CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 6 marzo 2019 n. 38
L’art. 68, terzo comma, Cost. – all’esito della revisione costituzionale compiuta con la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell’articolo 68 della Costituzione), che ha sostituito l’originaria autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari con un sistema basato su specifiche autorizzazioni ad acta – stabilisce la necessità dell’autorizzazione della Camera d’appartenenza «per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza». Alla previsione costituzionale è stata data attuazione attraverso gli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003, l’art. 4 di tale legge disponendo che, laddove occorra eseguire nei confronti di un membro del Parlamento intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, o acquisire tabulati di comunicazioni, l’autorità giudiziaria competente richiede direttamente l’autorizzazione alla Camera alla quale il soggetto appartiene. Si tratta, in tal caso, di un’autorizzazione preventiva, che precede il compimento dell’atto d’indagine. La Corte ha precisato che l’autorizzazione deve essere preventivamente richiesta non solo se l’atto d’indagine sia disposto direttamente nei confronti di utenze intestate al parlamentare o nella relativa disponibilità (intercettazioni cosiddette “dirette”), ma anche tutte le volte in cui la captazione si riferisca a utenze di interlocutori abituali del parlamentare, o sia effettuata in luoghi presumibilmente da questo frequentati, al precipuo scopo di conoscere il contenuto delle conversazioni e delle comunicazioni del parlamentare stesso. Ai fini della richiesta preventiva dell’autorizzazione, ciò che conta, in altre parole, non è la titolarità dell’utenza o del luogo, ma la direzione dell’atto d’indagine (sentenza n. 390 del 2007). Il successivo art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, invece, disciplina la richiesta alla Camera d’appartenenza dell’autorizzazione all’utilizzo in giudizio di un atto d’indagine già svolto: intervenendo «fuori dalle ipotesi previste dall’art. 4», esso si riferisce al caso in cui il GIP ritenga necessario utilizzare intercettazioni o tabulati già acquisiti, rispetto ai quali, proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare, l’autorità giudiziaria non avrebbe potuto, neanche volendo, munirsi preventivamente dell’autorizzazione della Camera d’appartenenza (sulla distinzione fra intercettazioni “mirate”, da una parte, e “casuali” o “fortuite”, dall’altra, sentenze n. 114 e n. 113 del 2010, n. 390 del 2007; ordinanza n. 263 del 2010). Nel caso in esame, la questione di legittimità costituzionale posta all’attenzione della Corte non riguarda il carattere “successivo” dell’autorizzazione relativa all’utilizzo dei verbali o delle registrazioni di un’intercettazione “casuale” o “fortuita”, ovvero di un tabulato già acquisito, dai quali emergano contatti con il parlamentare. Ma concerne l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, solo nella parte in cui tale autorizzazione è richiesta anche per l’utilizzo, nei confronti del parlamentare, di tabulati di comunicazioni, dai quali emergano contatti tra quest’ultimo e terzi indagati, in asserito contrasto con quanto testualmente disposto dall’art. 68, terzo comma, Cost., che si riferirebbe unicamente ai verbali o alle registrazioni delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni.
La disciplina processuale vigente prevede, per tutti i cittadini, rilevanti differenze quanto alle condizioni alle quali è consentito disporre l’intercettazione del contenuto di una conversazione o di una comunicazione, da una parte, e l’acquisizione dei dati estrinseci di esse, dall’altra, con particolare riferimento all’autorità giudiziaria che può ordinare l’una o l’altra misura. Solo il GIP, e solo in presenza di determinati reati (con limiti che sono stati resi via via più stringenti: artt. 266 e seguenti del codice di procedura penale), può autorizzare intercettazioni, mentre per l’acquisizione dei tabulati si è sempre ritenuta sufficiente la richiesta del pubblico ministero con decreto ex art. 256 cod. proc. pen. (relativo al dovere di esibizione all’autorità giudiziaria di documenti riservati o segreti), come ha in seguito confermato, anche se con una disciplina più dettagliata, l’art. 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, intitolato «Codice in materia di protezione dei dati personali, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento nazionale al regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE». Regole legislative non coincidenti, quindi, secondo una scelta che la Corte non ha censurato (sentenze n. 281 del 1998 e n. 81 del 1993), considerando i diversi elementi di conoscenza alla cui acquisizione le due misure sono rispettivamente finalizzate e le differenti esigenze investigative che mirano a soddisfare. Anche se nell’appena citata sentenza n. 81 del 1993 si è rilevato che gli stessi dati “esterni” di una conversazione conoscibili attraverso l’acquisizione dei tabulati telefonici – i soggetti fra i quali la comunicazione intercorre, la data e l’ora in cui essa avviene, la sua durata – devono beneficiare della garanzia che alla libertà e alla segretezza di ogni forma di comunicazione è assicurata dall’art. 15 Cost.
Sono le norme legislative a dover essere osservate alla luce della Costituzione, e non già quest’ultima alla stregua di ciò che stabilisce la disciplina legislativa (nella specie, quella processuale). Per questa essenziale ragione, non è consentito trarre, a partire dalle norme processuali in materia di intercettazioni e acquisizione di tabulati, alcuna definitiva conclusione quanto alla specifica disciplina costituzionalmente sancita, nella stessa materia, per i parlamentari, anche perché la disciplina del codice potrebbe mutare in futuro, proprio sugli aspetti qui rilevanti, e anche in direzione di un più omogeneo trattamento di intercettazioni e acquisizione di tabulati. In questa sede, va dunque verificato se l’art. 68, terzo comma, Cost. contenga una specifica disciplina in materia di comunicazioni del parlamentare, confrontandovi la pertinente legislazione ordinaria che a quella norma costituzionale ha esplicitamente inteso dare attuazione; a questo scopo, non è possibile muovere, come invece fa il giudice rimettente (sempre alla luce della disciplina processuale vigente), dal presupposto che tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, da un lato, e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, dall’altro, sussista una differenza «ontologica». In primo luogo, dell’esistenza di questa differenza “ontologica” può dubitarsi, dal momento che la Corte ha ricondotto sotto la tutela dell’art. 15 Cost., per tutti i soggetti dell’ordinamento, anche i dati “esterni” di una comunicazione ricavabili da un tabulato telefonico. Ma, soprattutto, con riferimento alla disciplina positivamente prevista per i parlamentari, si tratta piuttosto di verificare se davvero, come ancora asserisce il giudice rimettente, il testo dell’art. 68, terzo comma, Cost., nella parte in cui utilizza le espressioni «conversazioni» e «comunicazioni», escluda ogni riferimento a un documento, come il tabulato, che di quelle riveli, non già il contenuto ma dati ed elementi, certo “esterni”, che tuttavia, come si è detto, sono di indubbio significato comunicativo: data e ora in cui le conversazioni o le comunicazioni sono avvenute, loro durata, utenze coinvolte, consentendo altresì, in virtù dell’evoluzione tecnologica, il tracciamento di localizzazioni e spostamenti dei titolari di apparati mobili. Secondo il giudice a quo la “naturale” diversità tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, da un lato, e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, dall’altro, renderebbe costituzionalmente illegittima, in radice, la previsione censurata, che invece equipara i due elementi di prova, assoggettandoli entrambi alla necessità dell’autorizzazione, da parte della Camera d’appartenenza del parlamentare, al fine del loro utilizzo in giudizio. Proprio sul piano testuale, tuttavia, tale assunto non è corretto: il duplice riferimento, nell’art. 68, terzo comma, Cost., a «conversazioni o comunicazioni», induce a ritenere che al contenuto di una conversazione o di una comunicazione, siano accostabili, e risultino perciò protetti dalla garanzia costituzionale, anche i dati puramente storici ed esteriori, in quanto essi stessi “fatti comunicativi”. Del resto, il termine «comunicazioni» ha, tra i suoi comuni significati, quello di «contatto», «rapporto», «collegamento», evocando proprio i dati e le notizie che un tabulato telefonico è in grado di rilevare e rivelare. La stessa Corte di cassazione – pur in presenza di una costante giurisprudenza di legittimità che, con riferimento alla generale disciplina del codice di procedura penale, ha sempre distinto con nettezza le intercettazioni dall’acquisizione di tabulati – laddove si è occupata della specifica disciplina ora in questione, ha espressamente affermato che anche l’acquisizione di tabulati, come la captazione di conversazioni, è attività diretta ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 22 settembre 2016, n. 49538).
La previsione della necessaria autorizzazione all’utilizzo, quale mezzo di prova, del tabulato telefonico, in grado di rivelare elementi di non secondario rilievo inerenti alle comunicazioni di un membro del Parlamento, non costituisce inammissibile lesione del principio di uguale soggezione alla legge, ma attuazione del pertinente trattamento richiesto dalla garanzia costituzionale; del resto, la ratio della garanzia prevista all’art. 68, terzo comma, Cost. non mira a tutelare un diritto individuale, ma a proteggere la libertà della funzione che il soggetto esercita, in conformità alla natura stessa delle immunità parlamentari, volte primariamente alla protezione dell’autonomia e dell’indipendenza decisionale delle Camere rispetto ad indebite invadenze di altri poteri, e solo strumentalmente destinate a riverberare i propri effetti a favore delle persone investite della funzione (sentenza n. 9 del 1970). Per questa ragione, la garanzia in esame può estendersi ad un atto investigativo idoneo a incidere sulla libertà di comunicazione del parlamentare, quale è certamente l’utilizzo, in quanto mezzo di prova in giudizio, di un tabulato telefonico. La giurisprudenza della Corte ha del resto già sottolineato «la notevole capacità intrusiva» (sentenza n. 188 del 2010) di un’attività investigativa che coinvolga i tabulati, confermando che, per ogni cittadino, il ricorso a tale strumento d’indagine deve necessariamente essere soggetto alle garanzie previste dall’art. 15 Cost.; ha rimarcato, inoltre, che tale capacità intrusiva assume significati ulteriori laddove siano in questione le comunicazioni di un parlamentare. Non già perché la riservatezza del cittadino che è altresì parlamentare abbia un maggior valore, ma perché la pervasività del mezzo d’indagine in questione può tradursi in fonte di condizionamenti sul libero esercizio della funzione. Un tabulato telefonico può infatti aprire squarci di conoscenza sui rapporti di un parlamentare, specialmente istituzionali, «di ampiezza ben maggiore rispetto alle esigenze di una specifica indagine e riguardanti altri soggetti (in specie, altri parlamentari) per i quali opera e deve operare la medesima tutela dell’indipendenza e della libertà della funzione» (sentenza n. 188 del 2010).
Non è in contrasto con l’art. 68, terzo comma, Cost. una legge ordinaria che subordini all’autorizzazione della Camera d’appartenenza, equiparandone il trattamento alla registrazione o al verbale di un’intercettazione, l’utilizzo in giudizio di un tabulato telefonico, contenente dati “esterni” relativi alle comunicazioni di un membro del Parlamento e va pertanto dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento all’art. 68, terzo comma, della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Bologna.