licitazione privata, la trattativa privata, l’appalto-concorso
1942
Il codice civile (21 aprile), disciplina l’appalto agli articoli 1655 e seguenti, configurandolo come contratto tipico. Il successivo articolo 2222 prevede invece il contratto d’opera, onde quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme del pertinente capo codicistico, salvo tuttavia che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV, con ovvio riferimento proprio all’appalto rispetto al quale il contratto d’opera finisce dunque con il configurarsi in via meramente sussidiaria. L’art.2094 disciplina poi il prestatore di lavoro subordinato, definendo tale chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Importante anche un riferimento all’art.936 c.c. in tema di accessione, che disciplina l’ipotesi in cui siano realizzate costruzioni sul fondo altrui; a all’art.2053 c.c. alla cui stregua il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione.
1948
La Costituzione prevede all’art.41, comma 1, la libertà della iniziativa economica privata (entro i limiti del successivo comma 2) e, con essa, la garanzia dell’autonomia negoziale, che si sostanzia nella libertà riconosciuta alle parti, nel perseguimento dei rispettivi interessi, di stipulare contratti, massime se tipici, come appunto nel caso dell’appalto. Quando una delle parti è la PA occorre nondimeno, nella scelta dell’interlocutore privato, il rispetto dei canoni del buon andamento e della imparzialità ex art.97 Cost., che si traducono nella necessità della gara pubblica vista originariamente come strumento capace di garantire all’Amministrazione la scelta del miglior contraente nell’ottica del perseguimento dell’interesse pubblico.
1955
Il 18 maggio esce la sentenza della Cassazione n.1466 che assume nullo il subappalto che non sia stato previamente autorizzato dal committente: si tratta di una nullità relativa, non rilevabile d’ufficio e che può essere fatta valere dal solo committente.
Il 15 giugno esce la sentenza della Cassazione n.1826 che assume legittimati attivi ad esperire l’azione diretta nei confronti dell’appaltatore – di cui all’art.1676 c.c. – i soli dipendenti dell’appaltatore, e non anche i subappaltatori.
1960
Il 3 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 2281 che si occupa dell’art.1673 c.c. laddove disciplina il perimento o deterioramento della “cosa” oggetto dell’appalto – norma che come è ovvio attiene all’appalto di opera – assumendola non applicabile al diverso appalto di servizi, salva l’estensione applicativa della norma medesima laddove i servizi appaltati portino come risultato – giusta trasformazione o modificazione della materia – ad una res nuova.
Il 23 ottobre viene varata la legge n.1369 che reca divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e di servizi, secondo il cui articolo 1 è vietato all’imprenditore affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono; viene altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari. Viene poi considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dal committente, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso al committente medesimo. Importante in particolare l’art.3 della legge, onde gli imprenditori (committenti) che appaltano opere o servizi, compresi i lavori di facchinaggio, di pulizia e di manutenzione ordinaria degli impianti, da eseguirsi nell’interno delle aziende con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore, sono tenuti in solido con quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiore a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti.
1966
Il 2 settembre esce la sentenza della Cassazione n.2307 che, occupandosi dell’art.1669 c.c., assume la responsabilità per rovina di edificio di natura aquiliana, e dunque extracontrattuale. E’ ben vero che la disposizione è inserita tra le norme sui singoli contratti tipici, ma è parimenti vero che con essa – per la Corte – il legislatore ha inteso sanzionare la violazione di norme primarie di rilievo pubblicistico finalizzate a garantire la sicurezza dell’attività di costruzione, sicché la pertinente disciplina deve intendersi trascendere la materia contrattuale tra committente ed appaltatore. Una spia della natura aquiliana (e non contrattuale) della responsabilità ex art.1669 c.c. viene poi rinvenuta nella legittimazione attiva che la norma riconosce agli aventi causa del committente – in una con il committente medesimo – soggetti che sono in realtà terzi rispetto al contratto di appalto, con palmare deroga all’art.1372 c.c.: una circostanza idonea a far assumere legittimato qualunque terzo che pretenda di essere danneggiato dalla rovina, ovvero dal pericolo di rovina ovvero ancora dai gravi difetti di costruzione.
1967
Il 21 ottobre esce la sentenza della Cassazione n.2569 secondo la quale la verifica dell’opera appaltata, da parte del committente, costituisce una operazione di ispezione e di accertamento dell’opera medesima che il committente può eseguire direttamente o tramite un proprio incaricato, ad esclusione tuttavia del direttore dei lavori, dovendo quest’ultimo assumersi quale soggetto direttamente responsabile della conformità dell’opera alle prescrizioni contrattuali.
1969
*Il 28 ottobre esce la sentenza della Cassazione n.3550 che, occupandosi dell’art.1669 c.c., assume la responsabilità per rovina di edificio di natura aquiliana, e dunque extracontrattuale. E’ ben vero che la disposizione è inserita tra le norme sui singoli contratti tipici, ma è parimenti vero che con essa – per la Corte – il legislatore ha inteso sanzionare la violazione di norme primarie di rilievo pubblicistico finalizzate a garantire la sicurezza dell’attività di costruzione, sicché la pertinente disciplina deve intendersi trascendere la materia contrattuale tra committente ed appaltatore. Una spia della natura aquiliana (e non contrattuale) della responsabilità ex art.1669 c.c. viene poi rinvenuta nella legittimazione attiva che la norma riconosce agli aventi causa del committente – in una con il committente medesimo – soggetti che sono in realtà terzi rispetto al contratto di appalto, con palmare deroga all’art.1372 c.c.: una circostanza idonea a far assumere legittimato qualunque terzo che pretenda di essere danneggiato dalla rovina, ovvero dal pericolo di rovina ovvero ancora dai gravi difetti di costruzione.
1975
Il 18 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2429 alla cui stregua il subappalto è da assumersi quale contratto derivato (o subcontratto) in quanto con esso l’appaltatore incarica un terzo (subappaltatore) di eseguire, in tutto o in parte, l’ opera o il servizio che egli ha assunto di eseguire; quale contratto derivato, si applica dunque in genere al subappalto la stessa disciplina del contratto base, non diversamente da quanto avviene negli altri subcontratti (subcomodato, sublocazione), escluse le disposizioni eccezionali o che concedono particolari benefici.
1977
Il 6 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2326, che afferma come l’appalto si configuri come contratto non aleatorio, circostanza dimostrata anche dall’art.1664 c.c. che, nel disciplinare la revisione dei prezzi e l’equo compenso per le difficoltà sopraggiunte in corso di esecuzione dell’opera, palesa appunto come eventuali imprevisti, lungi dal rimanere addossati all’appaltatore, implicano una modifica del relativo compenso. Per la Corte peraltro, anche quando tale norma venga derogata dalle parti (come pure è possibile), non per questo l’appalto diviene contratto aleatorio, essendosi al cospetto di un mero allargamento del rischio concordato tra le parti medesime, e rimanendosi pur sempre – dunque – nell’alveo della c.d. alea normale del contratto di appalto.
1979
Il 5 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1364, che si occupa della fattispecie di cui all’art.1660 c.c., vale a dire dell’ipotesi in cui nel corso dell’esecuzione dell’appalto si rendano necessarie delle varianti al fine di consentire l’esecuzione a regola d’arte: essendo variazioni necessarie, e non facoltative, da apportarsi al progetto dell’appalto, si è per la Corte al cospetto di una ipotesi di impossibilità parziale dell’oggetto dell’appalto medesimo. La Corte prosegue evidenziando come il legislatore – dinanzi alla impossibilità dell’oggetto dell’appalto, siccome diversamente atteggiantesi – ha attribuito variegata efficacia alle diverse ipotesi di impossibilità ridetta, in quanto laddove tale impossibilità sia assoluta (art.1672) è ormai impossibile conseguire il risultato divisato, mentre ove detta impossibilità sia solo parziale, si prevede appunto la possibilità che l’appalto trovi comunque esecuzione, giusta introduzione delle necessarie varianti che le parti possono anche avere predeterminato; peraltro, per la Corte l’impossibilità parziale dell’oggetto del contratto non deve necessariamente affiorare nel corso dell’esecuzione dell’appalto, potendo anche configurarsi come impossibilità parziale originaria, potendo anche in tal caso le parti derogare alla disciplina generale prevedendo un mutamento parziale dell’oggetto del contratto al fine di renderlo possibile anche laddove si riscontri ex post una impossibilità per l’appunto originaria di realizzazione del divisato progetto.
1981
Il 14 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4606 che si occupa del riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore (circostanza che esclude la necessità della denuncia da parte del committente non accettante ex art.1667 c.c.): tale riconoscimento può per la Corte avvenire anche per facta concludentia, e dunque in modo implicito.
1982
Il 4 maggio esce la sentenza della Cassazione n.2757 che assume il subappalto autorizzabile dal committente anche in modo non espresso, e dunque tacito o per facta concludentia.
1983
Il 5 febbraio esce la sentenza della Cassazione n.962 che si occupa del caso in cui l’opera appaltata presenti vizi o difformità apparenti (non occulti): in questa fattispecie la responsabilità dell’appaltatore ex art.1667 c.c. scatta senza che ci sia bisogno di denuncia tempestiva (nei 60 giorni) da parte del committente, purché questi tuttavia non accetti l’opera.
Il 7 febbraio esce la sentenza della Cassazione n.1016: la Corte si occupa della garanzia per i vizi e le difformità dell’opera sul crinale della relativa collocazione sistematica, rappresentando come l’art.1667 c.c. compendi una applicazione speciale della più generale responsabilità da inadempimento del contratto, non essendosi dunque al cospetto di una garanzia tecnicamente intesa, quale obbligazione distinta e sganciata dall’obbligo principale che ha ad oggetto l’esecuzione dell’opera.
Il 23 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5237 che, in tema di recesso ad nutum del committente ex art.1671 c.c., assume la relativa esercitabilità in qualunque momento posteriore alla conclusione del contratto. Tuttavia la Corte precisa che il committente non può più recedere dal contratto quando ne sia stata chiesta la risoluzione.
1984
Il 26 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2626 onde, laddove ci si trovi al cospetto di un negozio che presenti elementi promiscui, in parte riconducibili alla vendita ed in parte all’appalto, il pertinente contratto va assoggettato alla disciplina o della vendita o, alternativamente, dell’appalto, secondo il criterio della prevalenza.
1987
Il 31 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3092 che si occupa del c.d. appalto a regia, ovvero del caso in cui l’appaltatore risulta del tutto privo dell’imprescindibile requisito dell’autonomia nel compimento dell’opera o del servizio: in queste ipotesi il potere di direzione del committente è così pervasivo e penetrante da far assumere l’appaltatore un nudus minister del committente, il quale ultimo – che si assume il rischio – è il solo responsabile anche nel caso di danni prodotti a terzi.
Il 10 luglio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.6058, che si occupa di differenziare il contratto di appalto dal contratto di lavoro subordinato, onde nell’appalto oggetto del contratto è un risultato che l’appaltatore si obbliga a garantire al committente con organizzazione dei mezzi all’uopo necessari e con gestione a proprio rischio, mentre nel lavoro subordinato quello che viene messo a disposizione della controparte sono energie lavorative, e dunque la prestazione di una attività di lavoro che viene svolta non già in autonomia, quanto piuttosto alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, cui il prestatore di lavoro è gerarchicamente assoggettato; dacché si evince che il lavoratore è “subordinato” rispetto al datore di lavoro, mentre l’appaltatore è autonomo rispetto al committente, che può spiegare nei relativi confronti solo un generico potere di vigilanza.
Il 27 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.6489 che si occupa dei vizi e delle difformità dell’opera ex art.1667 cc.: occorre guardare al momento in cui il committente accetta l’opera, distinguendo l’ipotesi dei vizi apparenti (conosciuti o riconoscibili), circostanza nella quale l’accettazione medesima, operata senza riserve, impedisce il sorgere della responsabilità dell’appaltatore; dall’ipotesi in cui i vizi sono occulti, nel qual caso la responsabilità dell’appaltatore permane. Peraltro, anche nel caso di vizi riconoscibili (e dunque potenzialmente apparenti, quantunque non conosciuti dal committente), la responsabilità dell’appaltatore non è esclusa laddove essi siano stati taciuti in mala fede (e dunque con dolo) dall’appaltatore medesimo.
1989
Il 31 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.593 che ritiene essenziale, al fine di ricondurre un contratto al tipo codicistico dell’appalto, l’autonomia dell’appaltatore rispetto al committente, che dunque non può ingerirsi sul come l’appaltatore esegue la propria prestazione (peraltro assumendosene il rischio).
1990
Il 12 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5690 alla cui stregua il subappaltatore rispetto all’appaltatore sub-committente (come quest’ultimo rispetto al committente) gode di autonomia nella organizzazione dei mezzi necessari a compiere l’opera o il servizio demandatogli, ed è tenuto a segnalare eventuali inesattezze presenti nel progetto o nelle direttive che gli vengono impartite, in base alle regole dell’arte; deve poi, sotto il connesso profilo del rischio, porre in essere tutte le cautele necessarie ad evitare gli infortuni dei propri dipendenti, non potendo pretendere di essere tenuto indenne dall’appaltatore, escluso il solo caso in cui il subappaltatore si atteggi a nudus minister rispetto all’appaltatore, essendo privo di autonomia organizzativa ed atteggiandosi a mero esecutore di ordini.
Il 29 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8949 che si sofferma sulla natura non aleatoria del contratto di appalto, dal momento che il rischio che l’appaltatore si assume ex art.1655 c.c. si compendia nell’alea normale (cfr. art.1467 c.c.) del contratto di appalto medesimo. Nondimeno, per la Corte il contratto può divenire aleatorio (con tutti gli effetti che ne discendono, come nel caso della non risolubilità per eccessiva onerosità sopravvenuta) laddove le parti abbiamo voluto introdurre nel contratto un coefficiente di assoluta incertezza nel rischio cui esse sono esposte, avendo esse voluto assumersi l’alea di qualsivoglia evento, anche il più anomalo.
Il 20 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9613, che si occupa della fattispecie di cui all’art.1668 c.c., e dunque della garanzia riservata al committente per i vizi o le difformità dell’opera appaltata, con particolare riguardo all’azione di risoluzione del contratto, che può essere richiesta solo se i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inidonea alla relativa destinazione d’uso (comma 2): per la Corte, quello dell’appaltatore è inadempimento più grave – a fini risolutivi – rispetto a quello del venditore nella compravendita, giacché l’art.1490 c.c. richiede all’uopo che si sia al cospetto di vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa venduta; in entrambi i casi si tratta peraltro di una specificazione di quanto previsto in via generale all’art.1455 c.c., secondo il quale ai fini della risoluzione del contratto l’inadempimento del debitore non deve essere di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse del creditore contro-adempiente.
1991
Il 24 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5935 che si occupa delle possibili varianti al progetto di esecuzione dell’opera appaltata originario: quando si tratta di c.d. lavori extracontrattuali, e dunque quando le modifiche aggiuntive all’originario progetto sono di natura e consistenza tali da stravolgerlo, si configura in realtà un nuovo contratto di appalto del tutto indipendente da quello originario. In questa fattispecie non trova applicazione l’art.1659, comma 2, c.c., onde l’autorizzazione del committente ad attuare le proposte di modifica dell’appaltatore, non rimanendo nell’ambito del contratto originario ma avendo appunto ad oggetto lavori extracontrattuali, non va provata per iscritto ex art.1659 c.c., ma può essere provata con ogni mezzo, anche di natura presuntiva, configurando l’accettazione di un nuovo ed indipendente contratto di appalto.
1992
Il 13 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3050 che si sofferma ancora una volta sull’autonomia dell’appaltatore rispetto al committente, definendolo dominus nell’organizzare e nel regolare lo svolgimento del lavoro funzionale al compimento dell’opera o del servizio, nell’ambito delle finalità previste dal contratto ed al precipuo fine di conseguirle.
1993
Il 4 marzo esce una importante sentenza della II sezione della Cassazione n. 2653 che si pronuncia sul potere di intimazione del committente all’appaltatore in sede di verifiche in corso d’opera, ex art.1662, comma 2, c.c.; si tratta per la Corte di un rimedio risolutorio particolare in quanto deroga alla risoluzione per inadempimento ex art.1453 c.c., riferendosi ad una obbligazione ancora in corso di attuazione, e dunque al di fuori di un già perpetrato inadempimento; peraltro, si tratta di una risoluzione che differisce anche da quella prevista dall’art.1668, comma 2, c.c. per l’ipotesi di inadempimento finale, in quanto nel caso dell’art.1662, comma 2, c.c. (risoluzione in corso d’opera), il rimedio risolutorio scatta anche laddove l’opera oggetto di verifiche da parte del committente, nella porzione già realizzata, non risulta del tutto inadatta alla relativa destinazione, e dunque anche quando l’inadempimento dell’appaltatore si presenti ancora solo allo stadio di mero pericolo, sia potenzialmente solo temporaneo e peraltro di scarsa importanza.
Il 27 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9064 che, occupandosi della facoltà riconosciuta al committente di compiere delle verifiche sull’andamento dei lavori nel corso dell’esecuzione dell’appalto (ex art.1662 c.c.) esclude in ogni caso che tali verifiche in corso d’opera ne elidano la legittimazione a sollevare eventuali obiezioni in sede di verifica finale dell’opera appaltata e di relativa accettazione o non accettazione.
Il 14 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.12304 alla cui stregua, in tema di responsabilità ex art.1669 c.c., il soggetto responsabile e legittimato passivo della relativa azione può essere tanto l’appaltatore quanto altre figure come il progettista, il direttore dei lavori ovvero lo stesso committente.
1994
L’11 febbraio viene varata la legge n.109, legge quadro in materia di lavori pubblici, il cui articolo 1, comma 1, dichiara significativamente che in attuazione dell’articolo 97 della Costituzione l’attività amministrativa in materia di opere e lavori pubblici deve garantirne la qualità ed uniformarsi a criteri di efficienza e di efficacia, secondo procedure improntate a tempestività, trasparenza e correttezza, nel rispetto del diritto comunitario e della libera concorrenza tra gli operatori. In sostanza, la scelta del contraente inizia ad essere ispirata più dall’esigenza di garantire la concorrenza tra gli operatori privati, sotto l’egida del diritto sovranazionale, che dalla tradizionale esigenza di garantire il miglior perseguimento dell’interesse pubblico attraverso la selezione dell’interlocutore privato più vantaggioso per la PA.
*Il 7 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7514 alla cui stregua, in tema di responsabilità ex art.1669 c.c., il soggetto responsabile e legittimato passivo della relativa azione può essere tanto l’appaltatore quanto altre figure come il progettista, il direttore dei lavori ovvero lo stesso committente.
Il 5 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7649 che si occupa del potere di recesso del committente ex art.1671 c.c., rappresentando come, una volta comunicata all’appaltatore la volontà di recedere, non sia più possibile chiedere la risoluzione del contratto.
Il 3 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9060 alla cui stregua il contratto di appalto non è un contratto aleatorio, e tuttavia determinati rischi sono esplicitamente regolamentati dal relativo regime giuridico, come nel caso dei possibili aumenti o diminuzioni di prezzo dei materiali o della manodopera; da questo punto di vista, se la norma generale di gestione delle sopravvenienze è l’art.1467 c.c. in tema di eccessiva onerosità sopravvenuta, nell’ambito dell’appalto la relativa particolare applicazione avviene attraverso l’art.1664 c.c.; laddove peraltro l’onerosità sopravvenuta sia riconducibile a cause diverse da quelle previste all’art.1664 c.c., deve assumersi applicabile all’appalto l’art.1467 c.c.. In sostanza, l’appalto è contratto commutativo (e non aleatorio), presenta determinati rischi “normali” normativamente scolpiti che ne fanno un contratto commutativo particolare, e laddove convergano potenzialmente l’art.1467 e l’art.1664 c.c., prevale la norma speciale (1664), mentre al di fuori di questa ipotesi si riespande l’egida precettiva della norma generale (1467).
1995
Il 10 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5099 onde – escluso solo il caso in cui l’appaltatore sia stato un mero nudus minister – egli risponde dei vizi o delle difformità dell’opera ex art.1667 c.c. anche laddove abbia realizzato l’opera stessa su progetto fornitogli dal committente.
1997
Il 27 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.819 che si occupa di distinguere il contratto di appalto dal contratto d’opera (ex art.2222 c.c.): in entrambi è prevista la realizzazione di un’opera ed un certo grado di autonomia di chi la realizza rispetto a chi alfine la riceve, ma vi sono differenze dal punto di vista dell’organizzazione in quanto l’appaltatore è normalmente (anche se non necessariamente, dal punto di vista soggettivo) un imprenditore in senso tecnico, che organizza i mezzi necessari per la realizzazione dell’opera e si assume il rischio di tale gestione, mentre nel contratto d’opera non si ravvisa una organizzazione di tipo imprenditoriale (neppure sul crinale meramente oggettivo, assunto invece imprescindibile nell’appalto), in quanto il prestatore d’opera, per realizzarla, impiega prevalentemente lavoro proprio e dei componenti della propria famiglia.
Il 29 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8254 che considera applicabile anche all’appalto di servizi l’art.1671 c.c. in tema di recesso ad nutum del committente.
Il 29 ottobre esce l’importante sentenza della II sezione della Cassazione n.10652 che ribadisce il collegamento pervasivo tra assunzione del rischio della prestazione ed autonomia dell’appaltatore rispetto al committente, non potendosi applicare ai due l’art.2049 c.c. per non essere configurabile alcun rapporto istitutorio che li avvinca. In sostanza, l’opera viene realizzata dall’appaltatore con propria organizzazione ed apprestandone i mezzi all’uopo, curandone le relative modalità di esecuzione ed obbligandosi a procurare al committente il risultato dovuto (l’opera appunto): la conseguente inapplicabilità dell’art.2049 c.c. implica che se derivano danni a terzi dall’esecuzione dell’opera, unico responsabile resta l’appaltatore, e non già il committente, stante l’assenza proprio di qualsivoglia rapporto istitutorio tra i due. Peraltro il committente può essere chiamato a rispondere ai sensi dell’art.2043 c.c., quale corresponsabile, in caso di specifiche violazioni di regole cautelari, ovvero nell’ipotesi del tutto particolare in cui l’evento dannoso sia riferibile al committente medesimo, che ha affidato il compimento dell’opera a chi palesemente difettava delle necessarie capacità per realizzarla e dei mezzi tecnici indispensabili per eseguire la prestazione senza il pericolo di arrecare danno a terzi (culpa in eligendo del committente).
1998
Il 14 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10141, onde l’erogazione del prezzo dal committente all’appaltatore è oggetto di un diritto dell’appaltatore che sorge non al momento della stipula del contratto, ma solo dopo ed in ragione della relativa esecuzione, secondo il principio della c.d. postnumerazione.
Il 28 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.12106 che, con riferimento all’art.1669 c.c., afferma come – pur non configurandosi a carico del costruttore (appaltatore) una responsabilità oggettiva, né tampoco una presunzione di colpa – grava pur sempre sul medesimo una presunzione iuris tantum di responsabilità che può essere vinta non già attraverso la generica prova di avere usato, nell’esecuzione dell’opera, tutta la diligenza possibile, ma con la positiva e specifica dimostrazione della mancanza di responsabilità attraverso l’allegazione di fatti positivi, precisi e concordanti, ed a prescindere dalle questioni inter partes circa la eventuale nullità del sottostante rapporto negoziale.
1999
Il 29 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5237 alla cui stregua al subappalto – mentre si applica, quale contratto derivato, la disciplina generale del contratto da cui deriva (appalto) – non possono invece assumersi automaticamente estese le clausole pattizie proprie del singolo contratto di appalto cui è collegato, tempi di esecuzione, di consegna e prezzi potendo essere fissati in modo diverso nei rapporti tra appaltatore subcommittente e subappalatore.
Il 23 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12989, che si occupa della c.d. sorpresa geologica di cui all’art.1664, comma 2, c.c.. La Corte muove dal presupposto onde l’intero art.1664 c.c. costituisce specificazione del principio scolpito in via generale all’art.1467 c.c. onde nei contratti a prestazioni corrispettive in cui l’esecuzione sia continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su di sé il rischio degli eventi che alterino il valore economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti rientranti nell’alea normale del contratto: tale “alea normale” va dunque tenuta presente dai contraenti nel momento in cui concludono il contratto stesso e dunque, entro certo limiti, la stessa sorpresa geologica può non essere realmente una “sorpresa” laddove, facendo uso della diligenza media richiesta dall’attività dalle parti medesime esercitata, gli eventi che la compendiano possano assumersi ex ante prevedibili, e come tali rientranti nell’alea normale del concreto appalto che si va a stipulare. La conseguenza è che la “sorpresa geologica” non si applica non solo quando le cause che la compendiano sono previste dalle parti, ma anche quando sono solo prevedibili con la media diligenza richiesta.
Il 17 dicembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.14239 che, inserendosi in un consolidato solco giurisprudenziale, assume i termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art.1667 c.c. con riguardo ai vizi ed alle difformità dell’opera appaltata applicabili alle sole specifiche azioni contrattuali – di tipo “manutentivo” – di cui al successivo art.1668 (eliminazione di difformità o vizi; riduzione proporzionale del prezzo), ma non anche alle azioni contrattuali generali (come la risoluzione del contratto) né tampoco alla connessa azione di risarcimento del danno, pure prevista dall’art.1668 c.c..
2000
Il 5 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1290 che si occupa della fattispecie in cui l’appaltatore realizzi l’opera su progetto non proprio, e dunque di un terzo progettista. In tale ipotesi l’appaltatore risponde in solido con il progettista dei vizi o delle difformità dell’opera ex art.1667 c.c., salvo che abbia denunciato i vizi al committente non appena scoperti.
Il 21 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8445 che si occupa di distinguere l’appalto dalla vendita, laddove in quest’ultima ad un dare del (presunto) venditore si mescoli un facere: in queste ipotesi il punto di riferimento deve essere per la Corte la comune intenzione delle parti e, sulla base di essa, il criterio di prevalenza, onde si ha appalto (e non vendita) quando il lavoro (avente ad oggetto la materia) è lo scopo essenziale del negozio, e la prestazione della materia costituisce semplicemente un mezzo per la produzione dell’opera divisata. Premesso che in entrambi i casi si assiste ad un acquisto della proprietà in capo ad uno dei contraenti (acquirente nella vendita; committente nell’appalto), quando prevale il lavoro avente ad oggetto la materia sulla materia medesima si ha appalto, e non vendita, dovendosi tenere conto per giunta del fatto che – ai sensi dell’art.1658 c.c. – la materia può anche essere fornita dal committente (che, se si trattasse di vendita, sarebbe in questo caso già proprietario della materia che acquista).
Il 27 settembre esce la sentenza della Cassazione, sezione Lavoro, n.12784 che – nello scandagliare l’art.1676 c.c. e l’azione diretta dei dipendenti dell’appaltatore nei confronti del committente ivi prevista – afferma come pur configurandosi una solidarietà passiva tra committente ed appaltatore, il committente non diviene parte del rapporto di lavoro (che resta appannaggio del solo appaltatore), con conseguente inapplicabilità al committente delle norme che disciplinano appunto tale rapporto di lavoro.
Il 6 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.15488 alla cui stregua, con riferimento all’art.1669 c.c., anche se la norma non prevede esplicitamente alcuna presunzione a carico dell’appaltatore a titolo di colpa ovvero di responsabilità , in realtà tale presunzione di responsabilità può in concreto predicarsi dal momento che il crollo o la rovina di un edificio non possono non far derivare appunto, a carico di chi tale edificio ha costruito, una presunzione iuris tantum di responsabilità che l’appaltatore può vincere provando il fatto di terzi o il caso fortuito.
2001
Il 10 marzo esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n.3559 che assume applicabile l’art.1676 c.c., e l’azione diretta dei dipendenti dell’appaltatore verso il committente ivi prevista, anche alla fattispecie in cui committente sia una Pubblica Amministrazione, e dunque anche all’appalto di opere o di servizi pubblici. Per la Corte si è al cospetto non già di un’azione surrogatoria, in cui il dipendente agisce in luogo dell’appaltatore (inerte, quale relativo debitore), ma di un’azione diretta di natura sostitutoria, in cui il dipendente agisce appunto direttamente verso il committente.
Il 28 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4463 onde, in tema di sorpresa geologica ex art.1664, comma 2, c.c., rilevano solo sopravvenienze di tipo “naturale”, e non anche sopravvenienze riconducibili a fatti umani, come dimostra la norma laddove parla di cause “simili” accanto a quella geologica e a quella idrica.
Il 17 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.6777 onde – nel caso in cui il contratto sia nullo per illiceità dell’oggetto, dovendo l’appaltatore realizzare un’opera in difetto delle necessarie concessioni edilizie – quest’ultimo non potrà pretendere dal committente il corrispettivo dovuto né azionando i rimedi contrattuali, né azionando l’art.936 c.c. in tema di accessione, né tampoco avvalendosi dell’azione di indebito arricchimento.
Il 28 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7242 onde l’appaltatore non può assumersi perdere la propria autonomia – massime in ottica di pertinente responsabilità nei confronti dei terzi – per il compimento dell’opera allorché il direttore dei lavori sia un rappresentante del committente, trattandosi di una rappresentanza di natura tecnica.
*Il 10 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.12406 alla cui stregua, in tema di responsabilità ex art.1669 c.c., il soggetto responsabile e legittimato passivo della relativa azione può essere tanto l’appaltatore quanto altre figure come il progettista, il direttore dei lavori ovvero lo stesso committente.
2002
Il 29 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1154 che torna ancora una volta sull’autonomia dell’appaltatore rispetto al committente, rappresentando come tale autonomia possa in qualche caso risultare compressa laddove il committente si riservi contrattualmente un potere di ingerenza nella direzione dei lavori. In questi casi l’autonomia dell’appaltatore, lungi dal venir meno, risulta appunto solo compressa, senza dunque che l’appaltatore possa venir meno all’obbligo di osservare le regole dell’arte.
*Il 27 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 2884 onde – nel caso in cui il contratto sia nullo per illiceità dell’oggetto, dovendo l’appaltatore realizzare un’opera in difetto delle necessarie concessioni edilizie – quest’ultimo non potrà pretendere dal committente il corrispettivo dovuto né azionando i rimedi contrattuali, né azionando l’art.936 c.c. in tema di accessione; potrà tuttavia avvalersi dell’azione di indebito arricchimento.
Il 18 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.10456 che si occupa del caso in cui l’appaltatore riconosca i vizi o le difformità dell’opera realizzata ex art.1667 c.c.: quand’anche egli neghi di doverne rispondere, in questo caso non si configura più l’onere di denuncia in capo al committente.
Il 10 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.13158, che si occupa della responsabilità dell’appaltatore per rovina di edificio ex art.1669 c.c., assumendola di natura aquiliana e fondandola sul presupposto della partecipazione del soggetto responsabile alla costruzione dell’immobile in posizione di autonomia decisoria; si tratta di una responsabilità extracontrattuale (verso terzi) che non coinvolge solo l’appaltatore, come parrebbe dal tenore letterale della norma, ma che si estende anche al progettista, al direttore dei lavori ed allo stesso committente che abbia provveduto alla costruzione dell’immobile con propria gestione diretta, ovvero comunque sorvegliando personalmente l’esecuzione dell’opera, in modo da rendere l’appaltatore un mero esecutore di ordini e dunque nudus minister; muovendo da questo presupposto, per la Corte va esclusa nel caso di specie la responsabilità del fornitore dei materiali occorrenti per la costruzione dell’opera, ed utilizzati a tal fine, la cui prestazione si esaurisce nella consegna dei prodotti richiesti senza che egli partecipi, neppure indirettamente, alla costruzione dell’immobile che poi rovina.
2003
L’8 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.77 alla cui stregua l’indennità prevista a favore dell’appaltatore ai sensi dell’art.1671 c.c. come contraltare al recesso ad nutum del committente deve assumersi debito di valore (e non di valuta).
Il 12 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7260 che si occupa dell’art.1665 c.c. e degli atti che connotano la fase esecutiva finale del contratto di appalto, con particolare riferimento alla c.d. accettazione tacita dell’opera, che non si rinviene espressamente nell’art.1665 c.c. ridetto, e che tuttavia affiora da fatti e comportamenti dai quali deve presumersi l’intervento di tale accettazione; un cenno particolare viene fatto al comma 4 della norma, laddove alla consegna dell’opera da parte dell’appaltatore (immissione nel possesso del committente) segue la “ricezione senza riserve” da parte del committente stesso anche se “non si sia proceduto alla verifica”: tale accettazione senza riserve implica un fatto concludente che per la Corte consente di affermare che si è dinanzi ad una accettazione tacita dell’opera in parola. La Corte distingue peraltro la consegna dell’opera (dall’appaltatore al committente), che è un atto puramente materiale compendiantesi nella messa a disposizione dell’opera a favore del committente, dall’accettazione dell’opera medesima (dal committente all’appaltatore), che esige di necessità che il committente esprima il proprio gradimento dell’opera stessa, se del caso anche per facta concludentia, onde l’accettazione, a differenza della consegna, è un vero e proprio negozio giuridico con effetti ben determinati, come l’esonero dell’appaltatore da ogni responsabilità per i vizi e le difformità dell’opera ed il conseguente diritto al pagamento del prezzo.
Il 30 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8813 che ribadisce come – anche laddove il committente si sia riservato un potere di ingerenza nella direzione dei lavori – l’appaltatore debba comunque seguire le regole dell’arte (pur a fronte della compressa autonomia di cui gode), dovendo segnalare l’eventuale contrarietà delle prescrizioni impartitegli dal committente, per l’appunto, alle regole dell’arte che è tenuto a seguire. In sostanza, l’eventuale ingerenza del committente pur contrattualmente prevista non sottrae l’appaltatore alle sue responsabilità, con possibilità di inadempimento e risarcimento del danno: si tratta delle ipotesi in cui l’appaltatore viene chiamato a realizzare un progetto altrui, ovvero un progetto elaborato dal committente, ed in corso di realizzazione si avveda di vizi imputabili ad errori di progettazione o di direzione dei lavori (da parte del committente medesimo), omettendo di denunziarli formalmente o comunque di denunciare il proprio dissenso; del pari l’appaltatore è da assumersi responsabile pur al cospetto della ingerenza del committente contrattualmente prevista laddove non riconosca vizi che può e deve riconoscere in relazione alla perizia ed alla capacità tecnica da lui esigibili nel caso concreto.
Il 10 settembre interviene il decreto legislativo n.276, recante, attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro ex legge 14 febbraio 2003, n. 30, il cui art.85 abroga l’intera legge 1369.60 sul divieto di appalto (interposizione) di mano d’opera.
Il 27 agosto esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.12546 che si occupa di distinguere l’appalto dalla somministrazione: come per il caso della vendita, è il criterio della prevalenza il canone guida, onde se prevale il lavoro prestato dal contraente, questi è un appaltatore, mentre se prevale l’erogazione periodica e continuativa di beni (con il lavoro in veste meramente strumentale), il contratto è di somministrazione. Si tratta di una distinzione rilevante al fine di applicare la solidarietà prevista dall’art.3 della legge 1369.60 (emolumenti a beneficio dei lavoratori), essendo tale norma applicabile solo all’appalto (quando in luogo di un’opera o di un servizio si appaltano mere prestazioni di lavoro), e non anche alla somministrazione: per la Corte, laddove si sia al cospetto di una prestazione continuativa di servizi, con prevalenza del lavoro prestato, si ha appalto (e dunque è potenzialmente applicabile la legge 1369.60); laddove è il somministrante a produrre le cose somministrate in via continuativa, in fattispecie in cui l’attività di facere è meramente strumentale rispetto alla erogazione continuativa o periodica, è invece somministrazione.
Il 22 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15789 che si occupa in particolare dei danni che – nel corso dell’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto – possono essere cagionati a terzi; oltre alla responsabilità dell’appaltatore, per la Cassazione può configurarsi anche una responsabilità aquiliana in capo al direttore dei lavori, e quest’ultima può concorrere con la responsabilità dell’appaltatore medesimo o del committente.
2004
*Il 6 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15185, alla cui stregua il subappaltatore rispetto all’appaltatore sub-committente (come quest’ultimo rispetto al committente) gode di autonomia nella organizzazione dei mezzi necessari a compiere l’opera o il servizio demandatogli, ed è tenuto a segnalare eventuali inesattezze presenti nel progetto o nelle direttive che gli vengono impartite, in base alle regole dell’arte; deve poi, sotto il connesso profilo del rischio, porre in essere tutte le cautele necessarie ad evitare gli infortuni dei propri dipendenti, non potendo pretendere di essere tenuto indenne dall’appaltatore, escluso il solo caso in cui il subappaltatore si atteggi a nudus minister rispetto all’appaltatore, essendo privo di autonomia organizzativa ed atteggiandosi a mero esecutore di ordini.
Il 16 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.23461 che si occupa del caso in cui l’appaltatore riconosce (al committente non accettante) i vizi e le difformità dell’opera che ha realizzato, assumendo nel contempo l’obbligo di eliminarli: per la Corte in questo caso si è al cospetto di una obbligazione nuova ed autonoma (novazione) rispetto alla originaria obbligazione di garanzia ex art.1667 c.c., non soggetta dunque ai relativi termini di decadenza e di prescrizione.
2006
Il 10 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 5277 che assume applicabile il meccanismo di revisione del prezzo (quale argine alle sopravvenienze) ex art.1664 c.c. anche all’appalto di servizi, e non solo a quello di opere.
Il 6 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8103, che si occupa delle possibili fogge dell’inadempimento dell’appaltatore, e della connessa responsabilità: si applicano le disposizioni generali sull’inadempimento contrattuale nel caso in cui l’appaltatore non abbia eseguito l’opera, o non l’abbia completata, o l’abbia realizzata in ritardo, o si rifiuti di consegnarla. Questo significa che la garanzia per i vizi e le difformità dell’opera ex art.1667 c.c. compendia un inadempimento (speciale) che scatta nel diverso caso in cui l’opera sia stata realizzata per tempo e consegnata, presentando tuttavia tali vizi o tali difformità.
Il 12 aprile viene varato il decreto legislativo n.163, recante codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE. Il relativo art.11, comma 2, provvede a rendere generale l’obbligo della determina a contrarre per tutte le PPAA (anche non locali) che decidano di addivenire alla stipula di un contratto, palesando attraverso la ridetta determina l’interesse pubblico che con il contratto esse intendono perseguire. Importante anche il comma 7 dell’art.11, laddove afferma che l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta del concorrente privato, sortendo il solo effetto negoziale di rendere irrevocabile la proposta fino al termine in essa indicato per la stipula del contratto. L’art.256 abroga la legge n.109 del 1994.
2007
Il 21 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4015 che si occupa di un particolare caso di appalto nullo per illiceità dell’oggetto, ai sensi degli articoli 1346 e 1418 c.c.: si tratta del caso in cui il committente chieda di costruire un immobile privo delle necessarie concessioni amministrative. Si tratta di un contratto che per la Corte ha un oggetto illecito per violazione di norme imperative in materia urbanistica, e dunque di un contratto nullo ab origine e non convalidabile ex art.1423 c.c.; l’ulteriore conseguenza è che l’appaltatore che ha realizzato l’opera in assenza di titolo edilizio non può pretendere il corrispettivo a lui dovuto in forza del contratto nullo, non potendo neppure invocare l’ignoranza in ordine al mancato rilascio al committente del permesso di costruire, che non può assumersi scusabile a cagione della grave colpa del contraente medesimo il quale, con l’ordinaria diligenza, ben avrebbe potuto conoscere la reale situazione contrattuale (appalto avente ad oggetto un opera senza previo titolo edilizio), stante come – per la Corte – gravi anche sul costruttore ai sensi dell’art.6 della legge 47.85 l’obbligo giuridico del rispetto della normativa sulle concessioni edilizie.
Il 22 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 6931 che, con riferimento alle facoltà di verifica in corso d’opera concesse al committente dall’art.1662 c.c., rappresenta come si tratti appunto di mere facoltà non capaci come tali di escludere per il committente medesimo l’attivazione dei rimedi risolutori, ed in particolare dell’azione di risoluzione del contratto per inadempimento.
2008
Il 23 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.1463 che, in tema di garanzia per gravi difetti dell’opera ex art.1669 c.c., afferma che il termine annuale per la relativa denuncia non può assumersi iniziare a decorrere fino a che il committente non abbia conoscenza sicura dei difetti che la generano; tale consapevolezza, per la Corte, non può ritenersi raggiunta sino a quando non si sia manifestata la gravità dei difetti medesimi e non si sia acquisita, in ragione degli effettuati accertamenti tecnici, la piena comprensione del fenomeno e la chiara individuazione ed imputazione delle relative cause, non potendosi onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo.
Il 22 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.10400 che qualifica il recesso del committente ex art.1671 c.c. come recesso ad nutum che non ha bisogno di giustificazioni di sorta.
Il 31 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2313 che si occupa della responsabilità dell’appaltatore ai sensi dell’art.1669 c.c. (rovina di immobile nel decennio dal compimento dell’opera): inserendosi in un orientamento consolidato, la Corte afferma come si sia al cospetto non già di una responsabilità contrattuale, quanto piuttosto di una responsabilità di natura aquiliana, dovendosi assumere tutelati massime gli interessi dei terzi che dalla rovina dell’edificio potrebbero subire un vulnus alla propria incolumità personale.
2009
Il 15 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.19868, che si occupa – in seno all’art.1669 c.c. e della connessa responsabilità dell’appaltatore – distinguendo i gravi difetti dell’opera dalla relativa rovina. I gravi difetti sono sostanzialmente delle alterazioni che, considerata l’opera realizzata nella relativa globalità, ne riducono in modo apprezzabile il godimento o comunque ne pregiudicano la normale utilizzazione, tenuto conto della intrinseca natura dell’opera stessa e la relativa destinazione economica e pratica. La rovina, in tutto o in parte, dell’opera si compendia invece nella disintegrazione degli elementi che ne compongono le strutture necessarie per la relativa stabilità, i quali elementi e le quali strutture cessano di esistere in tutto o in parte.
Il 5 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.21269 che, in tema di garanzia per i vizi e le difformità dell’opera appaltata ai sensi degli articoli 1667 e 1668 c.c., afferma come le azioni spiccabili dal committente ed a tale garanzia avvincibili (eliminazione dei vizi; riduzione del prezzo; risarcimento del danno e risoluzione del contratto) prescindano dalla colpa dell’appaltatore, compendiando dunque una ipotesi di responsabilità oggettiva.
Il 30 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.23075 che muta giurisprudenza in ordine alla valenza applicativa dell’art.1667 c.c. con specifico riguardo ai termini di decadenza e prescrizione ivi previsti per far valere i vizi o le difformità dell’opera appaltata: più in specie, tali termini sono applicabili all’intero contenuto della garanzia del committente enunciata all’art.1668 c.c., e dunque anche all’azione risarcitoria spiccata dal committente per i danni derivanti da difformità o vizi dell’opera; in sostanza, la garanzia del committente trova disciplina – quanto ad azioni esperibili – nell’art.1668 c.c. che enuncia l’azione di eliminazione dei vizi, quella di riduzione proporzionale del prezzo dell’appalto, quella di risoluzione e quella di risarcimento danni: i termini di cui al precedente art.1667 c.c. (denuncia entro 60 giorni dalla scoperta; prescrizione entro 2 anni dalla consegna dell’opera) devono per la Corte assumersi operativi per l’intera garanzia del committente scolpita all’art.1668 c.c., e dunque anche con riguardo all’eventuale azione di risarcimento danni (a tale garanzia connessa), dal momento che il legislatore ha inteso contemperare l’esigenza di tutela del committente a conseguire un’opera immune da vizi o difformità e l’interesse dell’appaltatore ad un accertamento sollecito delle eventuali contestazioni in ordine al relativo, eventuale inadempimento nell’esecuzione della prestazione da lui dovuta.
L’11 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.23093, che in tema di subappalto abbraccia la teoria c.d. della derivazione, onde il subappalto ha natura di contratto derivato (dall’appalto) o di subcontratto, in quanto l’appaltatore conferisce ad un terzo l’incarico di eseguire in tutto o in parte i lavori che si è obbligato ad eseguire verso il committente in forza del contratto principale (appalto): ne consegue che per la Corte la sorte del subappalto deve intendersi condizionata a quella dell’appalto da cui deriva.
2015
Il 2 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.4161, onde laddove il committente esperisca i rimedi riparatori di cui all’art. 1668, comma 1, c.c., egli deve conseguire la medesima utilità economica che avrebbe ottenuto se l’inadempimento della appaltatore non si fosse verificato; deve trattarsi dunque, precisa la Corte, di una utilità puntualmente correlata, nei rigorosi limiti del valore dell’opera o del servizio oggetto del contratto, al quantum necessario per l’eliminazione dei vizi e delle difformità che l’opera o il servizio divisati in contratto abbiano alfine palesato, ovvero al quantum monetario di incidenza degli stessi vizi e difformità sull’ammontare del corrispettivo in danaro pattuito; tali rimedi ex art. 1668, comma 1, c.c. non possono tuttavia mai risolversi – per la Corte – nell’acquisizione da parte del committente di un’utilità economica eccedente i termini anzidetti.
L’8 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.11798 che riafferma come nel contratto di appalto, di regola, l’appaltatore è l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi, operando nell’esecuzione dei lavori appaltati in piena autonomia, con propria organizzazione ed apprestando i mezzi necessari con assunzione del relativo rischio (art. 1655 c.c.); sempre per la Corte, in disparte l’ipotesi peculiare di culpa in eligendo, si ha tuttavia esclusiva responsabilità del committente se questi si sia ingerito nei lavori con direttive vincolanti che abbiano ridotto l’appaltatore a mero “nudus minister”, mentre si configura corresponsabilità del committente qualora tale ingerenza abbia avuto luogo con direttive che riducono soltanto, e non annullano, l’autonomia dell’appaltatore.
2016
Il 18 aprile viene varato il decreto legislativo n.50, recante il nuovo codice dei contratti pubblici e, segnatamente, attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. Viene abrogato il codice precedente n.163.06.
2017
Il 27 marzo esce la sentenza delle SSUU n.7756 che – aderendo, sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica, all’orientamento pretorio meno restrittivo – formula il principio di diritto onde l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, non già solo alle opere di nuova costruzione, ma anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo. Per la Corte dunque anche opere più limitate, aventi ad oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina del manufatto, tanto nella porzione riparata o modificata, quanto in quella diversa e preesistente parte che ne risulti altrimenti coinvolta per ragioni di statica. L’attenzione va tuttavia per la Corte soffermata principalmente sull’ipotesi dei “gravi difetti“, sia perché limitrofa rispetto al regime ordinario degli artt. 1667 e 1668 c.c., sia per il rilievo specifico che tali “gravi difetti” assumono nel caso sottoposto al vaglio della Corte medesima, sia per ragioni di carattere più generale. Già con precedenti pronunce la Corte ha in proposito ritenuto che costituiscono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi ecc.) purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con interventi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 legge n. 457/78 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti“; vengono in proposito richiamati i precedenti di cui alle sentenze n. 1164/95 e 14449/99 nonché, in senso del tutto analogo e con riferimento a carenze costruttive anche di singole unità immobiliari, il precedente n. 8140/ 04, che ha ritenuto costituire grave difetto lo scollamento e la rottura, in misura percentuale notevole rispetto alla superficie rivestita, delle mattonelle del pavimento dei singoli appartamenti; da premesse conformi – ricorda la Corte procedono le pronunce n. 11740/03, 81/00, 456/99, 3301/96 e 1256/95, mentre di un apprezzabile danno alla funzione economica o di una sensibile menomazione della normale possibilità di godimento dell’immobile, in relazione all’utilità cui l’opera è destinata, parlano molteplici sentenze (tra le quali la Corte rammenta le n. 1393/98, 1154/02, 7992/97, 5103/95, 1081/95, 3644/89, 6619/88, 6229/83,2523/81, 1178/80, 839/80, 1472/75 e 1394/69). Esemplificando, prosegue la Corte, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto tutta una serie di gravi difetti quali la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); le opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00); le infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione (n. 84/13, 21351/05, 117/00, 4692/99, 2260/98, 2775/97, 3301/96, 10218/94,13112/92, 9081/92, 9082/91, 2431/ 86, 1427I 84, 6741/ 83, 2858/ 83, 3971/81, 3482/81, 6298/80, 4356/80, 206/79, 2321/77, 1606/76 e 1622/72); la realizzazione di un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (n. 5002/94, 7924/92, 5252/ 86 e 2763/ 84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (n. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); le infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78). Se ne ricava per la Corte, inconfutabile nella relativa oggettività, un preciso dato di fatto: è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova, ovvero lavori su una costruzione preesistente: la circostanza che le singole fattispecie siano derivate o non dall’edificazione primigenia di un fabbricato non muta infatti per la Corte i termini logico-giuridici dell’operazione ermeneutica compiuta in ormai quasi mezzo secolo di giurisprudenza. Questo – prosegue la Corte – non implica di necessità propria che si tratti della prima realizzazione dell’immobile, essendo ben possibile che l’opus oggetto dell’appalto consista e si esaurisca in quegli stessi e soli elementi mano mano evidenziati dalla giurisprudenza a sezioni semplici. Ferma tale angolazione, a fortiori deve ritenersi che ove l’opera appaltata consista in un intervento di più ampio respiro edilizio (come, appunto, una ristrutturazione), quantunque non in una nuova costruzione, l’art. 1669 c.c. sia ugualmente applicabile; considerare anche gli elementi “secondari” significa – innovativamente – distogliere il focus dell’attenzione dell’interprete dal momento “fondativo” dell’opera per direzionarlo sui “gravi difetti” di essa per desumere i quali è stato necessario indagare altro, vale a dire l’aspetto funzionale del prodotto conseguito. La Corte osserva altresì come – su di un piano maggiormente sistematico – la categoria dei gravi difetti tenda a spostare il baricentro ermeneutico dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene da parte del committente e dei suoi aventi causa, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale; inoltre, per la Cassazione va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico (rispetto a quello privato), nonché l’espresso riconoscimento dell’azione ex art.1669 c.c. anche agli aventi causa del committente, i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore (vengono richiamate, fra le tante, le pronunce n. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che per la Corte ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c. (stante l’esclusa legittimazione ad agire per soggetti terzi diversi rispetto a quelli esplicitamente indicati dalla norma e legati al committente). Infine, significativi per la Corte in ottica “contrattualistica” (piuttosto che aquiliana) della responsabilità ex art.1669 c.c. sono i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto e — da ultima, ma non ultima — la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. c.c.). Tutto ciò per la Corte rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per presunto difetto di rilevanza), di sicuro per la Corte ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma.
Il 12 giugno 2017 esce la sentenza della sezione II del Tar Campania n. 3141 in tema competenza ad adottare provvedimenti contingibili e urgenti, riconoscendo il pertinente potere in capo al Sindaco e non al dirigente comunale, preposto invece all’ordinaria amministrazione: è dunque illegittima la determinazione di un dirigente comunale con la quale, in ragione degli inadempimenti posti in essere dalla ditta interessata, è stata disposta la risoluzione del contratto di appalto relativo al servizio di smaltimento rifiuti solidi urbani, nella parte cui dispone contestualmente, nei confronti della medesima ditta, l’obbligo di garantire il regolare svolgimento del servizio fino alla sostituzione con nuovo gestore da individuare con gara pubblica.
Il 5 ottobre esce l’ordinanza della VI -2 sezione della Cassazione n.23297 secondo la quale, in tema di rovina e difetti di cose immobili, il termine ex art. 1669 c.c. per spiccare l’azione non decorre dal momento della semplice percepibilità esterna dei vizi, quanto piuttosto dal momento della redazione della perizia che individua la causa dei vizi percepibili esternamente.
Il 9 ottobre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 23558 onde il recesso ad nutum, non richiedendo particolari motivazioni, può essere esercitato per qualsiasi ragione che induca il committente a porre fine al rapporto; in particolare, occorre ricordare come non esista un diritto dell’appaltatore a proseguire nell’esecuzione dell’opera – potendo egli solo pretendere l’indennizzo previsto dalla legge – e, d’altro canto, e come il compimento dell’opera sia di esclusivo interesse del committente.
Il 17 ottobre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 24486 alla cui stregua la citazione in giudizio dell’appaltatore per i vizi dell’opera appaltata presuppone la conoscenza devi vizi stessi in capo al committente, onde il termine annuale previsto a pena di decadenza per la denuncia di gravi difetti dell’opera appaltata decorre dal giorno in cui il committente medesimo ne abbia avuto conoscenza obiettiva, in termini di gravità degli stessi e di pertinente derivazione eziologica dall’imperfetta esecuzione dell’opera.
Il 27 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 25644 in tema di responsabilità della PA in caso di annullamento dell’aggiudicazione di un appalto da parte di un organo di controllo. Ribadendo un orientamento consolidato, la Corte individua nel caso di specie un caso di responsabilità da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell’art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.. Ne deriva l’applicabilità all’azione di risarcimento dei danni nei confronti della P.A. del termine decennale di prescrizione previsto dall’art. 2946 cod. civ..
Il 9 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 26552 che afferma la responsabilità del progettista e del direttore lavori per i difetti dell’immobile. L’art. 1669 c.c. richiede infatti che nel progettare e realizzare l’opera, gli artefici debbano considerare, secondo la diligenza professionale e le norme tecniche vigenti, tutte le caratteristiche del suolo, desunte dai vari fattori ambientali, geomorfologici e strutturali, che possono incidere sul fabbricato e devono orientarne la progettazione e l’esecuzione.
Il 27 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 28233 che riconosce alla responsabilità ex art. 1669 c.c. una doppia natura a seconda del momento in cui si verifica il danno: nel caso di opera commissionata, ma non portata a termine, troverà applicazione, in via esclusiva, la disciplina dettata dall’art. 1669 c.c., in tema di responsabilità per rovina e difetti d’immobili, che ha natura non contrattuale, dal momento che la fonte delle relative obbligazioni va rinvenuta nella terza specie di fonti, prevista dall’art. 1173 c.c. (ovvero in un fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico); nel caso di danno verificatosi ad opera ultimata, la disciplina generale in tema d’inadempimento contrattuale, di cui all’art. 1453 c.c., è integrata, ma non esclusa, da quella speciale di cui agli artt. 1667,1668 e 1669 c.c., sul piano della comune responsabilità contrattuale.
Il 4 dicembre esce la sentenza della I sezione del TAR Campania, sede di Salerno, n. 1700, secondo cui rientra nella giurisdizione del G.O. una controversia avente ad oggetto l’impugnazione della deliberazione con la quale il Consiglio comunale ha stabilito di recedere dal contratto di appalto del servizio di tesoreria comunale, in ragione degli inadempimenti posti in essere dal tesoriere rispetto alle obbligazioni contrattualmente assunte, ma ciò solo alle seguenti condizioni: a) il suddetto rapporto contrattuale sia instaurato esclusivamente tra l’Ente locale e l’Istituto di credito, senza coinvolgimento di terzi o dell’utenza, b) preveda, espressamente, un corrispettivo in favore della Banca “tesoriere” che, in rapporto sinallagmatico, è tenuta ad una serie di prestazioni. Secondo il TAR, infatti, l’accordo negoziale va qualificato come contratto di appalto di servizi, e non già come concessione di servizi, con la conseguenza che il recesso è legato ad un inadempimento dell’Istituto di credito rispetto alle condizioni contrattuali concordate; né, in tal caso, emergono provvedimenti a carattere autoritativo, in quanto la delibera impugnata rappresenta un atto di carattere privatistico soggetto al sindacato del G.O..
2018
Il 5 gennaio esce la sentenza non definitiva della I sezione del TAR Lombardia, sede di Milano, n. 28 che rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il seguente quesito “se il diritto comunitario osti all’applicazione di regole nazionali che, nel settore degli appalti pubblici, impongono che il subappalto non possa superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto di lavori e se, in particolare, contrasti con il diritto comunitario la previsione di cui all’art. 105, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 che prevede detto limite del 30%, tenuto conto del fatto che il diritto comunitario non prevede alcuna limitazione quantitativa per il subappalto”. Il TAR, prima di sollevare tale questione pregiudiziale, assume di interpretare l’art. 105, comma 2, del c.d. “codice degli appalti”, nella parte in cui fa riferimento all’“importo complessivo del contratto di lavori”, nel senso che l’espressione “importo complessivo del contratto di lavori” non può che riferirsi all’importo a base di gara. Diversamente opinando (ritenendo cioè che l’importo complessivo dei lavori va valutato dopo l’aggiudicazione), per il Tar per un verso si favorirebbero situazioni di incertezza (fino al momento dell’aggiudicazione) circa l’effettivo rispetto del limite in questione da parte dei concorrenti e, per altro verso, si legittimerebbero irragionevoli trattamenti differenziati tra gli operatori economici.
Il 24 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 1751 che, richiamando il recente arresto delle S.U., afferma l’operatività della garanzia di cui all’art. 1669 c.c. anche ai gravi difetti della costruzione che non riguardino il bene principale (come gli appartamenti costruiti), dovendo essa ricomprendere ogni deficienza o alterazione che vada ad intaccare in modo significativo sia la funzionalità che la normale utilizzazione dell’opera, senza che abbia rilievo in senso contrario l’esiguità della spesa occorrente per il relativo ripristino.
Il 12 marzo esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 1571 che traccia il confine tra l’appalto di servizi e la somministrazione di lavoro. In particolare, afferma il Collegio che l’appalto ha ad oggetto un’obbligazione di risultato (con cui l’appaltatore assume con la propria organizzazione il compito di far conseguire al committente il risultato promesso), mentre la “somministrazione di lavoro” sottende una tipica obbligazione di mezzi (attraverso cui l’Agenzia per il Lavoro si limita a fornire prestazioni lavorative organizzate e finalizzate dal committente); pertanto, ove nella gara indetta dalla P.A., l’aggiudicatario non abbia alcun risultato da raggiungere, poiché oggetto esclusivo della procedura sono mere prestazione lavorative (di segreteria, istruttorie o di supporto alla gestione delle attività amministrative) deve ritenersi che si è al cospetto di un contratto di somministrazione di personale e non già di una appalto di servizi.
Il 28 marzo esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 14359 che interviene in tema rapporti tra reati relativi alla sicurezza sul lavoro e normativa edilizia. Secondo la Corte, le disposizioni normative volte a tutelare la sicurezza dei lavoratori e la pubblica incolumità non sono un sottoinsieme della normativa edilizia, attendendo a campi diversi e, dunque, imponendo obblighi diversi in capo alle diverse figure di committente, responsabile dei lavori ed esecutore dei lavori. A meno dunque che obblighi di tale natura non siano ricavabili dalla particolarità delle pattuizioni contrattuali – come avviene nel c.d. “appalto a regia” – l’individuazione in capo al committente di quell’obbligo di protezione altrimenti gravante sull’appaltatore nei confronti dei lavoratori e dei terzi e connesso all’esecuzione dei lavori deve essere fatto oggetto di attenta verifica in fatto delle circostanze relative all’organizzazione dell’esecuzione dell’opera, come la nomina di un responsabile dei lavori e di un coordinatore per la progettazione. Interessanti le considerazioni della Corte onde il controllo sull’esatta esecuzione dei lavori – che è previsto dall’art. 1662 cod. civ. in tema di appalto – è funzionale alla tutela degli interessi economici del contraente (committente) e nulla ha a che vedere con una posizione di garanzia nei confronti di terzi, a meno che obblighi di tale natura non siano per l’appunto ricavabili dalla particolarità delle pattuizioni contrattuali, come avviene nel c.d. “appalto a regia“, laddove il committente riserva a sé poteri – e conseguenti obblighi e responsabilità – rispetto all’esecuzione dei lavori. La Corte richiama la giurisprudenza civilistica onde, nel cosiddetto appalto “a regia“, il controllo esercitato dal committente sull’esecuzione dei lavori esula dai normali poteri di verifica ed è così penetrante da privare l’appaltatore di ogni margine di autonomia, riducendolo a strumento passivo dell’iniziativa del committente, sì da giustificarne l’esonero da responsabilità per difetti dell’opera, una volta provato che abbia assunto il ruolo di “nudus minister” del committente (viene richiamata la sentenza della Sez. II civ., n. 2752 del 2005 che ha confermato la sentenza di merito laddove aveva ritenuto configurabile l’appalto a regia sulla base delle clausole contrattuali che prevedevano l’obbligo dell’appaltante di fornire tutte le attrezzature e i materiali d’uso, l’esecuzione sotto la direzione esclusiva dell’impresa appaltante e del personale da essa incaricato, la previsione, quale oggetto del contratto, soltanto di prestazioni di manodopera, con contabilizzazione a parte dei lavori a giornata, sfiorando la fattispecie delittuosa di cui alla legge n. 1369/60 sul divieto di intermediazione ed interposizione di lavoro). In simili casi, le particolari previsioni contrattuali ben potrebbero per la Corte fondare in capo al committente quell’obbligo di protezione altrimenti gravante sull’appaltatore nei confronti dei lavoratori e dei terzi, connesso all’esecuzione dei lavori cui il primo appunto non sarebbe estraneo.
Il 9 aprile esce l’ordinanza delle SSUU n. 8721 resa in sede di regolamento di giurisdizione. Il Supremo Consesso afferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo nelle controversie derivanti dalle procedure di affidamento dei lavori, mentre ribadisce la giurisdizione del G.O. per tutte le controversie che traggono origine dall’esecuzione del contratto. Nel caso si dibatta sull’accordo che prevede l’impegno dell’impresa appaltatrice di accettare l’offerta di consegna anticipata dei lavori nelle more della stipula del contratto, allorché si discuta dell’inadempimento di quest’ultima rispetto a detto impegno e della risoluzione del rapporto (con conseguente incameramento della cauzione) dichiarata dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 129, settimo comma, del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, siffatta controversia – essendo estranea alla tematica dell’aggiudicazione – appartiene alla cognizione del G.O. riguardando l’esecuzione del rapporto, sia pure anticipata rispetto alla piena efficacia dell’aggiudicazione stessa.
Il 4 maggio esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 19152 che afferma la penale responsabilità del committente in relazione alla produzione di rifiuti derivanti dall’esecuzione dell’appalto solo nel caso in cui vi sia stata un’ingerenza nell’esecuzione dell’opera o un controllo diretto sulla stessa.
L’8 maggio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 2756 in tema di revisione del prezzo dell’appalto di opere pubbliche. In tali ipotesi, la posizione dell’appaltatore acquista la natura di diritto soggettivo solo nel caso in cui la convenzione sia resa obbligatoria in forza di clausola contrattuale stipulata anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 37 del 1973, ovvero quando l’Amministrazione abbia già adottato un espresso provvedimento attributivo o tenuto un comportamento di implicito riconoscimento del diritto alla revisione; in relazione a tale ultima ipotesi, il provvedimento o il comportamento concludente devono provenire dall’organo deliberativo competente ad esprimere la volontà dell’ente pubblico e non possono consistere in atti interni della P.A., meramente preparatori e propedeutici ad un eventuale riconoscimento della revisione. In tutti gli altri casi l’appaltatore viene riconosciuto come titolare di un interesse legittimo, con ogni conseguenza in ordine alla tutela invocabile in sede giurisdizionale.
Il 18 maggio esce la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 22013 che riconosce in capo al committente una posizione di garanzia per quanto riguarda la normativa in materia di sicurezza sul lavoro, tale per cui può essere chiamato a rispondere in caso di omesso controllo dell’adozione, da parte del sub-appaltatore, delle misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro.
Il 23 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 12829 che ribadisce il costante orientamento secondo cui il termine annuale di decadenza di cui all’art. 1669 c.c. per la denuncia dei difetti dell’opera decorre dal giorno in cui il committente-appaltante-acquirente raggiunge un apprezzabile grado di conoscenza della gravità dei difetti stessi. Tale grado di conoscenza può essere immediato, laddove si tratti di difetti palesi, ovvero necessitare di apposita perizia.
L’11 giugno esce l’ordinanza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 3553 che rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione “se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), gli artt. 25 della Direttiva 2004/18 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 e 71 della Direttiva 2014//24 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art. 118, commi 2 e 4, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (vecchio codice degli appalti), secondo la quale il subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al venti per cento”.
*Il 19 giugno esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 3768 che ribadisce l’orientamento secondo cui, in tema di revisione del prezzo dell’appalto di opere pubbliche, la posizione dell’appaltatore acquista la natura di diritto soggettivo solo nel caso in cui la convenzione sia resa obbligatoria in forza di clausola contrattuale stipulata anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 37 del 1973, ovvero quando l’Amministrazione abbia già adottato un espresso provvedimento attributivo o tenuto un comportamento di implicito riconoscimento del diritto alla revisione; in relazione a tale ultima ipotesi, il provvedimento o il comportamento concludente devono provenire dall’organo deliberativo competente ad esprimere la volontà dell’ente pubblico e non possono consistere in atti interni della P.A., meramente preparatori e propedeutici ad un eventuale riconoscimento della revisione. In tutti gli altri casi l’appaltatore viene riconosciuto come titolare di un interesse legittimo, con ogni conseguenza in ordine alla tutela invocabile in sede giurisdizionale.
Il 12 luglio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 18325 ove viene ribadito che il contratto d’appalto non priva il committente della responsabilità della custodia della res, almeno fino a quando l’area non sia stata completamente delimitata e recintata onde escluderne in modo efficace l’intrusione di terzi; da quel momento la responsabilità transita in capo all’appaltatore che diviene responsabile dell’area di cantiere.
Il 13 luglio esce la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 32228 che ribadisce l’orientamento secondo cui il committente è responsabile nei confronti del lavoratore per eventuali infortuni nel caso in cui abbia scelto di avvalersi, per lo svolgimento di lavori edili, di un lavoratore autonomo di non verificata professionalità.
L’8 agosto esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 4869 in tema del c.d. “rito appalti”. Secondo il Collegio, le disposizioni acceleratorie dettate in materia di appalti, nella misura in cui derogano incisivamente all’ordinario regime processuale, devono essere considerate di stretta interpretazione e non possono perciò essere applicate estensivamente al di fuori delle ipotesi specificamente individuate dal legislatore, solo per queste ultime sussistendo, secondo il relativo, discrezionale e non irragionevole giudizio, speciali esigenze, in ragione degli interessi pubblici coinvolti, di contenimento dei tempi dell’azione giudiziaria: in particolare dette disposizioni acceleratorie non sono applicabili alle controversie in materia di revisione dei prezzi contrattuali.
Il 22 agosto esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 20942 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui l’appaltatore di opere pubbliche è solitamente unico responsabile dei danni cagionati a terzi nel corso dello svolgimento dei lavori, potendo tuttavia il committente, in ragione del proprio comportamento da valutarsi caso per caso in sede di merito, assumere il ruolo di responsabile solidale.
Il 24 agosto esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 21180 in tema di ritardo nei pagamenti negli appalti pubblici. Nel caso in cui l’Ente committente esegua i pagamenti dopo aver ottenuto i finanziamenti da altro Ente (finanziatore), la responsabilità da ritardo nei pagamenti in favore dell’appaltatore è comunque da addebitare al committente-debitore anche se tale inadempimento dipenda da ritardi imputabili al finanziatore e ciò in ragione del principio di relatività degli effetti del contratto. Unica eccezione è il caso di stipula di una ulteriore convenzione con la quale l’ente finanziatore garantisca al committente la tempestiva erogazione del finanziamento.
Il 5 settembre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 21656 che si pone nel solco del costante orientamento secondo cui, in tema di appalto di opere pubbliche, la riserva, attenendo ad una pretesa economica di matrice contrattuale, presuppone l’esistenza di un contratto valido di cui si chiede l’esecuzione, mentre, ogni qualvolta si faccia questione di invalidità del contratto e dei modi della relativa estinzione, come nel caso della risoluzione per inadempimento, le pretese derivanti dall’inadempimento della stazione appaltante non vanno valutate in relazione all’istituto delle riserve, seguendo piuttosto i principi di cui agli artt. 1453 e 1458 c.c.. Inoltre, chiosa la Corte, va considerato che in tema di appalti pubblici, la riserva svolge, da un lato, la funzione di consentire all’Amministrazione committente la verifica dei fatti suscettibili di produrre un incremento delle spese previste con una immediatezza che ne rende più sicuro e meno dispendioso l’accertamento, e, dall’altro, di assicurare la continua evidenza delle spese dell’opera, in relazione alla corretta utilizzazione ed eventuale integrazione dei mezzi finanziari all’uopo predisposti, nonché di mettere l’Amministrazione in grado di adottare tempestivamente altre possibili determinazioni, in armonia con il bilancio pubblico, fino ad esercitare la potestà di risoluzione unilaterale del contratto. Ne consegue che, per l’appaltatore, l’iscrizione della riserva costituisce un onere da assolvere al fine di non incorrere nella decadenza per la proposizione delle proprie domande; e, tuttavia, l’assolvimento di tale onere non esclude il necessario rispetto della regola posta dall’art. 2697 c.c., per la quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Il 14 settembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 5388 in tema di c.d. “appalto integrato”. Il Collegio chiarisce gli elementi caratterizzanti di tale tipo di contratto specificando che il contributo di idee nelle soluzioni progettuali migliorative individuate nel progetto definitivo devono pur sempre mantenersi nel rispetto dei profili strutturali e morfologici dell’opera pubblica definita nelle linee essenziali nel progetto preliminare posto a base di gara, della quale perciò non devono essere alterati i caratteri, proponendo una sorta di progetto alternativo. Diversamente si avrebbe un aliud rispetto a quanto posto a base di gara con evidente lesione della par condicio tra i concorrenti. Simile all’appalto integrato è la disciplina delle varianti migliorative negli appalti pubblici che sono ammissibili solo quando consistano in soluzioni tecniche che, senza incidere sulla struttura, sulla funzione e sulla tipologia del progetto a base di gara, investono singole lavorazioni o singoli aspetti tecnici dell’opera, lasciati aperti a diverse soluzioni, che siano meglio rispondenti alle esigenze funzionali e qualitative del progetto preliminare.
Il 25 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 22576 che ribadisce il costante orientamento secondo cui gli specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della Pubblica Amministrazione nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a mezzo del relativo direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per l’Ente committente. Il suddetto orientamento implica ovviamente, per il Collegio, anche l’affermazione della (concorrente) responsabilità del direttore dei lavori nominato dall’Ente committente, laddove i relativi compiti di controllo dell’attività dell’appaltatore, o le relative omissioni nello svolgimento di tali compiti, abbiano concorso a causare i danni ai terzi.
Il 28 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 23442 onde in caso di danni subiti da terzi nel corso dell’esecuzione di un appalto, bisogna distinguere tra i danni derivanti dalla attività dell’appaltatore e i danni derivanti dalla cosa oggetto dell’appalto. Per i primi si applica l’art. 2043 c.c. e ne risponde di regola esclusivamente l’appaltatore, salvo il caso di una concreta ingerenza del committente nell’attività stessa. Per i secondi, cioè per i danni direttamente derivanti dalla cosa oggetto dell’appalto, anche se determinati dalle modifiche e dagli interventi su di essa posti in essere dall’appaltatore, risponde (anche) il committente ai sensi dell’art. 2051 c.c., in quanto l’appalto e l’autonomia dell’appaltatore non escludono la permanenza della qualità di custode della cosa da parte del committente.
In questo caso, il committente, per essere esonerato dalla sua responsabilità nei confronti del terzo danneggiato, non può limitarsi a provare la stipulazione dell’appalto, ma deve fornire la prova liberatoria richiesta dall’art. 2051 c.c., e quindi dimostrare che il danno si è verificato esclusivamente a causa del fatto dell’appaltatore, quale fatto del terzo che egli non poteva prevedere e/o impedire.
* * *
L’8 ottobre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 24717 che analizza in particolare l’art. 1670 c.c.. Tale norma ha come ratio propria quella di estendere ai subappaltatori la responsabilità ex art. 1669, così come è dato evincersi dall’esame dei lavori preparatori, dal momento che, nella Relazione del guardasigilli al cod. civ., si dà atto che era apparsa “ingiustificata” una norma del progetto del 1936 “che esonera[va] i subappaltatori dalla responsabilità di cui all’articolo precedente“; nella logica del perseguimento di tale identità di posizioni pur nei separati rapporti contrattuali, sul presupposto del pervenimento all’appaltatore di una “denunzia“ di vizi era parso al Ministro proponente “opportuno di subordinare l’azione di regresso contro il subappaltatore ad una comunicazione che l’appaltatore deve dare della denuncia del committente entro 60 giorni“. Osserva la Corte che, in linea con tale parallelismo, mentre la dottrina assimila natura e funzioni della “denunzia” di cui all’art. 1669 cod. civ. (oltre che della diversa denuncia di cui all’art. 1667 cod, civ.) e della “comunica[zione della] … denunzia” dell’art. 1670 cod. civ., talora indicando intercambiabilmente l’una e l’altra quali denuncia o comunicazione (qualche autore poi utilizzando tale ultima dizione quale indicativa di una vera e propria categoria all’interno degli atti giuridici non negoziali), si nota che entrambe costituiscono dichiarazioni a recezione necessaria (art. 1334 cod. civ. in combinato disposto con il successivo art. 1335 cod. civ., da cui si evince che la dichiarazione, oltre che pervenire a conoscenza anche presunta del destinatario, deve essere “diretta” a tale persona “determinata” per “produ[rre] effetto“), in funzione della loro attitudine a influire sulla sfera giuridica del destinatario, che si troverà esposto a pretese che, altriménti, sarebbero state precluse da decadenza. Recepita dunque pacificamente, anche dalla giurisprudenza, la natura recettizia della comunicazione, che ne impone il pervenimento anche per presunzione al destinatario, si pone il problema – trattandosi di dichiarazione tesa al conseguimento di effetti giuridici già previsti dalla legge, la quale lascia al mittente la scelta di rendere o non la dichiarazione medesima – del valore della conoscenza aliunde del contenuto dichiarativo, avvenuta per caso fortuito (ad es. in mancanza di una qualsiasi trasmissione, come nell’ipotesi in cui si abbia notizia del contenuto di una dichiarazione scritta ma non inviata) o per fatto di un terzo diverso dal dichiarante, in difetto di rappresentanza o di incarico (ad es. nelle due ipotesi, che vanno giuridicamente parificate, del terzo che trasmetta una dichiarazione proveniente dal mittente che non lo abbia officiato, o del terzo non legittimato che emetta e trasmetta egli stesso una dichiarazione propria). Non accettata dalla dottrina, la sufficienza della conoscenza aliunde da parte del destinatario del contenuto dichiarativo per la produzione dell’effetto giuridico – in quanto legata a visioni della recettizietà degli atti unilaterali parificata a un mero meccanismo a finalità informativa – essa è stata tradizionalmente negata dalla giurisprudenza. In realtà, chiosa la Corte, va sottolineata anche per gli atti giuridici in senso stretto la necessità che il comportamento che li generi sia sorretto da coscienza e volontà del comportamento stesso (c.d. suitas), anche se non degli effetti; onde una ricezione di un contenuto dichiarativo da parte del destinatario in assenza di attribuibilità della dichiarazione al dichiarante legittimato non consente di ritenere non solo e non tanto il sussistere della “ricezione“, quanto – ben più pregnantemente – il sussistere, necessariamente preliminare, di un atto qualificabile come dichiarazione a riceversi. Ammettere, al di fuori di ogni conferimento di poteri rappresentativi, che un terzo – quale è e resta l’appaltatore principale – possa effettuare in luogo del subcommittente legittimato la comunicazione (o suo equipollente) al subappaltatore ex art. 1670 cod. civ., equivale a ridurre la comunicazione a mera acquisizione di informazione, surrogabile quindi quanto alla fonte, laddove essa ha invece natura appunto comunicativa o partecipativa, non priva cioè di un coefficiente relazionale che impone, in base agli artt. 1669 e 1670 cod. civ. che non solo il destinatario ma anche la fonte della dichiarazione si identifichino con i soggetti sulle cui sfere giuridiche gli effetti legali (impeditivi della decadenza) sono destinati a prodursi, con suitas dell’attività comunicativa rispetto all’emittente. Conferma del requisito anzidetto della fattispecie comunicativa si ha ove si consideri la disciplina generale della decadenza, dalla quale non si può prescindere stante l’espresso riferimento a tale istituto operato dall’art. 1670. In proposito è sufficiente constatare che l’art. 2966 cod. civ., disciplinante il c.d. riconoscimento impeditivo della decadenza, diverso da quello interruttivo della prescrizione ex art. 2944 cod. civ., mutua sostanzialmente da tale ultima norma la formula per cui il riconoscimento medesimo deve essere, per i diritti disponibili dalla persona contro la quale si deve far valere il diritto; dato questo che fa propendere per la necessità della volontarietà del riconoscimento in capo al soggetto strettamente interessato o al relativo rappresentante, ciò che dà rilievo al profilo relazionale dianzi sottolineato. In relazione a ciò, pare doversi desumere dall’art. 2966 cod. civ. che, se il riconoscimento deve – su un capo, quello passivo, della relazione giuridica interessata dalla decadenza – essere “proveniente dalla persona contro la quale si deve far valere il diritto“, sul capo attivo del rapporto contrattuale anche il “compimento dell’atto previsto dalla legge o dal contratto“, soggetto a decadenza, debba provenire, quanto meno sulla base di mandato ‘o di disposizione di legge, dal soggetto che può “far valere il diritto“. Né può assumersi che la specifica disciplina codicistica del subappalto renda possibile considerare l’appaltatore-principale, direttamente o utendo iuribus, legittimato alla comunicazione diretta ex art. 1670 cod. civ. nei confronti del subappaltatore. La disciplina stessa, infatti, per la quale il subappaltatore assume, sia nei confronti dell’appaltatore suo committente sia nei confronti dei terzi, le stesse responsabilità dell’appaltatore verso il committente e verso i terzi, è ispirata al principio per cui tra committente e subappaltatore, nonostante l’autorizzazione ex art. 1656 cod. civ., non si costituisce alcun rapporto giuridico; in tal senso, si è sottolineato – anche in base a confronto con l’art. 1676 cod. civ. quale norma eccezionale – come l’art. 1670 venga a escludere l’esistenza di qualsiasi responsabilità diretta del subappaltatore nei confronti del committente. Ne deriva che, stante l’autonomia dei rapporti, nessuna legittimazione può spettare all’appaltante principale (committente) – al di là di negozi autorizzativi – a effettuare direttamente la comunicazione ex art. 1670 cod. civ. Inoltre, anche in relazione alla specifica disciplina del subappalto, può coltivarsi il parallelismo, ai fini impeditivi della decadenza, tra compimento dell’atto previsto e riconoscimento ex art. 2966 cod. civ. In argomento, evidenzia la Corte come, ai fini della garanzia per le difformità e i vizi dell’opera, il riconoscimento del vizio proveniente non dall’appaltatore ma da un subappaltatore, che non abbia operato in rappresentanza o su indicazione dell’appaltatore, non esima il committente dalla denunzia del vizio nel termine di decadenza, stante la reciproca indipendenza del subappalto e dell’appalto, i quali restano distinti e autonomi, nonostante il nesso di derivazione dell’uno dall’altro, sicché nessuna diretta relazione si instaura tra il committente e il subappaltatore; ne consegue che l’eventuale ammissione da parte del subappaltatore dell’esistenza di difformità o vizi dell’opera non può ritenersi equipollente al loro riconoscimento, il quale deve provenire dall’appaltatore ex art.1667 cod. civ., per poter costituire ragione di esonero dalla denunzia che la stessa norma impone al committente di rivolgere, ugualmente all’appaltatore, entro un certo termine, a pena di decadenza dalla garanzia. Va infine tenuto conto che la giurisprudenza della Cassazione non riconosce all’appaltatore interesse ad agire in regresso nei confronti del subappaltatore ex art. 1670 cod. civ. prima della formale denuncia del committente principale, sull’argomento che il committente stesso potrebbe accettare l’opera nonostante i vizi palesi, non denunciare mai i vizi occulti oppure denunciarli tardivamente. La notazione è per la Corte di rilievo, in quanto anche l’appaltatore che abbia ricevuto denuncia dal proprio committente – stante la predetta specularità di situazioni – potrebbe farsi carico in proprio dell’eliminazione dei vizi, senza voler agire in regresso (eventualmente, ma non necessariamente, in relazione a intese tra le parti del contratto derivato). Rispetto a tale dato parrebbe dunque incoerente ammettere che, da un lato, le parti del contratto derivato restino sovrane circa la sorte sostanziale del loro rapporto, mentre il rapporto stesso, d’altro lato, resti soggetto a iniziative di un terzo (il committente) che meramente partecipando in via diretta al subappaltatore l’esistenza di difetti (semmai senza portare nel contempo la denuncia a conoscenza dell’appaltatore-subcommittente), si arbitrerebbe di intervenire sullo stesso rapporto derivato, impedendo un effetto decadenziale legale non privo di valore ai fini della certezza delle situazioni giuridiche. Il principio di diritto enunciato dalla Corte è quindi nel senso che l’appaltatore è tenuto a denunciare tempestivamente al subappaltatore i vizi o le difformità dell’opera a lui contestati dal committente e, prima della formale denuncia di quest’ultimo, non ha interesse ad agire in regresso nei confronti del subappaltatore, atteso che il committente potrebbe accettare l’opera nonostante i vizi palesi, non denunciare mai i vizi occulti oppure denunciarli tardivamente. La denuncia effettuata dal committente direttamente al subappaltatore non è idonea a raggiungere il medesimo scopo della comunicazione effettuata dall’appaltatore ai sensi dell’art.1670 cod. civ., dovendo tale comunicazione provenire dall’appaltatore o da un suo incaricato.
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Il 19 ottobre esce la sentenza della I sezione del TAR Lombardia, sede di Brescia, n. 1003 onde la consegna in via d’urgenza delle prestazioni contrattuali, prevista dall’art. 32, comma 8, del D.Lgs. n. 50/2016, non comporta l’insorgere di vincoli contrattuali di tipo privatistico tra Amministrazione appaltante ed appaltatore; essa, infatti, è un provvedimento di natura eccezionale, dal quale non deriva il perfezionamento del contratto. Va quindi escluso per il Tar che sia necessaria la previa stipula del contratto ai fini dell’attivazione, in capo alla Stazione appaltante, della prevista possibilità di chiedere l’esecuzione d’urgenza di talune prestazioni. Dalla prima parte del citato comma 8 dell’art. 32 emerge infatti che alla mancata osservanza del previsto termine per la stipulazione del contratto non consegue alcun automatismo decadenziale ai fini del perfezionamento del rapporto negoziale, laddove l’aggiudicatario non enunci, nei confronti della Stazione appaltante (con atto, peraltro, debitamente notificato), il proprio intendimento di sciogliersi dal vincolo, ovvero di recedere dal rapporto.
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Il 29 ottobre esce la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 49373 che riconferma l’orientamento secondo cui in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale sostanzialmente e di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto. anche se formalmente ha appaltato a terzi le opere che hanno dato origine all’infortunio.
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Il 30 ottobre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 27677 che conferma il costante orientamento secondo cui in materia di appalti pubblici, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 276 del 2003, non è applicabile alle PPAA la responsabilità solidale prevista dall’art. 29, comma 2, del richiamato decreto, alla cui stregua – in caso di appalto di opere o di servizi – il committente imprenditore o datore di lavoro e’ obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di 2 anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili (di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento). Per la Corte si deve peraltro ritenere che l’art. 9 del di. n. 76 del 2013, conv. con modif. nella I. n. 99 del 2013, nella parte in cui prevede la inapplicabilità del suddetto articolo 29 ai contratti di appalto stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, non abbia carattere di norma d’interpretazione autentica, dotata di efficacia retroattiva, avendo solo esplicitato, senza innovare il quadro normativo previgente, un precetto già desumibile dal testo originario del richiamato art. 29 e dalle successive integrazioni.
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Il 5 novembre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 6237 che, ribadendo la non applicabilità del “rito appalti” alle controversie in materia di revisione del prezzo, afferma l’ammissibilità del relativo ricorso al Presidente della Repubblica e la relativa trasposizione in sede giurisdizionale.
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Il 26 novembre esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione onde il comproprietario non committente di opere abusive non può essere ritenuto responsabile delle stesse solo in ragione della relativa posizione giuridica di titolare del pertinente diritto dominicale; secondo la Corte la responsabilità di tale soggetto dovrà, se del caso, essere ancorata a diversi ed ulteriori indizi in grado di dimostrare una relativa compartecipazione – anche morale – nel reato edilizio.
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Il 3 dicembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 31138 in materia di formalità nel contratto di subappalto.
Preliminarmente la Corte ricorda che, sebbene il contratto di subappalto, non richiedendo per la sua stipulazione la forma scritta, né ad substantiam, né ad probationem può essere stipulato per facta concludentia, affinché un rapporto contrattuale possa intendersi concluso nel tempo e nel luogo dell’iniziata esecuzione, senza la preventiva accettazione della proposta, è necessario che ricorra una delle tre ipotesi tassativamente previste dall’art. 1327 c.c. e, cioè, che lo richieda la natura dell’affare o che lo consentano gli usi o che vi sia, comunque, una espressa richiesta in tal senso del proponente.
Nel caso in cui l’oggetto del contratto sia “hi-tech”, la Cassazione ritiene che proprio “la particolarità dell’oggetto della prestazione, altamente tecnologico” induce a ritenere che non sia sufficiente un semplice ordine, ma occorrono altre indicazioni affinché si perfezioni il contratto, quali la puntuale verifica della conformità del prodotto che si intende realizzare con un progetto, le procedure tecniche da seguire che solo il committente può impartire dopo aver compulsato tutti coloro che collaborano al progetto a seconda delle specificità di ognuno.
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Il 14 dicembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 32504 sull’ambito applicativo dell’art. 29 d.lgs. 276/03, prima delle modifiche apportate dal d.l. 5/12.
L’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 disciplina il regime di tutela della complessiva posizione giuridica dei lavoratori impiegati in appalti di opere o di servizi ed è stato oggetto di numerosi interventi legislativi.
Il testo, vigente ratione temporis, della disposizione normativa a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1, comma 911, della legge n. 296 del 2006, recita: «In caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti».
Successivamente, negli anni dal 2012 al 2014 il regime della responsabilità solidale è stato modificato con sei successivi interventi legislativi, che, dapprima, hanno definito con maggior chiarezza l’area dei crediti, prevedendo altresì la sussidiarietà dell’obbligazione solidale (art. 21, comma 1, d.l. n. 5 del 2012, convertito in legge n. 35 del 2012), poi hanno dettato una disciplina autonoma con riguardo alla responsabilità solidale per il versamento all’Erario delle ritenute sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate nell’ambito del subappalto (art. 13-ter, comma 1, d.l. n. 83 del 2012 convertito in legge n. 134 del 2012), poi hanno conferito alla contrattazione collettiva la possibilità di derogare alla solidarietà, prevedendo il litisconsorzio necessario con l’appaltatore e il beneficium excussionis (art. 4, comma 31, della legge n. 92 del 2012), poi è stata abrogata la regola concernente la responsabilità solidale per le imposte sul valore aggiunto (art. 50 d.l. n. 69 del 2013 convertito in legge n. 98 del 2013), poi si è intervenuti su questioni concernenti la responsabilità solidale ai crediti di lavoro autonomo, alle pubbliche amministrazioni e all’ampiezza derogatoria conferita alla contrattazione collettiva (art. 9 d.l. n. 76 del 2013 convertito in legge n. 99 del 2013), poi è stata rimossa la responsabilità solidale per i debiti fiscali (art. 28, comma 2, d.lgs. n. 175 del 2014), poi infine, è stata soppressa la facoltà derogatoria della contrattazione collettiva (art.2 d.l. n. 25 del 2017 convertito in legge n. 49 del 2017).
La ratio che sorregge la disposizione è quella di incentivare un utilizzo più virtuoso del contratto di appalto, inducendo il committente a selezionare imprenditori affidabili e a controllarne successivamente l’operato per tutta la durata del rapporto contrattuale. I diversi interventi di modifica sull’area dei debiti garantiti e sulla fisionomia della solidarietà sono stati principalmente dettati dalla constatazione della difficoltà del committente di controllare e sanzionare alcuni inadempimenti dell’appaltatore agli obblighi tipici del datore di lavoro.
Il principio di responsabilità solidale ha trovato, peraltro, riconoscimento a livello europeo, posto che il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione di elogio nei confronti degli Stato membri che hanno dato “una risposta ai problemi legati agli obblighi dei subappaltatori in qualità di datori di lavoro attraverso la definizione di meccanismi nazionali di responsabilità” (Risoluzione del 26.3.2009) e, in precedenza, la Corte di Giustizia aveva confermato la compatibilità del principio di solidarietà negli appalti con il diritto europeo, evidenziando che esso è funzionale a consentire una protezione volta a prevenire la riduzione del costo del lavoro al di sotto del livello minimo che deve essere garantito (sentenza 12.10.2004, C-60/2003).
Inoltre, il giudice delle leggi (intervenuto con riguardo al regime di solidarietà del committente nei confronti dei dipendenti del subfornitore) ha sottolineato che la ratio dell’introduzione della responsabilità solidale del committente è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale (Corte Cost. n. 254 del 2017).
La Cassazione, con riguardo all’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, ha, inoltre, già affermato che il committente “presta una garanzia in favore del datore di lavoro ed a vantaggio del lavoratore, adempiendo alla quale assolve ad un’obbligazione propria, istituita ex lege” (Cass. n. 10543 del 2016) e che non può ritenersi compresa, nell’area dei debiti garantiti, l’indennità sostitutiva delle ferie non godute che, pur avendo natura mista (di carattere risarcitorio, compensando un danno derivante dalla mancata fruizione del riposo, e di carattere retributivo, attenendo al sinallagma contrattuale), va esclusa dal concetto di “trattamenti retributivi” da interpretarsi in senso restrittivo posto che il committente rimane estraneo alle vicende relative al rapporto tra lavoratore e appaltatore (Cass. n. 10354 del 2016).
In conclusione, secondo la Corte, sussiste, a carico del committente (e sino alla novella del 2012 che ha espressamente previsto il bene ficium excussionis nonché il litisconsorzio necessario tra appaltante e appaltatore), una obbligazione solidale in senso stretto.
Invero, prima della riforma del mercato del lavoro (la legge n. 92 del 2012 che ha previsto il litisconsorzio necessario tra committente, appaltatore ed eventuali subappaltatori nonché modificato il complesso meccanismo per eccepire il beneficio di escussione già introdotto dalla legge n. 35 del 2012), l’obbligazione del committente prevista dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, pur avendo carattere accessorio, è solidale con quella del debitore principale e pertanto – in mancanza di previsione legale o negoziale del “beneficium excussionis” – non può essere considerata ne’ sussidiaria ne’ eventuale. Secondo unanime dottrina, in caso di solidarietà passiva, il creditore può rivolgersi indifferentemente a uno o all’altro debitore con la conseguenza che non costituisce ipotesi di solidarietà in senso stretto l’obbligazione sussidiaria là dove il debitore sussidiario è tenuto al pagamento solo in quanto il debitore principale non abbia adempiuto o, a seguito di esperimento dell’azione esecutiva, il suo patrimonio sia risultato incapiente. Il diritto di escussione, opposto dal debitore solidale, può dunque essere pattuito tra le parti (come nel caso della fideiussione, ex art. 1944, comma 2, cod.civ.) o essere previsto dalla legge (come per la responsabilità dei soci nella società semplice, ex art. 2268 cod.civ., o in nome collettivo, ex art. 2304 cod.civ.), vigendo – in assenza di specifica previsione di una sussidiarietà – il regime della solidarietà.
L’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 non prevedeva, sino alle novelle legislative del 2012, un regime di sussidiarietà, delineando dunque una obbligazione solidale in senso stretto, con conseguente irrilevanza di un litisconsorzio necessario tra debitore principale (datore di lavoro-appaltatore) e condebitore (committente).
La previsione, soprattutto se sorretta da un’interpretazione rigorosa dell’area dei debiti garantiti, può ritenersi compatibile con i principi costituzionali del diritto di difesa e di parità delle parti considerato che il committente (come dimostrano gli stralci del contratto di appalto contenuti nel ricorso) – in sede di selezione della società appaltatrice – può imporre l’applicazione di condizioni normative e retributive da applicare ai lavoratori dell’appaltatore, generalmente con riferimento ai parametri dettati dalla contrattazione collettiva nazionale e territoriale.
Inoltre, Il tenore letterale dell’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 (nella versione precedente le novelle del 2012) nonché la ratio perseguita dal legislatore (consistente nell’affidare al committente il controllo sulla corretta esecuzione del contratto di appalto da parte dell’appaltatore) consentono di ritenere la responsabilità solidale (in senso stretto) del committente alla prestazione resa dal lavoratore seppur nell’ambito dello specifico appalto stipulato da appaltante e appaltatore.
La responsabilità riguarda, pertanto, solo i crediti maturati nel periodo di durata del contratto di appalto e in ragione della prestazione resa per la realizzazione dell’opera o del servizio commissionati. Seppure la norma (sino alle modifiche del 2012, con particolare riferimento al T.F.R.) non lo specifichi, la responsabilità solidale deve ritenersi limitata solo ai crediti retributivi maturati nel corso dell’esecuzione dell’appalto. Invero, la logica della solidarietà imposta dall’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 si basa sul rafforzamento della garanzia patrimoniale a favore del lavoratore con riguardo al pagamento dei trattamenti retributivi dovuti in relazione all’appalto cui ha personalmente dedicato le sue energie lavorative avendo, limitatamente ad esso, come debitore non solo il datore di lavoro ma anche l’impresa appaltante, la quale risulta, peraltro, completamente estranea al rapporto di lavoro svolto al di fuori dell’esecuzione dell’appalto (cfr. Cass. n. 17725 del 2017 seppur con riguardo alla disposizione normativa frutto delle modifiche del 2012). Di conseguenza, il committente risponde esclusivamente della quota parte di T.F.R. maturato dal lavoratore nell’ambito dello specifico appalto.
Infine, la Corte richiama la propria giurisprudenza sull’interpretazione ricgorosa del termine “trattamento retributivo” che ha escluso che il committente debba rispondere delle somme dovute dall’appaltatore per indennità sostitutiva delle ferie non godute in ragione della natura “mista” di tale emolumento (cfr. Cass. n. 10354 del 2016).
2019
Il 4 gennaio esce la sentenza della I sezione del TAR Piemonte n. 19 che afferma come, ai sensi del comma 4 dell’art. 105 del d.lgs. n. 50/2016, laddove l’impresa concorrente, al fine di comprovare il possesso dei necessari requisiti richiesti dal bando per l’ammissione, dichiari di avvalersi in tutto o in parte di un subappaltatore, occorre, per ritenere ammissibile tale opzione e, quindi, anche la partecipazione dell’impresa stessa, che questa precisi chiaramente alla Stazione appaltante in sede di domanda, nelle modalità indicate dalla P.A,. il nome del subappaltatore e le prestazioni che da quest’ultimo dovranno essere effettuate.
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Lo stesso giorno esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 98 onde nel caso in cui si versi in una situazione di inadempimento contrattuale di appalto, spetta all’appaltatore che agisca In giudizio per ottenere il pagamento del corrispettivo l’onere della prova dell’esatto adempimento della propria obbligazione, nel momento in cui il committente abbia eccepito l’inadempimento (cfr. Cass. n. 936/2010, secondo cui in tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all’art. 1667 c.c., ma non derogano al principio generale che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, la quale comporta che l’appaltatore, il quale agisca in giudizio per il pagamento dei corrispettivo convenuto, abbia l’onere – allorché il committente sollevi l’eccezione di inadempimento dì cui al terzo comma di detta disposizione – di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte; conf. Cass, n. 3472/2008).
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Il 7 gennaio esce la sentenza della I sezione del TAR Veneto n. 23 onde la dichiarazione di subappalto può essere limitata all’indicazione della volontà di avvalersene nei casi in cui il concorrente sia a sua volta in possesso delle qualificazioni necessarie per l’esecuzione in via autonoma delle prestazioni oggetto dell’appalto, cioè quando il ricorso al subappalto costituisca per lui una facoltà, non la via necessitata per partecipare alla gara.
Inoltre, essendo il subappalto soggetto ad autorizzazione, l’eventuale superamento della percentuale ammessa non è autorizzabile nella fase esecutiva del rapporto; eventuali violazioni dei limiti del subappalto consentito possono valere nella successiva fase dell’esecuzione, mentre la eventuale incompletezza delle indicazioni e dei documenti afferenti l’identità e la qualificazione dei subappaltatori indicati in sede di offerta preclude la possibilità di esercitare la facoltà di subappalto, ma non determina l’esclusione dell’offerente che partecipa alla procedura, ove non venga in rilievo il diverso profilo del difetto di qualificazione di quest’ultimo in relazione alle prestazioni interessate dal subappalto.
Il superamento delle percentuali di subappalto, in conclusione, non può comunque comportare l’esclusione del concorrente dalla gara, ma potrà al massimo comportare l’esclusione del subappalto in caso di aggiudicazione.
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Lo stesso giorno esce la sentenza della sezione I bis del TAR Lazio n 146 che ritiene legittima l’esclusione da una gara di appalto una ditta che ha dichiarato genericamente di far ricorso al subappalto necessario, senza indicare le opere o parti di opere che intende subappaltare.
Se è vero infatti che, anche in vigenza del nuovo codice degli appalti, resta ferma la conclusione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che non sia necessaria, in sede di offerta, l’indicazione del nominativo del subappaltatore nemmeno nel caso in cui il subappalto sia relativo a opere o servizi per i quali l’impresa subappaltante non possieda in proprio i requisiti di partecipazione, in ogni caso, tuttavia, proprio perché il subappalto è il mezzo per ovviare alla carenza dei requisiti, assume ancora maggior valenza l’indicazione specifica delle opere o servizi che si intendono subappaltare, pena l’incompletezza dell’offerta, che non specificherebbe in quale modo verrebbe eseguita la parte per la quale l’azienda offerente è carente dei requisiti.
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Il 14 gennaio esce la sentenza del TAR Calabria – sezione di Reggio Calabria – n- 17 che ribadisce la giurisdizione del giudice amministrativo in quei casi nei quali un’amministrazione pubblica recede da un contratto di appalto già stipulato con l’impresa aggiudicataria della relativa gara, a causa non già di inadempimento contrattuale da parte dell’impresa, ma in forza dell’adozione, da parte della competente Autorità prefettizia, di informativa interdittiva c.d. “antimafia”, riguardante l’impresa stessa. In tal caso, infatti, il recesso di cui si tratta non trova fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del contratto, ma è consequenziale all’informativa del Prefetto, ai sensi del D.P.R. n. 252 del 1998 art. 10, e, quindi, è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l’esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra i soggetti indicati nel citato art. 1, e imprese nei cui confronti emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata.
La stessa pronuncia richiama il consolidato orientamento secondo cui nel giudizio amministrativo, ai fini della quantificazione del risarcimento dei danni per equivalente, va fatto riferimento alla disposizione in tema di recesso unilaterale della p.a. dal contratto di appalto di opere pubbliche, recepita dall’art. 134 D.lgs. n. 163 del 2006 (applicabile al caso di specie), intesa come criterio generale di quantificazione del margine di profitto dell’appaltatore nei contratti con l’Amministrazione, così come lo era stato in precedenza l’art. 345, l. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F, la quale consente alle Amministrazioni pubbliche una liquidazione forfetaria del danno subito dall’esecutore, nel caso di risoluzione anticipata, nella misura del 10% del compenso pattuito per la esecuzione dei lavori; va tuttavia operata una detrazione dal risarcimento del mancato utile, nella misura del 50%, se il ricorrente non dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione (che compete all’impresa fornire), è da ritenere che l’impresa possa ragionevolmente aver riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi.
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Lo stesso giorno esce la sentenza della II sezione del TAR Veneto n. 36 che ribadisce l’attuale vigenza del principio della suddivisione dell’appalto in lotti ex art. 51 d.lgs.50/16 posto al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese alle gare pubbliche e derogabile solo attraverso una motivazione appropriata e completa.
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Sempre il 14 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 594 che ribadisce l’orientamento secondo cui, in tema di azione di responsabilità nei confronti dell’appaltatore per difetti di costruzione, il termine di un anno per la denunzia dei gravi vizi decorre dalla sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause.
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Il 21 gennaio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 517 onde l’art. 105, comma 22, del d.lgs. n. 50/2016 (secondo cui: “Le stazioni appaltanti rilasciano i certificati necessari per la partecipazione e la qualificazione di cui all’articolo 83, comma 1, e all’articolo 84, comma 4, lettera b), all’appaltatore, scomputando dall’intero valore dell’appalto il valore e la categoria di quanto eseguito attraverso il subappalto. I subappaltatori possono richiedere alle stazioni appaltanti i certificati relativi alle prestazioni oggetto di appalto realmente eseguite”) non costituisce una norma generale dettata per tutte le tipologie di appalto, tanto da imporre per ogni settore dei contratti pubblici il divieto per l’operatore economico di far valere nell’ambito del proprio fatturato, quanto realizzato mediante il subappalto, ma è applicabile solo con specifico riferimento al settore degli appalti di lavori.
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Il 4 febbraio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 867 che interviene sulla società che sta realizzando il MOSE di Venezia.
La misura della straordinaria e temporanea gestione delle imprese appaltatrici di cui all’art 32, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014 – detto anche d.l. anticorruzione – si propone l’ambizioso obiettivo di contemperare due opposte esigenze e, cioè, garantire, da un lato, la completa esecuzione degli appalti e neutralizzare, dall’altro, il rischio derivante dall’infiltrazione criminale nelle imprese, introducendo un originale e innovativo meccanismo di commissariamento. Più in particolare la gestione commissariale – espressamente qualificata come attività di pubblica utilità (poiché essa risponde, primariamente, all’interesse generale di assicurare la realizzazione dell’opera) – è volta, attraverso l’intervento del Prefetto, non soltanto a garantire l’interesse pubblico alla completa esecuzione dell’appalto, ma anche a sterilizzare la gestione del contratto «oggetto del procedimento penale» dal pericolo di acquisizione delle utilità illecitamente captate in danno della pubblica amministrazione.
Tale forma di commissariamento riguarda soltanto il contratto (e la sua attuazione) e non la governance dell’impresa in quanto tale ed in ciò si distingue dalle misure di prevenzione patrimoniali disposte ai sensi del d. lgs. n. 159 del 2011 (c.d. codice antimafia). In tal senso depone lo stesso tenore letterale della norma laddove si afferma che il commissariamento ha luogo «limitatamente alla completa esecuzione del contratto o della concessione». La ratio della disposizione, dunque, è quella di consentire il completamento dell’opera nell’esclusivo interesse dell’amministrazione concedente mediante la gestione del contratto in regime di “legalità controllata”.
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Il 1° febbraio esce l’ordinanza della SSUU della Cassazione n. 3160 che, sulla base dell’art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., riconosce la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie inerenti la revisione dei prezzi dei contratti periodici o di durata della P.A., così superando la tradizionale distinzione che devolveva alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative all’an debeatur della revisione prezzi ed al giudice ordinario quelle relative al quantum.
Unica eccezione alla regola di cui sopra è da rinvenirsi nel caso in cui sia in contestazione esclusivamente l’espletamento di una prestazione già puntualmente prevista nel contratto e disciplinata in ordine all’an ed al quantum del corrispettivo (benché le parti controvertano nell’interpretazione della clausola quanto al secondo profilo). In tal caso, infatti, la controversia concerne l’espletamento da parte dell’appaltatore di una prestazione già puntualmente convenuta e disciplinata (anche in ordine al quantum) con il contratto, con la conseguenza che essa ha ad oggetto una mera pretesa di adempimento contrattuale e, quindi, comporta l’accertamento dell’esistenza di un diritto soggettivo, che ricade nell’ambito della giurisdizione ordinaria. In tali ipotesi la domanda rinviene la sua ragione nel contratto, in relazione al quale la P.A. si trova in una situazione paritetica e, concernendo la controversia un diritto soggettivo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.
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Il 14 febbraio esce la sentenza della I sezione del TAR Campania n. 847 onde rientra nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, secondo quanto disposto dal comma 1 dell’art. 7 c.p.a., la domanda di annullamento della revoca dell’autorizzazione al subentro dell’esecutrice di lavori, atteso che la revoca costituisce espressione di un potere amministrativo autoritativo, frutto di una valutazione tipicamente amministrativa.
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Il 25 febbraio esce la sentenza della I sezione del TAR Campania – sede di Salerno – n. 324 secondo cui il momento dal quale far decorrere la rivalutazione è da individuarsi nella data di presentazione dell’offerta e non nella data di aggiudicazione dell’appalto ovvero nella “presa di servizio”. L’istituto della indicizzazione del canone trova il suo fondamento nell’esigenza di mantenere inalterato l’equilibrio contrattuale in base a quanto considerato dalle parti al momento dell’offerta, con la evidente conseguenza che è proprio al momento della presentazione dell’offerta che deve essere parametrata l’eventuale indicizzazione dei canoni
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Il 1° marzo esce la sentenza della I sezione del TAR Sicilia – sede di Catania – n. 393 che definisce la giurisdizione nelle controversie tra PA e impresa appaltatrice dichiarata fallita.
Occorre distinguere a seconda del momento in cui è intervenuto il fallimento (o l’ammissione alla procedura concorsuale), potendosi configurare almeno tre ipotesi: 1) quella in cui il fallimento sia intervenuto prima dell’aggiudicazione (ipotesi che ingenera i minori dubbi interpretativi in ordine alla sussistenza della giurisdizione del G.A., atteso che in tal caso la preesistenza del fallimento comporta un vizio della procedura di gara che incide sull’aggiudicazione); 2) quella, più problematica, in cui il fallimento si sia verificato dopo l’aggiudicazione ma prima della stipula del contratto; 3) e quella in cui il fallimento sia intervenuto dopo l’aggiudicazione e dopo anche la stipula del contratto. In particolare, sussiste la giurisdizione dell’A.G.O. nel caso in cui la declaratoria di fallimento sia intervenuta dopo la conclusione del contratto di appalto; in tal caso, infatti, trattandosi di vicenda verificatasi durante la fase di esecuzione del contratto, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario.
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Il 4 marzo esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 1495 secondo cui in base a quanto previsto dall’art. 1, commi 19 e 25, della L. 6 novembre 2012, n. 190, deve ritenersi che – in relazione ai contratti contenenti clausole compromissorie stipulati antecedentemente all’entrata in vigore della stessa L. n. 190/2012 – il deferimento delle controversie ad arbitri sia consentito solo in presenza di una preventiva autorizzazione amministrativa che assicuri la ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto. Invero, solo una preventiva autorizzazione espressa, attraverso la sua motivazione, è in grado di assicurare – a differenza dell’assenso tacito – che la scelta dell’amministrazione costituisca il coerente risultato della citata valutazione.
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Il 26 marzo esce l’ordinanza della sezione Lavoro della Cassazione n. 8381 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui in tema di appalto, una responsabilità del committente nei riguardi dei terzi risulta configurabile allorquando si dimostri che il fatto lesivo sia stato commesso dall’appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso o quando si versi nella ipotesi di “culpa in eligendo”, la quale ricorre qualora il compimento dell’opera o del servizio siano stati affidati ad un’impresa appaltatrice priva della capacità e dei mezzi tecnici indispensabili per eseguire la prestazione oggetto del contratto senza che si determinino situazioni di pericolo per i terzi e tali principi valgono anche in materia di subappalto perché il sub committente risponde nei confronti dei terzi in luogo del subappaltatore, ovvero in via solidale con lui, quando – esorbitando dalla mera sorveglianza sull’opera oggetto del contratto al fine di pervenire alla corrispondenza tra quanto pattuito e quanto viene ad eseguirsi – abbia esercitato una concreta ingerenza sull’attività del subappaltatore al punto da ridurlo al ruolo di mero esecutore ovvero agendo in modo tale da comprimerne parzialmente l’autonomia organizzativa, incidendo anche sull’utilizzazione dei relativi mezzi.
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Il 29 marzo esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 2107 che afferma la necessità di integrazione automatica del contratto degli appalti di durata con la previsione della legge (di cui all’art. 115, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006; v. in precedenza l’art. 6, comma 4, della legge n. 537/1993) che prevede la revisione dei prezzi, e ciò non solo al fine di garantire l’operatore economico, ma anche di non esporre eccessivamente l’Amministrazione. Tale previsione trova ingrasso nel contratto ai sensi dell’art. 1339 c.c..
L’istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, modello che sottende l’esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale dell’Amministrazione nei confronti del privato contraente, potendo quest’ultimo collocarsi su un piano di equiordinazione con l’Amministrazione solo con riguardo a questioni involgenti l’entità della pretesa. Sarà dunque sempre necessaria l’attivazione – su istanza di parte – di un procedimento amministrativo nel quale la PA dovrà svolgere l’attività istruttoria volta all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, compito che dovrà sfociare nell’adozione del provvedimento che riconosce il diritto al compenso revisionale e ne stabilisce anche l’importo.
In caso di inerzia da parte della stazione appaltante su una istanza che chiede l’applicazione della revisione dei prezzi, a fronte della specifica richiesta dell’appaltatore, quest’ultimo potrà impugnare il silenzio inadempimento prestato dall’Amministrazione, ma non potrà demandare in via diretta al giudice l’accertamento del diritto, non potendo questi sostituirsi all’Amministrazione rispetto ad un obbligo di provvedere gravante su di essa.
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Il 21 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 13606 che, richiamando l’orientamento del GA in materia, afferma come nei casi di sopravvenuto annullamento delle procedure di gara, che le prestazioni eseguite in esecuzione dei contratti stipulati a valle di esse non fossero del tutto prive di effetti, permanendo, con riferimento ad esse, il rapporto sinallagmatico, nel senso che in ogni caso, a fronte dell’effettuazione della prestazione da parte del soggetto privato la controparte pubblica non poteva trincerarsi dietro la pronuncia di sopravvenuta invalidità ma doveva ritenersi comunque obbligata all’effettuazione della propria controprestazione nei confronti del contraente privato in buona fede.
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Il 26 aprile esce la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 343 che, in tema di distinzione tra contratto di appalto e contratto di concessione, richiama il consolidato approdo della giurisprudenza amministrativa.
Il tratto distintivo che differenza la concessione rispetto al contratto di appalto è rappresentato dalla sussistenza di un rischio operativo sostanziale, da ultimo definito dal legislatore come “il rischio legato alla gestione dei lavori o dei servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di entrambi, trasferito all’operatore economico” (in tal senso l’articolo 3, lettera zz) del decreto legislativo n. 50 del 2016).
Il legislatore ha recentemente chiarito che il rischio operativo si ritiene sussistente nel caso in cui, in condizioni operative normali (per tali intendendosi l’insussistenza di eventi non prevedibili) “non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio trasferita all’operatore economico deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dall’operatore economico non sia puramente nominale o trascurabile”.
Si tratta di chiarimenti normativi in tema di rischio operativo la cui portata (meramente esplicativa) può essere ritenuta riferibile anche alle concessioni sorte nella vigenza del decreto legislativo n. 163 del 2006.
Tanto premesso dal punto di vista generale, la mancata corrispondenza fra costi operativi gestionali e canone concessorio (con conseguente perdita di esercizio per il gestore) rappresenta pur sempre un – non auspicabile, ma possibile – evento connesso all’ordinaria dinamica gestionale.
Più in particolare, il rischio che la non corretta valutazione della domanda del servizio (e dei conseguenti flussi di cassa) determini effetti negativi sulla gestione del servizio rappresenta un ordinario ‘rischio di domanda’, connaturato con lo stesso istituto concessorio (e, anzi, coessenziale ad esso).
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Il 21 maggio esce l’ordinanza delle SU della Cassazione n. 13660 che riconosce la giurisdizione del GO in relazione alle controversie che hanno ad oggetto la valutazione della corretta applicazione di una penale in relazione ad un pubblico appalto.
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L’8 maggio esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 19646 che richiama il consolidato orientamento secondo cui il direttore dei lavori nominato dal committente è responsabile dell’infortunio sul lavoro quando gli viene affidato il compito di sovrintendere all’esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando per fatti concludenti risulti che egli si sia in concreto ingerito nell’organizzazione del lavoro.
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Il 12 luglio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 18837 che trasmette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle SU sul dubbio se, ove residui un credito dell’appaltatore verso l’amministrazione appaltante e l’amministrazione abbia in base al contratto opposto la condizione di esigibilità di cui all’art. 118 del d.lgs. 163/2006 (concernente il pagamento diretto al subappaltatore o al cottimista), il curatore dell’appaltatore fallito voglia incrementare l’attivo, debba subire o meno, sul piano della concreta funzionalità rispetto agli interessi della massa, la prededuzione del subappaltatore”.
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Il 25 luglio esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 20184 che ribadisce il principio per cui, in tema di appalto, il giudice può qualificare la domanda proposta ricollegandola all’art. 1669 cod. civ. invece che considerarla quale richiesta di adempimento contrattuale ex art. 1667 cod. civ., allorché a suo fondamento siano dedotti difetti della costruzione così gravi da incidere sugli elementi essenziali dell’opera stessa.
Il suddetto principio è coerente con la ratio di rafforzamento della tutela del committente sottesa alla stessa introduzione nell’ordinamento dell’art. 1669 cod. civ., in aggiunta all’art. 1667 cod. civ. (c.d. “concorrenza delle garanzie”). Tale concorrenza è anch’essa sottolineata dalla giurisprudenza consolidata della Cassazione che ha osservato come, pur nella diversità della natura giuridica delle responsabilità rispettivamente disciplinate dalle anzidette norme (l’art. 1669 cod. civ., quella extracontrattuale, l’art. 1667 cod. civ., quella contrattuale), le relative fattispecie si configurino l’una (l’art. 1669 cod. civ.) come sottospecie dell’altra (art. 1667 cod. civ.), perché i “gravi difetti” dell’opera si traducono inevitabilmente in “vizi” della medesima, sicché la presenza di elementi costitutivi della prima implica necessariamente la sussistenza di quelli della seconda, continuando ad applicarsi la norma generale anche in presenza dei presupposti di operatività di quella speciale.
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Il 29 luglio esce la sentenza della III sezione del TAR Toscana n. 1162 secondo cui non può ritenersi preclusa alle stazioni appaltanti – se supportata da idonea motivazione – la possibilità “intermedia” di suddividere l’appalto in lotti di importo elevato, sebbene questo finisca per rendere difficoltosa, se non impossibile, la partecipazione delle PMI.
Invero, l’indizione di una gara suddivisa in lotti dal valore non adeguato ad assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione di microimprese, piccole e medie imprese, non esclude di per sé la legittimità dell’operato della stazione appaltante, tenuto conto che il modello legale ammette la deroga a una suddivisione in lotti rigidamente rispettosa dell’interesse partecipativo delle PMI, pur subordinata alla congrua illustrazione delle ragioni sottese alla suddivisione in lotti concretamente disposta e alla verifica della logicità e plausibilità delle ragioni stesse, in rapporto all’interesse pubblico perseguito in concreto.
Nell’ambito sanitario il tema della suddivisione degli appalti in lotti risente del rapporto dialettico con l’obbligo legale di fare ricorso ad acquisiti centralizzati. La convivenza di interessi potenzialmente confliggenti – revisione della spesa e tutela della concorrenza, sullo sfondo del diritto alla salute – esige di essere regolata, caso per caso, attraverso la consueta opera di bilanciamento discrezionale affidata alle amministrazioni coinvolte nella scelta e filtrata all’esterno attraverso la motivazione degli atti di indizione della procedura di gara.
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Il 9 agosto esce la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa n. 750 che evidenzia come il divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici, previsto dall’art. 57 co. 7 del d.lgs. n. 63/2006; quest’ultima disposizione (applicabile anche ai rapporti sorti antecedentemente) ha una chiara impronta comunitaria, costituendo il portato della previsione introdotta con l’art. 23 della l. n. 62/2005 (che modificava l’art. 6 della l. n. 537/1993, in seguito abrogato dal d.lgs. n. 163/2006) proprio per far fronte all’avvio di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano, volta a sanzionare una prassi tradizionalmente incline ad ammettere il rinnovo tacito dei contratti pubblici.
Inoltre, osserva il collegio che la revisione dei prezzi nei contratti con prestazioni periodiche o continuative della P.A. è un rimedio da ritenere incompatibile con l’ipotesi in cui l’impresa benefici del rinnovo senza gara di un contratto a condizioni comunque mutate rispetto a quelle originarie, ritenendosi già soddisfatte le finalità per cui è prevista la disciplina della revisione dei prezzi.
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Il 19 agosto esce la sentenza della III sezione del TAR Campania n. 4362 che, sulla base dell’art. 133, comma 1, lett. e), c.p.a., riconosce la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie inerenti la revisione dei prezzi dei contratti periodici o di durata della P.A., così superando la tradizionale distinzione che devolveva alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative all’an debeatur della revisione prezzi ed al giudice ordinario quelle relative al quantum. Tuttavia, ricorda il collegio, la concentrazione dinanzi alla stessa Autorità giurisdizionale di tutte le cause relative all’istituto della revisione prezzi, con conseguente potere del giudice amministrativo di conoscere della misura della revisione e di emettere condanna al pagamento delle relative somme, esplica i suoi effetti solo sul piano processuale, mentre, sul piano sostanziale, non ha eliminato la distinzione tra le situazioni soggettive sottese al rapporto controverso (interesse legittimo, nella fase dell’an debeatur, diritto soggettivo relativamente al quantum).
La posizione dell’appaltatore riferita alla richiesta di effettuare la revisione è di interesse legittimo poiché correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante; assume, invece, la consistenza di diritto soggettivo solo una volta che l’Amministrazione abbia riconosciuto la sua pretesa e, quindi, la controversia riguardi il quantum del compenso revisionale.
Nel merito, osserva il TAR che l’istituto del compenso revisionale ha essenzialmente lo scopo, da una parte, di salvaguardare l’equilibrio economico delle prestazioni a fronte di modifiche dei costi durante l’arco temporale del rapporto che potrebbero pregiudicare il livello qualitativo delle prestazioni o compromettere il regolare adempimento delle controprestazioni e, dall’altra, di tutelare la stazione appaltante da una lievitazione incontrollata dei corrispettivi tale da sconvolgere il quadro finanziario originario del contratto.
Nel caso di revisione dei prezzi, l’aggiornamento del corrispettivo contrattuale non riguarda, per sua stessa natura, il primo anno di riferimento della prestazione, ma comprende necessariamente il corrispettivo riferibile a tutte le annualità contrattuali successive al primo anno. E’ pertanto illegittima la clausola del disciplinare di gara nella parte in cui esclude il secondo anno dal calcolo revisionale, la quale si pone in contrasto con la disciplina legale, che non ammette una siffatta limitazione. Peraltro, trattandosi di una disciplina speciale circa il riconoscimento della revisione dei prezzi nei contratti stipulati dall’Amministrazione, avente natura imperativa, tale disposizione s’impone, come contenuto integrativo ope legis, nelle pattuizioni private, modificando e sostituendo la volontà delle parti contrastante con la stessa, tramite il meccanismo introdotto dagli artt. 1339 e 1419 c.c.
In sede di riconoscimento della revisione dei prezzi, nelle more dell’elaborazione dei costi standardizzati da parte dell’Osservatorio e finché essi non siano stati resi disponibili per i singoli servizi, deve ritenersi che la revisione prezzi debba comunque trovare uno strumento di riconoscimento mediante la considerazione dell’indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (c.d. indice FOI) pubblicato dall’ISTAT, che costituisce il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere puntualmente dimostrate dall’impresa, la stazione appaltante non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale. L’utilizzo dell’indice FOI, tuttavia, ha un carattere evidentemente suppletivo, in attesa della disponibilità dei costi standardizzati ed in difetto di specifiche pattuizioni negoziali.
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Il 12 settembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 6158 secondo cui la PA può legittimamente ridurre, a causa di un contenzioso, la durata originariamente prevista per un appalto di servizi. Invero, ragioni varie possono determinare la dilatazione dei tempi di affidamento di un appalto a conclusione di una procedura di gara; qualora si sia eroso di molto il tempo originariamente fissato di durata del contratto, è la stazione appaltante a dover valutare se conviene dar seguito alla stipulazione contrattuale – che, inevitabilmente, avrà durata limitata – ovvero indire una nuova procedura di gara per un contratto che abbia durata integra.
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Lo stesso giorno esce la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 37761 che, in materia di infortuni sul lavoro, richiama il consolidato orientamento secondo cui in caso di lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione di opera, il committente, anche quando non si ingerisce nella loro esecuzione, rimane comunque obbligato a verificare l’idoneità tecnico – professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione ai lavori affidati, dovendosi, peraltro, escludere che la non idoneità possa essere ritenuta per il solo fatto dell’avvenuto infortunio, in quanto il difetto di diligenza nella scelta dell’impresa esecutrice deve formare oggetto di specifica motivazione da parte del giudice.
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Il 26 settembre esce la sentenza della V sezione della Corte di Giustizia UE nella causa C-63/18 sulla soglia limite del 30% per il subappalto in relazione a quanto previsto dalla direttiva 2014/24.
Tale direttiva, come risulta in sostanza dal suo considerando 1, ha l’obiettivo di garantire il rispetto, nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare, della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, e dei principi che ne derivano, in particolare la parità di trattamento, la non discriminazione, la proporzionalità e la trasparenza, nonché di garantire che l’aggiudicazione degli appalti pubblici sia aperta alla concorrenza.
In particolare, a tal fine, la predetta direttiva prevede espressamente, al suo articolo 63, paragrafo 1, la possibilità per gli offerenti di fare affidamento, a determinate condizioni, sulle capacità di altri soggetti, per soddisfare determinati criteri di selezione degli operatori economici.
Inoltre, l’articolo 71 della medesima direttiva, che riguarda specificamente il subappalto, al suo paragrafo 2 dispone che l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere o può essere obbligata da uno Stato membro a chiedere all’offerente di indicare, nella sua offerta, le eventuali parti dell’appalto che intende subappaltare a terzi, nonché i subappaltatori proposti.
Ne deriva che, al pari della direttiva 2004/18 abrogata dalla direttiva 2014/24, quest’ultima sancisce la possibilità, per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, purché le condizioni da essa previste siano soddisfatte.
Infatti, secondo una giurisprudenza costante, e come risulta dal considerando 78 della direttiva 2014/24, in materia di appalti pubblici, è interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile. Il ricorso al subappalto, che può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo.
Inoltre, in precedente sentenza la Corte ha stabilito che una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe, è incompatibile con tale direttiva, applicabile nell’ambito della controversia che aveva dato luogo a tale sentenza.
A tal riguardo, occorre rilevare che, sebbene l’articolo 71 della direttiva 2014/24 riprenda, in sostanza, il tenore dell’articolo 25 della direttiva 2004/18, esso elenca tuttavia talune norme supplementari in materia di subappalto. In particolare, tale articolo 71 prevede la possibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di chiedere o di essere obbligata dallo Stato membro a chiedere all’offerente di informarla sulle intenzioni di quest’ultimo in materia di subappalto, nonché la possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice, a determinate condizioni, di trasferire i pagamenti dovuti direttamente al subappaltatore per i servizi, le forniture o i lavori forniti al contraente principale. Inoltre, il suddetto articolo 71 dispone che le amministrazioni aggiudicatrici possono verificare o essere obbligate dagli Stati membri a verificare se sussistano motivi di esclusione dei subappaltatori a norma dell’articolo 57 di tale direttiva relativi in particolare alla partecipazione a un’organizzazione criminale, alla corruzione o alla frode.
Tuttavia, afferma la Corte, dalla volontà del legislatore dell’Unione di disciplinare in maniera più specifica, mediante l’adozione di siffatte norme, le situazioni in cui l’offerente fa ricorso al subappalto, non si può dedurre che gli Stati membri dispongano ormai della facoltà di limitare tale ricorso a una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso.
A tale riguardo, il governo italiano sosteneva la facoltà per gli Stati membri di prevedere misure diverse da quelle specificamente elencate nella direttiva 2014/24, al fine di garantire, in particolare, il rispetto del principio di trasparenza nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, poiché a tale principio è dedicata una particolare attenzione nel contesto di tale direttiva.
Più specificamente, tale governo sottolineava il fatto che la limitazione del ricorso al subappalto era giustificata alla luce delle particolari circostanze presenti in Italia, dove il subappalto ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi.
È vero, osserva la Corte, che i considerando 41 e 105 della direttiva 2014/24, nonché alcune disposizioni di quest’ultima, come l’articolo 71, paragrafo 7, indicano espressamente che gli Stati membri rimangono liberi di prevedere, nel proprio diritto interno, disposizioni più rigorose rispetto a quelle previste dalla predetta direttiva in materia di subappalto, a condizione che tali prime disposizioni siano compatibili con il diritto dell’Unione.
Come deriva, in particolare, dai criteri di selezione qualitativi previsti dalla direttiva 2014/24, in particolare dai motivi di esclusione dettati al suo articolo 57, paragrafo 1, è altresì vero che il legislatore dell’Unione ha inteso evitare, mediante l’adozione di tali disposizioni, che gli operatori economici che sono stati condannati con sentenza definitiva, alle condizioni previste in tale articolo, partecipino a una procedura di aggiudicazione di appalti.
Parimenti, il considerando 41 della direttiva 2014/24 prevede che nessuna disposizione di quest’ultima dovrebbe vietare di imporre o di applicare misure necessarie, in particolare, alla tutela dell’ordine, della moralità e della sicurezza pubblici, a condizione che dette misure siano conformi al TFUE, mentre il considerando 100 di tale direttiva precisa che è opportuno evitare l’aggiudicazione di appalti pubblici, in particolare, ad operatori economici che hanno partecipato a un’organizzazione criminale.
Oltre a ciò, secondo una giurisprudenza costante, viene riconosciuto agli Stati membri un certo potere discrezionale nell’adozione di misure destinate a garantire il rispetto dell’obbligo di trasparenza, il quale si impone alle amministrazioni aggiudicatrici in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico.
Infatti, il singolo Stato membro è nella posizione migliore per individuare, alla luce di considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti in grado di provocare violazioni del rispetto dell’obbligo summenzionato.
Più specificamente, la Corte ha già dichiarato che il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici.
Tuttavia, anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione fissata in misura fissa eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo.
A tal riguardo, occorre ricordare che, durante tutta la procedura, le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 18 della direttiva 2014/24, tra i quali figurano, in particolare, i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità.
Orbene, la previsione di una soglia fissa si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori. Inoltre, un siffatto divieto generale non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore.
Ne consegue che una parte rilevante dei lavori, delle forniture o dei servizi interessati dev’essere realizzata dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto in questione.
Ritiene la Corte che misure meno restrittive sarebbero idonee a raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore italiano, al pari di quelle previste dall’articolo 71 della direttiva 2014/24.
D’altronde il diritto italiano già prevede numerose attività interdittive espressamente finalizzate ad impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese.
Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, viene dichiarato che la direttiva 2014/24 dev’essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
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Il 1° ottobre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 24466 secondo cui non può condividersi l’assunto che l’obbligo dell’appaltatore di verificare la validità tecnica del progetto fornitogli dal committente si attenuerebbe in presenza di certificazioni qualificate sulla fattibilità dell’opera, giacché la presenza di tali certificazioni non modifica la natura dell’obbligazione dell’appaltatore come obbligazione di risultato, salva l’apprezzamento che, in concreto, l’errore progettuale non sia palese e la relativa rilevazione esuli dalle cognizioni dell’appaltatore.
Viene in proposito richiamato un consolidato orientamento secondo cui l’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. Pertanto, in mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori.
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L’11 ottobre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 25679 in tema di responsabilità del committente e dell’appaltatore nel pagamento dei contributi previdenziali.
Occorre premettere che il d.lgs n. 276 del 2003 all’art. 85 ha abrogato la I. 23/10/1960 n. 1369, e con essa l’art. 3, che prevedeva all’ultimo comma l’obbligo dell’imprenditore, in solido con l’appaltatore e relativamente ai lavoratori da questi dipendenti, «all’adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi di
previdenza ed assistenza».
La previsione era formulata in termini ampi, ed era idonea quindi a configurare la responsabilità solidale dell’imprenditore appaltante in relazione a tutte le obbligazioni, previdenziali, assistenziali ed assicurative Inail.
L’art. 29 comma 2 del suddetto d.lgs n. 276 ha mantenuto la responsabilità solidale del committente con l’appaltatore per i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali, non riportando però il riferimento agli obblighi derivanti dalle leggi di assistenza.
Secondo il Collegio, tale esclusione non può ritenersi sintomo della volontà del legislatore di far venire meno la responsabilità solidale del committente per i premi Inail, non potendo ravvisarsi tra gli obiettivi della delega conferita con la I. n. 30 del 2003 quello di indebolire la tutela dell’istituto assicuratore pubblico.
La funzione dell’istituto inoltre non rientra nel concetto di assistenza, che trova il proprio fondamento nel primo comma dell’art. 38 della Costituzione – che prevede che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento dell’assistenza sociale- potendosi qualificare piuttosto l’Inail come ente strumentale per la realizzazione degli obiettivi previsti dall’art. 38 II comma della Costituzione, là dove prevede che «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».
La disposizione del 2003 ha quindi piuttosto utilizzato il termine «contributi previdenziali» in modo atecnico, con formula ampia idonea a ricomprendere anche i premi Inail, non essendo spiegabile la lacuna di garanzia per il versamento dei premi che altrimenti si determinerebbe sino al 2012.
L’utilizzazione atecnica del termine contributi da parte del legislatore non è peraltro un novum nel sistema, potendosi richiamare l’art. 6 del d.lgs n. 124 del 2004, che prevede che «le funzioni ispettive in materia di previdenza e di assistenza sociale sono svolte anche dal personale di vigilanza dell’Inps, dell’Inail, dell’Enpals e dagli altri enti per i quali sussiste la contribuzione obbligatoria, nell’ambito dell’attività di verifica del rispetto degli obblighi previdenziali e contributivi», e l’art. 2778 c.c., in materia di privilegi sui mobili, in relazione al quale il Legislatore è intervenuto con l’art. 4 comma 3 del d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, conv. dalla I. 7 dicembre 1989, n. 389, equiparando i crediti per i premi Inail a quelli per l’assicurazione invalidità vecchiaia e superstiti.
Nel febbraio 2012, con il d.l. n. 5 del 9 febbraio e la successiva legge di conversione, il Legislatore ha dunque meglio definito i contorni dell’obbligazione solidale del committente, ribadendo con maggiore chiarezza aspetti già previsti dalle precedenti formulazioni della norma, quali la responsabilità solidale del committente anche per i premi Inail e la limitazione dell’obbligazione solidale a quanto relativo al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
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Il 21 ottobre esce la sentenza della I sezione del TAR Umbria n. 518 che, in tema di differenziazione tra contratto di appalto e di concessione, richiama il consolidato orientamento secondo cui Il discrimine tra appalto e concessione è dato, ai sensi dell’art. 3 c. 12, d.lgs. n. 163/2006, dalla traslazione in capo all’affidatario del concreto rischio operativo, tale da non garantirgli l’equilibrio economico proprio dell’appalto; in particolare, il pagamento della tariffa nei confronti del gestore, che pur opera in un regime sostanzialmente monopolistico, sconta l’eventuale disequilibrio economico posto a carico del gestore stesso.
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Il 23 ottobre esce la sentenza della II sezione del TAR Sicilia – sede di Catania – n. 2488 onde non rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, ma in quella del giudice ordinario, una controversia relativa al provvedimento con il quale la P.A. appaltante ha esercitato il potere, di natura prettamente privatistica, di risoluzione del contratto per ritardo nella fornitura sulla base di una espressa clausola del disciplinare; tale provvedimento incide, infatti, su posizioni di diritto soggettivo, perché trova la sua giustificazione nell’inadempimento di obblighi assunti in via contrattuale, con conseguente devoluzione della relativa controversia – che riguarda essenzialmente l’esecuzione del contratto – alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.
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Il 25 ottobre esce la sentenza della I sezione del TAR Campania – sede di Salerno – n. 1839 in tema di verifica delle offerte anomale in caso di appalto da aggiudicare “a corpo”.
Ricorda il Collegio che il giudizio sull’anomalia delle offerte presentate nelle gare pubbliche di appalto, oltre ad avere natura globale e sintetica sulla serietà delle stesse nel loro complesso, è ampiamente discrezionale e sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, con la conseguenza che il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della Pubblica Amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, ma non procedere ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, con conseguente invasione della sfera propria della Pubblica Amministrazione.
Tale giudizio, dunque, mira, nello specifico, ad accertare in concreto che la proposta economica risulti nel suo complesso attendibile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto, né le singole operazioni valutative ad esse sottostanti possono essere sostituite e ripetute in sede giurisdizionale.
Anche l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica Amministrazione.
La giurisprudenza ha, pertanto, affermato che le valutazioni compiute dalla Stazione Appaltante, in sede di verifica dell’anomalia delle offerte, costituiscono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale, insindacabile in sede giurisdizionale, salva l’ipotesi in cui dette valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su un’insufficiente motivazione o su errori di fatto.
In particolare, nei contratti da aggiudicarsi “a corpo” il corrispettivo è determinato in una somma fissa e invariabile derivante dal ribasso offerto sull’importo a base d’asta.
Elemento essenziale della proposta economica è, quindi, il solo importo finale offerto, mentre i prezzi unitari indicati nel c.d. elenco prezzi, tratti dai listini ufficiali (che possono essere oggetto di negoziazione o di sconti sulla base di svariate circostanze), hanno un valore meramente indicativo delle voci di costo che hanno concorso a formare il detto importo finale.
Ne consegue che le indicazioni contenute nel c.d. elenco prezzi sono destinate a restare fuori dal contenuto essenziale dell’offerta e quindi del contratto da stipulare, non assumendo rilevanza neppure ai fini della valutazione della dedotta anomali. Ciò, peraltro, trova conferma nell’art. 59, comma 5, D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il quale (riproducendo l’analoga norma contenuta nell’art. 53, comma 4, D.Lgs. 12 aprile 2016, n. 163) stabilisce che: “per le prestazioni a corpo il prezzo convenuto non può variare in aumento o in diminuzione, secondo la qualità e la quantità effettiva dei lavori eseguiti”.
In definitiva, pertanto, negli appalti a corpo in cui la somma complessiva offerta copre l’esecuzione di tutte le prestazioni contrattuali, l’elenco prezzi analitico risulta irrilevante.
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Il 6 novembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 28517 onde in tema di responsabilità solidale del committente con l’appaltatore di servizi, la locuzione “trattamenti retributivi”, contenuta nell’art. 29, secondo comma d.Ig. 276/2003, deve essere interpretata in maniera rigorosa, nel senso della natura strettamente retributiva degli emolumenti che il datore di lavoro risulti tenuto a corrispondere ai propri dipendenti, in quanto elementi integranti la retribuzione, per l’istituzione di un nesso di corrispettività sinallagmatica con la prestazione lavorativa; dovendo invece l’applicabilità del predetto regime di responsabilità essere esclusa per le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno. Queste, infatti, lungi dall’intrattenere una relazione di collegamento causale con il rapporto di lavoro, hanno una matrice radicata su un nesso meramente occasionale con esso.
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Il 27 novembre esce la sentenza della V sezione della Corte di Giustizia UE nella causa C-402/18 che, dopo aver ribadito l’illegittimità eurounitaria della soglia massima di subappalto al 30%, affronta la questione se gli articoli 49 e 56 TFUE, la direttiva 2004/18 nonché la direttiva 2014/24 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
Occorre ricordare che la direttiva 2004/18 sancisce la possibilità, per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto pubblico.
Oggetto dello scrutinio del Collegio è la norma che impone di limitare, per tutti gli appalti, i prezzi che possono essere corrisposti ai subappaltatori incaricati di svolgere prestazioni oggetto di un appalto pubblico, non essendo ammesso nei confronti di tali prestazioni un ribasso superiore al 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione, pena l’esclusione dalla procedura di gara.
Detto limite è definito in modo generale e astratto, indipendentemente da qualsiasi verifica della sua effettiva necessità, nel caso di un dato appalto, al fine di assicurare ai lavoratori di un subappaltatore interessati una tutela salariale minima. Il medesimo limite si applica altresì a prescindere dal settore economico o dall’attività interessata e indipendentemente da qualsiasi presa in considerazione delle leggi, dei regolamenti o dei contratti collettivi, tanto nazionali quanto dell’Unione europea, in vigore in materia di condizioni di lavoro, che sarebbero normalmente applicabili a detti lavoratori.
Ne consegue che il limite del 20% è idoneo a rendere meno allettante la possibilità offerta dalla direttiva 2004/18 di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, dal momento che tale normativa limita l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi che i lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto presentano per le imprese che intendono avvalersi di detta possibilità.
Orbene, un tale effetto dissuasivo contrasta con l’obiettivo dell’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile e, in particolare, dell’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.
È vero che l’obiettivo della tutela dei lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto può, in linea di principio, giustificare talune limitazioni al ricorso al subappalto. È altresì vero che la direttiva 2004/18 prevede espressamente, al suo articolo 26, la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di esigere condizioni particolari in merito all’esecuzione di un appalto, le quali possono basarsi in particolare su considerazioni sociali.
Tuttavia, anche supponendo che i requisiti in materia di prezzi prescritti dalla normativa nazionale di cui trattasi possano essere qualificati come “condizioni particolari in merito all’esecuzione di un appalto”, segnatamente come “considerazioni sociali”, “precisate nel bando di gara o nel capitolato d’oneri”, ai sensi dell’articolo 26 della direttiva 2004/18, ciò non toglie che, conformemente a quest’ultima disposizione, siffatti requisiti possono essere imposti solo purché siano compatibili con il diritto dell’Unione.
Tale limite eccede quindi quanto necessario al fine di assicurare ai lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto una tutela salariale. Infatti, il limite del 20% non lascia spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dal momento che si applica indipendentemente da qualsiasi presa in considerazione della tutela sociale garantita dalle leggi, dai regolamenti e dai contratti collettivi applicabili ai lavoratori interessati.
Il limite del 20% non può essere giustificato neppure dall’obiettivo consistente nel voler garantire la redditività dell’offerta e la corretta esecuzione dell’appalto.
Certamente, non è escluso che un tale obiettivo possa giustificare talune limitazioni al ricorso al subappalto.
Tuttavia, anche supponendo che il limite del 20% sia tale da raggiungere detto obiettivo, un tale limite generale e astratto è, in ogni caso, sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito, dal momento che esistono altre misure meno restrittive che faciliterebbero il raggiungimento di quest’ultimo. Potrebbe essere presa in considerazione in particolare una misura consistente, da un lato, nel richiedere che gli offerenti indichino, nella loro offerta, la quota parte dell’appalto e i lavori che essi hanno intenzione di subappaltare e l’identità dei subappaltatori proposti e, dall’altro lato, nel prevedere la possibilità, per l’ente aggiudicatore, di vietare agli offerenti di sostituire subappaltatori se tale ente non abbia potuto verificare previamente l’identità, la capacità e l’affidabilità dei nuovi subappaltatori proposti.
In terzo luogo, non si può neanche ritenere che la compatibilità del limite del 20% con il diritto dell’Unione possa fondarsi sull’argomento fatto valere dalla Commissione, volto a dimostrare che tale limite si giustifica alla luce del principio della parità di trattamento degli operatori economici. Secondo tale istituzione, la corresponsione di prezzi ridotti ai subappaltatori, lasciando invariata la remunerazione del contraente principale indicata nell’offerta, comporterebbe una riduzione sostanziale dei costi per l’offerente e aumenterebbe in tal modo il profitto che egli ricava dall’appalto.
A tal riguardo, è sufficiente rilevare che la mera circostanza che un offerente sia in grado di limitare i propri costi in ragione dei prezzi che egli negozia con i subappaltatori non è di per sé tale da violare il principio della parità di trattamento, ma contribuisce piuttosto a una concorrenza rafforzata e quindi all’obiettivo perseguito dalle direttive adottate in materia di appalti pubblici.
Alla luce delle suesposte considerazioni, viene affermato che la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
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Il 5 dicembre esce la sentenza della I sezione del TAR Puglia – sede di Lecce – n. 1938 che, facendo applicazione della sentenza della Corte di Giustizia UE che ha eliminato il vincolo del 30% per il subappalto, riconosce come debba comunque essere valutato in concreto se il ricorso al subappalto abbia effettivamente violato i principi di trasparenza, di concorrenza e di proporzionalità.
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Il 30 dicembre esce la sentenza della I sezione del TAR Lombardia n. 2758 secondo cui l’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1 e n. 2, cpa, dispone che appartengono alla cognizione del giudice amministrativo, in giurisdizione esclusiva, le controversie: 1) relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale, ivi incluse quelle risarcitorie e con estensione della giurisdizione esclusiva alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione ed alle sanzioni alternative; 2) relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture, relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell’ipotesi di cui all’articolo 115 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, nonché quelle relative ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei prezzi ai sensi dell’articolo 133, commi 3 e 4, dello stesso decreto.
Pertanto, salve le particolari controversie di cui al n. 2), concernenti il divieto di rinnovo tacito dei contratti, la clausola di revisione del prezzo, i provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei prezzi, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, comprende la cognizione di provvedimenti, atti e comportamenti assunti prima dell’aggiudicazione e nella successiva fase compresa tra l’aggiudicazione e la stipula del contratto, mentre la successiva fase contrattuale, afferente all’esecuzione del rapporto, è riservata alla cognizione del giudice ordinario.
Con particolare riferimento al collaudo, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 431/2007, aveva già stabilito che le attività di verifica e di collaudo nella materia in esame attengono “a quella fase inerente all’attività contrattuale della pubblica amministrazione che ha inizio con la stipulazione del contratto, nella quale l’amministrazione agisce nell’esercizio della propria autonomia negoziale, fase che comprende l’intera disciplina di esecuzione del rapporto contrattuale e si connota per l’assenza di poteri autoritativi il capo al soggetto pubblico”.
Ne deriva che la controversia inerente al collaudo delle opere pubbliche esorbita l’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che detta attività rientra pienamente nell’ambito di un rapporto contrattuale disciplinato dal diritto privato ed in relazione al quale si controverte solo in materia di diritti soggettivi, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.
2020
Il 24 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 608 che, seguendo un consolidato orientamento, qualifica come appalto di servizi, e non come concessione di servizi, il contratto di gestione dei rifiuti urbani che prevede che l’attività svolta sia remunerata integralmente dall’Amministrazione, di modo che non gravi sull’operatore economico il rischio d’impresa; per tal via, le controversie relative alla fase di esecuzione del contratto rientrano nella giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria.
Nella stessa sentenza il Collegio ricorda che, ai sensi dall’art. 63 del d. lgs. n. 50/2016, sussistono le due alternative per il ricorso, in via eccezionale, all’affidamento diretto non preceduto da bando, quando sussista: a) l’assenza, per motivi di ordine tecnico, di adeguata concorrenza (comma 1, lett. b) n. 2); b) la ricorrenza di ragioni di “estrema urgenza”, derivanti da eventi “imprevedibili” ed incompatibili con l’ordinaria attivazione di procedura selettiva evidenziale. In particolare l’art. 63 del d.lgs. n. 50/2016 autorizza, in presenza di “ragioni di estrema urgenza”, il ricorso a “procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara”, a condizione che: a) l’urgenza derivi da “eventi imprevedibili” e “in alcun caso imputabili” alla amministrazione aggiudicatrice, che rendano impossibile il rispetto del termini “per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione”; b) della relativa giustificazione sia dato conto “con adeguata motivazione”; c) l’affidamento sia disposto “nella misura strettamente necessaria”.
L’opzione prevista dall’art. 63 del d.lgs. n. 50/2016 riveste, all’evidenza, carattere di eccezionalità rispetto all’obbligo delle amministrazioni aggiudicatrici di individuare il loro contraente attraverso il confronto concorrenziale, sicché, per condiviso intendimento, la scelta di tale modalità richiede un particolare rigore nell’individuazione dei presupposti giustificativi, da interpretarsi restrittivamente.
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Il 30 gennaio esce la sentenza della II sezione della Corte di Giustizia UE nella causa C-395/18 che affronta la questione se la direttiva 2014/24 e il principio di proporzionalità ostino ad una normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad escludere automaticamente un operatore economico dalla procedura di aggiudicazione di appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell’offerta di tale operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dall’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva.
Ai sensi dell’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, le amministrazioni aggiudicatrici possono escludere, oppure gli Stati membri possono chiedere alle amministrazioni aggiudicatrici di escludere un operatore economico dalla partecipazione ad una procedura di affidamento d’appalto qualora esse possano dimostrare, con qualunque mezzo adeguato, una violazione degli obblighi applicabili di cui all’articolo 18, paragrafo 2, di detta direttiva.
Occorre rilevare, in via preliminare, che dall’articolo 2, paragrafo 1, punto 10, della direttiva 2014/24 risulta che l'”operatore economico” è definito come una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti, compresa qualsiasi associazione temporanea di imprese, che offra sul mercato la realizzazione di lavori e/o di un’opera, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi.
Riguardo ad un motivo di esclusione facoltativo quale quello previsto dall’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, occorre rilevare anzitutto che, in conformità dell’articolo 57, paragrafo 7, di tale direttiva, spetta agli Stati membri specificare, nel rispetto del diritto dell’Unione, le “condizioni di applicazione” di tale articolo.
Risulta dalla giurisprudenza della Corte che l’articolo 57, paragrafo 7, della direttiva 2014/24 non ha come obiettivo una uniformità di applicazione dei motivi di esclusione ivi indicati a livello dell’Unione, nella misura in cui gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare tali motivi o di integrarli nella normativa nazionale con un grado di rigore che può variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. Gli Stati membri dispongono dunque di un sicuro margine di discrezionalità nella determinazione delle condizioni di applicazione dei motivi di esclusione facoltativi previsti dall’articolo 57, paragrafo 4, della direttiva 2014/24.
Per quanto riguarda il motivo di esclusione facoltativo previsto dall’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, occorre sottolineare che tale motivo è enunciato in maniera impersonale, senza che venga precisato l’autore della violazione degli obblighi contemplati dall’articolo 18, paragrafo 2, della medesima direttiva. Di conseguenza, occorre constatare che il tenore letterale dell’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, anche laddove esso venga letto alla luce del considerando 101, primo comma, della direttiva stessa, da cui risulta che le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero continuare ad avere la possibilità di escludere operatori economici che si siano dimostrati inaffidabili a causa di violazioni di obblighi ambientali o sociali, non impedisce agli Stati membri di ritenere che l’autore della violazione constatata possa essere anche il subappaltatore, e di prevedere così la facoltà, o addirittura l’obbligo, per l’amministrazione aggiudicatrice di escludere, per tale ragione, l’operatore economico che ha presentato l’offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto.
Occorre però ricordare che, ai fini dell’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione, bisogna tener conto non soltanto del tenore letterale della disposizione stessa, ma anche del suo contesto e dell’economia generale della normativa di cui essa fa parte, nonché degli obiettivi perseguiti da quest’ultima.
Per quanto riguarda, in primo luogo, il contesto dell’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, nonché l’economia generale di tale direttiva, occorre rilevare come tale disposizione faccia espresso riferimento ad una violazione degli obblighi contemplati dall’articolo 18, paragrafo 2, della direttiva in parola, vale a dire degli obblighi applicabili nei settori del diritto ambientale, sociale e del lavoro.
A questo proposito, occorre osservare che l’articolo 18 della direttiva 2014/24, intitolato “Principi per l’aggiudicazione degli appalti”, è il primo articolo del capo II di tale direttiva dedicato alle “[d]isposizioni generali” relative alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. Così, stabilendo al paragrafo 2 di tale articolo che gli operatori economici debbono rispettare, nell’esecuzione degli appalti, gli obblighi applicabili in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro, il legislatore dell’Unione ha inteso erigere tale prescrizione a principio, allo stesso titolo degli altri principi contemplati al paragrafo 1 del medesimo articolo, vale a dire i principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di trasparenza, di proporzionalità, nonché di divieto di sottrazione di un appalto all’ambito di applicazione della direttiva 2014/24 o di limitazione artificiosa della concorrenza. Ne consegue che una prescrizione siffatta costituisce, nell’economia generale di tale direttiva, un valore cardine sul cui rispetto gli Stati membri devono vigilare in virtù della formulazione stessa dell’articolo 18, paragrafo 2, della direttiva in parola.
Alla luce di tali circostanze, la necessità di assicurare in modo adeguato il rispetto degli obblighi previsti dall’articolo 18, paragrafo 2, della direttiva 2014/24 deve permettere agli Stati membri, in sede di determinazione delle condizioni di applicazione del motivo di esclusione previsto dall’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva, di ritenere che l’autore della violazione possa essere non soltanto l’operatore economico che ha presentato l’offerta, ma anche i subappaltatori dei quali quest’ultimo intenda avvalersi.
Infatti, l’amministrazione aggiudicatrice può legittimamente pretendere di attribuire l’appalto soltanto agli operatori economici che, sin dalla fase di procedura di affidamento dell’appalto, dimostrino la propria capacità di assicurare in modo adeguato, nel corso dell’esecuzione dell’appalto, il rispetto degli obblighi suddetti, eventualmente avvalendosi di subappaltatori a loro volta rispettosi degli obblighi in questione.
Ne consegue che gli Stati membri possono prevedere, ai fini dell’applicazione dell’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, che l’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico che ha presentato l’offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell’offerta di tale operatore venga constatata una violazione degli obblighi previsti dall’articolo 18 paragrafo 2, di detta direttiva.
Tale interpretazione è suffragata, in secondo luogo, dall’obiettivo sotteso all’articolo 57, paragrafo 4, della direttiva 2014/24. A questo proposito, occorre ricordare che la facoltà, o addirittura l’obbligo, per l’amministrazione aggiudicatrice di escludere un operatore economico dalla partecipazione ad una procedura di aggiudicazione di appalto è destinato in modo particolare a permettere a detta amministrazione di valutare l’integrità e l’affidabilità di ciascuno degli operatori economici. In particolare, il motivo di esclusione facoltativo menzionato all’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, letto in combinato disposto con il considerando 101 di quest’ultima, si fonda su un elemento essenziale del rapporto tra l’aggiudicatario dell’appalto e l’amministrazione aggiudicatrice, vale a dire l’affidabilità del primo, sulla quale si fonda la fiducia che in questo ripone la seconda.
In combinazione con l’obiettivo specifico dell’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24, consistente nel garantire il rispetto degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro, l’obiettivo relativo all’affidabilità dell’operatore economico deve permettere agli Stati membri di attribuire all’amministrazione aggiudicatrice la facoltà, o addirittura l’obbligo, di ritenere affidabili unicamente gli operatori economici che, nell’elaborazione della loro offerta, abbiano dato prova della cura e della diligenza richieste affinché, nel corso dell’esecuzione dell’appalto, gli obblighi in questione siano rispettati in qualsiasi circostanza, sia dagli operatori stessi sia dai subappaltatori cui tali operatori prevedono di affidare una parte dell’esecuzione dell’appalto.
Risulta dalle considerazioni che precedono che l’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24 non osta ad una normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico che ha presentato l’offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell’offerta di tale operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dalla disposizione sopra citata.
Ciò premesso, occorre ricordare che gli Stati membri, allorché specificano le condizioni di applicazione dell’articolo 57 della direttiva 2014/24, devono, a norma del paragrafo 7 di tale articolo, rispettare il diritto dell’Unione.
A questo proposito, occorre ricordare, da un lato, che le amministrazioni aggiudicatrici devono, per tutta la durata della procedura, rispettare i principi valevoli per l’aggiudicazione degli appalti enunciati all’articolo 18 della direttiva 2014/24, tra i quali figurano, in particolare, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità, e, dall’altro lato, che, in osservanza del principio di proporzionalità che costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, le norme stabilite dagli Stati membri o dalle amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito dell’attuazione delle disposizioni della direttiva di cui sopra, come le norme destinate a specificare le condizioni di applicazione dell’articolo 57 di tale direttiva, non devono andare oltre quanto è necessario per raggiungere gli obiettivi previsti da questa stessa direttiva.
Così, in primo luogo, qualora l’amministrazione aggiudicatrice si attivi per verificare nel corso della procedura di aggiudicazione di appalto, conformemente all’obbligo gravante su di essa in forza dell’articolo 56, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2014/24, letto alla luce del considerando 40 di quest’ultima, se esistano motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della medesima direttiva, e la normativa nazionale stabilisca che detta amministrazione aggiudicatrice ha la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico in ragione di una violazione, da parte di un subappaltatore, degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro, essa è tenuta, al fine di rispettare il principio della parità di trattamento, a verificare l’esistenza di qualsiasi violazione degli obblighi suddetti nei confronti non soltanto di tutti gli operatori economici che hanno presentato un’offerta, ma anche di tutti i subappaltatori indicati da tali operatori nelle loro rispettive offerte.
Dal momento che tale verifica uniforme interviene nella fase della procedura di affidamento dell’appalto, occorre precisare che il principio della parità di trattamento non osta a che una normativa nazionale stabilisca che la constatazione di una violazione, in capo ad un subappaltatore, dopo l’attribuzione dell’appalto non determina l’esclusione dell’aggiudicatario, bensì soltanto la sostituzione del subappaltatore. Infatti, nella misura in cui tutti gli operatori economici e tutti i subappaltatori indicati nelle offerte di tali operatori siano stati sottoposti, nel corso della procedura di aggiudicazione dell’appalto, ad un processo di verifica condotto dall’amministrazione aggiudicatrice secondo identiche condizioni, occorre considerare che tali operatori e subappaltatori sono stati, sotto questo aspetto, trattati su un piede di parità durante la procedura di aggiudicazione dell’appalto, dato che il principio della parità di trattamento non impedisce che sia prevista una regola differente qualora la violazione abbia potuto essere accertata soltanto successivamente nel corso della fase di esecuzione dell’appalto.
Per quanto riguarda, in secondo luogo, il principio di proporzionalità, occorre ricordare che dal considerando 101, terzo comma, della direttiva 2014/24 risulta che, nell’applicare motivi di esclusione facoltativi come quello enunciato all’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di tale direttiva, le amministrazioni aggiudicatrici devono prestare particolare attenzione al principio di proporzionalità, prendendo segnatamente in considerazione il carattere lieve delle irregolarità commesse o il ripetersi di irregolarità lievi. Tale attenzione deve essere ancor più elevata qualora l’esclusione prevista dalla normativa nazionale colpisca l’operatore economico che ha presentato l’offerta per una violazione commessa non da lui direttamente, bensì da un soggetto estraneo alla sua impresa, per il controllo del quale detto operatore può non disporre di tutta l’autorità richiesta e di tutti i mezzi necessari.
La necessità di rispettare il principio di proporzionalità risulta parimenti rispecchiata all’articolo 57, paragrafo 6, primo comma, della direttiva 2014/24, in virtù del quale un operatore economico, che si trovi segnatamente nella situazione contemplata all’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva, anche quando ciò derivi da una violazione constatata nei confronti di un subappaltatore indicato nell’offerta, può fornire delle prove al fine di attestare che le misure da esso prese sono sufficienti per dimostrare la sua affidabilità malgrado l’esistenza di detto motivo di esclusione.
L’articolo 57, paragrafo 6, primo comma, della direttiva 2014/24 precisa che, se tali prove sono ritenute sufficienti, l’operatore economico in questione non deve essere escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto. Tale disposizione introduce dunque un meccanismo di misure correttive (self-cleaning) che sottolinea l’importanza attribuita all’affidabilità dell’operatore economico.
Ne consegue che l’operatore economico che ha presentato l’offerta, ove corra il rischio di essere escluso dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione di appalto a motivo di una violazione degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro imputabile ad uno dei subappaltatori di cui esso intende avvalersi, può dimostrare all’amministrazione aggiudicatrice di essere tuttora affidabile malgrado l’esistenza di un siffatto motivo di esclusione, dovendo l’amministrazione aggiudicatrice, a norma dell’articolo 57, paragrafo 6, terzo comma, della direttiva 2014/24, valutare gli elementi di prova forniti da tale operatore in funzione della gravità della situazione e delle particolari circostanze del caso di specie.
Orbene, la normativa nazionale in discussione nel procedimento principale prevede in modo generale e astratto l’esclusione automatica dell’operatore economico qualora nei confronti di uno dei subappaltatori indicati nell’offerta di tale operatore venga constatata una violazione degli obblighi in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro, indipendentemente dalle circostanze in cui si è verificata tale violazione, e stabilisce dunque una presunzione assoluta secondo cui l’operatore economico deve essere escluso per qualsiasi violazione imputabile ad uno dei suoi subappaltatori, senza lasciare all’amministrazione aggiudicatrice la facoltà di valutare, caso per caso, le particolari circostanze del caso di specie, e all’operatore economico quella di dimostrare la propria affidabilità malgrado la constatazione di detta violazione.
In particolare, una normativa siffatta non permette all’amministrazione aggiudicatrice di tenere conto, ai fini della valutazione della situazione, di una serie di fattori pertinenti, come i mezzi di cui l’operatore economico che ha presentato l’offerta disponeva per verificare l’esistenza di una violazione in capo ai subappaltatori, o la presenza di un’indicazione, nella sua offerta, della propria capacità di eseguire l’appalto senza avvalersi necessariamente del subappaltatore in questione.
Date tali circostanze, una normativa nazionale che preveda una siffatta esclusione automatica dell’operatore economico che ha presentato l’offerta viola il principio di proporzionalità, imponendo alle amministrazioni aggiudicatrici di procedere automaticamente a tale esclusione a causa della violazione commessa da un subappaltatore, ed eccedendo così il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri, a norma dell’articolo 57, paragrafo 7, della direttiva 2014/24, in ordine alla precisazione delle condizioni di applicazione del motivo di esclusione previsto dall’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), di detta direttiva nel rispetto del diritto dell’Unione. Una normativa siffatta priva altresì l’operatore economico della possibilità di dimostrare, conformemente all’articolo 57, paragrafo 6, della direttiva 2014/24, la propria affidabilità malgrado l’esistenza di una violazione compiuta da uno dei suoi subappaltatori.
Di conseguenza, un’esclusione automatica dell’operatore economico che ha presentato l’offerta, prevista dalla normativa nazionale, privando, da un lato, tale operatore della possibilità di fornire elementi circostanziati in merito alla situazione e, dall’altro, l’amministrazione aggiudicatrice della possibilità di disporre di un margine di discrezionalità al riguardo, non può essere considerata compatibile con l’articolo 57, paragrafi 4 e 6, della direttiva 2014/24 e con il principio di proporzionalità.
Alla luce delle considerazioni che precedono, viene affermato che l’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24 non osta ad una normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico che ha presentato l’offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell’offerta di detto operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dalla disposizione sopra citata. Per contro, tale disposizione, letta in combinato disposto con l’articolo 57, paragrafo 6, della medesima direttiva, nonché il principio di proporzionalità, ostano ad una normativa nazionale che stabilisca il carattere automatico di tale esclusione.
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Il 31 gennaio esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 2315 che dà continuità all’orientamento secondo cui la mera assunzione, da parte del subentrante nell’appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo, per cui se in un determinato appalto di servizi un imprenditore subentra ad un altro e nel contempo ne acquisisce il personale e i beni strumentali organizzati (cioè l’azienda), la fattispecie non può che essere disciplinata dall’art. 2112 c.c. (pena un’ingiustificata aporia nell’ordinamento); tanto rende l’art. 29 d.lgs. 276/03 coerente con l’art. 2112 c.c. e non contraddice la giurisprudenza in materia della CGUE, che reputa non contrastante con la normativa euro-unitaria, ma non necessitata, l’estensione della tutela prevista per i trasferimenti d’azienda anche ai casi di successione d’un imprenditore ad un altro nell’appalto d’un servizio.
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Il 7 febbraio esce la sentenza della II sezione del TAR Lombardia n. 272 che ribadisce la distinzione tra le offerte migliorative dalle varianti progettuali. Le prime consistono in soluzioni tecniche che, senza incidere sulla struttura, sulla funzione e sulla tipologia del progetto a base di gara, investono singole lavorazioni o singoli aspetti tecnici dell’opera, lasciati aperti a diverse soluzioni. Le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante previsione contenuta nel bando di gara ed individuazione dei requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l’opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla pubblica amministrazione.
Ne deriva che possono essere considerate proposte migliorative tutte quelle precisazioni, integrazioni e migliorie che sono finalizzate a rendere il progetto prescelto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza, tuttavia, alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste e che, invece, non sono ammesse tutte quelle varianti progettuali che, traducendosi in una diversa ideazione dell’oggetto del contratto, alternativa rispetto al disegno progettuale originario, diano luogo ad uno stravolgimento di quest’ultimo.
Nell’ambito, poi, della gara da aggiudicarsi col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa è lasciato ampio margine di discrezionalità alla commissione giudicatrice, anche quanto alla valutazione delle ragioni che giustificano la soluzione migliorativa proposta e la sua efficienza nonché quanto alla rispondenza alle esigenze della stazione appaltante.
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Il 12 febbraio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 1084 che si allinea all’orientamento delle SU secondo cui la risoluzione anticipata del contratto disposta autoritativamente è di competenza del G.O. solo se incide su un rapporto di natura privatistica in cui le parti sono in condizione di parità, come nel caso dell’inadempimento delle obbligazioni poste a carico dell’appaltatore, non implicando l’esercizio di poteri discrezionali dell’Amministrazione (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 10/01/2019, n.489;).
Così pure nel caso in cui l’Amministrazione pubblica ottenga la risoluzione del contratto invocando la clausola risolutiva espressa, ex art. 1456 cod. civ., la controversia tra le parti contraenti appartiene alla giurisdizione ordinaria per essere l’atto risolutivo esercizio di diritto potestativo governato dal diritto comune e non di poteri autoritativi di matrice pubblicistica dell’amministrazione pubblica nei confronti del privato.
Invece, la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo in caso di annullamento d’ufficio di atti appartenenti al procedimento che ha condotto alla stipulazione del contratto, in ordine alla legittimità dell’esercizio dell’autotutela.
Così pure allorché, come nella fattispecie, venga esercitato un potere autoritativo di risoluzione contrattuale che implichi o valutazioni di carattere discrezionale circa la convenienza per l’Amministrazione di proseguire nel rapporto già in essere, o la rilevazione in autotutela dell’esistenza di una causa di nullità dell’aggiudicazione, anche successivamente alla stipula del contratto.
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Lo stesso giorno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 1101 onde l’obbligo di piena corrispondenza tra quote di partecipazione al raggruppamento, a loro volta coerenti con le quote di esecuzione della prestazione, e requisito di partecipazione posseduto, si applica ai soli appalti aventi ad oggetto lavori; per gli appalti aventi ad oggetto servizi e forniture non vige il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara.
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Il 19 febbraio esce la sentenza della sezione I quater del TAR Lazio n. 2221 secondo cui la gara per l’affidamento dei servizi di conduzione e dei lavori di manutenzione ordinaria a guasto degli impianti meccanici (ascensori, servo scala e piattaforme elevatrici), ha natura di appalto misto, avendo per oggetto una complessa attività di conduzione degli impianti, che, come esplicitato negli atti di gara, si declina attraverso la richiesta di varie prestazioni, sia di carattere organizzativo e gestionale, sia di carattere manutentivo, e nelle quali risultano richiesti congiuntamente servizi, lavori e persino di forniture, ad es., di pezzi di ricambio.
Le attività inerenti alla conduzione di impianti, anche se riconducibili alla manutenzione straordinaria, pur concretantisi in prestazioni inerenti a lavori, devono ritenersi ascrivibili alla quota servizi, essendo i possibili interventi strutturali da compiersi a cura dell’appaltatore volti esclusivamente ad assicurare la continuità del funzionamento di impianti già esistenti.
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Il 21 febbraio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 1330 che distingue tra avvalimento di garanzia e avvalimento operativo.
L’avvalimento c.d. di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento: tale avvalimento riguarda i requisiti di carattere economico – finanziario e il fatturato globale o specifico. L’avvalimento c.d. operativo ricorre, invece, quando l’ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse tecnico – organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto; esso concerne i requisiti di capacità tecnico – professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale dell’ausiliaria.
Nel caso di avvalimento di garanzia, non è necessario che nel contratto siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli indici materiali della consistenza patrimoniale dell’ausiliaria, essendo sufficiente che essa si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di esperienza. Diversamente, nell’avvalimento operativo è imposto alle parti di indicare nel contratto i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto.
Infine, ricorda il Collegio che nel caso di avvalimento non è configurabile un subappalto: in quest’ultimo, infatti, l’impresa sub-appaltatrice, a differenza di quella ausiliaria, assume in proprio il rischio economico-imprenditoriale dell’esecuzione delle prestazioni sub-appaltate, secondo lo schema tipico del contratto derivato dal contratto principale, laddove nell’avvalimento soggetto esecutore e responsabile nei confronti della stazione appaltante per l’esecuzione delle prestazioni è sempre l’impresa ausiliata, sia pure con la garanzia della responsabilità solidale dell’ausiliaria.
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Il 2 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 5685 onde le ragioni di tutela dei crediti dei subappaltatori non possono di per sé giustificare deroghe, in via giurisprudenziale, al principio della par condicio, restando il subappaltatore che abbia adempiuto le sue prestazioni in favore del debitore in bonis pur sempre un creditore concorsuale come gli altri, «salve le cause legittime di prelazione» (art. 2741 c.c.) che spetta al legislatore introdurre e disciplinare secondo l’ordine previsto dagli artt. 2777 ss. c.c., se non si vuole introdurre disparità di trattamento tra i subappaltatori di opere pubbliche e quelli di opere private, pur essi costituiti da piccole e medie imprese.
La tesi che attribuisce natura prededucibile al credito del subappaltatore fa leva sull’esercizio eventuale del potere (di autotutela) della stazione appaltante, previsto dal bando di gara a norma dell’art. 118, comma terzo, codice del 2006, di avvalersi di detta sospensione nei confronti dell’appaltatore: di qui la configurazione, da un lato, del pagamento del credito del subappaltatore come «condizione di esigibilità» del credito verso la stazione appaltante e, dall’altro, del pagamento del credito del subappaltatore, in caso di fallimento dell’appaltatore, come funzionale agli interessi della procedura che ne giustificherebbe la trasformazione in credito prededucibile.
Il nucleo essenziale della tesi interpretativa cui aderiscono le Sezioni Unite si incentra sul rilievo che il meccanismo della sospensione dei pagamenti della stazione appaltante in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti di quest’ultimo al subappaltatore, debba ritenersi calibrato sull’ipotesi di un rapporto di appalto in corso con un’impresa «in bonis», venendo meno a seguito del fallimento dell’appaltatore l’interesse sinallagmatico della stazione appaltante all’esecuzione dell’opera.
Se è vero peraltro che il fallimento determina lo scioglimento del contratto di appalto qualora il curatore non dichiari di voler subentrare nel rapporto (cfr. terzo comma, lett. b, del citato art. 110), la tesi che ammette la prededuzione postula l’operatività della sospensione come oggetto di un potere unilaterale della stazione appaltante che renderebbe insindacabile la valutazione dell’interesse che ne è a fondamento.
Secondo la Corte, però, questo postulato non è tuttavia condivisibile.
È certo che la prededuzione è predicabile, in astratto, solo nel caso in cui la stazione appaltante sia in condizione di esercitare in concreto il suddetto potere di sospendere i pagamenti con effetto incondizionato, poiché se il suddetto potere non venisse esercitato oppure non fosse suscettibile di produrre in concreto effetti paralizzanti nei confronti dell’appaltatore, non vi sarebbe ragione di favorire il pagamento del credito del subappaltatore che non recherebbe alcun vantaggio alla massa fallimentare.
Ciò induce a chiedersi se, a seguito del fallimento dell’appaltatore, la stazione appaltante possa esercitare il suddetto potere e continuare ad opporre la sospensione del pagamento all’appaltatore fallito e, dunque, al curatore e, di conseguenza, se il curatore sia legittimato ad agire nei confronti della stazione appaltante per pretendere il pagamento dovuto.
La sospensione del pagamento, in quanto prevista dalla legge (art. 118, terzo comma, codice del 2006), si traduce in concreto in una eccezione di inadempimento che la stazione appaltante è legittimata ad opporre all’appaltatore (inadempiente all’obbligo di dimostrare il pagamento al subappaltatore). La proponibilità della suddetta eccezione postula, tuttavia, che il rapporto contrattuale sia in corso, poiché è solo nella fase esecutiva del rapporto in essere che è consentito alle parti far valere reciprocamente adempimenti e inadempimenti contrattuali.
A seguito del fallimento che rende il contratto di appalto, anche di opera pubblica, inefficace «ex nunc» e, dunque, non più eseguibile (arg. ex art. 72, primo comma, legge fall.), al curatore spetta il corrispettivo dovuto per le prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento; la stazione appaltante può rifiutare il pagamento delle opere ineseguite o eseguite non a regola d’arte, ma non può invocare la disciplina prevista dall’art. 1460 c.c., in tema di eccezione di inadempimento, la quale, implicando la sospensione della prestazione della parte non inadempiente, presuppone un contratto non ancora sciolto e quindi eseguibile.
L’eccezione d’inadempimento, che consente la sospensione della prestazione della parte non inadempiente, in presenza di inadempimento della controparte, configura uno strumento accordato alla parte che voglia salvaguardare i propri interessi, nella prospettiva della esecuzione (e dunque conservazione) del contratto, alla quale l’eccezione serve appunto di stimolo.
Una volta che il contratto si sia sciolto, per qualsiasi causa e, quindi, anche per il fallimento, l’art. 1460 c.c. non può essere invocato e trovano, invece, applicazione le norme che disciplinano gli effetti dello scioglimento.
Il curatore, che ha «l’amministrazione del patrimonio fallimentare» (art. 31 legge fall.), ha l’onere imprescindibile di attivare ogni iniziativa utile alla procedura diretta al recupero dell’attivo fallimentare, e quindi anche del corrispettivo del contratto di appalto, al fine di soddisfare la massa dei creditori nel miglior modo possibile.
E qualora si ipotizzasse, in senso contrario, che la stazione appaltante sia legittimata ad opporre al curatore (che agisca in giudizio per ottenere il pagamento di quanto dovuto) le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’appaltatore fallito, compresa quella di sospensione del pagamento, risulterebbe confermato che, nel caso di fallimento, la sospensione non potrebbe operare incondizionatamente, ma dovrebbe assumere le vesti di una eccezione (di inadempimento) comunque rimessa a una valutazione giudiziale che tenga conto anche delle contestazioni dell’appaltatore circa la regolarità dei lavori eseguiti dal subappaltatore (cfr. l’art. 170, settimo comma, del dPR 5 ottobre 2010, n. 207, regolamento di attuazione del codice del 2006, abrogato dal codice del 2016, art. 217). E ciò diversamente da quanto accade nel caso in cui l’appaltatore sia in bonis, quando la sospensione costituisce oggetto di un potere unilaterale del committente.
Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: “in caso di fallimento dell’appaltatore di opera pubblica, il meccanismo delineato dall’art. 118, terzo comma, del d.lgs. n. 163 del 2006 – che consente alla stazione appaltante di sospendere i pagamenti in favore dell’appaltatore, in attesa delle fatture dei pagamenti effettuati da quest’ultimo al subappaltatore – deve ritenersi riferito all’ipotesi in cui il rapporto di appalto sia in corso con un’impresa in bonis e, dunque, non è applicabile nel caso in cui, con la dichiarazione di fallimento, il contratto di appalto si scioglie; ne consegue che al curatore è dovuto dalla stazione appaltante il corrispettivo delle prestazioni eseguite fino all’intervenuto scioglimento del contratto e che il subappaltatore deve essere considerato un creditore concorsuale dell’appaltatore come gli altri, da soddisfare nel rispetto della par condicio creditorum e dell’ordine delle cause di prelazione”.
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Il 19 marzo esce l’ordinanza della I sezione civile della Cassazione onde, in tema di appalto di opere pubbliche gli artt. 340,341 e 345 della I. n. 2248 del 1865, all F, si limitano ad attribuire alla P.A. appaltante il potere di risolvere il contratto nei casi in cui, a suo discrezionale giudizio, ritenga che l’appaltatore sia inadempiente; il provvedimento di rescissione adottato dalla stazione appaltante, ex art. 340 della I. n. 2248 del 1865, all. F, non impedisce all’appaltatore di agire per la risoluzione del contratto in base alle regole generali dettate per l’inadempimento contrattuale di non scarsa importanza, ai sensi degli artt. 1453 e 1455 cod.civ., poiché il potere autoritativo di cui si rende espressione il provvedimento di rescissione adottato dalla P.A., non è idoneo ad incidere sulle posizioni soggettive nascenti dal rapporto contrattuale aventi consistenza di diritti soggettivi.
Anche in tema di rescissione del contratto di appalto ai sensi dell’articolo 340 della legge n. 2248 del 1865, allegato F, se è vero che l’accertamento – da parte del giudice del merito – dei presupposti stabiliti da tale norma per l’esercizio del diritto di autotutela della P.A. è autonomo, e non vincolato alla risultanze sulle quali l’Amministrazione si è basata per far valere il suo diritto potestativo, è pur vero che lo stesso deve essere compiuto in base alla disciplina privatistica degli articoli 1218 e 1453 cod.civ. Tale disciplina, in particolare, non consente al giudice di isolare singole condotte di una delle parti e di stabilire se ciascuna di esse soltanto costituisca motivo di inadempienza a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma impone al giudice di procedere alla valutazione sinergica del comportamento di entrambe, compiendo una indagine globale e unitaria, coinvolgente nell’insieme l’intero loro comportamento, anche se con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell’inadempimento, perché la unitarietà del rapporto obbligatorio, a cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuna delle parti non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta del contraente, ma ne esige un apprezzamento complessivo.
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Il 20 aprile esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 2486 onde è legittima la clausola del bando di gara per un appalto del servizio di pulizia che impone un numero minimo di ore di lavoro degli addetti e la decurtazione dal canone mensile spettante all’appaltatore del costo orario dei lavoratori assenti, rientrando nella valutazione organizzativa dell’amministrazione appaltante identificare le caratteristiche della prestazione contrattuale che le necessita procurarsi e per la quale va alla ricerca di un contraente adeguato, e definirle nella legge di gara, anche con l’individuazione dei contenuti necessari delle offerte, e in ipotesi con la previsione dell’esclusione nel caso della loro carenza.
La clausola del bando che impone un numero minimo di ore di lavoro degli addetti non viola la tipologia di appalto dell’art. 29 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), né in tal caso il rapporto è configurabile alla stregua di una somministrazione di lavoro. Infatti, non basta la sola richiesta del committente di un certo numero di ore di lavoro per escludere che ricorra un appalto e qualificare il contratto come di somministrazione di lavoro: occorre, in primis, che sia trasferito al committente l’esercizio del potere organizzativo e direttivo dei lavoratori impiegati. Il che non risulta dimostrato nel caso di richiesta di un certo numero di ore, perché la stazione appaltante non intende acquistare un monte di ore di lavoro da gestire a propria discrezione, ma semplicemente garantire che sia effettuato un determinato numero ore di servizio minimo che evidentemente stima correlato allo specifico servizio di cui abbisogna.
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Il 6 maggio esce la sentenza della II sezione del Consiglio di Stato n. 2860 che riconosce come norma imperativa l’art. 6, comma 4, della L. n. 537 del 1993, come novellato dall’art. 44 della L. n. 724 del 1994, prevede che tutti i contratti pubblici ad esecuzione periodica o continuativa devono recare una clausola di revisione periodica del prezzo pattuito.
La finalità dell’istituto della revisione dei prezzi contrattuali è da un lato quella di salvaguardare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell’eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte, dall’altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto.
Tuttavia, l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’Amministrazione, non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti.
La posizione dell’appaltatore è quindi di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuazione della revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante, che deve effettuare un bilanciamento tra l’interesse dell’appaltatore alla revisione e l’interesse pubblico connesso al risparmio di spesa, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato; ne deriva che sarà sempre necessaria l’attivazione – su istanza di parte – di un procedimento amministrativo nel quale l’Amministrazione dovrà svolgere l’attività istruttoria volta all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale. In caso di inerzia da parte della stazione appaltante, a fronte della specifica richiesta dell’appaltatore, quest’ultimo potrà impugnare il silenzio inadempimento prestato dall’Amministrazione, ma non potrà demandare in via diretta al giudice l’accertamento del diritto, non potendo questi sostituirsi all’amministrazione rispetto ad un obbligo di provvedere gravante su di essa.
I risultati del procedimento di revisione prezzi sono espressione di facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge.
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Il 22 maggio esce la sentenza della IV sezione penale della Cassazione n. 15697 alla cui stregua, in relazione ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto, il dovere di sicurezza trova il suo referente, in primo luogo, nell’appaltatore, cioè nel soggetto che si obbliga verso il committente a compiere l’opera appaltata, con propria organizzazione dei mezzi necessari e con gestione in proprio dei rischi dell’esecuzione. Il committente, tuttavia, non è esonerato da ogni forma di responsabilità, essendo stato anzi ampiamente coinvolto nell’attuazione delle misure di sicurezza in virtù dell’articolata disciplina contenuta nel D. Lgs. N. 494/96 e nel T.U. in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D. Lgs. N. 81/08). Il legislatore, infatti, al fine di contenere il fenomeno degli infortuni sul lavoro nel campo degli appalti e costruzioni, ha optato per la responsabilizzazione del soggetto per conto del quale i lavori vengono eseguiti. Quanto precede si è tradotto nella previsione di tutta una serie di obblighi in capo al committente, cristallizzati nell’art. 90 del T.U., che tra l’altro prevede la nomina (alla presenza delle ulteriori condizioni previste dalla legge) del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione nel caso di presenza di più imprese esecutrici e nella verifica dell’idoneità tecnica-professionale delle imprese affidatarie ed esecutrici. Permane, pertanto, in capo al committente un preciso dovere di vigilanza e verifica dell’adempimento da parte del coordinatore per la sicurezza degli obblighi sullo stesso gravanti.
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L’11 giugno esce la sentenza della I sezione del Tar Toscana n. 706 che statuisce l’illegittimità della clausola del bando di gara di un appalto di lavori che abbia limitato al 30% l’importo dei lavori subappaltabili, in ragione del contrasto con la giurisprudenza europea in virtù della quale la direttiva 2014/24 dev’essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 105 del codice dei contratti pubblici, che limita in modo rigido ed indiscriminato al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
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Il 16 giugno esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 3874 secondo la quale, in materia di appalti pubblici, l’istituto della revisione dei prezzi ha la finalità di salvaguardare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell’eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse (incidente sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell’offerta), e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte; dall’altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto. Al contempo essa è posta, a tutela dell’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi sopraggiunte durante l’arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standards qualitativi delle prestazioni.
L’inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo (obbligatoria secondo la disciplina del tempo), sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’amministrazione, non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti.
Secondo il Consiglio di Stato, la posizione dell’appaltatore è di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante, che deve effettuare un bilanciamento tra l’interesse dell’appaltatore alla revisione e l’interesse pubblico connesso al risparmio di spesa, ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato. In particolare, l’istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, modello che sottende l’esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale dell’Amministrazione nei confronti del privato contraente, potendo quest’ultimo collocarsi su un piano di equiordinazione con la prima solo con riguardo a questioni involgenti l’entità della pretesa.
Ne deriva che sarà sempre necessaria l’attivazione – su istanza di parte – di un procedimento amministrativo nel quale l’Amministrazione dovrà svolgere l’attività istruttoria volta all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, compito che dovrà sfociare nell’adozione del provvedimento che riconosce il diritto al compenso revisionale e ne stabilisce anche l’importo. Nella pronuncia in parola viene, altresì, statuito che la revisione dei prezzi dei contratti si applica solo alle proroghe contrattuali, come tali previste ab origine negli atti di gara ed oggetto di consenso “a monte”, ma non anche agli atti successivi al contratto originario con cui, mediante specifiche manifestazioni di volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a quello originario per quanto concerne la remunerazione del servizio, senza che sia stata avanzata alcuna proposta di modifica del corrispettivo.
Per quanto riguarda il criterio distintivo tra proroga e rinnovo, lo stesso va individuato nell’elemento della novità: ricorre un’ipotesi di proroga solo allorquando vi sia integrale conferma delle precedenti condizioni (fatta salva la modifica di quelle non più attuali), con il solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, per il resto regolato dall’atto originario. Anche la sola modifica del prezzo comporta, invece, un’ipotesi di rinnovo, nella quale non ha luogo la revisione del prezzo (il cui scopo è già realizzato in virtù del suo adeguamento). Da tutto ciò discende che se cambia la fonte del rapporto e sussistendo una nuova negoziazione, l’appaltatore non potrà invocare l’adeguamento dei prezzi, pur se la prestazione persiste nei termini precedenti.
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L’8 luglio esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 14371 alla cui stregua, in tema d’interposizione nelle prestazioni di lavoro, l’utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto) vietata dall’art. 1, primo comma, della legge n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore. La sussistenza o meno della modestia di tale apporto (sulla quale riposa una presunzione “iuris et de iure”) deve essere accertata in concreto dal giudice, alla stregua dell’oggetto e del contenuto intrinseco dell’appalto; con la conseguenza che (nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da parte dell’appaltante) l’anzidetta presunzione legale assoluta non è configurabile ove risulti un rilevante apporto dell’appaltatore, mediante il conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in genere per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere, beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto. Detto criterio assume pregnanza ancora maggiore con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 276 del 2003 laddove la descritta presunzione della I. n. 1369 del 1960 – concepita peraltro in un’epoca non ancora pervasa dalla automazione della produzione e dalle tecnologie informatiche – è stata oggetto di abrogazione e non è più richiesto che l’appaltatore sia titolare dei mezzi di produzione, per cui anche se impiega macchine ed attrezzature di proprietà dell’appaltante, è possibile provare altrimenti – purché vi siano apprezzabili indici di autonomia organizzativa – la genuinità dell’appalto. Pertanto, mentre in appalti che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali cd. “pesanti”, il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato, se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi, negli appalti cd. “leggeri” in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti.
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Il 17 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 15304 che richiama la propria consolidata giurisprudenza onde, in caso di recesso unilaterale del committente del contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1671 c.c., grava sull’appaltatore, che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno, l’onere di dimostrare quale sarebbe stato l’utile netto da lui conseguibile con l’esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell’appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, restando salva per il committente la facoltà di provare che l’interruzione dell’appalto non ha impedito all’appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi.
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Il 29 luglio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 4832 secondo la quale, conformemente alla Corte di giustizia U.E., deve ritenersi che la direttiva n. 2004/18/CE, in materia di appalti pubblici deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale – quale l’art. 118 comma 4°, D. Lgs. n. 163/2006 (v. ora l’art. 115 del d.lgs. n. 50 del 2016) – che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi e al 20% la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione; di conseguenza, non risulta applicabile ad una gara di appalto, in quanto contraria al diritto europeo, la disciplina di cui all’art. 118 cit., non potendosi disporre l’esclusione dalla gara di una ditta che ha previsto che le prestazioni lavorative affidate in subappalto vengono retribuite con corrispettivi ribassati di oltre il 20% (nella specie del 29,9%) rispetto a quelli praticati dal medesimo RTI nei confronti dei propri dipendenti diretti.
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Il 1° ottobre esce la sentenza della I sezione del Tar Liguria n. 676 onde, in materia di appalti pubblici, rientra nella discrezionalità della amministrazione appaltante fissare i contenuti dei servizi da affidare mediante gara, quale aspetto caratteristico del merito amministrativo e sebbene all’interno di queste scelte si collochi anche quella dei requisiti da richiedere per l’espletamento dei servizi oggetto di una gara, tuttavia non rientra nella discrezionalità dell’amministrazione appaltante anche quella di imporre o di esigere un determinato contratto collettivo nazionale di lavoro, tanto più qualora una o più tipologie di contratti collettivi possano anche solo astrattamente adattarsi alle prestazioni oggetto del servizio da affidare. Pertanto, la discrezionalità dell’imprenditore di applicare il CCNL che preferisce è limitata soltanto dalla stretta connessione con l’oggetto dell’appalto senza, tuttavia, che sia possibile per l’amministrazione imporre una tipologia di CCNL.
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Il 12 ottobre esce la sentenza della II sezione del Tar Calabria n. 1597 alla cui stregua l’adesione alle convenzioni Consip adempie pienamente all’obbligo nazionale e comunitario di individuare il migliore contraente tramite procedure di evidenza pubblica, sicché non sussiste, a carico della amministrazione che vi aderisce, un onere di istruttoria in ordine alla economicità dei parametri prezzo-qualità contenuti nella convenzione Consip. Al contrario, una specifica motivazione sulla convenienza occorre quando l’amministrazione si determini in concreto nel senso di fare nuovamente ricorso al mercato, in quanto l’Ente pubblico dovrà in tal caso far constare l’utilità della propria iniziativa rispetto ai parametri della convenzione Consip di settore; ma una motivazione del genere non può ritenersi invece necessaria, per lo meno di regola, quando la scelta dell’amministrazione cada proprio sulla convenzione della Consip.
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Il 14 ottobre esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 6209 che, in materia di appalti pubblici, statuisce che è principio di carattere generale la preferenza per la suddivisione in lotti, in quanto diretta a favorire la partecipazione alle gare delle piccole e medie imprese. Tale principio, come recepito all’art. 51 del D. Lgs. n. 50 del 2016, non costituisce peraltro una regola inderogabile: la norma consente alla stazione appaltante di derogarvi per giustificati motivi, che devono essere puntualmente espressi nel bando o nella lettera di invito, essendo il precetto della ripartizione in lotti funzionale alla tutela della concorrenza. In particolare, la scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico costituisce una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere tecnico-economico. In tali ambiti, il concreto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione deve essere funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto; il potere medesimo resta delimitato, oltre che da specifiche norme del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza. Nella pronuncia in parola viene, altresì, affermato che la decisione di limitare l’aggiudicazione di tutti i lotti allo stesso concorrente (c.d. “vincolo di aggiudicazione”) costituisce una facoltà discrezionale dell’Amministrazione, il cui mancato esercizio non costituisce ex se sintomo di illegittimità. La violazione del principio di concorrenza non può desumersi dalla sola circostanza che i lotti siano stati aggiudicati tutti al medesimo operatore economico, trattandosi di un elemento neutro, di per sé solo non indicativo di vizi nella strutturazione della gara; l’aggiudicazione di tutti i lotti al medesimo operatore può, infatti, semplicemente discendere dalla sua capacità di offrire la prestazione oggetto di gara a migliori condizioni.
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Il 21 ottobre esce l’ordinanza della sezione Lavoro della Cassazione n. 22997 secondo la quale l’art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003, come novellato dall’art. 1, comma 911, L. n. 296/2006, prevede la responsabilità solidale di committente ed appaltatore entro il limite di due anni dalla cessazione del rapporto, garantendo così il lavoratore circa il pagamento dei trattamenti retributivi dovuti in relazione all’appalto.
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Il 22 ottobre esce la sentenza della II sezione del Tar Lazio n. 10771 secondo la quale la giurisdizione esclusiva del GA, prevista dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 2, del c.p.a., per “le controversie… relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica …”, ha – in ragione del concorso di situazioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo – una portata ampia e generale, includendo ogni controversia concernente la revisione dei prezzi di un contratto di appalto, compreso il profilo del quantum debeatur; deve pertanto ritenersi definitivamente superato quel tradizionale orientamento interpretativo secondo il quale al GA spettavano le sole controversie relative all’an della pretesa alla revisione del prezzo, mentre competevano al GO le questioni inerenti alla quantificazione del compenso. La sentenza affronta anche il tema della clausola di revisione periodica del corrispettivo di tali contratti; in particolare, viene affermato che scopo di tale clausola è quello di tenere indenni gli appaltatori delle amministrazioni pubbliche da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell’offerta, potrebbero indurre l’appaltatore a svolgere i servizi o ad eseguire le forniture a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi pubblici. Il meccanismo di adeguamento revisionale del canone contrattuale previsto dall’art. 115 del D.Lgs. n. 163/2006 si sostituisce di diritto ad eventuali pattuizioni contrarie o mancanti nei contratti pubblici di appalti di servizi e forniture ad esecuzione periodica o continuativa; tale meccanismo, determinabile attraverso precisi parametri, non può, pertanto, essere “sostituito” da un sistema differente (nella specie il capitolato speciale escludeva la operatività della revisione per il secondo e terzo anno di esecuzione del contratto; esso pertanto è stato ritenuto in parte qua arbitrario nonché affetto da nullità ai sensi dell’art. 1419 c.c., trattandosi di disposizione negoziale contrastante con una norma di legge imperativa, nonché sostituito de iure, ex art. 1339 c.c., dalla disciplina di cui all’invocato art. 115 del D.Lgs. n. 163/2006). Nella pronuncia in parola viene, altresì, statuito che la revisione dei prezzi dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione si applica soltanto alle proroghe contrattuali non anche agli atti successivi al contratto originario con cui, attraverso specifiche manifestazioni di volontà, sia stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto analogo a quello originario. Diversamente opinando, verrebbe, infatti, vanificata la ratio della norma che è quella di adeguare il prezzo determinato nell’originario rapporto per finalità di conservazione del livello qualitativo delle prestazioni dell’appaltatore. Al fine di distinguere tra proroga e rinnovo, deve ritenersi che la prima consista nel solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall’atto originario, ed il secondo comporti, invece, una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può anche concludersi con l’integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali. La rinnovazione si contraddistingue, pertanto, per la rinegoziazione del complesso delle condizioni. A fronte della mancata pubblicazione da parte dell’ISTAT dei dati rilevati e pubblicati semestralmente sull’andamento dei prezzi dei principali beni e servizi acquisiti dalle amministrazioni appaltanti, la revisione dei prezzi deve essere calcolata utilizzando l’indice (medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (c.d. “indice FOI”) mensilmente pubblicato dal medesimo ISTAT, trattandosi del parametro generale al quale al momento si deve fare riferimento, potendo l’appaltatore solo in casi eccezionali affermare il suo diritto ad un maggior compenso revisionale fondato su criteri differenti, ma sempre tale da non superare i valori ottenibili con i predetti parametri, che pertanto costituiscono, in altri termini, il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall’impresa, l’amministrazione non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale.
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Il 26 ottobre esce la sentenza della I sezione del Tar Toscana n. 1322 che afferma l’inammissibilità per difetto di giurisdizione di un ricorso proposto innanzi al Tar avverso una determina dirigenziale di un Comune con la quale si sia contestato il venir meno dei requisiti di qualificazione e si sia disposta la risoluzione del contratto di appalto. Esula infatti dai confini della giurisdizione amministrativa la cognizione dei comportamenti e degli atti assunti (nella veste di contraente) dalla stazione appaltante nella fase di esecuzione del contratto e non afferenti all’esercizio di potestà autoritative, in quanto non compresi nel catalogo delle controversie espressamente e tassativamente riservate alla giurisdizione esclusiva amministrativa in materia di appalti pubblici dall’art. 133 D.Lgs. n. 104/2010.
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Il 29 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 6615 che, in materia di appalti pubblici, afferma il carattere puramente esemplificativo dell’elencazione contenuta nell’art. 80, comma 5, lett. c) d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 per i gravi illeciti professionali, sussistendo, pertanto, la facoltà della stazione appaltante di desumere il compimento di “gravi illeciti” da ogni altra vicenda pregressa dell’attività professionale dell’operatore economico di cui sia accertata la contrarietà ad un dovere posto in una norma civile, penale o amministrativa, essendo onere degli operatori economici portare a conoscenza della P.A. tutte le informazioni relative alle proprie vicende professionali, anche non costituenti cause tipizzate di esclusione, così da consentire alla P.A. stessa un’adeguata e ponderata valutazione sulla sua affidabilità e integrità, a prescindere dalla fondatezza, gravità e pertinenza di detti episodi. Deve, tuttavia, escludersi per il Consiglio di Stato che ci sia un obbligo dichiarativo nel caso di penali di importo minimo, ovvero inferiori all’1% del valore dell’affidamento, così come si ricava dalle Linee guida dell’Anac n. 6, per le quale le stazioni appaltanti devono comunicare all’Autorità ai fini dell’iscrizione nel Casellario informatico di cui all’art. 213, comma 10, del D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, i provvedimenti di applicazione delle penali di importo superiore, singolarmente o cumulativamente con riferimento al medesimo contratto, all’1% dell’importo del contratto stesso. La ragione è che siffatte penali, specie se riferite ad episodi isolati e di modesta rilevanza, non offrono, per la loro natura fisiologica nella complessiva economia ed esecuzione dell’appalto, alcun elemento per considerare l’inadempimento cui sono collegati un grave errore nell’esercizio dell’attività professionale. Nella pronuncia in parola viene, altresì, affermato che il decreto di rinvio a giudizio per condotte tenute in esecuzione di precedenti contratti di appalto costituisce vicenda professionale suscettibile di essere qualificata come “grave illecito professionale” e, in quanto tale, in grado di compromettere l’affidabilità e l’integrità dell’operatore economico concorrente, a condizione, però, che abbia riguardo ad uno dei soggetti di cui all’art. 80, comma 3, del codice dei contratti pubblici, ovvero “dei membri del consiglio di amministrazione cui sia stata conferita la legale rappresentanza, ivi compresi institori e procuratori generali, dei membri degli organi con poteri di direzione o di vigilanza o dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza, di direzione o di controllo, del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con numero di soci pari o inferiore a 4”. Spetta in ogni caso alla stazione appaltante, nell’esercizio di ampia discrezionalità, apprezzare autonomamente le pregresse vicende professionali dell’operatore economico, anche se non abbiano dato luogo ad un provvedimento di condanna in sede penale o civile, perché essa sola può fissare il punto di rottura dell’affidamento nel pregresso o futuro contraente. Con riferimento alla cd. Clausola sociale, il Consiglio di Stato conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale deve consentirsi un’applicazione elastica e non rigida di tale clausola per contemperare l’obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali del precedente appalto con la libertà d’impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell’appalto. Infine, viene ribadito che la durata del contratto di appalto, come fissata nel bando di gara costituisce una delle condizioni contrattuali che maggiormente orienta le scelte partecipative degli operatori economici e non può essere liberamente mutata dalla stazione appaltante senza ripercussioni in termini contrapposti per gli uni e per gli altri.
2021
L’8 febbraio esce la sentenza della I sezione del Tar Emilia Romagna n. 88 che, con riferimento al bando, alla lettera di invito e al disciplinare di gara, statuisce che, pur nell’ambito della diversa funzione svolta dagli stessi, tra i suddetti atti esiste una gerarchia differenziata, con prevalenza del contenuto del bando di gara (o della lettera d’invito), mentre le disposizioni del capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non modificare le prime. Nella pronuncia in parola viene, altresì, affermata la netta distinzione tra proroghe contrattuali o programmate, da un lato, le quali consentono se espressamente previste negli atti di gara il prolungamento della durata del contratto alle stesse condizioni ove adeguatamente motivato e proroghe c.d. tecniche di cui all’art. 106 c. 11, D. Lgs n. 50/2016, dall’altro, che consentono soltanto il passaggio da un vincolo contrattuale all’altro per il tempo strettamente necessario al completamento della gara indetta.
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Il 9 febbraio esce la sentenza della V sezione del Tar Campania n. 836 secondo la quale, ai sensi dell’art. 133 comma 1 lett. e) n. 2, c.p.a., rientra nella giurisdizione del GA la controversia inerente alla revisione dei prezzi in un contratto qualificabile come appalto pubblico di servizi, atteso che l’art. 244 del Codice dei contratti pubblici, superando la tradizionale distinzione in base alla quale erano devolute alla giurisdizione del GO le controversie relative al quantum della revisione prezzi e al GA quelle relative all’an debeatur, imponeva la concentrazione dinanzi alla stessa Autorità giurisdizionale di tutte le cause relative all’istituto della revisione prezzi negli appalti pubblici ad esecuzione continuata o periodica, con conseguente potere del giudice amministrativo di conoscere della misura della revisione e di emettere condanna al pagamento delle relative somme, risultando in tal modo superata la tradizionale distinzione fondata sulla consistenza della situazione soggettiva fatta valere (diritto soggettivo – interesse legittimo). Nella pronuncia in parola viene, altresì, statuito che, in materia di revisione prezzi per contratti di durata della P.A., deve ritenersi ammissibile anche l’azione sul silenzio, non discendendo la pretesa alla revisione dei prezzi direttamente dalla legge, ma dovendo la stessa trovare riconoscimento in un procedimento amministrativo, vertendosi in un’area di rapporti in cui la P.A. agisce esercitando il suo potere autoritativo, come del resto palesato dalla circostanza che l’art. 115 del Codice dei contratti rinvia ad un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi e pertanto ad un’attività procedimentalizzata, avviabile ad impulso della parte. L’istituto della revisione prezzi si atteggia, infatti, secondo un modello procedimentale volto al compimento di un’attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, al quale è sotteso l’esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale nei confronti del privato contraente, potendo quest’ultimo collocarsi su un piano di equiordinazione con l’amministrazione solo con riguardo a questioni involgenti l’entità della pretesa; l’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’amministrazione, non comporta anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti. Il Tar ritiene, inoltre, che la posizione dell’appaltatore sia di interesse legittimo, quanto alla richiesta di effettuare la revisione in base ai risultati dell’istruttoria, poiché questa è correlata ad una facoltà discrezionale riconosciuta alla stazione appaltante, che deve effettuare un bilanciamento tra l’interesse dell’appaltatore alla revisione e l’interesse pubblico connesso al risparmio di spesa ed alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato. Alla riconosciuta connotazione autoritativa del potere di verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, consegue, dunque, in termini di tutela giurisdizionale, che in siffatte fattispecie il privato contraente potrà avvalersi solo dei rimedi e delle forme tipiche di salvaguardia dell’interesse legittimo, di talché sarà sempre necessaria l’attivazione, su istanza di parte, di un procedimento amministrativo nel quale l’Amministrazione dovrà svolgere l’attività istruttoria volta all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, compito che dovrà sfociare nell’adozione del provvedimento che riconosce il diritto al compenso revisionale e ne stabilisce anche l’importo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge. In caso di inerzia da parte della stazione appaltante, a fronte della specifica richiesta dell’appaltatore, quest’ultimo potrà impugnare il silenzio inadempimento prestato dall’Amministrazione, ma non potrà demandare in via diretta al giudice l’accertamento del diritto, non potendo questi sostituirsi all’amministrazione rispetto ad un obbligo di provvedere gravante su di essa. Il GA, dunque, non ha il potere di procedere anche all’accertamento ed alla condanna rispetto ad una pretesa che, nella sua fase iniziale, presuppone l’esercizio di attività amministrativa e si connota, pertanto, in termini di interesse legittimo.
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Il 2 marzo esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 1774 in virtù della quale, se può in generale discutersi di una eventuale facoltà di proroga del contratto da parte di un ente del servizio sanitario nazionale, in ragione dell’eccezionale e speciale disposizione di cui all’allegato II, art. 6, comma 2, lett. b), del d.lgs. 5 maggio 2008, n. 115 (che riconosce la facoltà di proroga in ragione dell’opportunità di conseguire un più rapido adeguamento dei servizi di energia ai sopravvenuti parametri di efficienza energetica, consentendo la rinegoziazione e incentivandola mediante l’allungamento della durata) e della peculiarità del suo oggetto, certamente non può trattarsi di una proroga “contro” o a discapito di un appalto già aggiudicato dalla stazione di committenza, anche per conto e in favore dell’ente sanitario, all’esito di un procedimento di evidenza pubblica, per servizi parzialmente coincidenti poiché, diversamente ragionando, la facoltà predetta si tramuterebbe in una manifesta violazione del principio di concorrenza in danno di un operatore economico che è stato già prescelto quale migliore offerente. Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, sussiste l’interesse degli operatori economici del settore in quanto tali – e non solo come concorrenti interessati a mantenere la consistenza di quanto posto a gara – a contrastare l’affidamento intervenuto in violazione delle regole concorrenziali dell’evidenza pubblica.
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Sempre il 2 marzo esce la sentenza della sezione III quater del Tar Lazio n. 2518, alla cui stregua negli appalti pubblici l’applicazione di un determinato C.C.N.L. non può essere imposta dalla lex specialis alle imprese concorrenti quale requisito di partecipazione né la mancata applicazione di questo può essere a priori sanzionata dalla Stazione appaltante con l’esclusione, sicchè deve negarsi in radice che l’applicazione di un determinato contratto collettivo anziché di un altro possa determinare, in sé, l’inammissibilità dell’offerta. La scelta del contratto collettivo da applicare rientra nelle prerogative di organizzazione dell’imprenditore e nella libertà negoziale delle parti, con il solo limite che esso risulti coerente con l’oggetto dell’appalto; occorre quindi solo che il tipo di contratto collettivo scelto sia connesso e compatibile con l’effettiva attività da espletare. Nella pronuncia in parola, il Tar statuisce, altresì, che la mancata ricezione nel bando di gara della prescrizione di cui all’art. 50 del D. Lgs. n. 50 del 2016, il quale prevede il riassorbimento del personale dell’attuale gestore, non potrebbe mai costituire ragione di illegittimità della procedura stessa, e ciò in applicazione del principio di eterointegrazione della legge di gara, ossia sulla scorta di quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., in tal modo colmandosi, in via suppletiva, le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla Stazione appaltante. L’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, sebbene finalizzato a favorire la continuità e stabilità occupazionale, non può essere tale da comprimere le esigenze organizzative dell’impresa subentrante che ritenga di potere ragionevolmente svolgere il servizio utilizzando una minore componente di lavoro rispetto al precedente gestore, e dunque ottenendo in questo modo economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento; in tal caso, l’obbligo di assorbimento del personale potrebbe essere assolto anche destinando solo parte dello stesso all’esecuzione di quel medesimo contratto. Con riferimento all’offerta presentata in sede di gara, il TAR nella pronuncia in parola statuisce, altresì, che lo scostamento del costo del lavoro rispetto ai valori ricavabili dalle tabelle ministeriali non comporta ex se un automatico giudizio di inattendibilità o di incongruità dell’offerta, considerato che tale discordanza deve essere considerevole ed evidentemente ingiustificata. Inoltre, non può essere esclusa dalla gara una impresa che non abbia rispettato il format imposto dalla lex specialis circa il numero di pagine e l’editing con cui doveva essere materialmente redatta l’offerta. A tale ultimo riguardo, il Tar richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo cui occorre impedire l’adozione di atti basati su eccessi di formalismo in contrasto con il divieto di aggravamento degli oneri procedimentali e con l’esigenza, nella prospettiva di tutelare la concorrenza, di ridurre il peso degli oneri formali gravanti sugli operatori economici. La procedura di gara non deve essere, infatti, concepita come una sorta di corsa ad ostacoli fra adempimenti formali imposti agli operatori economici e all’amministrazione aggiudicatrice, dovendo al contrario mirare ad appurare, in modo efficiente, quale sia l’offerta migliore, nel rispetto delle regole di concorrenza, verificando la sussistenza dei requisiti tecnici, economici, morali e professionali dell’aggiudicatario.
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Il 22 marzo esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 2426 secondo la quale il rapporto di concessione di pubblico servizio si distingue dall’appalto di servizi per l’assunzione, da parte del concessionario, del rischio di domanda. Infatti, mentre l’appalto ha struttura bifasica tra appaltante ed appaltatore e il compenso di quest’ultimo grava interamente sull’appaltante, nella concessione, connotata da una dimensione triadica, il concessionario ha rapporti negoziali diretti con l’utenza finale, dalla cui richiesta di servizi trae la propria remunerazione. Con riferimento alle concessioni di servizi, il Consiglio di Stato afferma la non applicabilità di regola delle norme in materia di revisione dei prezzi contrattuali, essendo insito nel meccanismo causale della concessione che la fluttuazione della domanda del servizio costituisca un rischio traslato in capo al concessionario, anzi costituisca il rischio principale assunto dal concessionario
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Il 17 dicembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 8101 che richiama il consolidato orientamento secondo cui la funzione principale del capitolato speciale d’appalto è quella di definire i contenuti del futuro rapporto contrattuale mentre nella prodromica procedura di affidamento svolge invece il ruolo di fonte integratrice delle regole di gara rispetto al bando e al disciplinare, senza alcuna portata modificatrice di questi ultimi. In linea di principio, quindi, se alcuni mezzi non siano richiesti espressamente dal bando di gara ai fini dell’ammissione (nei limiti consentiti dall’art. 83 del Codice dei contratti pubblici, limiti presidiati, per un verso, dalla sanzione di nullità di cui al comma 8 della medesima disposizione e, per altro verso, dai principi sopra richiamati in tema di tutela della concorrenza, non discriminazione, proporzionalità), l’eventuale mancato rispetto da parte dell’aggiudicataria degli impegni, pur se assunti con la presentazione dell’offerta in sede di gara, rileva quale inadempimento contrattuale, sanzionabile con i rimedi apprestati dall’ordinamento, ma non costituisce motivo di esclusione per mancanza dei requisiti di partecipazione.
Questioni intriganti
In cosa consiste il contratto di appalto?
- si tratta appunto di un contratto di natura obbligatoria, poiché è fonte di obblighi per le parti contrattuali che lo animano; tali obblighi sono reciproci, e dunque è contratto a prestazioni corrispettive;
- protagonista ne è l’appaltatore, come parte contrattuale; se questi muore, il contratto di regola non si scioglie, salvo che la persona dell’appaltatore sia stata motivo determinante del contratto ex art.1674 c.c., circostanza che fa dire che non si tratta di un contratto intuitu personae;
- egli assume il compimento di un’opera o di un servizio, e dunque si obbliga a realizzare l’opera o ad erogare il servizio;
- il destinatario dell’opera o del servizio è la controparte contrattuale, detta committente;
- l’appaltatore organizza i mezzi necessari per il compimento dell’opera o la gestione del servizio cui si è obbligato;
- l’appaltatore gestisce a proprio rischio il compimento dell’opera o la erogazione del servizio; questo non significa tuttavia che si tratti di contratto aleatorio, assumendosi l’appaltatore l’alea c.d. normale del contratto di appalto; piuttosto, l’assunzione del rischio, collegata alla organizzazione dei messi necessari, implica che si ha appalto tipico quando l’appaltatore è autonomo rispetto al committente;
- il committente, beneficiario finale dell’opera o del servizio, si obbliga a versare all’appaltatore un corrispettivo in denaro, calcolato globalmente (à forfait) o a misura: l’appalto è dunque un contratto oneroso; non è appalto per conseguenza il contratto che ha come corrispettivo una prestazione in natura o comunque un facere, mentre si configura una donazione – secondo la tesi più accreditata – quando non sia previsto un corrispettivo per l’appaltatore e dunque si abbia gratuità del compimento dell’opera o del servizio. Il corrispettivo in denaro viene pagato dal committente all’appaltatore a valle dell’esecuzione del contratto e della accettazione dell’opera (o del servizio), e lo stesso diritto dell’appaltatore nasce, sulla base del contratto, a valle della ridetta esecuzione, secondo il principio c.d. della postnumerazione;
- è contratto a forma libera, e dunque non è contratto formale, potendo essere concluso anche verbalmente (salvo il caso in cui parte sia la PA); tranne tuttavia due casi eccezionali, ovvero: h.1) quando ha ad oggetto la costruzione di navi o di aeromobili, ai sensi degli articoli 237, 238 e 852 c.n.; h.2) quando ha ad oggetto la costruzione di immobili su area di sedime di proprietà non già del committente ma dell’appaltatore, poiché in questa fattispecie il committente – a contratto eseguito – acquista la proprietà non già solo della costruzione, ma anche del suolo, a titolo derivativo, dall’appaltatore, con conseguente applicabilità dell’art.1350, n.1, c.c.
- non è contratto ad esecuzione istantanea, in quanto gli interessi delle parti non vengono soddisfatti in modo unico ed istantaneo;
- non è contratto ad esecuzione continuata, in quanto gli interessi delle parti non vengono soddisfatti in modo continuativo e dunque senza soluzione di continuità;
- è contratto – se di lavori – ad esecuzione prolungata, in quanto vi è dissociazione temporale tra l’esecuzione, prolungata appunto, e la soddisfazione dell’interesse in particolare del committente, che avviene nel momento finale in cui si verifica l’effetto traslativo dell’opera realizzata dall’appaltatore: in sostanza, l’esecuzione inizia con la consegna dei lavori e termina quando i lavori sono ultimati, momento in cui la proprietà dell’opera realizzata passa al committente; dal momento della consegna dei lavori si assiste da parte dell’appaltatore ad una esecuzione che si prolunga in funzione della completa realizzazione dell’opera divisata, momento in cui l’esecuzione cessa e viene soddisfatto l’interesse del committente;
Come si distingue l’appalto di opere dall’appalto di servizi?
- per qualificare l’appalto di opera si parte – in senso positivo – dalla materia: l’appaltatore si obbliga a rielaborarla o comunque a modificarla, sia puramente e semplicemente, sia al fine di ritrarne un bene nuovo e non ancora esistente; l’appalto di opere è quello sul quale si modella la disciplina codicistica;
- per qualificare l’appalto di servizio si muove – in senso negativo – sempre dalla materia: l’appaltatore si obbliga a soddisfare un interesse del committente senza tuttavia che sia presente una materia da rielaborare ovvero da modificare; all’appalto di servizi si applica la disciplina codicistica, modellata sull’appalto d’opera, nei limiti della compatibilità.
In cosa consiste e che problemi pone il subappalto?
- natura giuridica del subappalto: a.1) per dottrina minoritaria è un contratto a favore di terzo, concluso tra appaltatore e subappaltatore a favore del committente; 2) per dottrina maggioritaria, si tratta invece di un subcontratto, ovvero di un contratto che discende da (ed è collegato a) un altro analogo e già perfezionato, con oggetto e causa identici al contratto di derivazione, quand’anche autonomo e concluso in via separata e successiva, in un contesto di operazione economica unitaria che coordina i due contratti successivi e collegati dell’appalto e del subappalto (teoria c.d. della derivazione);
- conseguenze del difetto di autorizzazione del committente ex art.1656 c.c.: b.1) il subappalto è annullabile, ma si pone il problema per il committente di far valere l’annullabilità di un contratto al quale egli non ha partecipato; b.2) il subappalto è nullo in forza di una nullità relativa, non rilevabile d’ufficio e che può far valere il solo committente (tesi più accreditata); b.3) il subappalto è valido, ma il committente può agire nei confronti dell’appaltatore, da assumersi inadempiente, per la risoluzione del contratto, laddove non abbia tacitamente autorizzato il subappalto stesso;
- rapporti tra committente e subappaltatore: il primo (committente) può agire solo nei confronti dell’appaltatore del quale, essendo creditore, può scongiurare la eventuale inerzia con l’azione surrogatoria in particolare per quanto concerne i controlli e le verifiche nei confronti del subappaltatore ex art.1662 c.c; laddove il committente faccia valere gli eventuali vizi e le difformità nei confronti dell’appaltatore – che ne è l’unico interlocutore – l’appaltatore può a propria volta agire in via di regresso nei confronti del subappaltatore, purché – una volta ricevuta la denuncia dei vizi dal committente – la comunichi al subappaltatore nei successivi 60 giorni ex art.1670.
In cosa si compendia l’azione diretta attribuita ai dipendenti dell’appaltatore verso il committente?
- è prevista dall’art.1676 c.c., quale peculiare posizione di garanzia del committente rispetto ai dipendenti ed ausiliari dell’appaltatore;
- è esperibile nei confronti di qualunque committente, anche se pubblico (PA);
- l’azione opera fino a concorrenza del debito del committente verso l’appaltatore;
- si tratta di azione diretta del dipendente nei confronti del committente (che è terzo rispetto al proprio contratto di lavoro concluso con l’appaltatore), con natura sostitutoria, e non già di un’azione surrogatoria in cui il creditore (dipendente) si sostituisce al proprio debitore inerte (appaltatore) facendone valere i diritti;
- è esercitabile solo dai dipendenti dell’appaltatore (legittimati attivi), e non anche dal subappaltatore;
- si configura solidarietà passiva tra committente ed appaltatore, ma il committente non diviene per questo parte del rapporto di lavoro con i dipendenti dell’appaltatore, rapporto che avvince solo quest’ultimo (si pensi alle norme costituzionali sulla retribuzione dignitosa e sufficiente ex art.36 Cost.);
- ricevuta la richiesta di pagamento dai dipendenti dell’appaltatore, il committente non può pagare l’appaltatore: per la dottrina, qualora paghi anche l’appaltatore (con conseguente duplicazione di pagamento), potrà far valere con azione di indebito arricchimento quanto già pagato direttamente ai dipendenti.
Cosa occorre ricordare con riguardo al tempus in cui il contratto di appalto è in corso di esecuzione?
- il committente ha facoltà ex art.1662 c.c. di procedere a delle verifiche, che non sono in contraddizione con l’autonomia riconosciuta all’appaltatore;
- si tratta di facoltà del committente che da un lato non lo obbliga in ogni caso ad accettare, al termine dell’esecuzione, l’opera oggetto di appalto; dall’altro – e correlativamente – non implica alcuna preclusione all’esercizio dell’azione di risoluzione del contratto;
- tale facoltà consente al committente di eventualmente avvedersi del mancato procedere dei lavori a regola d’arte o secondo le condizioni contrattuali, con conseguente possibilità di intimare all’appaltatore di conformarsi alle ridette condizioni di compimento dell’opera o del servizio previste dal contratto, fissando un congruo termine scaduto il quale in difetto di adeguamento da parte dell’appaltatore il contratto si risolve (art.1662, comma 2, c.c.);
- l’art.1662, comma 2, c.c. costituisce una species del genus diffida ad adempiere di cui all’art.1454 c.c., ma mentre in quest’ultima l’intenzione di risolvere il contratto in caso di perdurante inadempimento deve essere espressamente dichiarata dal diffidante, collegandosi peraltro ad un inadempimento già perpetrato dalla controparte, nella fattispecie speciale dell’appalto l’intento risolutorio si presume senza dover essere esplicitamente dichiarato dal committente ed opera in una fase in cui l’obbligazione dell’appaltatore non risulta ancora scaduta e dunque – tecnicamente – l’inadempimento non ancora configurabile;
- nel corso dell’esecuzione dell’appalto, il progetto dell’opera – pur rimanendo nell’ambito dell’originario contratto (lavori infra-contrattuali) – può subire ex art.1659 c.c., su iniziativa dell’appaltatore, delle variazioni, che devono tuttavia trovare il consenso del committente: il committente deve infatti autorizzare le eventuali variazioni alle modalità di esecuzione dell’opera ab origine divisate, e tale autorizzazione va provata per iscritto; il progetto dell’opera – uscendo dall’ambito dell’originario contratto (lavori extra-contrattuali) – può subire invece uno stravolgimento quando le variazioni da apportarvi siano di tale natura ed importanza da far luogo ad un vero e proprio nuovo contratto di appalto, del tutto sganciato dal primo; in tal caso, la prova del raggiungimento del nuovo accordo (giusta autorizzazione del committente alle consistenti proposte di modifica da parte dell’appaltatore) può essere raggiunta con ogni mezzo, comprese le presunzioni;
- tanto con riguardo all’ipotesi di lavori infra-contrattuali, quanto con riguardo alla fattispecie di lavori extracontrattuali, piuttosto che oggetto di un accordo, eventuali variazioni rispetto al progetto originario possono essere disposte su iniziativa unilaterale del committente (c.d. ius variandi ex art. 1661 c.c.); mentre tuttavia nel primo caso l’appaltatore non può sottrarsi (salva la possibilità di escludere pattiziamente ab origine il corrispondente potere del committente), dovendo procedere all’esecuzione dell’opera con le variazioni proposte dal committente nei limiti di 1/6 del prezzo complessivo convenuto, verso un compenso ulteriore (anche in caso di predeterminazione globale del prezzo dell’appalto); nel secondo – lavori extracontrattuali: notevoli modificazioni della natura dell’opera o dei quantitativi nelle singole categorie di lavori previste in contratto per eseguirla – l’appaltatore può sottrarsi allo ius variandi del committente anche laddove si sia al di sotto di 1/6 rispetto al prezzo complessivo convenuto;
- quando le variazioni al progetto originario dell’opera appaltata sono non già meramente facoltative, ma necessarie, in quanto diversamente i lavori non sarebbero eseguiti a regola d’arte, scatta – in quella che è una ipotesi di parziale impossibilità dell’oggetto del contratto, originaria o sopravvenuta – l’art.1660 c.c. onde le parti possono accordarsi sulla consistenza di tali varianti, o in alternativa interviene il giudice fissando varianti di esecuzione e correlate varianti di prezzo. Nel caso tuttavia in cui manchi l’accordo, entrambe le parti possono recedere entro i limiti e secondo le condizioni previste dall’art.1660 c.c. ridetto;
- trattandosi di un contratto ad esecuzione continuata, rilevano le possibili sopravvenienze, ed in particolare la c.d. eccessiva onerosità sopravvenuta; significativo a questo proposito l’art.1664 (norma peraltro derogabile) onde, laddove il costo dei materiali o della manodopera – per circostanze imprevedibili – aumenti o diminuisca in modo che il prezzo complessivo dell’appalto aumenti o diminuisca a propria volta in misura superiore ad 1/10, la parte che ne risulti svantaggiata può chiedere ed ottenere una revisione del prezzo complessivo stesso, limitatamente alla porzione di aumento superiore al decimo (comma 1); si tratta di un applicazione al contratto di appalto dell’art.1467 c.c. in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta, e tuttavia – al fine di riequilibrare le prestazioni incise dalle sopravvenienze – il rimedio non è la risoluzione del contratto, ma (in ottica manutentiva del contratto medesimo) la revisione del prezzo; in dottrina si contrappongono due tesi: h.1) con riguardo al contratto di appalto si applica il solo art.1664, comma 1, ed il congegno revisionale del prezzo in esso previsto, non trovando spazio applicativo l’art.1467 c.c. (tesi recessiva); h.2) laddove non possa operare l’art.1664 c.c., può comunque trovare applicazione, ricorrendone i presupposti, il meccanismo risolutivo di cui all’art.1467 c.c. (tesi dominante);
- un caso particolare di sopravvenienza implicante una eccessiva onerosità sopravvenuta è la c.d. “sorpresa geologica” (art.1664, comma 2, c.c.): realizzare l’opera divisata diviene difficile per cause geologiche, idriche e simili, che le parti non hanno previsto (e che, secondo l’orientamento più accreditato, neppure potevano prevedere ex ante) le quali rendono notevolmente più onerosa la prestazione, ipotesi nella quale va garantito all’appaltatore il diritto ad un equo compenso; la fattispecie è “aperta” perché accanto alla sorpresa geologica vera e propria ed alla sorpresa idrica, il codice parla di sopravvenienze “simili”, onde si contendono il campo due orientamenti: i.1) rilevano solo altre cause impreviste ed imprevedibili “naturali” (tesi più accreditata); 1.2) rilevano anche altre cause non naturali e dunque umane, come il fatto del terzo ed il factum principis (tesi recessiva);
Cosa occorre ricordare con riguardo alle vicende esecutive finali del contratto di appalto?
Si tratta di una fase esecutiva del contratto caratterizzata da una serie di atti unilaterali e di operazioni del committente con diversa natura giuridica e diversi effetti, previsti dall’art.1665 c.c. e posti in successione tra loro; essa annovera anche la consegna dell’opera, che è invece un atto (puramente materiale) giusta il quale l’appaltatore immette il committente nel possesso dell’opera realizzata; gli atti unilaterali del committente sono:
- la verifica dell’opera: ad opera ultimata, l’appaltatore notizia il committente il quale – direttamente o a mezzo proprio incaricato, purché diverso dal direttore dei lavori – pone in essere una operazione di ispezione finalizzata all’accertamento della consistenza dell’opera stessa;
- il collaudo dell’opera: mentre la verifica si compendia in una operazione ispettiva, il collaudo consiste in una dichiarazione del committente che assevera l’opera stessa, dando atto all’appaltatore che la stessa è stata eseguita a regola d’arte e secondo le prescrizioni contrattuali; in ordine alla relativa natura giuridica si contendono il campo fondamentalmente due tesi: b.1) è un negozio giuridico (non unilaterale, ma) bilaterale, con funzione di accertamento; b.2) è una dichiarazione di scienza del solo committente (dunque non negoziale);
- l’accettazione dell’opera: dopo la verifica ed il collaudo, interviene l’accettazione che è dichiarazione negoziale unilaterale e recettizia con la quale il committente partecipa all’appaltatore la propria volontà di ricevere l’opera contrattualmente divisata e realizzata. Dell’accettazione dell’opera vanno distinti i profili relativi alla forma da quelli afferenti agli effetti;
- forma dell’accettazione: essa è espressa se esplicita; tacita laddove il committente riceva dall’appaltatore l’opera senza riserve e senza previa verifica; presunta se – nonostante l’invito dell’appaltatore – il committente non procede alla verifica dell’opera senza giusti motivi, oppure avendovi proceduto non ne comunica il risultato entro un breve termine, circostanze entrambe nel cui contesto l’opera si considera accettata;
- effetti dell’accettazione: se non vi sono patti o usi contrari, è dall’accettazione che nasce il diritto dell’appaltatore al corrispettivo; è dall’accettazione che il rischio per perimento o deterioramento dell’opera si trasferisce dall’appaltatore al committente; (art.1673 c.c.); è dall’accettazione che l’appaltatore è esonerato dalla garanzia per la difformità ed i vizi dell’opera laddove conosciuti o riconoscibili ex art. 1667 c.c. (ma resta responsabile se i vizi sono riconoscibili e tuttavia taciuti in mala fede); è dall’accettazione che la proprietà dell’opera si trasferisce dall’appaltatore al committente, in caso di bene mobile con materia fornita dall’appaltatore (se la materia è del committente, la proprietà passa mano mano che l’opera viene realizzata) o in caso di bene immobile su terreno di proprietà dell’appaltatore (se l’area di sedime è di proprietà del committente, la proprietà dell’opera si acquista per accessione ai sensi dell’art.934 c.c.).
Cosa occorre ricordare dei vizi e delle difformità dell’opera appaltata?
- i vizi si compendiano in deficit di qualità intrinseca dell’opera;
- le difformità consistono invece in mancanza di conformità dell’opera rispetto alle prescrizioni contenute nel contratto d’appalto;
- la responsabilità dell’appaltatore è legata fondamentalmente ai vizi occulti, non riconoscibili, che il committente scopre una volta accettata l’opera;
- occorre la denuncia nei 60 giorni dalla scoperta a pena di decadenza;
- la responsabilità può riguardare anche vizi apparenti, ma per la relativa operatività occorre che l’appaltatore non accetti l’opera: in questa circostanza, non occorre ovviamente la denuncia nei 60 giorni;
- la denuncia non occorre dunque: f.1) se il committente non accetta l’opera in presenza di vizi o difformità apparenti; f.2) se l’appaltatore riconosce – anche per facta concludentia – i vizi o le difformità (apparenti o non apparenti); f.3) se l’appaltatore occulta i vizi o le difformità (che dunque non sono apparenti), occultamento che per la dottrina può assumere anche la foggia del silenzio doloso;
- il riconoscimento può essere accompagnato dall’obbligo – nuovo ed autonomo – di eliminare i vizi o le difformità assunto dall’appaltatore (novazione);
- dalla consegna dell’opera decorre per il committente attore il termine di prescrizione di 2 anni, che presuppone la previa e tempestiva denuncia dei vizi nei 60 giorni, se occorrente; laddove il committente sia invece convenuto, egli può far valere la garanzia ex art.1667 c.c. in ogni tempo, purché però i vizi siano stati denunciati entro 60 giorni dalla scoperta e comunque entro i 2 anni dalla consegna dell’opera;
- il contenuto della garanzia del committente – che prescinde dalla colpa dell’appaltatore e che è dunque oggettiva – è scolpita all’art.1668 c.c.: i.1) eliminazione dei vizi; i.2) riduzione proporzionale del prezzo; i.3) risarcimento del danno; i.4) risoluzione del contratto, nel caso in cui l’opera sia del tutto inadatta rispetto alla propria, divisata destinazione.
Cosa occorre ricordare della speciale responsabilità di cui all’art.1669 c.c.?
- si riferisce al solo caso di appalto avente ad oggetto la realizzazione di immobili (salvo poi verificare se si tratta solo di nuove costruzioni ovvero anche di ristrutturazione di costruzioni già esistenti);
- la responsabilità dell’appaltatore riguarda un torno di tempo di 10 anni dal compimento dell’opera;
- l’oggetto di tale responsabilità è la rovina (attuale) dell’opera, in tutto o in parte, ovvero l’evidente pericolo di rovina (potenziale), ovvero i gravi difetti;
- la causa è il vizio del suolo sul quale l’opera è costruita, ovvero il difetto di costruzione;
- l’azione può essere spiccata (legittimazione attiva) dal committente, ma anche dai relativi aventi causa sia tra vivi che per morte, e tanto se acquirenti della proprietà dell’opera, quanto se acquirenti di un diritto reale;
- l’azione può essere spiccata (legittimazione passiva) contro l’appaltatore (esclusa l’ipotesi in cui sia stato nudus minister), contro il direttore dei lavori, contro il progettista ma non contro chi si sia limitato solo a fornire i materiali di costruzione (quand’anche scadenti);
- sulla natura della responsabilità si discute: g.1) è aquiliana (tesi tradizionale): il legislatore non garantisce tanto l’interesse del committente, quanto più in generale l’interesse inderogabile alla incolumità personale, dovendosi guardare dunque ai terzi che potrebbero subire danni personali dalla rovina dell’opera appaltata; del resto, la legittimazione attiva attribuita, oltre che al committente, anche ai relativi aventi causa che sono terzi rispetto al contratto di appalto (con deroga all’art.1372 c.c.) sospinge nel senso di riconoscere tale legittimazione attiva a qualunque terzo che si assuma danneggiato dalla violazione di una norma primaria che è intesa a garantire la bontà delle costruzioni; muovendo nondimeno dalla natura aquiliana di tale responsabilità, il terzo danneggiato si avvantaggia dell’avvalersi in proposito dell’art.2053, giacché questa norma individua nel proprietario il legittimato passivo unico dell’azione, mentre invocare l’art.1669 c.c. può voler dire dover previamente identificare appunto il (concreto) legittimato passivo (appaltatore, direttore dei lavori, progettista, committente), cosa che pure può tuttavia tornare utile laddove il proprietario (unico legittimato passivo ex art.2053 c.c.) sia ad esempio fallito; g.2) è contrattuale (tesi più recente): valorizzando i “gravi difetti”, si tende a dare maggior risalto alla vulnerazione dell’interesse del committente che ha appaltato l’opera, stante il ristretto novero dei soggetti legittimati attivi a far valere la responsabilità in parola e tenendo anche in considerazione il fatto che il contratto, pur rimanendo tale (e pur generando dunque responsabilità contrattuale), tende sempre di più – quale figura generale – a considerarsi, in termini di tutela, anche in rapporto ai terzi che vengano coinvolti nella relativa esecuzione (c.d. effetti protettivi per i terzi); per chi esclude la legittimazione attiva ex art.1669 c.c. dei terzi diversi dal committente e dai relativi aventi causa, proprio perché non contrattualmente legati all’appaltatore, la relativa tutela viene comunque garantita in via aquiliana dall’art.2053 c.c. alla cui stregua il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione;
- è previsto un onere di denuncia a pena di decadenza, pari ad 1 anno decorrente dalla scoperta;
- è previsto un termine di prescrizione pari ad 1 anno, decorrente dalla denuncia.
Cosa occorre ricordare del potere di recesso del committente ex art 1671 c.c.?
- si tratta di un potere di recesso ad nutum, di ordine generale, riconosciuto al committente;
- tale potere è limitabile dalle parti con specifiche pattuizioni, ma si assume non elidibile, ritenendosi nulla la clausola che ne esclude totalmente l’esercizio;
- è negozio unilaterale recettizio a forma libera;
- può essere esercitato anche se è iniziata l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio, e non necessita di preavviso, salva diversa previsione delle parti;
- il committente deve tenere indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti (o del servizio prestato) e del mancato guadagno: si tratta di una indennità che è considerata debito di valore;
- gli effetti sono ex nunc, ed il committente acquista la proprietà dell’opera per come fino al momento del recesso compiuta dall’appaltatore.
Cosa occorre ricordare degli altri casi di possibile estinzione dell’appalto?
- l’appaltatore muore ex art.1674 c.c., o (per dottrina) viene interdetto, ovvero viene giudizialmente dichiarato assente, ovvero anche solo diviene naturalmente incapace; la considerazione della persona dell’appaltatore è stata il motivo determinante del contratto (concluso dunque intuitu personae), il contratto si scioglie con effetti ex nunc, ed il committente deve pagare agli eredi dell’appaltatore il valore delle opere eseguite e delle spese sostenute (invano) per l’esecuzione del rimanente, nei limiti dell’utilità per lui; può tuttavia pretendere la consegna, verso una congrua indennità, dei materiali preparati e dei piani in via di esecuzione, fatte salve le norme che proteggono le opere dell’ingegno; altrimenti, l’esecuzione del contratto prosegue con gli eredi dell’appaltatore, salvo che non diano affidamento per la buona esecuzione dell’opera o del servizio, circostanza che consente al committente di recedere;
- l’opera perisce o si deteriora prima che il committente la accetti o che comunque sia in mora nel verificarla, ex art.1673 c.c.; la disciplina delle conseguenze di questa fattispecie ruota intorno alla materia: se è stata fornita dall’appaltatore, il perimento o il deterioramento sono a suo carico; se la materia è stata fornita tutta dal committente, perimento o deterioramento, sono a suo carico; se la materia è stata fornita in parte dell’appaltatore in parte dal committente, ciascuno sopporta le conseguenze del perimento o del deterioramento;
- l’opera è divenuta impossibile a realizzarsi (o il servizio a prestarsi) per causa non imputabile ad alcuna delle parti ex art.1672 c.c.; si tratta di una fattispecie di impossibilità parziale, essendo stata l’opera parzialmente eseguita, e palesandosene impossibile il relativo completamento per causa non imputabile alle parti; se l’impossibilità di esecuzione dell’opera è totale, per la dottrina torna invece ad applicarsi la norma generale di cui all’art.1463 c.c.; in questa ipotesi il committente deve pagare all’appaltatore la parte compiuta dell’opera, nei limiti in cui essa è per lui utile, in proporzione al prezzo pattuito per l’opera intera; se l’impossibilità è temporanea, qualora l’obbligazione dell’appaltatore si estingua ex art.1256, comma 2 c.c. (si pensi alla perdita di interesse da parte del committente), per la dottrina si applica per la parte di opera compiuta l’art.1672 c.c..