Massima
Quando si commette un fatto inadempimento reato assieme a terzi, si sa come si parte ma non esattamente come si arriva; a fattispecie criminosa esaurita, il fatto inadempimento reato può infatti essere diverso da quello programmato, sia perché le circostanze, dal punto di vista oggettivo, prendono una piega non conforme ai piani originari del gruppo criminoso, sia perché – a cagione di una peculiare qualifica soggettiva di uno o più dei correi – il fatto inadempimento reato alfine commesso assume foggia di crimine “proprio”, e non già di crimine “comune” (come tale perpetrabile da chiunque), con fattispecie che in entrambi i casi pongono problemi di possibile frizione con il principio di colpevolezza e, dunque, di rimproverabilità a tutti i rei di quanto concretamente commesso e della connessa lesione dello specifico interesse penalmente tutelato.
Crono-articolo
Nel diritto romano non è possibile rintracciare una disciplina specifica per il concorso c.d. anomalo, né per il c.d. concorso nel reato proprio, stante la particolare raffinatezza tecnica che presidia queste fattispecie, in rapporto alla remota fase storica che quel sistema giuridico caratterizza. I Romani conoscono tuttavia il concorso di persone nel reato, che non disciplinano in via generale ed astratta, quanto piuttosto con riguardo a specifiche figure criminose previste in diverse fonti (leges) nel cui contesto – pur venendo differenziate le figure dei compartecipi – essi vengono tutti sanzionati (salve rare eccezioni) con la medesima pena, con conseguente mera funzione definitoria e di nomenclatura della ridetta differenziazione tra concorrenti. La uguale pena viene ricondotta dai Romani, a seconda dei casi, o alla medesima efficienza causale delle condotte nella realizzazione del crimine, o alla uguale volontà di realizzare il ridetto crimine. Di regola dunque il complice (minister, socius, particeps, conscius) viene punito con la stessa pena prevista per l’autore materiale del reato, perché lo ha cagionato al pari di lui, o perché comunque lo ha voluto al pari di lui: sono i casi della messa a disposizione della propria casa per commettere adulterio o stupro; della somministrazione del denaro necessario per comprare il veleno; del prestare genericamente gli arnesi utili all’uopo; del togliere la vista alla vittima; dell’appoggiare una scala al muro di casa della parte offesa; dello scassinarne una finestra e così via. Con riferimento a talune fattispecie (truffa, negromanzia, omicidio) sono conscii anche i “partecipi di animo cattivo”, che sostengono la realizzazione del reato da un punto di vista solo psichico. Nel diritto romano campeggia dunque un orientamento “unitario” (la punizione è la medesima per tutti coloro che hanno partecipato al reato), che tuttavia non assurge a rango di sistema, ma affiora dalle diverse fonti che lo prevedono come tale in relazione a diverse figure di reato; proprio tuttavia il fatto che tale “unitarietà” non viene applicata come regola sistematica favorisce, in ambito germanico premedioevale e medioevale, la nascita e via via lo sviluppo di un sistema differenziato di responsabilità concorsuale, quale è quello che finirà col caratterizzare tanto il c.d. concorso anomalo, quanto il c.d. concorso nel reato proprio.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che – nel disciplinare il concorso di persone nel reato – prevede una disciplina differenziata per quanto concerne la punizione dei singoli compartecipi a secondo del ruolo concretamente svolto da ciascuno di essi, distinguendo tra autori primari e meri complici, e punendo questi ultimi con una pena di consistenza inferiore. Più in specie, l’art.63 disciplina il concorso di persone nella esecuzione di un reato, distinguendo gli esecutori, i cooperatori immediati ed i determinatori, con sanzioni penali tarate in modo differenziato per ciascuna categoria, anche in relazione alla offensività della rispettiva condotta. Il successivo art.64, sempre nell’ambito della parte generale del codice (Titolo VI dedicato appunto al concorso di più persone in uno stesso reato), punisce anche i compartecipi “diversi” dalle categorie precedenti con contributo causale decisamente più “mediato”, ed in specie coloro che ex ante eccitano o rafforzano la risoluzione di commettere il reato, o promettono aiuto o assistenza da prestarsi dopo il reato stesso; coloro che danno istruzioni o somministrano mezzi per eseguirlo; coloro che ne facilitano l’esecuzione prestando assistenza o aiuto prima o durante il fatto. Non è prevista specificamente la fattispecie del c.d. concorso anomalo e tuttavia, in tema di omicidio e di lesioni personali, dall’art.378 affiora la figura della c.d. “complicità corrispettiva”, onde quando più persone abbiano preso parte all’esecuzione di un omicidio o di una lesione personale e non si conosca l’autore dell’omicidio o della lesione – secondo il c.d. “mistero della prova” – tutti i concorrenti debbono sottostare alla pena stabilita per il delitto commesso, ma diminuita; in proposito, i Lavori preparatori del codice del 1868 spiegano che, con tale istituto della complicità corrispettiva, “la legge si contenta di fare astrazione dalla responsabilità maggiore che è quella dell’autore del reato, e di limitarsi a quella accessoria dei complici, sacrificando l’ignoto per attenersi a ciò che è certamente noto”, e dunque applicando a tutti la sanzione diminuita prevista per i complici. Parimenti, non vi è una norma specificamente dedicata al concorso nel reato proprio, e tuttavia, alla stregua dell’art.66, le circostanze materiali che aggravano la pena, ancorché facciano mutare il titolo del reato, stanno a carico anche di coloro che le conoscevano nel momento in cui sono concorsi nel reato, onde laddove i compartecipi conoscano circostanze aggravanti materiali, e queste ultime siano capaci di far mutare il titolo del reato per qualcuno dei concorrenti, la pena è aumentata per tutti coloro che appunto le conoscono nel momento in cui partecipano alla commissione del reato. V’è da dire tuttavia che il modello “differenziato” di responsabilità concorsuale, siccome adottato dal codice Zanardelli, facilita il compito dell’interprete, giacché il reato proprio (come ad esempio il peculato del pubblico ufficiale di cui all’art.168) può essere commesso dal solo soggetto agente qualificato, in veste di esecutore, mentre i terzi sono più agevolmente punibili in modo appunto differenziato, quali cooperatori o determinatori del ridetto esecutore soggettivamente qualificato.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale che disciplina il c.d. concorso anomalo all’art.116 e quello nel reato proprio al successivo art.117. Secondo l’art.116, comma 1, qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione; stando poi a quanto disposto dal comma 2, se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave. Alla stregua del successivo art.117 se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti fra il colpevole e l’offeso, muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato; nondimeno, se questo è più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena. Il tutto si inscrive in un’ottica più generale orientata alla – seppur mitigata – “unitarietà” sistematica della responsabilità concorsuale, affiorante dall’art.110 alla cui rigorosa stregua quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve appunto le disposizioni degli articoli seguenti, tra le quali gli articoli 116 e 117. Proprio il modello “unitario” – di ascendenza autoritaria e con remoti addentellati al diritto romano – siccome abbracciato dal codice Rocco (rispetto a quello “differenziato” proprio del precedente, più liberale codice Zanardelli) pone all’interprete problemi maggiori, ad esempio, in tema di concorso nel reato proprio, dovendosi giustificare la eguale (per tutti) punizione per un “medesimo reato” in fattispecie in cui esso appare in realtà perpetrabile dal solo soggetto agente qualificato.
1942
Il 30 marzo viene varato il R.D. n.327, codice della navigazione, il cui articolo 1081, rubricato emblematicamente “concorso di estranei in un reato previsto nel presente codice”, dispone che – fuori del caso regolato nell’articolo 117 del codice penale – quando per l’esistenza di un reato previsto dal presente codice è richiesta una particolare qualità personale, coloro che, senza rivestire tale qualità, sono concorsi nel reato, ne rispondono se hanno avuto conoscenza della qualità personale inerente al colpevole, e tuttavia il giudice può diminuire la pena rispetto a coloro per i quali non sussiste la predetta qualità.
Il 17 agosto viene varata la legge n.1150, c.d. legge urbanistica, il cui articolo 41 prevede talune fattispecie contravvenzionali in materia urbanistica ed edilizia in relazione alle quali si discuterà se si sia o meno al cospetto di reati propri, con potenziale operatività dell’art.117 c.p. Ciò in quanto il precedente art.31 individua specificamente nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e – a particolari condizioni – nel direttore dei lavori i soggetti responsabili della conformità delle opere realizzate alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire e alle modalità esecutive in quest’ultimo specificamente stabilite, facendo ritenere appunto che le pertinenti violazioni, laddove penalmente sanzionate, compendino reati propri a cagione del relativo richiedere una specifica veste soggettiva in chi li commette.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza non sempre predicabile allorché si sia chiamati a rispondere per un fatto diverso da quello effettivamente voluto, o comunque per un fatto che presuppone in capo a chi lo commette determinate condizioni, qualità o tipologie di rapporto con la vittima.
1965
Il 31 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.42, che dichiara infondata la questione, sollevata dalla Corte di assise di Roma con ordinanza del 20 ottobre 1964, sulla legittimità costituzionale dell’art. 116 del Codice penale, in riferimento all’art. 27, primo comma, della Costituzione, salvando dunque la disposizione. Per la Corte l’ordinanza della Corte di assise di Roma rimettente ravvisa nella norma dell’art. 116 del Codice penale una “ipotesi di concorso a titolo di responsabilità oggettiva, per mero rapporto di causalità materiale, tra l’evento non voluto e l’azione od omissione dell’imputato“, soggiungendo che tale responsabilità sarebbe “ascritta per fatto non proprio“, e quindi in contrasto con l’art. 27, primo comma, della Costituzione, cioè col principio della personalità della responsabilità penale. Per la Corte, ferma rimanendo la propria giurisprudenza onde la responsabilità oggettiva non é (solo) responsabilità per fatto altrui, é tuttavia da ritenere che con l’art. 116 del Codice penale, diversamente da quanto si afferma nell’ordinanza, non si versi nella ipotesi della predetta responsabilità oggettiva in quanto, secondo la interpretazione che negli ultimi anni, in numerose sentenze, ha data la Corte di cassazione, e che la Corte ritiene di condividere, é necessaria, per questa particolare forma di responsabilità penale, la presenza anche di un elemento soggettivo. La Corte rammenta in proposito come le interpretazioni immediatamente successive alla entrata in vigore del Codice siano state strettamente influenzate dalla formulazione letterale della nuova disposizione, essendone scaturite per un certo tempo affermazioni piuttosto decise del principio della responsabilità oggettiva come fondamento della disposizione stessa. Tuttavia questa interpretazione – prosegue la Corte – non ha mancato di suscitare, fin dal principio, vive obiezioni. Sebbene infatti i relativi sostenitori abbiano sempre tentato di attenuarne in certa misura la portata, é innegabile che, a voler assumere come fondamento della responsabilità ex art. 116 unicamente il rapporto di causalità materiale, non si potrebbe a stretto rigore, stabilito un tale rapporto, sfuggire a talune estreme conseguenze: a quella, soprattutto, di dover imputare all’agente, solo perché materiale conseguenza della sua azione, un reato non soltanto diverso o più grave di quello voluto, ma anche del tutto al di fuori, per sua natura, da ciò che sarebbe un prevedibile omogeneo sviluppo dell’azione concordata. La interpretazione dell’art. 116 in senso rigidamente oggettivo é pertanto apparsa giustamente alla Cassazione non conforme al vero spirito della norma, venendo a creare una forma di responsabilità del tutto contrastante col sistema e produttiva, oltre tutto, di conseguenze penali di sproporzionata gravità. Di qui – chiosa ancora la Corte – il graduale manifestarsi della tendenza a riconoscere nella responsabilità ex art. 116 un coefficiente di partecipazione anche psichica: tendenza che ha poi trovato negli ultimi anni costante e decisa affermazione nella giurisprudenza. Né ciò può per la Corte attribuirsi a una diversione tardiva da quella che fu la originaria interpretazione, in quanto significativi precedenti nello stesso senso si riscontrano in una parte notevole della dottrina sin dai primi anni dall’entrata in vigore del Codice, e traccia evidente ne presentano gli stessi lavori preparatori. Già, infatti, nella Relazione sul testo definitivo (pag. 71) si avvertiva che, “chi coopera ad un’attività criminosa può e deve rappresentarsi la possibilità che il socio commetta un reato diverso da quello voluto“. La interpretazione che in definitiva si é affermata nella giurisprudenza, pur tra qualche difformità e incertezze di formulazione, esige, sostanzialmente, come base della responsabilità ex art. 116 del Codice penale, la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale, ma anche di un rapporto di causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un coefficiente di colpevolezza. Tale interpretazione la Corte, accogliendo i motivi che la giurisprudenza ne ha via via esposti e sviluppati, ritiene di dover pienamente condividere, escludendo con ciò che l’art. 116 del Codice penale importi una violazione del principio della personalità della responsabilità penale: principio che nella partecipazione psichica dell’agente al fatto trova la relativa, massima affermazione. Essendo ciò – per la Corte – sufficiente per riconoscere infondata la questione proposta, non é compito della Corte medesima il delimitare particolarmente la natura e gli aspetti del coefficiente di colpevolezza che ricorre nella fattispecie dell’art. 116, né lo stabilire se dalla semplice colpa esso possa addirittura assurgere alla forma dolosa, nel qual caso, é anche dubbio che si rientri nella ipotesi del predetto art. 116. Ciò che infine la Corte ritiene di dover rilevare é che le incertezze e i contrasti suscitati dalla disposizione dell’art. 116, sebbene da ultimo avviati dalla giurisprudenza a una più equilibrata ed esatta soluzione, non possono dirsi del tutto dissipati nella coscienza sociale e giuridica: onde la opportunità di un intervento del legislatore, al fine di stabilire se la norma in questione debba rimanere nel nostro ordinamento e, in caso positivo, quali esattamente debbano esserne il fondamento e i limiti, e in quali termini, inoltre, debba realizzarsi una logica coordinazione della norma stessa con tutto il sistema e con norme analoghe, in particolare modo con quella dell’art. 83 del Codice penale.
1971
Il 15 ottobre esce la sentenza della Cassazione alla cui stregua – secondo una tesi maggioritaria – l’art.117 c.p. può applicarsi solo all’extraneus che è ignaro della qualifica soggettiva dell’intraneus, e che come tale può anche beneficiare dell’attenuante ivi prevista laddove il reato comune a lui ascrivibile sia meno grave di quello, proprio, ascrivibile all’intraneus: in caso di consapevolezza della qualifica soggettiva dell’intraneus, scatta l’art.110 c.p. e non si applica all’extraneus l’attenuante in parola.
1972
Il 27 giugno esce la sentenza della Cassazione alla cui stregua – secondo una tesi minoritaria – l’art.117 c.p. può applicarsi anche all’extraneus che sappia della qualifica soggettiva dell’intraneus, e che come tale può beneficiare (come il correo extraneus ignaro) dell’attenuante ivi prevista laddove il reato comune a lui ascrivibile sia meno grave di quello, proprio, ascrivibile all’intraneus. In sostanza, tanto nel caso in cui l’extraneus sia consapevole, quanto nel caso in cui sia ignaro della qualifica soggettiva dell’intraneus, si applica l’art.117 c.p. (e non l’art.110 c.p.), con conseguente operatività dell’attenuante ivi prevista.
1977
Il 28 gennaio viene varata la legge n.10, c.d. legge Bucalossi, recante norme per la edificabilità dei suoli, il cui articolo 17 prevede talune fattispecie contravvenzionali in materia urbanistica ed edilizia in relazione alle quali si discute se si sia o meno al cospetto di reati propri, con potenziale operatività dell’art.117 c.p.
Il 21 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.6429, alla cui stregua è configurabile il concorso dell’extraneus nel possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli anche con riguardo a soggetti incensurati – e dunque “extranei” perché non ancora condannati ex art.707 c.p. – purché sia accertata in capo ad essi la consapevolezza che la persona alla quale si accompagnano è stata già condannata per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, e ad un tempo la consapevolezza della natura e della finalità degli strumenti o degli oggetti detenuti dalla ridetta persona (quali arnesi da scasso).
1978
Il 22 giugno esce la sentenza della Cassazione che si pronuncia in tema di falsità ideologica con riguardo ad una fattispecie in cui il soggetto attivo qualificato (il pubblico ufficiale) non è punibile. Per la Corte in questi casi va comunque ammessa l’operatività dell’art.117 c.p., e dunque il concorso del privato extraneus nel reato proprio del pubblico ufficiale, in quanto l’estraneo è da assumersi punibile anche quando non sia punibile l’intraneus per mancanza di dolo o comunque a cagione di una condizione personale del medesimo, quale appunto la non imputabilità.
1980
Il 25 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Turrini, alla cui stregua la circostanza attenuante prevista dalla seconda parte dell’art.117 c.p. (reato comune ascrivibile al correo extraneus meno grave di quello proprio ascrivibile al correo intraneus) non è applicabile laddove non sia applicabile la stessa prima parte dell’art.117 c.p., e dunque laddove non scatti il mutamento del titolo del reato per il correo extraneus. Trattasi dunque per la Corte di circostanza non applicabile laddove il comportamento dell’extraneus sia – isolatamente considerato – lecito, e divenga penalmente rilevante in forza dell’art.110 c.p. in combinato disposto con la fattispecie di reato proprio ascritta all’intraneus.
1981
Il 9 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Cerentino, che si occupa della circostanza attenuante di cui alla seconda parte dell’art.117 c.p., applicabile all’extraneus al quale sia ascrivibile un reato comune meno grave di quello, proprio, ascrivibile all’intraneus. Per la Corte, al fine di accertare la ridetta maggiore o minore gravità del reato ascrivibile all’extraneus rispetto a quello, soggettivamente qualificato e dunque proprio, ascrivibile all’intraneus, il giudice penale deve operare in concreto, e non in astratto, dovendo egli tenere conto sia della necessaria diversità qualitativa tra i due reati, dipendente dal relativo titolo, sia della diversità quantitativa collegata alla misura della pena concretamente applicabile considerando le circostanze, aggravanti e attenuanti, che ineriscono (appunto) in concreto a ciascuna delle due ipotesi poste in raffronto (comune dell’extraneus e propria dell’intraneus), oltre che dell’eventuale giudizio di comparazione che le coinvolge.
1983
Il 12 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Amato, che si pronuncia in tema di bancarotta fraudolenta con riguardo ad una fattispecie in cui il soggetto attivo qualificato non è imputabile. Per la Corte in questi casi va comunque ammessa l’operatività dell’art.117 c.p., e dunque il concorso dell’extraneus nel reato proprio del soggetto qualificato, in quanto l’estraneo è da assumersi punibile anche quando non sia punibile l’intraneus per mancanza di dolo o comunque a cagione di una condizione personale del medesimo, quale appunto la non imputabilità.
*Il 12 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8217, alla cui stregua è configurabile il concorso dell’extraneus nel possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli anche con riguardo a soggetti incensurati – e dunque “extranei” perché non ancora condannati ex art.707 c.p. – purché sia accertata in capo ad essi la consapevolezza che la persona alla quale si accompagnano è stata già condannata per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, e ad un tempo la consapevolezza della natura e della finalità degli strumenti o degli oggetti detenuti dalla ridetta persona (quali arnesi da scasso).
1985
Il 28 febbraio viene varata la legge n.47, recante norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie, il cui articolo 20 prevede talune fattispecie contravvenzionali in materia urbanistica ed edilizia in relazione alle quali si discute se si sia o meno al cospetto di reati propri, con potenziale operatività dell’art.117 c.p. Ciò in quanto il precedente art.6 individua specificamente nel titolare della concessione edilizia, nel committente, nel costruttore e – a particolari condizioni – nel direttore dei lavori i soggetti responsabili della conformità delle opere realizzate alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, alla concessione edilizia e alle modalità esecutive in quest’ultimo specificamente stabilite, facendo assumere appunto che le pertinenti violazioni, laddove penalmente sanzionate, compendino reati propri a cagione del relativo richiedere una specifica veste soggettiva in chi li commette.
1992
Il 19 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione, Merli, che si occupa del reato proprio di false comunicazioni sociali di cui all’art.2621 c.c.; per la Corte – in relazione all’art.117 c.p. – occorre operare una distinzione tra i casi in cui – tra coloro che concorrono nel reato proprio – l’intraneo agisca alla stessa stregua di autore esclusivo del fatto criminoso (proprio, appunto), ovvero che resti in una posizione subordinata ed accessoria; nel primo caso, si ha per gli altri concorrenti mutamento del titolo del reato ex art.117 c.p., mentre nel secondo la qualità di intraneus non determina alcuna modificazione sulla qualificazione giuridica del fatto per gli altri concorrenti (che resta dunque reato comune, ad esempio falsità in scrittura privata).
1994
Il 21 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2167, secondo la quale l’applicazione della circostanza attenuante prevista dalla seconda parte dell’art.117 c.p. (allorché il reato comune ascrivibile all’extraneus è meno grave di quello proprio ascrivibile all’intraneus) ha natura discrezionale e, anche laddove ne sussistano astrattamente i presupposti applicativi (in termini appunto di minore gravità del reato comune dell’extraneus rispetto a quello proprio dell’intraneus), essa può in concreto non essere applicata dal giudice allorché il correo extraneus manifesti una elevata intensità di dolo nella partecipazione al reato proprio dell’intraneus, ovvero nel caso che non si tratti di un mero complice “accessorio”, assurgendo piuttosto a ruolo di vero e proprio correo.
1996
Il 7 agosto esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.7718, Battaglia ed altro, alla cui stregua, allorché l’extraneus sia consapevole della qualità dell’intraneus, egli risponde comunque del reato proprio, anche se la relativa condotta non costituirebbe di per sé reato; pertanto, i compartecipi che non hanno la qualifica di pubblico ufficiale rispondono di concorso nel delitto di falso ideologico in atto pubblico ex art.110 e 479 c.p., e – non essendo applicabile l’art.117, ultima parte, del codice penale (in quanto la condotta dei compartecipi medesimi non integra di per sé un altro reato) – essi non hanno diritto alla riduzione di pena ivi prevista.
1998
Il 10 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.2998, Preite, alla cui stregua, onde applicare l’art.116 c.p. in tema di concorso anomalo, occorre la prevedibilità (non già meramente in astratto, quanto piuttosto) in concreto dell’evento diverso non voluto dal correo.
Il 12 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.11708, Cucinotta ed altro, alla cui stregua – con riguardo all’art.116 c.p. – al fine di predicare la penale responsabilità del correo che non abbia voluto l’evento diverso è necessario tanto che sia configurabile una adesione dell’agente ad un reato ab origine divisato e concorsualmente voluto; quanto che si abbia commissione da parte di altro correo di un reato diverso e più grave; quanto, ancora, che si profili un nesso materiale e psicologico che avvince la condotta del compartecipe in rapporto al reato inizialmente voluto ed il diverso reato effettivamente commesso da altro correo, tale reato diverso (e più grave) dovendosi atteggiare a prevedibile, logico sviluppo di quello ab origine concordato, senza tuttavia che ne ve sia stata da parte del correo non volente una effettiva previsione o una accettazione del pertinente rischio, tornando in quest’ultima ipotesi ad operare il regime del concorso pieno (giusta configurabilità di un dolo quanto meno eventuale).
2000
Il 7 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.11417, Pettinato ed altro, onde – in tema di concorso anomalo ex art.116 c.p. – la prevedibilità del reato diverso e più grave di quello voluto da tutti i correi, del quale taluno di essi possa essere chiamato a rispondere a titolo appunto di concorso anomalo, non va intesa in astratto, e dunque semplicemente con rapporto di potenziale evolvibilità di una fattispecie in un’altra, quanto piuttosto in concreto, dovendosi tenere conto di tutte le circostanze dell’azione, da valutarsi secondo l’esperienza dell’uomo medio.
2001
Il 2 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4399, Riso ed altro, che abbraccia in tema di concorso anomalo ex art.116 c.p. la tesi che richiede, al fine di predicare applicabile tale norma, una prevedibilità in concreto dell’evento diverso non voluto. Per la Corte l’esclusione della responsabilità ex art. 116 c.p. presuppone che il reato diverso (e non voluto) si presenti come un evento atipico, conseguenza di circostanze del tutto eccezionali ed imprevedibili; laddove, all’opposto, l’evento diverso sia invece non solo (concretamente ed) effettivamente prevedibile, ma addirittura previsto, si delinea in capo al correo una accettazione del pertinente rischio di avveramento, capace di far scattare l’art.110 c.p. con imputazione a titolo di dolo eventuale, quale limite alla sfera di operatività dell’art.116 c.p., da intendersi norma più favorevole. Nella sostanza, se al cospetto di dolo eventuale per accettazione del rischio (evento diverso concretamente previsto ed accettato) va applicato l’art.110 c.p., laddove vi sia prevedibilità in concreto del reato diverso non voluto senza effettiva previsione ed accettazione del medesimo scatta invece l’art.116 c.p., alla cui stregua l’evento diverso non voluto viene imputato a titolo di colpa.
Il 6 giugno viene varato il D.p.R. n.380, recante testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. (Testo A), il cui articolo 44 prevede – confluendovi le pertinenti fattispecie anteriori – talune fattispecie contravvenzionali in materia urbanistica ed edilizia in relazione alle quali si discute se si sia o meno al cospetto di reati propri, con potenziale operatività dell’art.117 c.p. Ciò in quanto il precedente art.29 individua specificamente nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e – a particolari condizioni – nel direttore dei lavori i soggetti responsabili della conformità delle opere realizzate alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire e alle modalità esecutive in quest’ultimo specificamente stabilite, facendo assumere appunto che le pertinenti violazioni, laddove penalmente sanzionate, compendino reati propri a cagione del relativo richiedere una specifica veste soggettiva in chi li commette.
2005
Il 25 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.7388 che abbraccia la tesi della c.d. prevedibilità in concreto dell’evento diverso non voluto ex art.116 c.p.. La Corte si pronuncia sulla c.d. strage di Gioia Tauro risalente agli anni 70, rappresentando come l’accertamento della prevedibilità dell’evento diverso – che costituisce il coefficiente di colpevolezza ex art.116 c.p. – va inteso in concreto, e dunque utilizzando il parametro del c.d. homo eiusdem condicionis et professionis, tenendo conto di tutte le circostanze appunto del caso concreto, onde il partecipe non potrà assumersi responsabile del reato diverso allorché, pur usando la dovuta diligenza, non avrebbe potuto prevedere che esso si sarebbe verificato. La pronuncia cassa con rinvio e richiede ai giudici di merito, in sede appunto di rinvio, di considerare la collocazione concettuale della responsabilità ex art.116 c.p. in un‘area intermedia tra l’imprevedibilità dell’evento e l’effettiva previsione ed accettazione del rischio: condizioni che, per la Corte, conducono rispettivamente, la prima al venire meno del nesso di causalità materiale, oltre che di quello di causalità psichica, come nel caso del reato diverso e non voluto che assuma il connotato di un evento atipico, o viceversa, nella seconda, alla configurazione del dolo eventuale e dunque del concorso ordinario), dovendo tendersi ad acclarare se l’agente si sia rappresentato, in concreto, il realizzarsi del reato diverso sia pure in un’ottica di mera possibilità o si scarsa probabilità, non ricorrendo in tali ipotesi il dolo eventuale e la conseguente configurazione del concorso ordinario ex art.110 c.p..
2006
L’11 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.744 alla cui stregua – in tema di concorso anomalo ex art.116 c.p. – si riscontrano in termini di doveroso accertamento da parte del giudice del merito taluni requisiti positivi compendiantisi nel nesso causale tra condotta del correo e reato diverso da quello voluto e nella qualificazione di quest’ultimo come sviluppo logicamente prevedibile del reato programmato; e talaltri negativi, ovvero l’evento diverso non deve essere stato voluto a titolo di dolo, neanche in versione eventuale, e dunque esso non deve essere stato accettato quale conseguenza ulteriore o diversa del programma criminoso originario (altrimenti scatta l’art.110 c.p.), e non deve essere così atipico rispetto a quello divisato ab origine da risultarne “scisso”, quale conseguenza di circostanze così eccezionali da non poter essere in nessun modo riannodabili alla condotta del correo (in tal caso venendo meno lo stesso nesso di causalità tra la condotta del correo medesimo e l’evento realizzato non voluto).
Il 30 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3626, che si occupa di una fattispecie di potenziale configurabilità del concorso nella contravvenzione di cui all’art.707 c.p. da parte di chi sia incensurato; trattasi di fattispecie che punisce chi – già condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni in tema di prevenzione dei delitti contro il patrimonio (e, dunque, non incensurato) – venga in possesso di chiavi alterate, contraffatte o genuine, grimaldelli o altri strumenti idonei ad aprire e forzare le serrature, in assenza di valida giustificazione circa la relativa, attuale destinazione. La Corte muove dal presupposto onde la giurisprudenza configura ormai da tempo il concorso dell’extraneus nel possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli anche con riguardo a soggetti incensurati – e dunque non già condannati ex art.707 c.p. – purché sia accertata in capo a tali soggetti incensurati la consapevolezza che la persona alla quale si accompagnano è stata già condannata per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio, in una con la consapevolezza della natura e della finalità degli strumenti o degli oggetti detenuti dalla ridetta persona (quali arnesi da scasso). Pur contemplando l’art.707 c.p. un reato a soggetto attivo qualificato, e dunque un reato proprio, non può per la Corte escludersi la possibilità di un concorso da parte di chi non si trovi nelle condizioni soggettive e oggettive richieste da tale articolo, onde concorre nel pertinente reato (proprio) chi, pur non macchiato da precedenti penali patrimonialmente qualificati, si accompagni a persona che sa essere stata già condannata per uno dei reati previsti dal medesimo art.707 c.p. e sia consapevole degli oggetti e degli strumenti da essa detenuti con possibilità di servirsi di detti strumenti ovvero, in forza di precedenti intese, di aiutare il soggetto attivo qualificato a servirsene. Per la Corte, in tema di possesso ingiustificato di chiavi alterate e grimaldelli, è da intendersi allora sufficiente – al fine di predicare la configurabilità del concorso nel pertinente reato proprio anche da parte di soggetti incensurati – la consapevole disponibilità concreta ed immediata, da parte di più persone, degli arnesi predetti, mentre si palesa del tutto irrilevante che tali oggetti appartengano originariamente ad uno soltanto dei correi (segnatamente, di quello soggettivamente qualificato), dal momento che occorre dare rilievo alla possibilità di questi di servirsene ovvero di aiutare il proprietario a servirsene.
*Il 17 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.37940 alla cui stregua – in tema di concorso anomalo ex art.116 c.p. – si riscontrano in termini di doveroso accertamento da parte del giudice del merito taluni requisiti positivi compendiantisi nel nesso causale tra condotta del correo e reato diverso da quello voluto e nella qualificazione di quest’ultimo come sviluppo logicamente prevedibile del reato programmato; e talaltri negativi, ovvero l’evento diverso non deve essere stato voluto a titolo di dolo, neanche in versione eventuale, e dunque esso non deve essere stato accettato quale conseguenza ulteriore o diversa del programma criminoso originario (altrimenti scatta l’art.110 c.p.), e non deve essere così atipico rispetto a quello divisato ab origine da risultarne “scisso”, quale conseguenza di circostanze così eccezionali da non poter essere in nessun modo riannodabili alla condotta del correo (in tal caso venendo meno lo stesso nesso di causalità tra la condotta del correo medesimo e l’evento realizzato non voluto).
2007
Il 28 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8407, che si occupa del D.p.R. n.380, recante testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A), ed in particolare del relativo articolo 44 laddove prevede – confluendovi le pertinenti fattispecie anteriori – talune fattispecie contravvenzionali in materia urbanistica ed edilizia in relazione alle quali si discute se si sia o meno al cospetto di reati propri, con potenziale operatività dell’art.117 c.p. Più in specie, il precedente art.29 individua specificamente nel titolare del permesso di costruire, nel committente, nel costruttore e – a particolari condizioni – nel direttore dei lavori i soggetti responsabili della conformità delle opere realizzate alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire e alle modalità esecutive in quest’ultimo specificamente stabilite, facendo assumere appunto che le pertinenti violazioni, laddove penalmente sanzionate, compendino reati propri a cagione del relativo richiedere una specifica veste soggettiva in chi li commette: di qui il problema di qualificare la responsabilità penale di chi materialmente realizza i lavori alle dipendenze del costruttore, e dunque degli esecutori materiali dei lavori edilizi abusivi. La Corte rammenta come secondo una delle opzioni ermeneutiche percorribili, le contravvenzioni in parola costituiscono tutte dei reati propri, che possono come tali essere commessi solo dai soggetti specificamente individuati dalla disciplina urbanistica (quali responsabili della conformità urbanistico-edilizia dell’opera rispetto al quadro normativo e di piano vigente), proprio per il relativo possedere determinate qualità, potendo tuttavia scattare la responsabilità penale anche in capo a soggetti terzi proprio attraverso la disciplina del concorso dell’extraneus nel reato proprio. Occorre muovere, per chi abbraccia questa tesi, dal presupposto che l’oggetto giuridico tutelato dalle contravvenzioni edilizie in parola andrebbe individuato nell’interesse formale della PA al controllo delle attività di modifica del territorio che ne implichino una trasformazione urbanistica ed edilizia, onde i pertinenti reati contravvenzionali non potrebbero che punire comportamenti che presuppongono l’inosservanza di obblighi amministrativi e che potrebbero ricondursi solo a chi la pertinente normativa costituisce appunto garante delle concrete (e legittime) modalità di esercizio dell’attività edilizia, che dunque è il solo possibile soggetto attivo di tali reati contravvenzionali. Anche muovendo dalla dogmatica del reato proprio, affiora secondo questa tesi come disegnando tale prototipo criminoso il legislatore abbia inteso – riferendosi ad un soggetto specificamente qualificato – attribuire peculiare significatività ad una situazione che pone il ridetto soggetto in condizioni di aggredire in modo particolarmente intenso (proprio a cagione della relativa veste soggettiva) il bene/interesse penalmente tutelato, secondo modalità che risultano inaccessibili ad altri soggetti; più specificamente, con riguardo alle contravvenzioni edilizie il legislatore sembrerebbe voler imputare determinati obblighi a peculiari figure soggettivamente qualificate, con lo scopo di meglio tutelare l’interesse penalmente protetto, dotando tali figure di peculiari poteri idonei a scongiurarne la lesione, come del resto imposto dallo stesso art.27 Cost., dal principio di personalità della responsabilità penale in esso inscritto e della diretta riferibilità della responsabilità, per l’appunto, ai poteri collateralmente concessi a chi (soggettivamente qualificato) meglio può scongiurarne il pertinente vulnus. Se non che, la Corte non si dichiara d’accordo con questa opzione ermeneutica, propendendo piuttosto per la tesi onde i reati contravvenzionali edilizi previsti dall’art.44 del D.p.R. n.380.01 compendiano per lo più reati comuni, che come tali possono essere commessi da chiunque, seppure con qualche eccezione in cui si è in effetti al cospetto di reati propri. Per la Corte emblematico è in primo luogo il testo delle norme penali di che trattasi, che essendo formulato in modo impersonale non depone nel senso della configurazione di un reato proprio; peraltro, nelle fattispecie in cui più modesta si atteggia la trasformazione urbanistica in concreto realizzata, chi realizza personalmente i lavori abusivi difficilmente potrebbe essere considerato “committente” o “costruttore”, circostanza che – a fini di punibilità – dovrebbe invece essere acclarata laddove appunto si trattasse di reato proprio (e non comune). Inoltre, prosegue la Corte, sempre dal punto di vista testuale, l’art.29 del D.p.R. 380.01 dichiara responsabili della conformità delle opere realizzate alla normativa urbanistica ed alle previsioni di piano il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore, unitamente al direttore dei lavori, (con riguardo alle previsioni di cui al permesso di costruire ed alle modalità esecutive ivi stabilite), e tuttavia si tratta di una responsabilità esplicitamente limitata ai fini e agli effetti delle norme contenute nel “presente capo”, e dunque nel capo I del pertinente titolo, mentre la disciplina penale (e la connessa responsabilità) sono disciplinate dal successivo capo II. Peraltro, e su un crinale maggiormente sostanziale, per la Corte l’oggetto della tutela penale apprestata dalle contravvenzioni urbanistiche di che trattasi va rintracciato non già esclusivamente nell’interesse (strumentale e formale) della PA al controllo sulle attività che implicano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, bensì – massime – nella salvaguardia degli (effettivi) usi pubblici e sociali del territorio medesimo, quale bene giuridico che può in realtà essere vulnerato, in modo indifferenziato, da chiunque ponga in essere simili attività lesive, e non già solo da soggetti “formalmente” determinati che siano in possesso di peculiari status soggettivi siccome indicati dal ridetto art.29. Questo non esclude nondimeno, soggiunge la Corte, che in seno al D.p.R. 380.01 siano configurabili reati “propri” o, meglio, assecondando parte della dottrina, “a soggettività ristretta”: è il caso ad esempio di talune delle violazioni di cui alla lettera a) dell’art.44 del D.p.R. più volte menzionato; della contravvenzione compendiantesi nella inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori ex lettera b), ultima previsione, dell’art.44 ridetto (che può essere commessa solo da colui o da coloro ai quali viene rivolto il provvedimento amministrativo di sospensione), con possibilità per i terzi di vedere mutato il titolo del proprio reato giusta concorso ex art.117 c.p.; delle violazioni proprie del direttore dei lavori, con responsabilità limitata alle sole difformità tra l’opera eseguita e le previsioni e le modalità esecutive stabilite nel permesso di costruire (qui la legge assume avere effetto pienamente scriminante l’effettivo recesso, tempestivo e formalmente comunicato dal direttore dei lavori in parola). Peraltro, soggiunge la Corte, la previsione di cui all’art.29 del T.U. 380.01 non autorizza ad estendere l’ambito dei possibili responsabili, dal punto di vista penale, delle note contravvenzioni edilizie; la norma non configura infatti, per le figure soggettivamente qualificate ivi previste (segnatamente, per i titolari di diritti dominicali), un obbligo di intervenire in veste di garanti del bene tutelato, non potendosi dunque ravvisare una forma di responsabilità colposa per omesso impedimento delle condotte descritte in ciascuna singola fattispecie incriminatrice (non è dunque configurabile un reato omissivo improprio colposo, allorché ciascuno di tali soggetti qualificati non sia consapevole di concorrere con la propria condotta omissiva alla condotta altrui perpetrante una delle note contravvenzioni edilizie): la Corte richiama in proposito la propria assolutamente prevalente giurisprudenza alla cui stregua il semplice fatto di essere proprietario o comproprietario della superficie teatro dell’abuso – pur potendo costituire un indizio grave – non è di per sé solo sufficiente a giustificare l’imputazione di una responsabilità penale nemmeno allorché il soggetto proprietario o comproprietario considerato sia a conoscenza della circostanza onde terzi stanno realizzando sul proprio fondo delle opere abusive, occorrendo piuttosto – a fini di responsabilità penale – che affiorino altri elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che egli abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con il committente o con l’esecutore dei lavori abusivi. Dopo questo lungo excursus la Corte passa poi ad esaminare, ex professo, la posizione dei dipendenti dell’imprenditore costruttore, quali esecutori materiali dei lavori abusivi, distinguendo schematicamente diverse possibili fattispecie, siccome astrattamente configurabili. Il primo caso (doloso) è quello del soggetto esecutore materiale che è consapevole di porre in essere una attività costruttiva in assenza o in difformità rispetto al titolo edilizio abilitativo, volendo dunque commettere l’abuso: in questo caso ciascun esecutore materiale in dolo risponde della contravvenzione pertinente, laddove ricorrano tutti gli estremi del concorso di persone nel reato, sia a titolo oggettivo che soggettivo (giusta apporto di un contributo materiale o morale alla realizzazione dell’opera abusiva); né il fatto che si tratti di meri esecutori materiali può implicare, per ciascun prestatore d’opera, la possibilità di invocare la scriminante dell’adempimento del dovere ex art.51 c.p., per il relativo dover ottemperare alle disposizioni impartite dal datore di lavoro (costruttore), dato che l’art.51 c.p. coinvolge rapporti di natura pubblicistica e non già rapporti, quand’anche gerarchici, di natura privatistica. L’altra ipotesi (colposa) è invece quella che si risolve nel negligentemente omesso accertamento, da parte dell’esecutore materiale dei lavori, dell’esistenza di un provvedimento edilizio abilitante, ovvero della conformità dei lavori in corso di realizzazione al titolo esistente; con una prima variante concernente l’ipotesi, più grave, in cui il titolo edilizio manchi del tutto: per la Corte, poiché la giurisprudenza ammette la configurabilità del concorso colposo nelle contravvenzioni (che, ai sensi dell’art.42, comma 4, c.p., sono punibili tanto a titolo di dolo che di colpa), e stante l’ammissibilità del concorso dell’extraneus nel reato proprio, per la Corte occorre ammettere che più persone possano partecipare, in concorso tra loro, alla commissione di una contravvenzione anche se la relativa condotta è sorretta da atteggiamenti psichici non omogenei (dolo e colpa); laddove il permesso di costruire difetti del tutto, ipotesi particolarmente grave, anche i meri esecutori materiali possono dunque per la Corte essere chiamati a rispondere direttamente, a titolo di colpa (dal punto di vista soggettivo) ai sensi dell’art.110 c.p. e 29 del D.p.R. 380.01; se infatti si escludono i casi di scusabilità per errore, gli esecutori materiali dipendenti del costruttore hanno l’onere di accertare l’intervenuto rilascio da parte della PA competente del titolo edilizio abilitante, e potendo il titolo di responsabilità concorsuale colposo concorrere con quello doloso, non occorre per la Corte individuare la sussistenza di un obbligo giuridico di impedire il pertinente reato ai sensi dell’art.40, comma 2, c.p., palesandosi appunto sufficiente la disciplina del concorso di persone nel reato comune, ovvero quella del concorso dell’extraneus nel reato proprio. Diversa, e meno grave, è invece la fattispecie in cui gli esecutori materiali dipendenti del costruttore agiscano realizzando lavori in difformità del titolo edilizio, che dunque qui esiste: in questo caso, la Corte chiarisce come la legge abbia attribuito in modo espresso al direttore dei lavori l’obbligo di vigilare sulla corrispondenza dell’opera al progetto siccome varato e approvato dalla PA, onde la diligenza richiesta ai ridetti esecutori materiali dei lavori non può assumersi estesa fino alla necessaria, puntuale verifica delle previsioni e prescrizioni siccome appunto assentite dalla PA competente, esclusi solo i casi più macroscopici in cui vengano realizzati piani ulteriori rispetto a quelli divisati, ovvero comunque parti aggiuntive significative o comunque opere assolutamente non riferibili a quelle assentite (in sostanza, la responsabilità penale appare configurabile solo in presenza di colpa grave degli operai dipendenti del costruttore). Per quanto poi concerne le violazioni colpose delle norme urbanistiche e di quelle di piano, poiché non è penalmente responsabile neppure il direttore dei lavori, quale organo tecnico particolarmente qualificato, a fortiori per la Corte non possono assumersi responsabili gli operai realizzatori materiali dell’opera abusiva.
2008
*Il 22 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.20667 alla cui stregua – in tema di concorso anomalo ex art.116 c.p. – si riscontrano in termini di doveroso accertamento da parte del giudice del merito taluni requisiti positivi compendiantisi nel nesso causale tra condotta del correo e reato diverso da quello voluto e nella qualificazione di quest’ultimo come sviluppo logicamente prevedibile del reato programmato; e talaltri negativi, ovvero l’evento diverso non deve essere stato voluto a titolo di dolo, neanche in versione eventuale, e dunque esso non deve essere stato accettato quale conseguenza ulteriore o diversa del programma criminoso originario (altrimenti scatta l’art.110 c.p.), e non deve essere così atipico rispetto a quello divisato ab origine da risultarne “scisso”, quale conseguenza di circostanze così eccezionali da non poter essere in nessun modo riannodabili alla condotta del correo (in tal caso venendo meno lo stesso nesso di causalità tra la condotta del correo medesimo e l’evento realizzato non voluto).
Il 21 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.39292, che si pronuncia su una fattispecie relativa a falsità materiale in atto pubblico consistita nella sostituzione, in un verbale, degli estremi identificativi di una autovettura, operata da un ufficiale dei carabinieri in concorso con un privato cittadino. Per la Corte, ai fini dell’applicabilità dell’art. 117 cod. pen., che disciplina il mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti, è necessario che il fatto commesso dall’estraneo costituisca comunque reato anche in mancanza della qualifica rivestita dall’autore principale; ne consegue che, quando l’azione del concorrente (quello extraneus) è di per sé lecita e la relativa illiceità dipende dalla qualità personale di altro concorrente (quello intraneus), trova applicazione la norma generale sul concorso di persone, di cui all’art. 110 cod. pen.
2009
Il 27 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3764, che in tema di c.d. concorso anomalo ex art.116 c.p. fa applicazione – in ottica di salvaguardia del principio di colpevolezza – del criterio c.d. di prevedibilità logica dell’evento diverso non voluto dal correo. Nel caso di specie, in una fattispecie di rapina in abitazione, uno dei correi si limita a fare da palo, mentre l’altro procede ad una violenza sessuale; la Corte esclude l’applicabilità del c.d. concorso anomalo sul presupposto onde la violenza che caratterizza il reato a sfondo sessuale ha natura diversa rispetto a quella che connota i reati contro il patrimonio. La Corte conferma nel caso di specie la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in capo al “palo” con riguardo alla rapina, in una fattispecie in cui l’altro correo è entrato all’interno della recinzione, travisato, allo scopo di sottrarre beni, ivi trovandovi una donna probabilmente sveglia, attesa l’ora dell’ingresso nella pertinente abitazione. Per la Corte, in simili fattispecie l’uso di violenza o minaccia ai danni della parte offesa appare evento accettato preventivamente da parte del correo “palo” sulla scorta dell’id quod plerumque accidit, atteso che di norma all’irruzione di ladri in casa propria la parte offesa ben può tentare di resistere o di cercare di impedire la sottrazione di beni, onde l’ipotizzato concorso ai sensi dell’art.110 c.p. nel delitto di rapina appare per la Corte ineccepibile, oltre che adeguatamente e logicamente motivato; sotto altro profilo, può dirsi per la Corte corretta anche la contestazione nei confronti del correo “palo” del reato (diverso) di sequestro di persona, quale fatto non commesso dall’indagato e divergente dal divisato programma criminoso: ciò sulla scorta della giurisprudenza della Corte medesima alla cui stregua legittimamente va affermata la responsabilità a titolo di concorso anomalo ex art.116 c.p. nei reati di violenza privata e sequestro di persona commessi dal rapinatore in capo al correo rimasto a fare da “palo”, stante la prevedibile evoluzione della situazione con riguardo ad ipotesi criminose che appaiono logicamente avvincibili alla divisata rapina; la Corte si lascia dunque guidare dal concetto di c.d. prevedibilità logica, che deduce valutando i rapporti astratti tra fattispecie penalmente rilevanti, senza acclarare – in concreto – sulla scorta delle modalità di svolgimento del fatto siccome in effetti realizzato, se sia stata prevedibile – in concreto appunto – la deviazione del fatto medesimo rispetto al programma criminoso ab origine divisato. Se dunque vi è concorso anomalo con riguardo al sequestro di persona, per la Corte esso non è invece configurabile con riguardo al diverso reato di violenza sessuale, dacché – in un quadro di normalità causale – la violenza sessuale può non presentarsi quale sviluppo eziologico del reato di rapina, costituendo essa una violenza (per l’appunto) di natura diversa rispetto a quella in genere commessa nei reati contro il patrimonio. La pronuncia si inserisce nel solco di quella giurisprudenza che – lasciata in disparte la colpa con riguardo al reato diverso da quello voluto – assume sufficiente che detto reato diverso sia anche solo astrattamente prevedibile, dacché è bastevole una accostabilità a priori ed in astratto – in termini appunto di fattispecie astratta – del reato diverso rispetto a quello effettivamente voluto da tutti i correi perché tutti questi ultimi possano assumere (astrattamente) prevedibile la commissione del reato diverso posto in essere da uno di loro.
2011
Il 5 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.200 alla cui stregua il concorso anomalo ex art.116 c.p. si configura in presenza di un reato diverso che si atteggi a logico sviluppo di quello concordato (e dunque voluto) da tutti i correi, onde esso può essere escluso solo quando il diverso e più grave reato commesso da uno dei concorrenti consista in un evento atipico, del tutto eccezionale ed imprevedibile rispetto appunto al reato ab origine da tutti voluto.
Il 23 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.34536 alla cui stregua si ha concorso anomalo ex art.116 c.p. solo quando il reato diverso da quello voluto rappresenti la possibile conseguenza della condotta concordata, secondo regole di ordinaria coerenza dello svolgersi dei fatti umani, coerenza che non sia spezzata dunque da fattori accidentali ed imprevedibili.
Il 17 novembre esce la sentenza della I sezione civile della Cassazione n.24185 alla cui stregua l’art. 58, comma 1, lett. c, d.lg. 18 agosto 2000 n. 267 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), riguardante le cause ostative alla candidatura alle elezioni comunali e provinciali, dev’essere interpretato nel senso di escludere l’elettorato passivo per tutti coloro che, pur non svolgendo pubbliche funzioni, con la propria condotta hanno comunque contribuito alla consumazione di un delitto posto in essere con abuso di poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio pubblico. Nella fattispecie la Corte, nel confermare la sentenza che aveva dichiarato un candidato non eleggibile come sindaco e consigliere provinciale in ragione della condanna inflittagli, essendo stato ritenuto responsabile del delitto di falso ideologico, ex art. 479 e 117 c.p., rigetta il motivo di ricorso con il quale il privato deduce di essere stato condannato esclusivamente a titolo di concorso nel reato (“proprio” di terzi).
Il 21 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.47652 alla cui stregua, al fine di applicare l’art.116 c.p., occorre attribuire rilievo alle (concrete) circostanze del caso che hanno fatto da sfondo all’azione criminosa, onde imputare al correo l’evento diverso da lui non voluto.
*Il 30 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.48726 alla cui stregua si ha concorso anomalo ex art.116 c.p. solo quando il reato diverso da quello voluto rappresenti la possibile conseguenza della condotta concordata, secondo regole di ordinaria coerenza dello svolgersi dei fatti umani, coerenza che non sia spezzata dunque da fattori accidentali ed imprevedibili.
2012
Il 23 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2652 alla cui stregua, al fine di applicare l’art.116 c.p., occorre attribuire rilievo alle circostanze e ad ogni altro profilo del fatto concreto, onde imputargli l’evento diverso da lui non voluto.
Il 01 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4330 alla cui stregua – al cospetto di un programmato furto che degeneri in rapina impropria – il c.d. “palo” va assunto responsabile ex art.116 c.p. del tentato omicidio commesso da uno dei correi ai danni di un agente di pubblica sicurezza che sia prontamente intervenuto sulla scena del crimine, dacché tale tentato omicidio rappresenta un evento non imprevedibile, né del tutto svincolato dal delitto di rapina, la quale ultima determina pur sempre un grave pericolo per la vita del rapinato, portato come questi è, per impulso naturale, a resistere alla violenza e minaccia e a sperimentare qualsiasi mezzo per sottrarsi ad essa, sicché l’omicidio o il tentato omicidio debbono assumersi avvinti alla rapina da un rapporto di regolarità causale potendosi assumere eventi che rientrano, secondo l’id quod plerumque accidit, nell’ordinario sviluppo della condotta delittuosa.
Il 16 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.6214 alla cui stregua, al fine di applicare l’art.116 c.p., occorre attribuire rilievo alla personalità dell’imputato e alle (concrete) circostanze ambientali nelle quali si è svolta l’azione criminosa, onde imputargli l’evento diverso da lui non voluto.
Il 15 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18383 alla cui stregua, al fine di applicare l’art.116 c.p., occorre in capo al correo una concreta rappresentabilità dell’evento diverso non voluto.
Il 21 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 24972 che si pronuncia in tema di falso documentale; per la Corte, in caso di falsa dichiarazione in sede di rogito notarile da parte del venditore in ordine alla proprietà del bene, è configurabile in capo al notaio (salvo ogni accertamento in ordine all’elemento soggettivo), la responsabilità penale a titolo di concorso per omesso impedimento della falsa e rilevante dichiarazione del venditore, considerata la posizione di garanzia rivestita dal notaio medesimo, la cui prestazione d’opera, in virtù dell’art. 47 della legge notarile, non si riduce al mero accertamento della volontà delle parti ma si estende alle attività preparatorie e successive, onde assicurare la certezza dell’atto da rogare e il conseguimento del pertinente scopo tipico, onde la relativa prestazione in veste di pubblico ufficiale – quale garante e interprete della validità delle scelte negoziali delle parti – riveste una funzione non solo di mezzi ma anche di risultato; ne consegue per la Corte che, in tal caso, per il pubblico ufficiale viene ad integrarsi l’ipotesi criminosa di cui all’art. 479 c.p. e che il mutamento del titolo del reato opera ex art. 117 c.p. anche per il privato.
2014
Il 16 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1706 alla cui stregua, in tema di concorso in bancarotta per distrazione, il dolo dell’extraneus nel reato proprio dell’amministratore si compendia nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, senza che sia richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società. Ne consegue, per la Corte, che ogni atto distrattivo assume rilievo ai sensi dell’art.16 della legge fallimentare (R.D. 267.42) in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo che non costituisce l’evento del reato, invece coincidente con la lesione dell’interesse patrimoniale della massa. In tal senso, invero, se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori, ciò non significa che quest’ultima non possa ricavarsi da diversi fattori, quali la natura fittizia o l’entità dell’operazione che incide negativamente sul patrimonio della società.
Il 28 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.9770, alla cui stregua può predicarsi la responsabilità a titolo di concorso anomalo di cui all’art.116 c.p. qualora sussista la volontà di partecipare con altri alla realizzazione di un determinato evento criminoso ed allorché l’evento diverso e più grave, pur costituendo il logico sviluppo del reato meno grave voluto, secondo l’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, non sia stato previsto, al punto che, in ordine ad esso, non sia stato accettato il relativo rischio, posto che l’accettazione di tale ultimo rischio avrebbe comportato il concorso pieno, di cui all’art.110 c.p.. Per la Corte la prevedibilità dell’evento più grave deve essere valutata in concreto, tenendo conto della personalità dell’imputato e delle concrete circostanze di fatto nelle quali è stata posta in essere la condotta.
Il 2 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.28506 alla cui stregua, al fine di assumere applicabile l’art.116 c.p. in tema di concorso anomalo, occorre accertare la concreta prevedibilità del fatto diverso non voluto dal correo.
Il 29 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.40303, che si pronuncia in una fattispecie di concorso dell’extraneus nel reato (proprio) di abuso d’ufficio. Per la Corte, ai fini della configurabilità della responsabilità dell’extraneus per concorso nel reato proprio è indispensabile – oltre alla cooperazione materiale ovvero alla determinazione o istigazione alla commissione del reato – altresì che l’intraneus esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla relativa punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità. Il concorso dell’extraneus nel reato proprio, prosegue la Corte, presuppone che l’intraneus esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio quanto meno sul piano oggettivo onde, quando il giudice abbia ritenuto totalmente carente la prova del fatto dell’intraneus – come tale potenziale destinatario di una sentenza di assoluzione ai sensi dell’art.530, comma 1, c.p.p., per insussistenza del fatto, e non già ai sensi del comma 2 (manca, è insufficiente o è contraddittoria la pertinente prova) – alla medesima conclusione il giudice dovrà pervenire nei confronti dell’extraneus, stante come la formula assolutoria “perché il fatto non sussiste” attiene all’elemento oggettivo del reato e che, una volta riconosciuta, essa opera nei confronti di tutti i concorrenti. La pronuncia sembra dunque non escludere la operatività dell’art.117 c.p. ed il concorso dell’estraneo nel reato proprio laddove l’intraneus, che abbia commesso materialmente il fatto, sia non imputabile o non punibile.
*L’8 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.37256 alla cui stregua, al fine di assumere applicabile l’art.116 c.p. in tema di concorso anomalo, occorre accertare la concreta prevedibilità del fatto diverso non voluto dal correo.
2016
Il 18 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.11595 secondo la quale in tema di concorso di persone nel reato deve assumersi sussistere la responsabilità a titolo di concorso anomalo qualora l’evento ulteriore, benché prevedibile in quanto collegato da un nesso di pura eventualità rispetto al delitto base programmato, non sia stato dall’agente voluto neppure nella forma del dolo indiretto; ricorre invece per la Corte la diversa ipotesi del concorso ex art. 110 c.p. ove l’agente abbia effettivamente previsto l’evento o comunque abbia accettato il rischio del relativo verificarsi. Per la Corte va dunque censurata la decisione di merito con cui sia stata affermata la responsabilità dell’imputata ai sensi dell’art. 116 c.p., in ordine al reato di omicidio di cui all’art. 575 c.p., pur risultando che la ridetta imputata, nel programmare con il correo la rapina nei confronti di una anziana donna, abbia messo in conto, come poi effettivamente accaduto, il possibile ricorso ad una azione violenta per neutralizzare la reazione della vittima. Per la Corte poi, su altro crinale, in tema di concorso anomalo nel reato la circostanza attenuante di cui all’art. 116 c.p. esclude il riconoscimento della continuazione tra i più reati commessi, in quanto si tratta di due categorie concettualmente incompatibili, che postulano l’una (il concorso anomalo) la mera prevedibilità dell’evento ulteriore, e l’altra (la continuazione) la piena volizione anche di quest’ultimo, nel quadro della programmazione unitaria del pertinente piano delittuoso.
Il 31 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 12929, alla cui stregua la disciplina di cui all’art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) è incompatibile con il riconoscimento della responsabilità a titolo di concorso anomalo ai sensi dell’art. 116 c.p., e ciò in quanto la morte della vittima nel primo caso non è voluta da alcuno dei compartecipi all’azione delittuosa principale, mentre nel secondo è invece voluta, con dolo diretto o indiretto, da taluno dei concorrenti ed è causalmente legata al delitto base programmato da tutti i correi. Per la Corte va dunque esclusa l’ipotesi di cui all’art. 586 c.p. e vanno piuttosto ritenuti sussistenti i presupposti del concorso anomalo nei confronti di taluni degli imputati laddove questi abbiano partecipato ad una azione intimidatoria e violenta in danno della persona offesa, nel corso della quale un altro imputato abbia fatto fuoco e ucciso la vittima, utilizzando un’arma che deteneva all’insaputa dei correi.
Il 27 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.45446 a mente della quale l’eventuale uso di violenza o minaccia da parte di uno dei concorrenti nel reato di furto al fine di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità costituisce logico e prevedibile sviluppo della condotta finalizzata alla commissione del furto, onde si configura nei confronti dei concorrenti il concorso «anomalo» ex art. 116 c.p. nel reato di rapina impropria ascrivibile al compartecipe nel furto che se ne sia reso materialmente responsabile.
Il 18 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.49165 alla cui stregua in tema di concorso di persone nel reato è da assumersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 116, 1º comma, c.p., in relazione agli art. 3 e 27, 1º comma, Cost., riferita alla diversa entità della pena prevista per il (corrispondente) reato colposo, atteso il giudizio di superiore disvalore della condotta delittuosa del concorrente “anomalo”, siccome sorretta da un atteggiamento soggettivo di maggior pericolosità.
Il 13 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.52811 che si occupa ancora di concorso anomalo, ed alla cui stregua può essere ritenuto prevedibile sviluppo dell’azione inerente ad un furto l’uso eventuale di violenza o minaccia che, se realizzato, fa progredire la sottrazione della cosa mobile altrui in rapina, di cui è alfine responsabile, ai sensi appunto dell’art. 116 c.p., anche il concorrente nell’azione furtiva, a meno che il diverso e più grave reato realizzato dai compartecipi costituisca un fatto anormale, eccezionale e, quindi, non prevedibile. La Corte nel caso di specie scandaglia una fattispecie di tentata rapina in banca aggravata dall’uso di un’arma, con riferimento alla quale – in ordine al ritenuto concorso di un c.d. “muratore”, che abbia praticato il foro di accesso nei locali della caldaia e successivamente abbia partecipato all’ultimazione dei lavori ed ai sopralluoghi – va precisato che, dovendo la rapina essere compiuta subito dopo l’orario di apertura, l’imputato è stato nelle condizioni di figurarsi l’inevitabile uso dell’arma – effettivamente poi trovata in possesso dei complici – uso finalizzato a vincere la resistenza dei dipendenti della banca medesima.
2017
Il 18 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 42561 a mente della quale risponde del reato di autoriciclaggio (quale reato proprio) anche il soggetto terzo a cui non sia contestato il reato presupposto giacché si configura un’ipotesi di concorso dell’extraneus – per l’appunto – nel reato proprio Nella fattispecie, la Corte afferma la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per il reato di autoriciclaggio in capo all’indagato che si occupa della redazione dei bilanci e della tenuta delle scritture contabili delle società sui cui conti correnti transita il denaro proveniente dal reato presupposto, ovvero la bancarotta fraudolenta, a lui non contestato; come correttamente rilevato dal Procuratore ricorrente, la mancata contestazione in capo a X del reato presupposto (bancarotta) non può escludere infatti la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza del reato di autoriciclaggio, posto che nel caso in esame si sostiene la sussistenza di un’ipotesi di concorso dell’extraneus X nel reato proprio (autoriciclaggio) di Y, assumendo a reato presupposto quello appunto di bancarotta fraudolenta commesso dall’intraneus Y.
2018
Il 18 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.17235, alla cui stregua, posto che l’art. 648 ter.1 c.p. (autoriciclaggio) prevede e punisce come reato – ed in specie come reato proprio – solo le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto (condotte in precedenza non punibili), la condotta concorsuale del terzo extraneus che agevoli la condotta di autoriciclaggio conserva rilevanza penale ai sensi dell’art. 648 bis c.p., e dunque a titolo di riciclaggio, senza che muti dunque il titolo del pertinente reato ai sensi dell’art.117 c.p. (nella sostanza, il riciclaggio dell’extraneus non diviene autoriciclaggio per concorso con l’intraneus). La Corte si occupa di una fattispecie di plurime operazioni commerciali, finanziarie e societarie dirette al rientro in Italia e alla “ripulitura” di ingenti somme di denaro altrui provenienti da delitto. A parere del Collegio, la premessa dalla quale l’interprete deve ineludibilmente muovere, onde districarsi nel ginepraio delle possibili configurazioni del concorso di persone nel nuovo delitto di autoriciclaggio, è che la nuova incriminazione è stata concepita, in ossequio agli obblighi internazionali gravanti pattiziamente sull’Italia, essenzialmente, se non unicamente, al fine di colmare la lacuna riguardante l’irrilevanza penale delle condotte di c.d. “auto riciclaggio“, poste in essere dal soggetto autore di (o concorrente in) determinati reati- presupposto, che il legislatore ha ritenuto di individuare nei soli delitti non colposi (art. 648- ter.1, comma 1, c.p.), come previsto anche in tema di riciclaggio (ma diversamente rispetto a quanto previsto in tema di ricettazione e reimpiego, che menzionano come reati-presupposto i delitti tout court, ciò a riprova del fatto che la normativa di settore è in più punti viziata da una frammentarietà sulla cui effettiva proficuità per la Corte sarebbe opportuno avviare una seria riflessione). Da questa ineludibile premessa discende (a fronte di una possibile esegesi alternativa che non si pone in contrasto con la non controversa ratio della nuova incriminazione), l’impossibilità di interpretare la normativa allo stato vigente: – sia nel senso della attuale previsione di un trattamento sanzionatorio più favorevole di quello precedente, per il soggetto che non abbia preso parte al reato-presupposto, ed abbia successivamente posto in essere una condotta lato sensu riciclatoria (tipica, ex art. 648-ter.1 c.p., od anche atipica), agendo in concorso con l’intraneus chiamato a rispondere di auto riciclaggio: ciò accadrebbe nel caso in cui si ritenesse che la predetta condotta dell’extraneus integri non più – come si riconosceva pacificamente prima dell’introduzione del reato di autoriciclaggio – il delitto di cui all’art. 648-bis c.p., bensì quello di concorso (ex artt. 110 o 117 c.p.) nel delitto di cui all’art. 648-ter.1 c.p., con la conseguenza, già evidenziata dalla dottrina, della sostanziale abrogazione dell’art. 648-bis c.p.; – sia nel senso della perdurante irrilevanza penale della condotta dell’intraneus (ovvero del soggetto che abbia preso parte al delitto presupposto non colposo) che si sia limitato a mettere a disposizione il provento del predetto delitto nelle mani del terzo, perché lo reimpieghi, senza compiere in prima persona la condotta tipica di autoriciclaggio (come risulterebbe necessario ritenere ove si configurasse l’autoriciclaggio come delitto “di mano propria“). D’altro canto, chiosa ancora la Corte, in assenza di clausole di sussidiarietà che regolino le reciproche interferenze tra le due fattispecie, ed in difetto di un rapporto di specialità strutturale tra gli artt. 648-bis (e 648-ter) c.p. e l’art. 648-ter.1 c.p., valorizzabile ex art. 15 c.p. [come osservato da altra dottrina, «a ben vedere, tra le due fattispecie vi è una relazione di eterogeneità: l’autoriciclaggio rilascia, rispetto al riciclaggio, un elemento di specialità per aggiunta, atteso che il reimpiego del provento non è un tratto costitutivo del reato di riciclaggio (per la cui punizione è sufficiente la “ripulitura“); quanto all’autore del reato, si prefigura una relazione di eterogeneità, di natura radicalmente contrappositiva: il soggetto attivo dell’autoriciclaggio é l’autore del reato-fonte (o un concorrente), mentre quest’ultimo non può, ex lege, essere autore del reato di riciclaggio. Viene meno alla radice, perciò, la possibilità di rintracciare una relazione di specialità tra le due norme (…)»], non è possibile risolvere la questione in esame argomentando come se essa ponesse unicamente un problema di concorso apparente tra norme. Ciò premesso, prosegue la Corte, nel rispetto della ratio che ha ispirato l’inserimento nel codice penale dell’art. 648-ter.1 c.p., il soggetto il quale, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648-ter.1 c.p., continui a rispondere del reato di riciclaggio ex art. 648-bis c.p. (ovvero, ricorrendone i presupposti, di quello contemplato dall’art. 648-ter c.p.) e non di concorso (a seconda dei casi, ex artt. 110 o 117 c.p.) nel (meno grave) delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1.c.p. Nel predetto caso, per la Corte soltanto l’intraneus risponderà dunque del delitto di autoriciclaggio. La diversificazione dei titoli di reato in relazione a condotte lato sensu concorrenti non deve per la Corte meravigliare, non costituendo una novità per il sistema penale vigente, che ricorre a questa soluzione in alcuni casi di realizzazione plurisoggettiva di fattispecie definite dalla dottrina “a soggettività ristretta“. Ad esempio, con riferimento al delitto di evasione (art. 385 c.p.), costituente, come l’autoriciclaggio, reato proprio, il concorso di terzi estranei non detenuti è autonomamente incriminato a titolo di procurata evasione, ex art. 386 c.p., valorizzando, come osservato dalla dottrina, «il diverso giudizio di colpevolezza che investe la condotta dell’intraneo e dell’estraneo (l’istintiva tendenza alla libertà incide infatti in chiave di attenuazione sulla rimproverabilità soggettiva del recluso, rispetto a chi non si trovi ristretto in carcere»). In argomento, la Corte medesima (si richiama Sez. I, n. 886 del 05/07/1979, dep. 1980), premesso che l’art. 386 c.p. (procurata evasione) prevede un delitto che può concretarsi in due distinte forme di attività (la prima diretta allo svolgimento di un ruolo determinante e di primo piano nella preparazione immediata o nell’esecuzione dell’evasione; la seconda intesa, invece, a favorire la fuga, predisponendo i mezzi opportuni o assicurando gli aiuti necessari allo scopo), e rilevato che, in entrambe le forme, l’attività delittuosa deve essere finalizzata all’evasione della persona arrestata o detenuta, ha concluso, con orientamento tradizionalmente consolidato, perché mai messo in discussione, che il delitto in questione consiste in un fatto di compartecipazione al reato di evasione, previsto e punito dall’art. 385 c.p., che la legge ha incriminato automaticamente, con la previsione di una specifica figura di reato, allo scopo di punirlo più gravemente – almeno di norma – di quanto non avverrebbe con l’applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato. Analogamente, prosegue la Corte, in tema di infanticidio si prevede un trattamento sanzionatorio diverso per la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, in quanto tali riferibili soltanto alla madre (art. 578, comma 1, c.p.), e per coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma (art. 578, comma 2, c.p.): la dottrina ha, in proposito, osservato che la possibilità del concorso di terzi estranei nel reato proprio c.d. “a soggettività ristretta” commesso dalla madre «è stata si contemplata, ma …..sottoposta ad un regime così peculiare da contraddire i canoni basilari della disciplina del concorso nel reato». Ad una differenziazione dei titoli di responsabilità il legislatore ha fatto ricorso anche in tema d’interruzione volontaria della gravidanza in violazione dei limiti di liceità (ex art. 19 I. n. 194 del 1978), prevedendo un’autonoma cornice edittale di pena, significativamente più mite, per la donna, «in ragione della considerazione del giudizio di minore riprovazione morale del fatto della gestante». Come in sintesi osservato da una dottrina, prosegue ancora la Corte, «schemi di previsioni a “soggettività forte” autorizzano la diversificazione dei titoli di reato ovvero delle risposte sanzionatorie; in tal senso, rispetto alle qualifiche di tipizzazione della colpevolezza, le indicazioni che emergono dalla parte speciale indicano soluzioni volte a differenziare le posizioni concorsuali. Un modello, questo, che sembra attagliarsi alla fattispecie del riciclaggio dove la diversificazione sanzionatoria (oltre che di titoli di reato) rispetto ai diversi soggetti attivi (…) costituisce un dato esplicito e (…) assai significativo nel senso della sua legittimazione». Anche la previsione di un trattamento sanzionatorio meno grave per il delitto di autoriciclaggio trova giustificazione unicamente con la considerazione del minor disvalore che anima la condotta incriminata, se posta in essere (non da un extraneus, bensì) dal responsabile del reato presupposto, il quale abbia conseguito disponibilità di beni, denaro ed altre utilità ed abbia inteso giovarsene, pur nei modi oggi vietati dalla predetta norma incriminatrice, risultando responsabile di almeno due delitti (quello non colposo presupposto e l’autoriciclaggio), non necessariamente in concorso ex art. 81 c.p.; di qui, l’ulteriore esigenza di mitigare, almeno in parte, le possibili conseguenze del cumulo materiale tra delitto presupposto ed autoriciclaggio, attraverso la previsione, per quest’ultimo (necessariamente posto in essere per secondo), di limiti edittali meno severi rispetto a quelli previsti per il riciclaggio (ascrivibile al soggetto extraneus rispetto alla commissione del delitto-presupposto, e che quindi di esso non sopporta – a livello sanzionatorio – conseguenze, e nei confronti del quale, pertanto, anche per tale ragione, l’estensione del trattamento sanzionatorio favorevole previsto in tema di autoriciclaggio risulterebbe del tutto priva di una valida giustificazione sistematica. D’altro canto, chiosa ancora la Corte, prima dell’introduzione dell’art. 648-ter.1 c.p. – che, come premesso, non intendeva dettare una nuova disciplina per le condotte alle quali era già attribuito rilievo penale, bensì colmare l’anzidetta lacuna -, nessun dubbio era mai stato nutrito con riferimento alla configurabilità del reato previsto e punito dall’art. 648-bis c.p. in casi nei quali l’autore del delitto-presupposto, pur non punibile, avesse fornito un contributo rilevante alla condotta tipica del riciclatore extraneus; ed, invero, il concorso nell’attività riciclatoria del soggetto responsabile del reato presupposto è, secondo l’id quod plerumque accidit, ordinario (essendo naturale che la predetta attività illecita venga generalmente ordita su impulso e nell’interesse di quest’ultimo). La novità consiste unicamente nel fatto che, prima dell’introduzione del reato di autoriciclaggio, egli era un concorrente non punibile, mentre oggi è punibile. Ciò premesso, e ribadito che, all’indomani della novella entrata in vigore il 10 gennaio 2015, la diversa condizione dell’intraneus rispetto al passato attiene esclusivamente al profilo della relativa punibilità, non esiste alcuna ragione (per la verità, non soltanto non indicata, ma neppure ricercata dagli sparuti sostenitori dell’orientamento qui avversato, a ben vedere fondato su una lettura meramente formalistica delle disposizioni in discorso, che non tiene conto dei beni giuridici tutelati, della pacifica ratio dell’intervento novellatore de quo, oltre che delle implicazioni della dosimetria della pena, da valutare alla luce del parametro costituzionale della finalità rieducativa) per la quale la sopravvenuta incriminazione dell’autoriciclaggio dovrebbe incidere sulla rilevanza penale delle condotte di riciclaggio poste in essere dall’extraneus, sia quanto al titolo, sia quanto al conseguente trattamento sanzionatorio. Ciò conferma per il Collegio la correttezza dell’affermazione che la considerazione dell’ordinamento penalistico per le condotte poste in essere da chi non abbia preso parte alla commissione del reato presupposto «è invece rimasta immutata, constatata la medesimezza delle dinamiche di realizzazione delle attività riciclatorie». Sulla base delle predette considerazioni, deve concludersi per la Corte che l’art. 648-ter.1, c.p. prevede e punisce come reato unicamente le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo-presupposto, in precedenza non previste e punite come reato. Diversamente, per quanto in questa sede assume rilevanza, le condotte concorsuali poste in essere da terzi extranei per agevolare la condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, titolare del bene di provenienza delittuosa “riciclato“, conservano rilevanza penale quale fatto di compartecipazione previsto e punito dall’art. 648-bis c.p. più gravemente di quanto non avverrebbe in applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato, ex artt. 110/117 e 648-ter.1 c.p. Questa conclusione non trova per la Corte decisivo ostacolo nella previsione di cui all’art. 648-ter.1, comma 7, c.p. il quale, attraverso il rinvio all’ultimo comma dell’art. 648 c.p., prevede che le disposizioni in tema di autoriciclaggio, come quelle in tema di ricettazione, si applichino «anche quando l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto».Ferma essendo l’applicabilità dell’art. 648-ter.1 c.p. soltanto al soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, e non anche a terzi non coinvolti nella commissione del delitto non colposo presupposto, la disciplina dettata dal settimo comma della predetta disposizione comporta unicamente, come già lucidamente posto in evidenza dalla dottrina, che «l’autoriciclaggio sussiste anche se l’autore non sia imputabile per il delitto-presupposto (purché lo sia per l’autoriciclaggio) oppure non sia punibile per il delitto presupposto (si pensi all’impunità ex art. 649 c.p. del figlio per il furto in danno del padre, allorquando l’autoriciclaggio riguardi i beni sottratti) o, infine, quando manchi una condizione di procedibilità in relazione al delitto-presupposto (in altre parole, l’autoriciclaggio sussiste anche se ha ad oggetto beni provenienti da un delitto per il quale non può procedersi per mancanza di querela)». Quello stesso giorno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.17502 alla cui stregua, in tema di concorso anomalo ex art. 116 c.p., il soggetto che non abbia voluto il reato diverso, pur avendolo tuttavia previsto ed assunto sicuramente evitabile, risponde di un reato doloso sulla base di un atteggiamento colposo, consistente nell’essersi affidato, per realizzare l’altra condotta concorsualmente prevista con dolo, anche all’attività altrui la quale – come tale – non è finalisticamente controllabile, dacché per la Corte al cospetto di un’azione collettiva si dilata l’onere di previsione a carico dell’aderente al progetto criminoso comune, specie nel caso di azione violenta contro una persona.
Il 18 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.17502 alla cui stregua, in tema di concorso anomalo ex art.116 c.p., il soggetto che non abbia voluto il reato diverso, pur avendolo tuttavia previsto ed assunto sicuramente evitabile, risponde di un reato doloso sulla base di un atteggiamento (in realtà) colposo, consistente nell’essersi affidato, per realizzare la condotta dolosa da tutti concorsualmente prevista, anche all’attività altrui la quale – come tale – non è finalisticamente controllabile. Per la Corte infatti, al cospetto di una azione collettiva, si dilata l’onere di previsione a carico dell’aderente al progetto criminoso comune, specie nel caso di azione violenta contro una persona.
Il 10 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.20756 secondo la quale la circostanza aggravante del nesso teleologico può comunicarsi al concorrente nel reato ex art. 110 c.p. qualora i motivi a delinquere dell’autore della condotta rientrino nella rappresentazione e volizione – anche sotto il profilo del dolo eventuale – del concorrente medesimo; sempre per la Corte, nondimeno, la ridetta aggravante del nesso teleologico è invece incompatibile con il cd. concorso anomalo ex art. 116 c.p..
Il 7 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.25915, alla cui stregua – in tema di concorso anomalo – l’eventuale uso di violenza o minaccia da parte di uno dei concorrenti nel reato di truffa per assicurare a sé o ad altri la percezione del profitto cui sono stati destinati gli artifizi e raggiri posti in essere, o comunque per guadagnare l’impunità, può essere ritenuto logico e prevedibile sviluppo della condotta finalizzata alla commissione della truffa e, se realizzato, implica configurabilità – nei confronti dei concorrenti nolenti – del concorso anomalo ex art. 116 c.p. nel reato di rapina ascrivibile al compartecipe che se ne sia reso materialmente responsabile.
Il 27 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 53150 secondo cui il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto: ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (per agevolazione, o anche morale), mentre, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’art. 629 cod. pen..
Se, pertanto, il reato di esercizio arbitrario è «di mano propria», ossia con condotta tipica realizzabile dal solo titolare del preteso diritto, ne deriva che il concorso di persone sarà configurabile solo se il terzo estraneo coadiuvi (agevolatore, concorrente morale) l’intraneo (cioè il titolare del preteso diritto) autore esclusivo dell’azione violenta o minatoria; qualora invece il terzo estraneo agisca da solo (generalmente su mandato del creditore), la sua condotta potrà sussumersi esclusivamente nella figura del reato estorsivo: in quest’ultimo caso, infatti, il terzo esattore, e comunque al di là del profilo criminale, è mosso da un interesse proprio non coincidente con quello del mandante, consistente nella finalità dimostrativa dell’accrescimento della propria capacità criminale.
In sintesi, il delitto di estorsione si differenzia da quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla persona non tanto per la materialità del fatto, che può essere identica, quanto per l’elemento intenzionale nell’estorsione caratterizzato, diversamente dall’altro reato, dalla coscienza dell’agente che quanto egli pretende non gli è dovuto: peraltro, quando la minaccia si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un proprio (preteso) diritto e da soggetti che nulla hanno a che vedere con la pretesa creditoria reclamata, allora la coartazione dell’altrui volontà assume ex se i caratteri dell’ingiustizia, con la conseguenza che, in situazioni del genere, anche la minaccia tesa a far valere quel diritto si trasforma in una condotta estorsiva, nella fattispecie, arrestatasi a livello di tentativo, in presenza di tutti i presupposti del reato de quo.
2019
Il 10 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 15796 che ribadisce il consolidato orientamento secondo il quale, in base ai principi generali che concernono il concorso di persone nel reato proprio, risponde del reato di bancarotta fraudolenta colui che, pur non rivestendo la qualifica di imprenditore commerciale (ovvero di amministratore, direttore generale, sindaco o liquidatore di società fallita) apporti un concreto contributo materiale o morale alla produzione dell’evento, sempre che l’attività di cooperazione col fallito sia stata efficiente per la produzione dell’evento, occorrendo, in punto di elemento soggettivo del reato, la volontarietà della condotta dell'”extraneus” di apporto a quella dell'”intraneus”, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società, la quale può rilevare sul piano probatorio, quale indice significativo della rappresentazione della pericolosità della condotta per gli interessi dei creditori.
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Il 7 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 25390 che ricostruisce la natura, l’ambito di applicazione e le finalità dell’art. 117 c.p..
Tale norma introduce una deroga ai principii che regolano la disciplina della partecipazione criminosa e dell’imputazione dolosa, riferendo il diverso titolo di reato – determinato dalla presenza di determinate condizioni o qualità personali dell’autore ovvero dai suoi rapporti con la persona offesa – a tutti i compartecipi, indipendentemente dalla consapevolezza dello specifico elemento di qualificazione.
Si verifica, in tal modo, in ossequio al principio codicistico della unitarietà del titolo di responsabilità concorsuale, una sua estensione a tutti i compartecipi, configurandosi, in termini eccezionali rispetto ai principii che governano l’elemento soggettivo doloso, una ipotesi di responsabilità oggettiva, dalla stessa dottrina definita “anomala”, che nella struttura originaria del codice Rocco veniva a collocarsi, quale conseguenza di una situazione storico-fattuale di base connotata dal versari in re illicita, sulla stessa linea di rigore repressivo tracciata dal legislatore con riferimento al similare istituto disciplinato nell’art. 116 cod. pen..
Entrambe le disposizioni, infatti, secondo l’originario disegno del legislatore, estendono la responsabilità a taluno dei concorrenti su un piano meramente obiettivo, ma nella ipotesi prevista dall’art. 116 il fatto risulta diverso da quello che taluno dei concorrenti si è rappresentato ed ha voluto, mentre in quella disciplinata dall’art. 117 il fatto si presenta identico nella sua materialità, mutando il suo inquadramento giuridico per effetto della qualifica soggettiva ricoperta dall’intraneus.
Nel caso del delitto di peculato, che postula in capo all’agente la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, possono prospettarsi due alternative: l’una, collegata all’esistenza di un concorso accompagnato dalla conoscenza della predetta qualifica anche da parte dell’extraneus, l’altra, invece, caratterizzata dall’ignoranza, o da un errore, in ordine alla sua esistenza.
Nella prima ipotesi, il contributo offerto dal compartecipe è ascrivibile alla norma-cardine in tema di concorso ex art. 110 cod. pen., mentre nell’altra ipotesi, contrassegnata dalla ignoranza della qualifica richiesta per la integrazione del fatto tipico, il concorso nel peculato dovrebbe escludersi, residuando, in tesi, il dolo di concorso rispetto al diverso, e meno grave, reato di cui all’art. 646 cod. pen., quale fattispecie di reato da “chiunque” realizzabile: la previsione contenuta nell’art. 117 cod. pen., di contro, consente di imputare la responsabilità, in capo ad entrambi i concorrenti, per il medesimo delitto di peculato, benchè uno dei due non conoscesse la qualità personale prevista nello schema descrittivo dell’art. 314 cod. pen., o versasse in errore circa la sua ricorrenza nel caso di specie.
Si è dinanzi, evidentemente, ad un istituto che introduce una vistosa deroga ai principii generali dell’imputazione soggettiva, ed in particolare all’art. 47 comma 2 cod. pen., che l’ordinamento giustifica in ragione del generale disfavore con cui guarda alle forme di realizzazione plurisoggettiva dei reati.
La responsabilità, infatti, sia pur temperata dall’eventuale applicazione di un’attenuante ove il fatto risulti più grave, deriva, analogamente all’ipotesi prevista dall’art. 116 cod. pen., dalla scelta del legislatore di imputare per dolo un fatto diverso da quello voluto, situando la fattispecie in un’area di potenziale contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27, comma 1, Cost.
Non si ritiene invece applicabile il meccanismo derogatorio previsto dall’art. 117 cod. pen. per i reati propri cd. “esclusivi”, quelli, cioè, tali da non dar luogo ad alcun reato in assenza della qualifica soggettiva, incardinandosi necessariamente l’offesa nel fatto commesso da chi possieda tale qualifica, o versi nella situazione tipica descritta dalla norma incriminatrice (ad es., l’abuso d’ufficio, la falsa testimonianza, la bancarotta fraudolenta, ecc.): il concorrente nel reato di bigamia, ad es., non può risponderne ove non sia a conoscenza della qualità di persona coniugata propria dell’autore del fatto.
Ignoranza, questa, che non rende valutabile, nei confronti del primo, il dolo rispetto ad un reato diverso da quello che il mutamento del titolo – quale invece si prospetta nel transito dall’art. 646 all’art. 314 cod. pen. – dovrebbe portare ad addebitargli.
A fronte di tali evenienze, dunque, non v’è alcun “mutamento” del titolo, poichè l’unico titolo di reato che viene in considerazione è quello derivante dalla qualifica soggettiva, in assenza della quale il fatto sarebbe del tutto lecito, laddove, in presenza di una fattispecie concorsuale, non vi sarebbe alcuna ragione per derogare ai normali criteri d’imputazione ex art. 43 cod. pen.: l’extraneus, infatti, deve necessariamente avere conoscenza della qualifica soggettiva, poiché in difetto di tale conoscenza verrebbe meno la colpevolezza rispetto al reato proprio ed il fatto non avrebbe alcuna rilevanza penale.
Un significativo contributo alla identificazione del fondamento giustificativo dell’art. 117 cod. pen. è offerto dalla Relazione del Guardasigilli al Progetto definitivo del codice penale, ove chiaramente si afferma, nelle poche righe dedicate al tema, che «Il progetto, in conformità delle conclusioni della più autorevole dottrina, accoglie la soluzione dell’applicabilità del titolo del reato a tutti i compartecipi, perché tale soluzione si adegua al carattere unitario, che viene riconosciuto ed affermato al reato commesso con la partecipazione di più persone».
Radicalmente diversa appare, invece, l’impostazione seguita dal previgente codice Zanardelli del 1889, ove il problema del mutamento del titolo di reato era contemplato dall’art. 66, che nel riferirsi all’ipotesi delle «circostanze materiali che aggravano, ancorché facciano mutare il titolo del reato» stabiliva che esse dovessero porsi a carico degli altri concorrenti, ma solo a condizione che questi le conoscessero nel momento in cui vi avessero preso parte quali concorrenti nel reato.
In sede di redazione della norma cristallizzata nell’attuale formulazione dell’art. 117 non emerse affatto la preoccupazione di valutare la possibile incidenza della qualifica soggettiva nell’ambito dei reati propri, muovendo piuttosto l’impostazione originaria del codice Rocco, sì come icasticamente evidenziato nella Relazione del Guardasigilli, dalla convinzione che «nell’ipotesi di cui ora si tratta, il fatto è sempre voluto, nel genere e nella specie da ciascuno dei concorrenti, e la diversità concerne soltanto il titolo giuridico, che non deve essere stabilito dal colpevole, ma dal giudice. La responsabilità si fonda sulla volontà del fatto (azione od omissione) preveduto dalla legge come reato, e non sulla volontà del reato considerato come entità giuridica».
Proprio sul presupposto di un’assoluta coincidenza tra il fatto di appropriazione indebita e quello di peculato, del resto, si fondava la scelta del binomio preso a modello dai compilatori del codice per giustificare tale fletto iuris, con la conseguente, inevitabile, dequotazione del ruolo della qualifica soggettiva nella struttura dei reati propri.
Su presupposti diversi, di contro, riposa l’inquadramento normativo del concorso di persone nel reato proprio, che trova il suo generale canone di riferimento nello schema dell’art. 110 cod. pen., ritenendosi comunemente che anche un soggetto non qualificato possa concorrere in un reato proprio e che, salva la previsione dell’art. 117 cod. pen., una dolosa partecipazione dell’extraneus necessariamente presupponga la conoscenza della qualificazione soggettiva dell’intraneus, come tale rientrante nell’oggetto del dolo.
La conferma della validità di tale impostazione ricostruttiva è stata ricavata dall’analisi della disposizione di cui all’art. 1081, comma 1, cod. nav, relativo alla ipotesi del concorso di estranei in un reato iví previsto, secondo quale “Fuori del caso regolato nell’articolo 117 del codice penale, quando per l’esistenza di un reato previsto dal presente codice è richiesta una particolare qualità personale, coloro che, senza rivestire tale qualità, sono concorsi nei reato, ne rispondono se hanno avuto conoscenza della qualità personale inerente al colpevole”: proprio dal tenore letterale di tale disposizione normativa si ricava il principio secondo cui – fatta eccezione per l’ipotesi specificamente regolata nell’art. 117 cod. pen. – la punibilità a titolo di concorso doloso del soggetto non qualificato richiede la conoscenza della qualifica soggettiva.
In altri termini, dal tenore dell’art 117 cod pen. si desume che l’effetto estensivo del concorso criminoso, previsto da tale disposizione, si verifica solo quando rispetto ai vari concorrenti si ha un mutamento del titolo del reato, e ciò significa che nel fatto della persona che non possiede la qualità richiesta per il reato proprio devono tuttavia ricorrere gli estremi di un reato, sia pure diverso. In tal caso, le persone che concorrono con un soggetto qualificato alla commissione di un reato proprio ne rispondono anche se non hanno conoscenza della qualifica del soggetto predetto. L’art 1081 cit., che fa salva la norma dell’art 117, prevede, invece, l’altro caso di concorso, quello della persona estranea ad un reato proprio, quando il fatto materiale di per sè non costituisce reato per l’estraneo concorrente; e lo risolve stabilendo la responsabilità penale dell’estraneo, a condizione che questi sia a conoscenza della qualità del soggetto essenziale del reato proprio (Sez. 3, n. 1104 del 01/04/1964, Collini, Rv. 099110).
L’applicazione dell’ipotesi prevista dall’art. 117 cod. pen. si ricollega, in definitiva, ad una serie di presupposti che vengono comunemente individuati: a) nella necessità che il soggetto non qualificato sia consapevole di cooperare con altri nella realizzazione di un fatto di reato; b) nella necessità che l’extraneus si trovi in dolo rispetto al reato comune, il cui titolo muta per effetto della qualifica dell’intraneus, atteso che la deroga ai principi generali investe solamente la conoscenza della qualifica soggettiva dell’intraneus, non risultando possibile una estensione all’extraneus della responsabilità per il reato proprio ove egli versi in errore su un elemento del fatto diverso da quello attinente alla qualifica del soggetto attivo del reato; c) nella necessità che il fatto, pur in assenza della qualifica soggettiva, integri gli estremi di un reato, il cui titolo, però, muta in ragione delle condizioni ovvero delle qualità personali del colpevole o dei suoi rapporti con l’offeso (ad es., come avvenuto nel caso in esame per il reato di peculato, che in mancanza della qualifica soggettiva costituirebbe un’ipotesi di appropriazione indebita); d) nella necessità che l’intraneus abbia agito con il dolo del reato proprio, atteso che la disposizione de qua (che non a caso impiega il termine “colpevole” per indicare il soggetto qualificato) non estende la responsabilità a tutti i concorrenti, ma solo a quelli non qualificati, sempre che sussista l’elemento soggettivo doloso del soggetto qualificato rispetto al reato proprio (ivi compresa, dunque, la consapevolezza della propria qualifica personale).
Discende quindi da quanto precede che l’unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche in relazione all’ambito di operatività della fattispecie cristallizzata nell’art. 117 cod. pen., l’emergere di una responsabilità per colpa in concreto, ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente di prevedibilità-evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso al difetto di conoscenza di un elemento che caratterizza in senso personale la struttura della fattispecie incriminatrice, sì da non consentire l’attribuzione di una responsabilità a titolo di dolo ad un soggetto che senza dolo né colpa abbia agito, per non essersi colpevolmente rappresentata l’esistenza di un elemento – la qualifica soggettiva di cui l’intraneus è portatore in ambito concorsuale – marcato da forte intensità connotativa della fattispecie di reato, sia rispetto alla significatività del grado dell’offesa ai beni tutelati, sia in relazione ad una sensibile possibilità di variazione in aumento della dosimetria del trattamento sanzionatorio.
Soluzione, questa, la cui ratio giustificativa consente comunque di preservare una chiara linea di demarcazione fra gli ambiti di applicazione, rispettivamente, della norma generale dettata nell’art. 110 cod. pen., per il quale è necessaria la consapevolezza della qualifica personale, e dell’istituto disciplinato dall’art. 117, per il quale può ritenersi invece sufficiente la conoscibilità della qualifica alla stregua dei normali criteri di attribuzione della responsabilità a titolo di colpa, giustificando il legislatore, al contempo, la possibilità di una valutazione calibrata su un prudente bilanciamento giudiziale della concreta soglia di rimproverabilità del fatto attraverso la previsione dell’attenuante per il concorrente non qualificato.
E’ pur vero, sotto altro profilo, che il fatto di esigere la colpa dell’estraneo può esporsi, come osservato da una parte della dottrina, ad una serie di obiezioni critiche là dove si rischia di impegnare il giudice nella ricerca della violazione di una regola di condotta a contenuto cautelare, determinando in tal modo una “divaricazione” tra gli elementi che compongono il fatto di reato, dal momento che la qualifica soggettiva dovrebbe essere isolata dalle altre sue porzioni, che a loro volta continuerebbero ad essere investite da un coefficiente doloso, laddove per la prima sarebbe sufficiente riscontrare la sussistenza di un atteggiamento solo colposo dell’estraneo.
Alla su delineata conclusione, tuttavia, non sembra contrapporsi in senso ostativo la presunta impossibilità di muovere un rimprovero a titolo di colpa per un elemento non conosciuto, e in definitiva non “voluto”, della fattispecie, nei confronti di un soggetto che abbia volontariamente intrapreso un’attività illecita. Nella citata sentenza n. 1085 del 1988 la Corte costituzionale, oltre a dichiarare l’illegittimità delle forme di responsabilità oggettiva, ha esplicitamente riferito il requisito della colpa anche ad attività illecite, mentre la possibilità di una colpa ravvisabile anche nell’ambito di una attività illecita è stata recepita anche dal legislatore, il quale, con la riforma del regime di imputazione delle circostanze aggravanti di cui all’art. 59, comma 2, cod. pen. ha reso possibile una combinazione di dolo (rispetto al reato semplice) e di colpa (rispetto alla circostanza aggravante).
Il nuovo testo dell’art. 59, comma 2, cod. pen. richiede, infatti, che le circostanze aggravanti siano «ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa»: si tratta, quindi, di una colpa che si innesta su un fatto già di per sé costituente reato, con il logico corollario che il legislatore ha così espressamente riconosciuto la possibilità di “ambientare il rimprovero per colpa in un ambito di illiceità dolosa” (cfr., in motivazione, Sez. U, n. 22676 del 22/01/2009, Ronci, cit.).
Del resto, proprio in riferimento alla disposizione dell’art. 59, comma 2, cod. pen. la Cassazione ha affermato che, attesa l’ampia formulazione di tale disposizione, «non sussiste alcuna logica incompatibilità tra l’imputazione a titolo di dolo della fattispecie criminosa base e quella, a titolo di colpa, di un elemento accidentale come la circostanza in questione» (Sez. 6, n. 2164 del 06/12/1994, dep. 1995, Imerti, Rv. 200902; Sez. 1, n. 9958 del 27/10/1997, Carelli, Rv. 208936).
Sotto altro, ma connesso profilo, occorre considerare che, a seguito della sostituzione del testo dell’art. 118 cod. pen. ad opera dell’art. 3 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, al concorrente non si comunicano più le circostanze soggettive concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e quelle relative all’imputabilità ed alla recidiva. Conseguentemente, sono ancora valutate riguardo alla sua posizione le altre circostanze soggettive indicate dall’art. 70, comma 1, n. 2, cod. pen., cioè quelle attinenti alle qualità personali del colpevole ed ai rapporti tra il colpevole e la persona offesa. Si estendono, dunque, al concorrente – il quale ne sia a conoscenza o le ignori per colpa – le circostanze relative al munus publicum del colpevole (Sez. 6, n. 853 del 24/03/1993, Sorrentino, Rv. 194189, con riferimento ad una fattispecie in tema di estensione della circostanza aggravante della qualità di custode al concorrente nel reato di violazione di sigilli).
Ponendosi sulla medesima linea interpretativa questa Corte ha ribadito, ancora in tema di violazione di sigilli, che la circostanza aggravante della qualità di custode, di cui al comma secondo dell’art. 349 cod. pen., si comunica ai concorrenti nel reato che siano a conoscenza o ignorino colpevolmente tale qualità, non rientrando la stessa tra quelle circostanze soggettive da valutarsi soltanto con riguardo alla persona cui si riferiscono (Sez. 3, n. 2283 del 24/11/2017, dep. 2018, Marrone, Rv. 272358, che ha ritenuto immune da censure la sentenza di merito che aveva riconosciuto, ai sensi dell’art. 59, comma 2, cod. pen., la responsabilità per il reato in questione della moglie del custode di opera edilizia sequestrata, in quanto comproprietaria dell’opera dove per lungo tempo si erano protratti i lavori abusivi, nonchè coniuge convivente di quest’ultimo).
Proprio la rilevanza che la qualifica personale viene ad assumere nel nucleo degli elementi essenziali che connotano la struttura e la dimensione offensiva del fatto di reato consente, in definitiva, di ritenere che la responsabilità derivante dalla unitarietà dell’offesa provocata all’interesse tutelato dalla realizzazione di una fattispecie plurisoggettiva non esclude, di per sé, che ciascun concorrente possa rispondere della lesione in tal modo arrecata secondo i propri presupposti soggettivi di imputazione.
Sulla base delle su esposte considerazioni viene dunque enunciato il seguente principio di diritto: «ai fini dell’applicabilità dell’art. 117 cod. pen., che disciplina il mutamento del titolo del reato per taluno dei concorrenti, è necessaria, per l’estensione del titolo di reato proprio al concorrente extra neus, la conoscibilità della qualifica soggettiva del concorrente intraneus».
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L’8 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 17348, secondo la quale, in caso di falsa attestazione apposta nel referto di revisione di un veicolo, il proprietario del veicolo concorre nel reato di falso ideologico in atto pubblico, essendo l’attestazione eseguita nel suo interesse.
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Il 18 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 26888 che affronta la questione se il soggetto trasportato su un veicolo possa essere definito ‘utente’ nell’accezione assegnata al termine dal codice della strada o se rientri in una diversa categoria.
Secondo il Collegio, la lettura del secondo comma dell’art. 189, con cui si prescrive il comportamento da tenere alle ‘persone coinvolte’ supera il concetto di soggetto attivo nella circolazione. Invero, le persone coinvolte, non necessariamente sono i conducenti, né i pedoni. Si tratta, infatti, di una categoria più ampia di quella dell’utente, cioè di colui che attivamente utilizza la strada, a mezzo di un’attività (condurre o camminare), ben potendo coincidere con colui che viene trasportato dal conducente.
Il codice della strada solo con l’art. 189, relativo al comportamento in caso di incidente, estende anche coloro che, pur coinvolti, non sono né conducenti, né pedoni, specifiche regole di condotta. E ciò perché il sinistro stradale è proprio quella situazione che giustifica l’imposizione di norme per la circolazione stradale, quale attività pericolosa che coinvolge la sicurezza delle persone, e che rientra, come enuncia l’art. 1 del medesimo codice, fra le finalità primarie di ordine sociale ed economico perseguite dallo Stato.
Ecco, perché nell’ipotesi di incidente stradale, il legislatore allarga il novero degli obbligati alla collaborazione.
Nondimeno, non è prevista dall’art. 189 C.d.S. una parificazione fra tutti i soggetti, poiché se con il comma 2 si prescrive a tutte le persone coinvolte, e quindi anche ai trasportati, di “porre in atto ogni misura idonea a salvaguardare la sicurezza della circolazione e, compatibilmente con tale esigenza, adoperarsi affinché non venga modificato lo stato dei luoghi e disperse le tracce utili per l’accertamento delle responsabilità”, agli utenti, categoria richiamata dai commi 5, 6, e 7 della norma, vengono imposti obblighi ulteriori. E cioè quello di fermarsi (commi 5 e 6, seppur si tratti di condotte diversamente punite a seconda che i danni siano solo alle cose o anche alle persone) e di prestare assistenza alle persone ferite (comma 7).
Proprio dalla differenza fra gli obblighi imposti agli utenti, categoria di cui al comma 1, richiamata dai commi 5, 6, e 7, e quelli imposti dal comma 2 alle persone coinvolte, si trae l’intenzione legislativa di limitare per coloro che rivestano un ruolo non attivo -esclusa quindi la conduzione di un veicolo o comunque l’utilizzazione diretta a mezzo di attività quali l’uso pedonale- ad oneri solidarmente, ma non penalmente rilevanti, l’intervento nel caso di incidente.
Ciò, tuttavia, comporta che non possa richiedersi al ‘trasportato’ l’obbligo attivo di imporre all’utente di ottemperare a quanto previsto dai commi 6 e 7 della norma, in ordine all’obbligo di fermarsi e di prestare assistenza, in quanto soggetto che non fa uso attivo della strada, nella condizione di assicurare l’adempimento da parte del conducente.
E’ fatta salva, tuttavia, l’ipotesi in cui emerga un vero e proprio concorso da parte del trasportato nella commissione dei reati di cui all’art. 189 C.d.S., consistente nella sollecitazione alla violazione delle norme o nel rafforzamento dell’intento di fuga o di omissione di soccorso, od in qualunque altra condotta volontariamente posta in essere che tenda a quel risultato. Ma ciò dipende dall’azione posta in essere dal trasportato rispetto agli obblighi gravanti sul conducente, non dagli obblighi di cooperazione, definiti dal comma 2 dell’art. 189 C.d.S., che lo riguardano direttamente.
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Il 10 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 35158, alla stregua della quale, in materia di reati propri dell’amministratore della società, quando l’amministratore legale è una “testa di legno”, il vero soggetto qualificato (e responsabile) non è il prestanome, ma colui il quale effettivamente gestisce la società, dal momento che solo lui è in grado di compiere l’azione dovuta (…), mentre l’estraneo è il prestanome. A quest’ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 c.c., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.
Questioni intriganti
In cosa si sostanzia il c.d. concorso anomalo ex art.116 c.p.?
- il reato concretamente commesso da uno dei concorrenti è diverso da quello voluto da talaltro dei concorrenti;
- in questo caso, del reato diverso risponde anche chi non lo ha voluto, se esso è conseguenza della relativa azione od omissione;
- è sufficiente dunque il mero nesso causale per mandare responsabile del reato più grave concretamente commesso anche il concorrente che, pur contribuendo a cagionarlo, tuttavia non lo ha voluto;
- laddove il reato non voluto sia più grave di quello voluto, il concorrente che non ha voluto il reato più grave subisce tuttavia un trattamento sanzionatorio più mite, con irrogazione di pena meno grave;
- si è al cospetto di una aberratio delicti particolare plurisoggettiva (o concorsuale), a differenza di quella generale monosoggettiva di cui all’art.83p..
Quali rapporti intercorrono tra il c.d. concorso anomalo ed il principio di colpevolezza?
- si tratta di rapporti di frizione, giacché la Costituzione repubblicana richiede che la responsabilità penale sia “colpevole” e, come tale, consenta un rimprovero di tipo soggettivo all’autore di un fatto inadempimento reato;
- nel concorso anomalo invece uno o più concorrenti subiscono una pena – seppur meno grave – per un fatto inadempimento reato che non hanno voluto, che non è coperto dal dolo e che dunque a rigore non sarebbe loro rimproverabile;
- si tratta della soluzioned. “oggettivistica”, alla cui stregua l’evento (inadempimento reato) diverso viene imputato a ciascuno dei concorrenti sulla scorta del solo nesso di causalità, e dunque del solo contributo causale, ferma restando l’imputazione a titolo di dolo per chi lo ha invece voluto come tale;
- sono astrattamente possibili per il legislatore altre due opzioni: d.1) la soluzione c.d. “soggettivistica”, onde ciascun concorrente risponde solo se ha anch’egli voluto l’evento diverso; d.2) la soluzione “mista”, onde l’evento diverso viene attribuito a titolo di dolo a chi lo ha voluto come tale e – laddove ne siano predicabili le coordinate – a titolo di colpa con riguardo a chi invece non lo ha voluto;
- già subito dopo l’introduzione dell’art.116p., e massime a seguito dell’avvento dell’art.27 Cost., tanto la dottrina quanto la giurisprudenza hanno percepito la non sostenibilità sistematica di una interpretazione del ridetto art.116 c.p. in ottica puramente oggettivistica, massime perché appunto ponentesi in rotta di collisione con il principio di colpevolezza, laddove esso sembra configurare una fattispecie di responsabilità oggettiva con riguardo al concorrente che non ha voluto il reato diverso da quello divisato;
- il problema è stato risolto dalla giurisprudenza nel senso di richiedere – al fine di predicare la responsabilità penale del compartecipe che non abbia voluto il reato diverso – un nesso tanto materiale quanto psicologico tra la condotta del compartecipe in parola che non abbia voluto il reato diverso e tale ultimo reato (diverso), che deve presentarsi come logico e prevedibile sviluppo criminoso di quello (anche da lui) voluto;
- si fronteggiano tuttavia sentenze che predicano un mera prevedibilità in astratto dell’evento diverso non voluto (in termini di rapporto di prevedibile evoluzione tra fattispecie astratte) e sentenze che invece, in termini più garantistici, non si accontentano di una astratta prevedibilità dell’evento diverso non voluto (e più grave) richiedendo piuttosto l’accertamento di una prevedibilità in concreto del ridetto evento diverso non voluto in capo al correo che non abbia materialmente commesso il pertinente reato.
Cosa differenzia l’aberratio delicti monosoggettiva ex art.83 c.p. da quella plurisoggettiva ex art.116 c.p.?
- aberratio delicti monosoggettiva ex 83 c.p.: l’evento diverso da quello realizzato è il precipitato di un errore nei mezzi di esecuzione, detto anche errore-inabilità, ovvero è l’effetto di altra causa; l’evento scaturigine dell’errore in genere non è prevedibile come tale;
- aberratio delicti plurisoggettiva ex 116 c.p.: l’evento diverso da quello realizzato è il precipitato di una volizione precisa di uno dei concorrenti (altrimenti riaffiora l’usbergo precettivo dell’art.83 c.p.); l’evento scaturigine della volontà di uno dei concorrenti può anche essere prevedibile ex ante da parte degli altri concorrenti, con effetti diversi.
Cos’altro occorre rammentare del c.d. concorso anomalo ex art.116 c.p.?
- laddove oltre al reato programmato i correi tutti ne commettano di ulteriori, si applica ordinariamente l’art.110p.; l’art.116 c.p. scatta solo se il reato diverso rispetto a quello ab origine (da tutti) concordato viene commesso su iniziativa unilaterale di uno o più dei concorrenti, ma non di tutti;
- l’116 c.p. si applica: b.1) nel caso in cui in luogo del reato voluto se ne commetta uno più grave; b.2) nel caso in cui in luogo del reato voluto se ne commetta uno meno grave; b.3) nel caso di c.d. doppia offesa laddove, oltre al reato divisato e voluto da tutti i correi, se ne commetta un altro voluto solo da uno (o taluno) di essi;
- dal punto di vista della “diversità”: c.1) non può considerarsi reato diverso il medesimo reato, laddove semplicemente circostanziato; c.2) può considerarsi diverso: c.2.1.) secondo una prima opzione più restrittiva, il solo reato che è “anomalo” perché ha un diverso oggetto materiale rispetto a quello divisato (come nel caso in cui si rubi una res diversa da quella originariamente presa di mira); c.2.2.) secondo una seconda opzione, più accreditata, anche il reato che è “anomalo” perché muta il proprio titolo assumendo un diverso nomen iuris (come nel caso dell’omicidio non voluto rispetto alle divisate lesioni);
- laddove il reato non voluto sia realizzato in luogo di quello voluto, la valutazione di gravità (maggiore o minore) viene effettuata in via meramente ipotetica, ovvero individuando quella che sarebbe stata la gravità del fatto programmato e confrontandola con quella del fatto concretamente realizzato.
In cosa consiste il c.d. concorso nel reato proprio ex art.117 c.p.?
- il reato proprio è tale perché presuppone che il relativo autore sia titolare di una determinata qualifica soggettiva;
- è possibile che alla perpetrazione del reato “proprio” partecipino anche concorrenti privi di tale specifica qualifica soggettiva;
- viene ormai ammesso che anche i soggetti non in possesso della specifica qualifica soggettiva possano concorrere nel reato “proprio” di chi la possiede;
- ciò al cospetto, in primo luogo, di tutti i presupposti di cui all’art.110 c.p. e dunque: contributo morale o materiale del soggetto agente, nesso di causalità rispetto al fatto inadempimento reato, coscienza e volontà di quest’ultimo e consapevolezza della partecipazione ad un fatto inadempimento reato che, come tale, è commesso “anche” da altri e “con” altri;
- il titolare della specifica qualifica soggettiva viene detto “intraneus”, mentre il concorrente che non la possiede viene detto “extraneus”;
- in genere, perché l’extraneus possa considerarsi in dolo, occorre – secondo i principi generali – che egli sappia della qualifica di intraneus in capo a colui che commette il reato “proprio”, e con il quale egli concorre; in tal caso, anche laddove il fatto commesso dall’intraneus non costituisca alcun reato, egli viene punito non già in forza dell’art.117p., quanto piuttosto in forza dell’art.110 c.p. in combinato disposto con la singola norma incriminatrice (ad esempio l’art.707 c.p. in tema di possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli da parte di soggetto pregiudicato);
- la fattispecie di cui all’art.117 c.p. scatta invece quando il fatto commesso dal concorrente extraneus costituisce già di per sé reato, del quale muta tuttavia il titolo a cagione della peculiare posizione rivestita dal soggetto intraneus (in termini di relativa condizione o qualità personale, ovvero in termini di relativi rapporti con l’offeso), come avviene nel caso di una appropriazione indebita commessa dall’extraneus che – perché commessa insieme ad un pubblico ufficiale – trasmuta in peculato;
- se non vi fosse l’art.117p., nell’esempio fatto al concorrente extraneus ignaro, che non sappia dunque della qualifica di pubblico ufficiale del concorrente intraneus potrebbe essere contestata la sola appropriazione indebita, e non il peculato, contestabile al solo intraneus ridetto;
- la vigenza dell’art.117 c.p. consente invece di applicare anche all’extraneus ignaro – pur in difetto di dolo, e dunque anche quando vi sia appunto inconsapevolezza in ordine alla peculiare posizione soggettiva dell’intraneus – lo stesso titolo di reato applicabile all’intraneus medesimo (nell’esempio fatto, il peculato), con possibilità nondimeno per il giudice di applicare all’extraneus una diminuzione di pena (circostanza attenuante) laddove il titolo di reato contestato all’intraneus sia più grave rispetto a quello astrattamente contestabile all’extraneus;
Come si atteggia la responsabilità del c.d. extraneus nella fattispecie di cui all’art.117 c.p.?
- si tratta sostanzialmente di responsabilità oggettiva (dottrina maggioritaria) che compendia una deroga rispetto ai principi che disciplinano l’elemento soggettivo nella fattispecie criminosa concorsuale; il reato proprio viene attribuito, in modo indifferenziato, a tutti i compartecipi, anche a prescindere dunque dalla consapevolezza che taluno di essi (extraneus) abbia della particolare qualificazione soggettiva di uno o più degli altri soggetti agenti (intranei); ciò viene spiegato: a.1) dal punto di vista storico, con il particolare rigore che caratterizza il codice Rocco del 1930; a.2) dal punto di vista sistematico, tenendo conto del fatto che il codice Rocco ha abbracciato il modello “unitario” di fattispecie concorsuale, onde ragioni anche di opportunità suggeriscono di scongiurare che particolarismi “soggettivi” che concernono taluno dei concorrenti possano condurre all’attribuzione a ciascuno dei compartecipi di titoli di reato diversi, piuttosto che di un medesimo titolo di reato per tutti e per ciascuno di loro; a.3) dal punto di vista logico, considerando che l’art.1081 del codice della navigazione attribuisce al concorrente extraneus il medesimo titolo di reato ascrivibile all’intraneus solo se il primo abbia avuto conoscenza delle peculiari qualità personali del secondo, ma il tutto “fuori dal caso regolato dall’art.117 c.p.”, sotto il cui usbergo precettivo ricadrebbero proprio le fattispecie, per l’appunto, di responsabilità oggettiva dell’extraneus, rimasto all’oscuro del particolarismo soggettivo del concorrente intraneus;
- si tratta di responsabilità “colpevole” (dottrina minoritaria), dovendosi dare giocoforza una lettura costituzionalmente orientata dell’117 c.p., anche al fine di scongiurarne possibili frizioni con la Carta costituzionale; ciò si evince: b.1) dalla seconda parte dell’art.117 c.p. che, discostandosi da un modello rigidamente “unitario” di imputazione della responsabilità penale concorsuale, consente al giudice di operare differenziazioni di trattamento sanzionatorio anche in relazione a diversi atteggiamenti di tipo soggettivo in capo ai compartecipi; b.2) dal paradosso che potrebbe derivare, in termini di dolo, dalla circostanza onde – facendo applicazione dell’art.47, comma 2, c.p. alla cui stregua “l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso” – il soggetto intraneus che tuttavia risulti inconsapevole del particolarismo soggettivo che lo connota potrebbe essere punito per un titolo di reato comune (ad esempio, non sapendo di essere pubblico ufficiale, a titolo di appropriazione indebita), mentre all’opposto il soggetto extraneus, pur inconsapevole della peculiare posizione giuridica soggettiva del concorrente intraneus, verrebbe sempre rigidamente punito a titolo di reato proprio (nell’esempio fatto, a titolo di peculato, pur non essendo egli un soggetto che disimpegna funzioni pubblicistiche).
Quali altri problemi pone il rapporto tra intraneus ed extraneus dal punto di vista soggettivo?
- una questione dibattuta concerne la eventuale strumentalizzazione dell’intraneus da parte dell’extraneus;
- è il caso dell’intraneus che sia non imputabile ovvero difetti comunque di colpevolezza, e sia in qualche modo “condotto” dall’extraneus a commettere un reato proprio;
- se ad esempio un pubblico ufficiale – che versa in errore perché assume di terzi privati un bene che è in realtà della PA, e dunque è incolpevole per difetto di dolo – si appropria del ridetto bene perché istigato da un privato extraneus, ci si chiede se si configuri concorso nel reato proprio (nel caso di specie, concorso in peculato);
- la giurisprudenza tende ad ammettere il concorso dell’extraneus nel reato proprio commesso da intraneus non imputabile o comunque non colpevole;
- la dottrina appare complessivamente più prudente: e.1) una parte si mostra più orientata a decisioni non già uniformi, quanto diverse di volta in volta a seconda della struttura della singola fattispecie oggetto di compartecipazione criminosa; più specificamente, laddove il dolo dell’intraneus sia strutturalmente imprescindibile a fini di offesa del bene penalmente tutelato dal legislatore, si tende a negare l’operatività dell’art.117 c.p. laddove tale dolo genericamente difetti (e, più in generale, non sia predicabile colpevolezza o imputabilità in capo all’intraneus medesimo), a meno che il difetto di dolo dipenda da errore determinato da inganno dell’extraneus, circostanza che può far scattare l’operatività dell’art.48 c.p.; muovendo dalla struttura della singola fattispecie criminosa soggettivamente qualificata, ed in particolare dal bene (interesse) con essa tutelato dal legislatore penale, laddove nel peculato ex art.314 c.p. tale bene si identifichi nella integrità del patrimonio della PA, il dolo del pubblico ufficiale non può assumersi essenziale per configurare un concorso dell’extraneus in peculato; laddove invece il ridetto bene si identifichi nel dovere di fedeltà e di lealtà del funzionario pubblico, la colpevolezza di quest’ultimo diventa imprescindibile, escludendo la configurabilità di un concorso dell’extraneus in peculato laddove tale colpevolezza difetti in capo all’intraneus; e.2) altra parte, vieppiù garantista, specie in tema di reati contro la PA tende ad escludere recisamente la operatività dell’art.117 c.p. laddove difetti l’imputabilità o la colpevolezza dell’intraneus, il cui atteggiamento cosciente e volontario appare imprescindibile al fine di concretizzare la lesione del bene/interesse penalmente tutelato.
Che problemi pone il contributo dell’intraneus nella fattispecie di cui all’art.117 c.p.?
- la questione fondamentale tocca la fase di esecuzione del reato;
- in particolare, quale debba essere il ruolo del soggetto soggettivamente qualificato, e dunque appunto dell’intraneus, nella ridetta esecuzione criminosa;
- ci si chiede se la condotta tipica, quella che qualifica il singolo reato, debba essere necessariamente commessa dall’intraneus, mutando il titolo del reato per l’extraneus solo se questi si limiti a rivestire il ruolo di agevolatore (materiale) o di istigatore (morale);
- si tratta della presa di posizione – ormai recessiva – di chi abbraccia la teoria c.d. della “accessorietà” della condotta dell’extraneus;
- la opzione interpretativa dominante muove invece dal concorso di persone quale fattispecie plurisoggettiva eventuale, che ammette come tale anche la rilevanza di un contributo meramente atipico dell’intraneus (a fronte di uno maggiormente tipico dell’extraneus);
- si parte dal fatto che quello che caratterizza la compartecipazione criminosa non è l’elemento soggettivo (e la connessa declinazione di variegate tipologie di “autore” del reato) quanto piuttosto quello oggettivo, laddove al cospetto di un unico sostrato organizzativo collettivo del reato interagiscono funzionalmente i vari comportamenti dei soggetti che animano la commissione del reato medesimo;
- ciascun prototipo di reato vede poi una diversa applicazione pratica di tale principio “oggettivistico”, onde al cospetto di un d. reato di mano propria (come nel caso della falsa testimonianza, ovvero dell’incesto, secondo gli esempi maggiormente addotti dalla dottrina), solo un determinato soggetto può essere autore, infungibilmente, della pertinente condotta, rivestendo dunque giocoforza il ruolo di intraneus; in altre fattispecie invece il ridetto ruolo dell’intraneus può essere connotato da maggiore atipicità;
- proprio quando la singola fattispecie criminosa ammette una maggiore atipicità del ruolo dell’intraneus, esiste sempre un limite compendiantesi nel c.d. profilo offensivo del singolo reato proprio, onde tale ruolo dell’intraneus non deve essere così atipico da annullare l’offensività di tale reato “soggettivamente qualificato”, siccome disegnata dal legislatore penale;
- l’esempio dubitativo classico è quello del denaro custodito nella cassaforte di un ufficio pubblico, del quale si appropri un soggetto non qualificato, e dunque un extraneus, sulla scorta di informazioni fornitegli da un pubblico ufficiale in veste di intraneus: qui se si fornisce maggiore peso alle ragioni d’ufficio che vincolano il pubblico ufficiale al denaro pubblico custodito, si afferma il concorso di entrambi in peculato ex art.314 c.p., mentre all’opposto se si conferisce maggiore importanza all’azione di impossessamento ed appropriativa dell’extraneus, con mera connotazione organizzativa di supporto a qualificare la condotta del pubblico ufficiale, si ha concorso di entrambi in furto ex art.624 c.p.;
- non manca poi chi – al fine di stabilire se si configuri nei singoli casi di specie un concorso dell’intraneus nel reato comune ovvero un concorso dell’extraneus nel reato proprio (ex art.117 c.p.) – punta non tanto sull’accadimento naturalistico che compendia la figura criminosa considerata, quanto piuttosto sull’effettivo potere di controllo, e dunque sulla signoria o sul dominio spiegabili da ciascuno dei due soggetti ridetti con riguardo all’evolversi di tale accadimento criminoso, onde solo nel caso in cui tale potere di controllo sulla fattispecie criminosa sia riconducibile all’intraneus può discorrersi di concorso dell’extraneus nel reato proprio;
- ad esempio, quando l’extraneus realizza la condotta tipica e l’intraneus fa pesare, in seno alla fattispecie criminosa, la propria qualifica, poiché il primo si atteggia a longa manus del secondo, la dottrina normalmente ammette il concorso nel reato proprio: è il caso del pubblico ufficiale che affida un messaggio minaccioso ad un terzo al fine di perpetrare una concussione nei confronti della vittima; quando invece nella complessiva dinamica della fattispecie plurisoggettiva la qualifica dell’intraneus non assume alcuna efficacia determinante ai fini della consumazione del reato, la relativa condotta potendo essere posta in essere da qualunque quisque de populo, si opta per la compartecipazione di tutti al reato comune: è l’ipotesi classica del pubblico ufficiale che collabori alla sottrazione di beni pubblici semplicemente ponendosi alla guida del veicolo che li conduce via rispetto alla relativa, normale ubicazione (pubblica).
Cosa occorre rammentare della circostanza attenuante prevista dall’art.117, seconda parte, c.p.?
- essa si applica solo quando è applicabile l’art.117 medesimo e dunque quando il fatto commesso dall’extraneus costituirebbe di per sé reato (normalmente, comune), con mutamento del titolo di tale reato in ragione del concorso con l’intraneus (reato proprio);
- il giudice può applicare all’extraneus la diminuzione di pena in via discrezionale, allorché il reato comune ascrivibile all’extraneus sia meno grave di quello – proprio – ascrivibile all’intraneus;
- si fronteggiano in dottrina 2 tesi: c.1) una opzione minoritaria, ma prevalente in giurisprudenza, che muove dalla teoria della accessorietà in tema di fattispecie criminosa collettiva, secondo la quale il giudice penale potrebbe applicare la ridetta circostanza solo allorché l’extraneus abbia svolto un ruolo, per l’appunto, accessorio nella commissione del reato, mentre non potrebbe applicarla laddove – massime in termini di relativa partecipazione soggettiva – l’extraneus sia assurto al ruolo di vero e proprio correo; c.2) una opzione maggioritaria, che muove dalla teoria della d. fattispecie plurisoggettiva eventuale, onde si è al cospetto di una circostanza indefinita (il giudice deve verificare se il reato proprio dell’intraneus è più grave del reato comune dell’extraneus) e tuttavia obbligatoria (non facoltativa) in termini di relativa applicazione, onde laddove il giudice penale accerti che il reato proprio dell’intraneus è più grave di quello comune ascrivibile all’extraneus, non può sottrarsi dall’applicazione a quest’ultimo della ridetta circostanza attenuante;
- dal punto di vista soggettivo, il concorrente extraneus può essere o meno a conoscenza della qualifica propria dell’intraneus, ed alla quale va ricondotto il mutamento del titolo del reato, dovendosi allora distinguere: d.1) la fattispecie in cui l’extraneus sa della qualifica dell’intraneus: la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria escludono in simili casi che si applichi l’art.117, ma per chi ammette tale applicabilità la circostanza attenuante va applicata a chi sa e, a fortiori, a chi non sa della qualifica dell’intraneus; d.2) la fattispecie in cui l’extraneus non sa della qualifica dell’intraneus: secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie si tratta della sola fattispecie in cui scatta l’applicazione dell’art.117 c.p. nella relativa integralità, con conseguente applicazione anche della circostanza attenuante di cui al secondo periodo, ma ovviamente solo a chi non sa della qualifica soggettiva dell’intraneus (a chi sa, non si applica l’art.117 integralmente inteso).
Quali rapporti avvincono l’art.117 c.p. ad altre fattispecie penalmente rilevanti e con quali effetti?
- in relazione all’116 c.p., si parla in entrambi i casi di responsabilità oggettiva o, più genericamente, “anomala”, dacché si punisce uno dei concorrenti per un reato diverso in senso naturalistico (art.116: la circostanza attenuante si applica de plano da parte del giudice a chi volle il fatto materialmente diverso meno grave) ovvero diverso solo in senso giuridico (art.117: la circostanza attenuante si applica solo a valle di una valutazione discrezionale del giudice a chi volle il medesimo fatto materiale, ma diversamente qualificato sul piano giuridico) rispetto a quello effettivamente voluto dal correo;
- nel caso in cui l’intraneus sia costretto dall’extraneus con violenza a compiere il fatto inadempimento reato “proprio”, prevale la norma sul costringimento fisico ex 46 c.p., onde viene punito il solo extraneus autore materiale della violenza, che strumentalizza l’intraneus al fine di compiere un reato proprio che egli non potrebbe commettere per non rivestire la pertinente qualifica soggettiva; a fortiori si applica l’art.46 laddove la violenza ed il connesso costringimento fisico siano imputabili all’intraneus;
- nel caso disciplinato dall’art.48 c.p. (errore determinato dall’altrui inganno), occorre distinguere: c.1) se l’ingannatore (decipiens) è l’extraneus e l’ingannato (deceptus) l’intraneus, non può scattare l’art.117p., giacché per l’operatività di tale norma occorre da un lato (secondo l’opinione dominante) che l’extraneus non conosca la qualifica dell’intraneus e dall’altro occorre il dolo del reato proprio in capo all’intraneus (dolo da escludersi in quanto l’intraneus è stato tratto in errore dall’inganno dell’extraneus, eventualmente anche sulla concreta foggia della propria qualifica, capace come tale di trasformare il reato comune in reato proprio); non potendo l’extraneus ingannatore essere punito per un reato proprio (materialmente commesso dall’intraneus in errore) che egli non potrebbe commettere per non rivestire la pertinente qualifica soggettiva, resta potenzialmente la punibilità per il reato comune, laddove configurabile, se del caso in concorso con l’intraneus deceptus, dacché l’art.48 c.p. richiama integralmente il precedente art.47 c.p., e dunque anche il relativo comma 2 – alla cui stregua l’errore su un fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso – onde un pubblico ufficiale ingannato sulla propria qualifica e convinto ad appropriarsi di una res publica, pur non essendo punibile a titolo di peculato, potrebbe rispondere (in concorso) per un reato comune contro il patrimonio (in primis, l’appropriazione indebita); c.2) se l’ingannatore (decipiens) è l’intraneus e l’ingannato (deceptus) l’extraneus, del pari non scatta l’art.117 c.p., trovando piuttosto applicazione direttamente l’art.48 c.p. con punizione dell’intraneus ingannatore per il reato proprio commesso strumentalizzando l’extraneus ingannato; in questa fattispecie, l’extraneus ingannato potrebbe essere in dolo rispetto al reato comune, e poiché l’art.48 c.p. richiama integralmente il precedente art.47 c.p., e dunque anche il relativo comma 2 – alla cui stregua l’errore su un fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso – l’extraneus ingannato viene in questi casi punito per il reato comune in relazione al quale è in dolo, mentre non può scattare ai relativi danni il mutamento del titolo del reato ex art.117 c.p. per il solo fatto che sia stato ingannato da un soggetto qualificato che potrebbe astrattamente far mutare il titolo del reato comune in reato proprio.