Corte Costituzionale, sentenza 25 gennaio 2022 n. 20
Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Padova;
Va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Magistrato di sorveglianza di Padova.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– Va innanzitutto esaminata l’eccezione d’inammissibilità avanzata dalla parte costituita in giudizio, secondo cui il rimettente avrebbe chiesto a questa Corte un avallo alla interpretazione dell’art. 4-bis ordin. penit. ritenuta preferibile.
Tale eccezione non è fondata.
Il rimettente muove dal corretto presupposto che, in seguito alla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, la giurisprudenza di legittimità abbia ormai riconosciuto, in tema di accesso al permesso premio, l’esistenza di un “doppio regime probatorio” riferito ai detenuti non collaboranti condannati per reati cosiddetti ostativi, differenziato a seconda che la mancata collaborazione dipenda da una scelta consapevole oppure dalla impossibilità o inesigibilità della cooperazione con la giustizia.
Proprio questa differenziazione costituisce oggetto delle censure del rimettente, il quale la ritiene in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
Al riguardo va ribadito che, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato sulla disposizione che censura di illegittimità costituzionale, il giudice a quo ha la facoltà di assumere tale interpretazione in termini di “diritto vivente” e di richiederne il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 180 del 2021), senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi. È infatti possibile invocare l’intervento di questa Corte anche allorquando il rimettente abbia unicamente l’alternativa di adeguarsi ad un’interpretazione che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata (da ultimo, sentenza n. 1 del 2021).
4.– La parte e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni, asserendo che esse sollecitano una pronuncia in malam partem, poiché una sentenza di accoglimento determinerebbe, a carico del detenuto cui sia riconosciuta la collaborazione impossibile o inesigibile, un inasprimento degli oneri dimostrativi ai fini dell’accesso al permesso premio.
4.1.– La decisione su tale eccezione richiede una sintetica ricostruzione della disciplina, quale risultante, in particolare, dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte.
Prima di quest’ultima pronuncia, il sistema disegnato dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. in relazione a reati particolarmente gravi – cosiddetti “di prima fascia” – condizionava l’accesso a tutti i benefici e alle misure ivi elencate – compreso il permesso premio – all’utile collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., assunta come unica condotta idonea a dimostrare l’intervenuta rescissione dei collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata.
Con la sentenza citata, in relazione al solo permesso premio, la disciplina muta sensibilmente.
L’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. viene infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti ricordati, possa essere concesso il beneficio in questione, anche in assenza di utile collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
La ragione essenziale della pronuncia di accoglimento risiede nella natura della presunzione contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. La mancata collaborazione del detenuto con la giustizia evidenzia che i suoi collegamenti con l’organizzazione criminale sono mantenuti ed attuali. Da ciò, la sua permanente pericolosità, e quindi l’impossibilità di accedere ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti. Nella logica della disposizione, la presunzione dell’attualità dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata è assoluta, nel senso che non può essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa.
Questa conclusione, in relazione al permesso premio, non è tuttavia consentita dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. La sentenza stabilisce, infatti, che «[n]on è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima», quanto, appunto, il suo carattere assoluto: da un lato, non è irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, dall’altro, i parametri costituzionali ricordati esigono che tale presunzione sia relativa e, quindi, possa essere vinta da prova contraria.
Ciò che maggiormente rileva, ai fini della decisione delle questioni all’odierno esame, è peraltro il contenuto degli oneri dimostrativi, indicati dalla sentenza n. 253 del 2019, utili a superare la presunzione.
La peculiare natura dei reati di criminalità organizzata, nonché la ribadita non irragionevolezza della presunzione di pericolosità, purché non assoluta, dei detenuti che decidono di non collaborare con la giustizia, inducono infatti la sentenza ricordata a ricavare dal sistema costituzionale e legislativo la necessità di uno specifico canone probatorio – governato da «criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo» – per la concessione, ai detenuti in questione, del permesso premio.
La sentenza in esame fa così riferimento all’acquisizione di «congrui e specifici elementi», sul modello del «regime di prova rafforzata» (sentenza n. 68 del 1995) richiesto, ai detenuti per reati di criminalità organizzata, per l’accesso ai benefici penitenziari prima dell’introduzione del requisito della collaborazione con la giustizia: un regime, appunto, incentrato sull’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
Si tratta della stessa disciplina che testualmente permane nel comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. con riferimento al differente caso della collaborazione impossibile o inesigibile (accanto all’ipotesi di quella «oggettivamente irrilevante»).
Tuttavia, per ragioni di necessità costituzionale ispirate all’interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, la disciplina viene resa vieppiù stringente proprio per i detenuti che abbiano scelto di non prestare una collaborazione ancora possibile.
Così, il «regime probatorio rafforzato» è esteso «all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali».
Infine, «l’onere di fare specifica allegazione» di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro rispristino – viene fatto gravare sullo stesso condannato che richiede il beneficio.
Come si vede, la disciplina applicabile al detenuto non collaborante per sua scelta diverge da quella che governa i casi di collaborazione impossibile o inesigibile.
Dal confronto tra le posizioni delle due figure di detenuti non collaboranti disciplinate dai commi 1 e 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., la giurisprudenza di legittimità ha così tratto la conclusione dell’esistenza di un doppio regime probatorio: nei confronti di coloro che si siano trovati nell’accertata impossibilità di collaborare – o per i quali la collaborazione risulti, comunque, inesigibile – è sufficiente acquisire elementi che escludano l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata; per coloro i quali abbiano scelto di non prestare una collaborazione ancora possibile ed esigibile è invece necessaria, sempre al fine di superare il meccanismo ostativo, l’acquisizione di ulteriori elementi, oggetto di onere di specifica allegazione e tali da escludere anche il pericolo di ripristino dei suddetti collegamenti.
4.2.– Così sinteticamente ricostruita la disciplina, non è dubbio che l’intervento richiesto a questa Corte renderebbe più gravosa la posizione del condannato che richieda (o che abbia addirittura già ottenuto) l’accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione. Sarebbe a quest’ultimo esteso, infatti, lo standard probatorio introdotto dalla sentenza n. 253 del 2019, più rigoroso in punto di oneri di allegazione nonché riguardo ai temi di prova da approfondire per superare il meccanismo ostativo.
Tuttavia, non è fondata la conseguente eccezione d’inammissibilità delle questioni sollevata dalla parte costituita e dall’interveniente.
Essa, infatti, presuppone la natura sostanziale della disciplina censurata, con applicazione delle garanzie apprestate dall’art. 25 Cost., tra cui, in primo luogo, quella della riserva di legge. Se tale assunto fosse corretto, si ricadrebbe in un ambito in cui è inibito «alla Corte costituzionale sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque attinenti alla punibilità (di recente, ex multis, sentenza n. 37 del 2019; ordinanze n. 219 del 2020, n. 282 e n. 59 del 2019), salve specifiche eccezioni, che assicurano la dovuta ampiezza del controllo di legittimità costituzionale, ma non vulnerano il principio costituzionale della riserva di legge (tra le più recenti, sentenze n. 189 e n. 155 del 2019)» (sentenza n. 17 del 2021).
Ben vero che le più recenti pronunce di questa Corte (sentenze n. 17 del 2021 e n. 32 del 2020) hanno operato una revisione dei rapporti tra i principi stabiliti nel secondo comma dell’art. 25 Cost. e la disciplina delle misure concernenti l’esecuzione delle pene detentive.
Tuttavia, nelle sentenze appena ricordate, si è escluso che il divieto di applicazione retroattiva concerna anche i meri benefici penitenziari, quali appunto i permessi premio, sicché non sarebbe in principio inibito a questa Corte provvedere nel senso auspicato dal rimettente, ove fossero fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.
5.– Sempre in via preliminare, deve invece essere rilevata l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.
A parere del rimettente, solo l’eliminazione «del regime differenziato della valutazione della pericolosità ora legittimato dall’art. 4-bis co. 1 bis o.p.» avrebbe l’effetto di restituire al magistrato di sorveglianza, nei confronti di tutti i condannati per reati cosiddetti ostativi che intendano accedere al permesso premio, «il potere di effettuare una valutazione individualizzata della personalità, e quindi anche della pericolosità, del singolo detenuto istante», con la possibilità «di indagare anche le ragioni che hanno indotto lo stesso a scegliere il silenzio».
La motivazione della censura risulta, tuttavia, oscura ed apodittica, oltre che intrinsecamente contraddittoria.
Da un lato, il giudice a quo non spiega adeguatamente perché l’auspicata valutazione individualizzata, in caso di accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione, sia oggi preclusa, alla luce dei margini di valutazione concessi al magistrato di sorveglianza nel giudizio sulla meritevolezza del beneficio: una valutazione che, in base al tenore testuale dell’art. 30-ter ordin. penit., riguarda anche e proprio la pericolosità sociale del richiedente.
Dall’altro lato, il rimettente individua il vulnus che questa Corte dovrebbe rimuovere nell’impossibilità «di indagare anche le ragioni che hanno indotto lo stesso [detenuto] a scegliere il silenzio». In tal modo, però, è illustrata una condizione riferibile solo a colui che abbia liberamente esercitato la facoltà di non collaborare, pur potendolo fare; mentre è evidente che, una volta accertata l’impossibilità (o l’inesigibilità) di una utile condotta collaborativa, nessuna diversa opzione risulta nella disponibilità del detenuto.
6.– Nel merito, non è fondata la questione residua, sollevata per asserita violazione dell’art. 3 Cost.
Il giudice rimettente sostiene che sarebbe del tutto irragionevole la mancata previsione di «un regime probatorio unitario» che accomuni le figure del detenuto non collaborante, rispettivamente, “per scelta” o perché a tanto “impossibilitato”, dal momento che il loro «atteggiamento soggettivo» potrebbe essere identico, nel senso che «anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile può non voler collaborare». Per il giudice a quo, anzi, in una situazione come quella ipotizzata, una valutazione in concreto potrebbe rivelare «addirittura una minore pericolosità» di colui che abbia scelto di serbare il silenzio solo «perché mosso dai timori per la propria e l’altrui incolumità».
Per quanto tale congettura possa trovare riscontro nella realtà, da essa non può trarsi la conseguenza asserita dal rimettente, cioè che la parificazione delle due situazioni messe a confronto costituisca un imperativo costituzionale.
Nella sentenza n. 253 del 2019 questa Corte ha rilevato come, in mancanza di collaborazione con la giustizia, la presunzione di pericolosità per mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata si basa su precisi dati di esperienza, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit: l’appartenenza ad una associazione di stampo mafioso, infatti, «implica un’adesione stabile ad un sodalizio criminoso, di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo».
Tali dati di esperienza fanno ritenere non irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché, come si è già precisato, si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.
Del resto, la valutazione in concreto degli elementi idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata deve rispondere, in generale, a criteri «di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo».
È del tutto evidente, tuttavia, che il peso degli oneri dimostrativi da addossare al richiedente il permesso premio non può decisivamente basarsi sul suo atteggiamento soggettivo, ma deve dipendere dalla situazione oggettiva all’esame della magistratura di sorveglianza. È infatti a tale situazione che l’ordinamento non irragionevolmente è ancorato per stabilirne la forza presuntiva e, conseguentemente, per definire il regime probatorio necessario a superare quest’ultima.
Sotto questo aspetto, la situazione in parola risulta apprezzabilmente diversa nei due casi posti in comparazione dal rimettente: nel primo, la valutazione giudiziale deve tenere conto di una collaborazione oggettivamente ancora possibile, che viene tuttavia rifiutata. Nel secondo, il punto di partenza dell’esame giudiziale è costituito da una collaborazione oggettivamente impossibile o inesigibile.
La differenza è colta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, ormai stabilizzata in termini di diritto vivente, che ne ha coerentemente tratto conseguenze in ordine ai diversi standard probatori da soddisfare per vincere la presunzione di pericolosità, oggi relativa, per la concessione del permesso premio.
E così, nei confronti del detenuto che, pur essendo nelle condizioni di farlo, scelga di non prestare un’utile collaborazione con la giustizia, si giustifica, rispetto a colui che abbia ottenuto l’accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione, «uno svantaggio sul terreno degli oneri dimostrativi» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 10 settembre 2021, n. 33743).
Tra le due categorie di detenuti che le questioni sollevate dal rimettente impongono di confrontare emerge, infatti, una «differenza ontologica» (così, tra le tante, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 17 giugno 2021, n. 23862, n. 23859 e n. 23858; 21 gennaio 2021, n. 2593; 6 novembre 2020, n. 31025 e n. 31017; 21 ottobre 2020, n. 29151; 23 marzo 2020, n. 10551; 12 febbraio 2020, n. 5553), che conduce a distinguere «la posizione di chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole” (silente per sua scelta), da quella di chi “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado)» (in termini, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 21 dicembre 2020, n. 36887).
A ben vedere, la scelta di serbare il silenzio, nonostante una perdurante possibilità di collaborare, produce, come conseguenza di fatto, un effetto di favore per la consorteria criminale, ciò che giustifica una regola “probatoria” di maggiore rigore rispetto allo standard minimo – l’esclusione dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata – imposto, ai fini del superamento del regime ostativo, dai dati di esperienza che accomunano tutte le figure di detenuti non collaboranti.
Il carattere volontario della scelta di non collaborare, infatti, costituisce – secondo l’id quod plerumque accidit – un sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi (la cui allegazione spetta al richiedente) idonei ad escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, e in mancanza dei quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità.
Quando invece la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, la giurisprudenza di legittimità ritiene che l’atteggiamento del detenuto assume un significato del tutto neutro, ciò che consente di circoscrivere il tema di prova – ai fini del superamento del regime ostativo – all’esclusione di attualità dei collegamenti.
Questa differenziazione non appare irragionevole, e tanto è sufficiente per rigettare la questione, senza dimenticare che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), tese appunto – nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante – a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile.
Tutto questo non significa, naturalmente, che le motivazioni e le convinzioni soggettive di tutti i detenuti non collaboranti (per scelta o per impossibilità), su cui il giudice rimettente ha appuntato larga parte della sua attenzione, siano irrilevanti. Tuttavia, come già accennato, la loro valutazione potrà sempre avvenire, ed essere opportunamente valorizzata, nella fase dell’esame concernente la valutazione della “meritevolezza” del permesso premio richiesto.