Corte Costituzionale, sentenza 25 gennaio 2022 n. 19
Vanno dichiarate manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, sollevate, in riferimento agli artt. 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Bergamo, sezione lavoro;
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di Bergamo, sezione lavoro.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Come esposto nel Ritenuto in fatto, una delle parti costituite in giudizio e il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel medesimo, hanno sollevato diverse eccezioni di inammissibilità.
2.1.– In primo luogo, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) rileva l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto nel giudizio a quo non sarebbe stato dimostrato il possesso da parte della ricorrente degli altri requisiti del reddito di cittadinanza.
L’eccezione non è fondata. Il rimettente afferma espressamente che «risulta agli atti (e comunque non è stato specificamente contestato dall’INPS) il possesso da parte della ricorrente di tutti gli altri requisiti previsti per il […] riconoscimento [del reddito di cittadinanza]». Tale affermazione è sufficiente ai fini della motivazione sulla rilevanza, tenuto conto anche del carattere “esterno” del controllo operato da questa Corte sul punto (ex multis, sentenze n. 183 del 2021, n. 44 del 2020 e n. 128 del 2019).
2.2.– In secondo luogo, l’INPS eccepisce la scarsa plausibilità della motivazione con cui il rimettente ha respinto l’eccezione di inammissibilità dell’azione anti-discriminazione esercitata dalla ricorrente, azione che – secondo la parte – non sarebbe consentita in presenza di un diniego dovuto all’assenza di un requisito previsto dalla legge. L’eventuale sentenza di accoglimento, inoltre, non potrebbe rendere antigiuridico un comportamento che tale non era nel momento in cui è stato tenuto, ragion per cui essa non potrebbe condurre a riconoscere il reddito di cittadinanza in capo alla ricorrente.
Neppure tale eccezione è fondata. Nell’ordinanza di rimessione il giudice a quo ha osservato che l’azione esperita dalla ricorrente «nelle forme ex art. 28 d.lgs. 150/2011 è un’azione tipica», specificamente prevista per offrire tutela contro «qualunque atto discriminatorio oggettivamente pregiudizievole», con possibilità per il giudice di adottare, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti dell’atto discriminatorio. Tale motivazione, benché stringata, è sufficiente e plausibile, anche considerando il fatto che più volte questa Corte ha deciso nel merito questioni originate da azioni anti-discriminazione proposte contro atti applicativi di una norma legislativa (sentenze n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e n. 119 del 2015).
Inoltre, se è vero che una sentenza di accoglimento non può rendere a posteriori illecita una condotta che tale non era al momento in cui è stata tenuta, ciò è ininfluente nel caso di specie perché nel giudizio a quo la ricorrente non ha chiesto solo un risarcimento del danno ma, in primis, la cessazione della condotta discriminatoria con conseguente riconoscimento del reddito di cittadinanza. Comunque, la rilevanza non coincide con l’utilità concreta – per una parte del giudizio a quo – della pronuncia di accoglimento, essendo invece sufficiente che essa eserciti un’influenza sul percorso argomentativo del giudice rimettente (ex multis, sentenze n. 202 e n. 157 del 2021).
2.3.– Ancora, secondo l’INPS le questioni sarebbero inammissibili perché il rimettente – in assenza di pronunce della Cassazione che lo impediscano – avrebbe omesso di sperimentare una possibile interpretazione adeguatrice della disposizione censurata. Peraltro, l’INPS non indica quale sarebbe la possibile interpretazione conforme a Costituzione. In effetti, essa risulta preclusa dal tenore letterale della disposizione, che limita chiaramente il beneficio ai soli stranieri titolari del permesso di soggiorno di lungo periodo. Si può dunque ribadire il «principio – ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione» (sentenza n. 221 del 2019; più di recente, sentenza n. 102 del 2021).
Pertanto, nemmeno tale eccezione è fondata.
2.4.– Infine, l’INPS eccepisce la genericità delle questioni sollevate per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 14 CEDU e agli artt. 20 e 21 CDFUE) e degli artt. 2 e 38 Cost.
Per quanto riguarda l’art. 14 CEDU, l’eccezione non è fondata. Il rimettente cita alcune frasi contenute nella sentenza di questa Corte n. 187 del 2010, che ha accolto una questione sollevata, in riferimento all’art. 117, primo, comma, in relazione all’art. 14 CEDU e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, sull’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», nella parte in cui tale norma subordinava al requisito della carta di soggiorno la concessione agli stranieri dell’assegno mensile di invalidità. Anche a questo riguardo, dunque, la motivazione, benché sintetica, può essere considerata sufficiente ai fini dell’illustrazione della non manifesta infondatezza di tale questione.
L’eccezione è, invece, da accogliere con riferimento alle questioni basate sugli artt. 20 e 21 CDFUE. Tali disposizioni sono semplicemente menzionate nell’ordinanza di rimessione, senza alcun argomento aggiuntivo. In particolare, il rimettente non illustra il presupposto di applicabilità della CDFUE, cioè la circostanza che le norme sul reddito di cittadinanza rappresentino «attuazione del diritto dell’Unione» ai sensi del suo art. 51: il che implica l’inammissibilità delle censure basate sulla Carta (da ultimo, sentenze n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021, n. 278 del 2020).
Ancora, l’eccezione non è fondata con riferimento all’art. 2 Cost. Il rimettente espone argomenti chiaramente diretti a sostenere che il reddito di cittadinanza soddisferebbe un diritto inviolabile dello straniero e consentirebbe lo svolgimento della sua personalità nelle formazioni sociali (in primis, quella lavorativa), sicché la motivazione risulta sufficiente.
L’eccezione è fondata con riferimento anche all’art. 38 Cost., che è menzionato solo di sfuggita ed è, fra l’altro, collegato dal rimettente alla «tutela […] del lavoro», anziché all’assistenza sociale, con la conseguenza che la motivazione sulla non manifesta infondatezza risulta carente.
Vanno pertanto dichiarate manifestamente inammissibili per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza le questioni sollevate per violazione degli artt. 38 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE.
2.5.– Pur in assenza di eccezione sul punto, va dichiarata manifestamente inammissibile anche la questione ex art. 31 Cost., poiché anche tale parametro è menzionato solo di sfuggita, e il rimettente si limita a citarne l’oggetto («tutela della famiglia»), senza spendere alcun argomento per illustrare la sua violazione da parte della norma censurata.
2.6.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, solleva un’eccezione di inammissibilità delle questioni, osservando che il rimettente chiederebbe una sentenza additiva, a seguito della quale il reddito di cittadinanza dovrebbe essere concesso agli stranieri sulla base della sola residenza biennale continuativa, ciò che invece non sarebbe sufficiente per i cittadini europei. Questo determinerebbe uno «stravolgimento dell’impianto della norma denunciata, che verrebbe trasformata in una disciplina sostanzialmente diversa, e non costituzionalmente obbligata; e anzi costituzionalmente vietata dall’art. 117 c. 1 Cost., nella misura in cui genererebbe una discriminazione a danno dei cittadini dell’Unione e a vantaggio dei cittadini di paesi terzi».
L’eccezione non è fondata. A parte l’erroneo riferimento alla residenza biennale (il requisito necessario per tutti per accedere al reddito di cittadinanza è la residenza decennale, non biennale, in base all’art. 2, comma 1, lettera a, numero 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito), occorre rilevare, da un lato, che il rimettente non mira ad “aprire” il riconoscimento del reddito di cittadinanza a tutti gli stranieri in possesso della residenza richiesta, ma agli stranieri «titolari di permesso unico lavoro ex art. 5 c. 8.1 d.lgs. 286/1998 o di permesso di soggiorno di almeno un anno ex art. 41 d.lgs. 286/1998»; dall’altro, che per i richiedenti cittadini dell’Unione europea è sufficiente la residenza decennale (come per gli italiani), in base all’interpretazione corrente dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 1), del d.l. n. 4 del 2019, come convertito.
3.– Venendo al merito, è opportuno sintetizzare preliminarmente la disciplina del reddito di cittadinanza. Il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che lo istituisce, lo definisce «misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale […]», e lo qualifica «livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili» (art. 1, comma 1). Il citato decreto-legge è stato oggetto di modifiche (non significative ai fini del presente giudizio) ad opera della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024).
Il reddito di cittadinanza consiste in un beneficio economico che costituisce un’«integrazione del reddito familiare» fino alla soglia di 6000 euro annui (incrementata a seconda dei componenti del nucleo familiare), alla quale si può aggiungere un’integrazione del reddito dei nuclei familiari locatari di un’abitazione, fino ad un massimo di 3360 euro annui (art. 3, comma 1). Il beneficio è riconosciuto «per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi» e può essere rinnovato, previa sospensione di un mese prima di ciascun rinnovo (art. 3, comma 6).
La sua erogazione «è condizionata alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti il nucleo familiare maggiorenni, […] nonché all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale»» (art. 4, comma 1). Questo percorso si realizza o con il Patto per il lavoro (stipulato presso un centro per l’impiego e che «deve contenere gli obblighi e gli impegni previsti dal comma 8, lettera b», che riguardano essenzialmente la ricerca attiva del lavoro e l’accettazione delle offerte congrue) o con il Patto per l’inclusione sociale, stipulato presso i servizi comunali competenti per il contrasto della povertà (art. 4, commi 7 e 12). Si tratta di due “canali” comunicanti, nel senso che il beneficiario convocato dal centro per l’impiego può essere inviato al servizio comunale e viceversa (art. 4, commi 5-quater e 12). Il Patto per l’inclusione sociale comprende anche gli «interventi per l’accompagnamento all’inserimento lavorativo» (art. 4, comma 13).
Nell’ambito di entrambi i Patti, «il beneficiario è tenuto ad offrire […] la propria disponibilità per la partecipazione a progetti a titolarità dei comuni, utili alla collettività, in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, da svolgere presso il medesimo comune di residenza, mettendo a disposizione un numero di ore compatibile con le altre attività del beneficiario e comunque non inferiore al numero di otto ore settimanali […]» (art. 4, comma 15).
Rispetto al precedente istituto del reddito di inclusione, dunque, il reddito di cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione all’inserimento lavorativo e per un più stringente meccanismo della condizionalità, cioè per un’accentuazione degli impegni assunti dai beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di cittadinanza è destinato a una platea più ampia di beneficiari, in quanto è prevista una soglia economica d’accesso più alta (art. 2, comma 1, lettera b). Per altro verso, come visto, il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo necessario di residenza in Italia (da due a dieci anni).
L’art. 12 del citato decreto-legge detta le disposizioni finanziarie per l’attuazione del reddito di cittadinanza, fissando un limite legislativo di spesa. Il comma 1 determina la provvista finanziaria per l’erogazione del Rdc, autorizzando la spesa di 5.907 milioni di euro per il 2019, di 7.167 milioni per il 2020, di 7.391 milioni per il 2021 e di 7.246 milioni annui a decorrere dal 2022, con imputazione ad apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero del lavoro, denominato «Fondo per il reddito di cittadinanza». Tale autorizzazione di spesa è stata incrementata dapprima dall’art. 1, comma 371, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), poi, per la somma di 1.000 milioni di euro limitatamente all’anno 2021, dall’art. 11, comma 1, del decreto-legge 22 marzo 2021, n. 41 (Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 21 maggio 2021, n. 69, e infine, sempre per il 2021 per la somma di 200 milioni di euro, dall’art. 11, comma 13, del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2021, n. 215. Per gli anni 2022 e seguenti l’autorizzazione di spesa di cui all’art. 12, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, è stata incrementata dall’art. 1, comma 73, della legge n. 234 del 2021, per una somma di poco superiore ai 1.000 milioni all’anno.
L’art. 12, comma 9, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, prevede che, «[i]n caso di esaurimento delle risorse disponibili per l’esercizio di riferimento ai sensi del comma 1, […] con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottarsi entro trenta giorni dall’esaurimento di dette risorse, è ristabilita la compatibilità finanziaria mediante rimodulazione dell’ammontare del beneficio».
4.– La prima questione, sollevata con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., non è fondata.
Questa Corte ha già esaminato questioni concernenti il reddito di cittadinanza, con riferimento all’art. 7-ter, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che prevede la sospensione del beneficio nei confronti del soggetto cui è applicata una misura cautelare personale (sentenze n. 126 del 2021 e n. 122 del 2020). Nella pronuncia più recente, questa Corte ha rilevato che «la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso di reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica. Ciò differenzia la misura in questione da altre provvidenze sociali, la cui erogazione si fonda essenzialmente sul solo stato di bisogno, senza prevedere un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità. Così, ad esempio, per quelle prestazioni che si configurano quali misure di sostegno indispensabili per una vita dignitosa, come la pensione d’inabilità civile […] diretta alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili e alla tutela di bisogni primari della persona […]». La pronuncia richiama anche la pensione di cittadinanza («misura di mero contrasto alla povertà delle persone anziane») e l’assegno sociale («volto a far fronte a un particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza»), osservando che «[p]er tali provvidenze non è prevista la sospensione nel caso di misure cautelari personali». Il reddito di cittadinanza, invece, «non ha natura meramente assistenziale, proprio perché accompagnato da un percorso formativo e d’inclusione che comporta precisi obblighi, il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo».
Già nella sentenza n. 7 del 2021, peraltro, questa Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, là dove limitava gli interventi di contrasto alla povertà a favore dei nuclei familiari aventi come minimo un componente residente in regione da almeno cinque anni continuativi, in quanto le risorse in questione «devono essere utilizzate per la concessione di generici interventi di contrasto alla povertà», «a differenza di quanto è dato riscontrare nella disciplina che ha istituito il fondo per l’anno 2019, che invece, come anche quella relativa alla misura attiva di sostegno al reddito che l’ha preceduto, prevedeva espressamente due componenti, una di carattere economico e una di inclusione sociale; quest’ultima, in particolare, strutturata mediante la sottoscrizione di un patto cui erano obbligatoriamente tenuti (a pena di decadenza dal beneficio economico) i componenti maggiorenni del nucleo familiare». La sentenza continua rilevando che «dal tenore della norma impugnata emerge una soluzione di continuità rispetto al peculiare modello degli interventi che l’hanno preceduta e appare chiara la finalità di destinare le risorse individuate […] a soddisfare un bisogno basilare e immediato dei beneficiari selezionati, genericamente correlato alla loro situazione di povertà, senza la previsione di un progetto di inclusione». Per la Corte era dunque esclusa «la possibilità di distinguerli [gli interventi in questione] dalle prestazioni legate ai bisogni primari della persona». Di qui l’accoglimento della questione, per la mancata «correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni primari dell’essere umano, insediatosi nel territorio regionale, e la protrazione nel tempo di tale insediamento».
Anche nella sentenza n. 137 del 2021 è rimarcata la «natura meramente assistenziale dell’assegno sociale, che pertanto si differenzia da altre provvidenze, motivate anche da ulteriori finalità, come il già ricordato reddito di cittadinanza, che non ha natura meramente assistenziale, ma anche di reinserimento lavorativo e per tali ragioni legato a più stringenti requisiti, obblighi e condizioni».
Nel caso in esame questa Corte non può che ribadire che il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4 del 2019). È inoltre prevista la decadenza dal beneficio nel caso in cui un solo componente non rispetti gli impegni (art. 7, comma 5, del d.l. n. 4 del 2019).
La conclusione di non fondatezza così raggiunta non esclude che resta compito della Repubblica, in attuazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 38, primo comma, Cost., garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla «sopravvivenza dignitosa» e al «minimo vitale» (sentenza n. 137 del 2021). Nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito può tuttavia legittimare questa Corte a intervenire “convertendo” verso esclusivi obiettivi di garanzia del minimo vitale una più complessa misura, come quella oggetto del presente giudizio, cui il legislatore ha assegnato, come visto, finalità prevalentemente diverse, e rispetto alla quale, come si vedrà appresso, il contestato requisito del permesso di lungo periodo non risulta irragionevole.
5.– Non è fondata neppure la questione sollevata per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.
5.1.– Il parametro interposto è invocato in modo pertinente.
L’art. 14 CEDU – secondo cui «[i]l godimento dei diritti e delle liberta` riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione» – costituisce completamento di altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli e può essere invocato solo in collegamento con una di esse (ex multis, sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 6 luglio 2021, A.M. e altri contro Russia, paragrafo 64; 8 aprile 2014, Dhahbi contro Italia, paragrafo 39).
Il rimettente non indica espressamente la disposizione della CEDU cui l’art. 14 si collega nel caso di specie, ma – richiamando la sentenza n. 187 del 2010 di questa Corte, che ha accolto una questione sollevata, in riferimento all’art. 117 primo comma, in relazione all’art. 14 CEDU e all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, sull’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 – implicitamente invoca l’art. 1 del Protocollo addizionale, riguardante la protezione della proprietà. E, poiché il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, prevede un diritto al reddito di cittadinanza (che «è riconosciuto dall’INPS ove ricorrano le condizioni», in base al suo art. 5, comma 3, ma la cui erogazione è poi subordinata all’adesione al percorso personalizzato, come previsto all’art. 4, comma 1), non impropriamente il giudice a quo ha invocato il parametro convenzionale.
5.2.– Questa Corte si è già pronunciata, in più occasioni, sulla conformità dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 (là dove subordinava l’accesso a determinate provvidenze al possesso della carta di soggiorno) all’art. 14 CEDU. Nella sentenza n. 187 del 2010, in particolare, si è osservato che «[c]iò che dunque assume valore dirimente» è «accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, lo specifico “assegno” che viene qui in discorso integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto». Sicché ove «si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, avuto riguardo alla relativa lettura che, come si è detto, è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo». Questo criterio di giudizio è stato poi ribadito dalle sentenze n. 329 del 2011 e n. 50 del 2019.
In questa prospettiva, le conclusioni sopra raggiunte sulle caratteristiche del reddito di cittadinanza – che non si esaurisce in una provvidenza assistenziale volta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue più ampi obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale – conducono a ritenere non fondata anche la questione sollevata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.
6.– Resta da esaminare la questione sollevata in via subordinata, con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost. Il giudice a quo ritiene che, anche qualora il reddito di cittadinanza fosse ritenuto «prestazione estranea al nucleo dei diritti essenziali» della persona, la disposizione censurata sarebbe comunque illegittima per l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo e le situazioni di bisogno in vista delle quali la prestazione è prevista.
Nemmeno tale questione è fondata, giacché il raffronto fra il requisito prescritto e le finalità perseguite dalla misura non conduce a conclusioni di irragionevolezza della scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità.
Il permesso di soggiorno di lungo periodo è concesso qualora ricorra una serie di presupposti che testimoniano della relativa stabilità della presenza sul territorio, e il suo regime si colloca nella logica di una ragionevole prospettiva di integrazione del destinatario nella comunità ospitante. Più precisamente, in base all’art. 9, commi 1 e 2-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), esso può essere chiesto in presenza di quattro requisiti: a) «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità»; b) «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale»; c) «alloggio idoneo»; d) «superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana». Il permesso è a tempo indeterminato (art. 9, comma 2, t.u. immigrazione) e fra le cause della sua revoca non è prevista la perdita dei requisiti di cui sopra (cioè, del reddito e dell’alloggio idoneo).
Ciò precisato, occorre verificare se esista una ragionevole correlazione tra il requisito fissato dalla norma censurata e la ratio del reddito di cittadinanza. Come già ampiamente sottolineato, tale provvidenza non si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura più articolata, comportante anche l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta ad immettere il nucleo familiare beneficiario in un «percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale che prevede attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, nonché altri impegni individuati dai servizi competenti finalizzati all’inserimento nel mercato del lavoro e all’inclusione sociale» (art. 4, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito). Va considerato inoltre che la durata del beneficio economico è di diciotto mesi (permanendo i requisiti), con possibilità di rinnovo (art. 3, comma 6).
L’orizzonte temporale della misura non è dunque di breve periodo, considerando sia la durata del beneficio sia il risultato perseguito. Gli obiettivi dell’intervento implicano infatti una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza.