Massima
Del tutto superata va assunta ormai la concezione secondo la quale un episodio criminoso collettivo può essere declinato – sul crinale soggettivo – in modo esclusivamente omogeneo (“tutti in dolo” o “tutti in colpa”), come pure parrebbero prima facie suggerire gli articoli 110 e 113 c.p.; si fa piuttosto progressivamente strada la concezione “soggettivamente disomogenea” del concorso di persone nel reato, onde – seppure in casi marginali – non si può escludere che chi è (solo) in colpa sia in qualche modo “assistito” da un terzo in dolo né, tampoco, che chi è in “dolo” sia “assistito” da un terzo (meramente) in colpa.
Crono-articolo
Nel diritto romano è davvero difficile – quantunque, almeno teoricamente, non impossibile – rinvenire fattispecie di consapevole accostamento del dolo di un soggetto agente e della colpa di un altro, con lui concorrente, nella realizzazione di un fatto assimilabile a quello che i moderni chiamano reato.
Si tratta di una fattispecie che, per essere riconosciuta, presuppone un’elevata capacità di astrazione giuridica, mai lambita dal pur raffinato (per l’epoca) sistema giuridico romano.
Ciò non esclude nondimeno, in senso assoluto, la possibilità di rintracciare nelle fonti ipotesi di (potenziale) corresponsabilità per un medesimo fatto sulla base di diversi titoli soggettivi di imputazione, avendo i Romani conosciuto, oltre al dolus, le figure della culpa e della custodia (quest’ultima richiamabile in termini di c.d. responsabilità oggettiva).
Nell’ambito dei delicta di natura privata (assai più che in quello dei crimina pubblici), ed in particolare del furtum, non mancano in effetti – seppure a livello topico-pretorio e non assiologico-sistematico – cenni ad autoria e complicità e, dunque, al concorso di persone nel reato.
Fino alla fine della Repubblica (o all’inizio del Principato) il furtum – ed in particolare quello “nec manifestum” – appare non “tipizzato”: lo sarà solo in seguito, corrispondendo alla nota definizione del giurista di età severiana Paolo, (D. 47, 2, 1, 3: “furtum est contrectatio rei fraudulosa lucri faciendi gratia vel ipsius rei vel etiam usus eius”).
Nel periodo repubblicano, il furtum non si appunta dunque né – in orbita oggettiva – su una specifica condotta (quella che in futuro sarà la contrectatio, ovvero la sottrazione della res) né tampoco – quanto al versante soggettivo – su uno specifico atteggiamento psicologico del ladro (quello che sarà il c.d. animus furandi o animus lucri faciendi): circostanza questa che, nelle ipotesi “collettive”, non consente di distinguere in alcun modo, ponendosi nell’ottica del derubato, l’autore dal complice.
E’ sempre Paolo (D. 50, 16, 53, 2) a citare una opinione di Labeone – giurista del periodo augusteo – il quale, posto dinanzi alla formula edittale dell’actio furti nec manifesti, assume le due parole “ope consilio” da interpretarsi in guisa divaricata, onde il furto può essere commesso “ope”, e dunque materialmente, e ad un tempo “consilio”, ovvero con complicità morale, potendosi agire solo nei confronti del primo, autore materiale del furto medesimo, con l’azione di ripetizione (condictio).
E’ dunque nel periodo a cavallo tra Repubblica e Principato che il furto romano da un lato sembra maggiormente connotarsi sul crinale soggettivo e, dall’altro, finisce col dare l’abbrivio a una prima – non del tutto consapevole – riflessione sul concorso di persone in termini di autoria e complicità, entrambe da assumersi indefettibilmente caratterizzate sotto il profilo, per l’appunto, soggettivo; parte della dottrina giunge financo ad intravedere nel ladro “ope” colui che realizza la condotta “tipica” di furto e nel ladro “consilio” colui che pone in essere una complice – e ad essa parallela – condotta “atipica”.
Interessante in questo quadro generale un passo del Digesto attribuito a Gaio [D. 47, 2, 55 (54), 4], riferito ad una fattispecie di complicità nel furto, laddove vengono elencate una serie di condotte tipicamente riconducibili alla complicità materiale (ope), e tuttavia classificate come ipotesi di complicità morale (consilio), così palesando come “consilium” stia lentamente finendo con l’indicare l’insieme delle condotte atipiche “accessorie” rispetto a quella principale, tanto materiali quanto psicologiche (si pensi all’istigazione).
Si tratta di un passo poi ripreso anche da Giustiniano nelle sue Istituzioni (I. 4, 1, 11), e che ha a che fare con un comodato di arnesi da scasso e di scale, colorato dalla consapevolezza da parte del comodante del relativo, futuro utilizzo (furtivo) da parte del comodatario (“…quive ferramenta ad effringendum aut scalas ut fenestris supponerentur commodaverit, sciens cuius gratia commodaverit”).
E’ evidente come “sciens” qui significhi certamente – con riguardo al comodante – “consapevole” in ottica schiettamente dolosa; non appare, nondimeno, del tutto irragionevole leggere in tale parola anche una consapevolezza di (solo) “potenziale” utilizzo furtivo delle cose prestate, affiorando dunque sotto traccia un possibile, diverso titolo soggettivo di imputazione – colposa per l’appunto – del “complice” comodante rispetto a quella, indubbiamente dolosa, del ladro comodatario.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale che si occupa di concorso di persone nel reato all’art.63 onde, quando più persone concorrano nell’esecuzione di un reato, ciascuno degli esecutori e cooperatori immediati soggiace alla pena stabilita per il reato stesso (comma 1), ed alla stessa pena soggiace colui che ha determinato altri a commettere il reato, ma all’ergastolo è sostituita la pena delle reclusione dal 25 a 30 anni e le altre pene sono diminuite di 1/6, se l’esecutore del reato lo abbia commesso anche per motivi propri (comma 2).
Alla stregua dell’art.64 è poi punito con la reclusione per un tempo non minore di 12 anni, ove la pena stabilita per il reato commesso sia l’ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato medesimo, diminuita della metà, colui che è concorso nel reato:
1) con l’eccitare o rafforzare la risoluzione di commetterlo, o col promettere assistenza o aiuto da prestarsi dopo il reato;
2) col dare istruzioni o col somministrare mezzi per eseguirlo;
3) col facilitarne l’esecuzione, prestando assistenza od aiuto prima o durante il fatto.
La diminuzione di pena per alcuno dei fatti previsti dall’art.64 non è tuttavia applicata se il reato, senza il relativo (indispensabile) concorso, non sarebbe stato commesso.
Si tratta di una disciplina concorsuale, oltre che “frammentata” in molteplici figure (determinatore, esecutore immediato e mediato e così via), sostanzialmente tarata sull’imputazione dolosa, quantunque il concorrere “nell’esecuzione di un reato” lasci teoricamente spazio anche alla possibilità, quanto meno astratta, di un concorso “colposo”.
Che non figuri esplicitamente un concorso colposo nell’altrui reato doloso, e men che meno un concorso doloso nell’altrui reato colposo, discende del resto dallo stesso difetto di una disciplina (e, prima ancora, di una esplicita definizione) della colpa nella parte generale del codice, in un contesto storico in cui non campeggiano ancora attività sommamente rischiose come la circolazione stradale o l’industria massiva.
Non difettano tuttavia – a corrobare la teorica concepibilità di un concorso nel reato secondo titoli di imputazione soggettiva eterogenei – singole fattispecie incriminatrici colpose di parte speciale, come nel caso paradigmatico del delitto di omicidio colposo, autentico “prototipo” di responsabilità penale per colpa di cui all’articolo 371, secondo il cui primo comma chiunque, per imprudenza, negligenza, ovvero per imperizia nella propria arte o professione, o per inosservanza di regolamenti, ordini o discipline, cagiona la morte di alcuno, è punito con la detenzione da tre mesi a cinque anni e con una multa da lire cento a tremila.
Stando poi al successivo secondo comma, se dal fatto derivi la morte di più persone o anche la morte di una sola e la lesione di una o più, la quale abbia prodotto gli effetti indicati nel primo capoverso dell’articolo 372, la pena è della detenzione da uno a otto anni e della multa non inferiore a lire duemila.
Interessante quanto trapela dalla Relazione ministeriale al Codice che lascia affiorare, assai vivo, il dibattito tra i giuristi dell’epoca in ordine alla rilevanza penale dei gradi più lievi della colpa; si afferma infatti non essere ancora stabilito con certezza di criteri scientifici in che cosa consista la colpa in diritto penale, tanto che “il concetto della prevedibilità dell’evento, in addietro pacificamente ricevuto dalla dottrina, è oggidì scosso dalle nuove indagini e viene giudicato empirico e fallace”.
Quanto poi ai concetti di negligenza, imprudenza o imperizia, per il Relatore “se … ciascuna delle espressioni che vi sono contenute può lasciare adito a qualche perplessità, ravvicinate tra di loro, esse si completano e chiariscono scambievolmente, per guisa che né per inavvertenza, imprudenza o negligenza debba ritenersi imputabile qualunque fatto dell’uomo, nel quale non siano osservate le più sottili cautele del vivere civile, né per imperizia dell’arte o professione o per inosservanza di regolamenti, discipline o doveri del proprio stato s’intenda ogni e qualunque deviazione delle norme particolari o generali, che incombono al professionista o a qualsiasi cittadino”, restando dunque esclusa la responsabilità penale al cospetto di condotte implicanti una violazione tenue della pertinente regola cautelare.
In un simile contesto, quello che appare già – almeno teoricamente – in qualche modo concepibile (vale a dire il concorso nel reato sulla scorta di titoli diversi di imputazione soggettiva di ciascun reo) si palesa tuttavia ancora tutt’affatto irrilevante.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.42, in primis, nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà (comma 1), né può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge (comma 2); la legge determina poi i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della relativa azione od omissione (comma 3), e nelle sole contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa (comma 4).
Con riguardo alle figure monosoggettive, il dolo risulta dunque il titolo “ordinario” di imputazione (soggettiva) del fatto inadempimento reato con foggia di delitto, mentre la colpa è “l’eccezione”; nelle contravvenzioni, dolo e colpa sono invece collocati su di un medesimo piano.
Stando al successivo art.43, comma 1, il delitto:
- è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’eventodannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione;
- è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente;
- è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenzao imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita per i delitti secondo il criterio di cui sopra, si applica altresì (comma 2) alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico.
Rimarchevole quanto previsto dall’art.48 del codice, onde le disposizioni dell’articolo precedente – l’art.47 – si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato sia determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo. E tuttavia proprio il richiamo al precedente art.47 consente di soggiungere che – con riguardo a chi è caduto in errore perché indottovi dal decipiens – se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo (comma 1).
Venendo alle ipotesi “collettive” di manifestazione criminosa, per il fondamentale art.110 quando più persone concorrono nel “medesimo reato”, ciascuna di esse viene assunta soggiacere alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli successivi: il riferimento al “medesimo reato” sembra in qualche modo connotare quest’ultimo anche in termini di pertinente imputazione soggettiva, onde si può concorrere con dolo nel “medesimo reato doloso” ovvero concorrere (o cooperare: art.113) con colpa nel “medesimo reato colposo”.
In tema di circostanze, rilevante l’art.111 alla cui stregua chi ha determinato a commettere un reato una persona non imputabile, ovvero non punibile a cagione di una condizione o qualità personale, risponde del reato da questa commesso, e la pena è aumentata; se poi si tratta di delitti per i quali è previsto l’arresto in flagranza, la pena è aumentata da un terzo alla metà (comma 1); se poi chi ha determinato altri a commettere il reato ne è il genitore esercente la patria potestà, la pena è aumentata fino alla metà o, se si tratta di delitti per i quali è previsto l’arresto in flagranza, da un terzo a due terzi.
Significativo altresì l’art.112, comma 2, alla cui stregua la pena è aumentata fino alla metà per chi si sia avvalso di persona non imputabile o non punibile, a cagione di una condizione o qualità personale, o con la stessa abbia partecipato nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza: una norma che ammette la “compartecipazione” nel reato anche allorché uno dei concorrenti non sia imputabile o punibile.
Rimarchevoli le fattispecie di concorso c.d. “anomalo” di cui all’art.116, alla cui stregua qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della relativa azione od omissione (comma 1), e tuttavia se esso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave (comma 2); ed all’art.117, onde se, per le condizioni o le qualità personali del colpevole, o per i rapporti fra il colpevole e l’offeso, muta il titolo del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato e nondimeno, se questo è più grave, il giudice può, rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, diminuire la pena.
Significative le fattispecie di agevolazione colposa espressamente previste dal codice, come nel caso:
– dell’art.254 onde, quando l’esecuzione del delitto preveduto dall’articolo precedente (distruzione o sabotaggio di opere militari) è stata resa possibile, o soltanto agevolata, per colpa di chi era in possesso o aveva la custodia o la vigilanza delle cose ivi indicate, questi è punito con la reclusione da uno a cinque anni;
– dell’art.259, onde – sempre in ambito militare – quando l’esecuzione di alcuno dei delitti preveduti dagli articoli 255, 256, 257 e 258 è stata resa possibile, o soltanto agevolata, per colpa di chi era in possesso dell’atto o documento o a cognizione della notizia, questi è punito con la reclusione da uno a cinque anni (comma 1); si applica la reclusione da tre a quindici anni se sono state compromesse la preparazione o la efficienza bellica dello Stato, ovvero le operazioni militari (comma 2); le stesse pene si applicano poi quando l’esecuzione dei delitti suddetti sia stata resa possibile o soltanto agevolata per colpa di chi aveva la custodia o la vigilanza dei luoghi o delle zone di terra, di acqua o di aria, nelle quali è vietato l’accesso nell’interesse militare dello Stato (comma 3);
– dell’art.350, in tema di violazione dei sigilli.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato.
Per la Carta sembra dunque irrilevante se tale rimprovero sia – nel contesto dei reati collettivi, e dunque della compartecipazione criminosa – da assumersi necessariamente omogeneo dal punto di vista dell’imputazione soggettiva (tutti in dolo; tutti in colpa) ovvero anche eterogeneo (chi in dolo, chi in colpa).
1969
Il 7 marzo esce la sentenza della Corte d’Assise di Padova che si occupa di una nota fattispecie di compartecipazione colposa ad un delitto doloso.
Si tratta del caso in cui il soggetto agente, pur essendo a conoscenza di un astratto proposito omicida di una donna sua conoscente, le consegna un veleno topicida pensando che serva ad uccidere i ratti, e questa lo usa invece per uccidere il marito.
1981
Il 17 novembre esce la nota sentenza della I sezione penale del tribunale spagnolo di Madrid Audiencia Nacional che finisce con l’assumere penalmente responsabile un giornalista di omicidio colposo per aver pubblicato il nome di due attivisti politici rimasti subito dopo uccisi da un’organizzazione terroristica di avversa parte politica.
Si tratta di un noto arresto che viene criticato dalla più accorta dottrina sulla scorta della sostanziale considerazione onde una tale condotta non può qualificarsi imprudente in ottica penalistica, un giornalista non potendo assumersi tenuto ad impedire che terzi soggetti autoresponsabili commettano, per libera scelta, un’azione omicida.
Un dovere di “prevedere” il comportamento di altri soggetti pienamente responsabili (al pari del soggetto agente) nel singolo caso concreto va infatti assunto – sulla base del c.d. principio di affidamento – un’eccezione alla regola generale opposta, onde per poter punire la condotta colposa che si abbini ad un altrui fatto doloso è necessario verificare se vi siano le condizioni che permettano di “superare” il ridetto principio di affidamento, autorizzando (in via di eccezione appunto) l’interprete a riconoscere la colpa del concorrente.
1990
Il 28 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.2720 che si colloca nel solco dell’orientamento tradizionale che non ammette – con riguardo al concorso di persone nel reato – diversi titoli soggettivi di responsabilità dei singoli concorrenti.
1991
*Il 07 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5017 che si colloca nel solco dell’orientamento tradizionale che non ammette – con riguardo al concorso di persone nel reato – diversi titoli soggettivi di responsabilità dei singoli concorrenti.
1996
Il 7 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.9542, alla cui stregua già dal punto di vista “letterale” è ammissibile solo una “cooperazione nel delitto colposo” ex art.113 c.p., non anche una “cooperazione colposa nel delitto”, onde chi commette un fatto con dolo può essere al più punito “individualmente” rispetto a chi lo commette con colpa, non anche a titolo “collettivo” (concorsuale).
Secondo il Collegio, l’art.113 c.p. costituisce dunque una vera e propria norma di sbarramento nell’ottica della configurabilità – negata – di un concorso colposo nel reato doloso.
2002
Il 22 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.39680 che, discostandosi dall’orientamento tradizionale (cfr. Sez. Un. n. 2720 del 03/02/1990 Rv. 183495; Sez. 4 n. 9542 dell’11/10/1996, Rv. 206798; Sez. 3, n. 5071 del 20/03/1991, Rv. 187331), assume una nuova posizione circa la possibile differenziazione dei titoli soggettivi di responsabilità tra i concorrenti.
Per il Collegio la norma di cui all’art. 42 concerne soltanto le norme c. d. incriminatrici, e dunque la c.d. parte speciale del codice penale; essa dunque, la norma di cui all’art. 42, comma secondo cp, non interessa le disposizioni di cui agli artt. 110 e 113 in maniera diretta ed immediata, nel senso che non costituisce un limite alla rispettiva applicabilità.
Deve invece venire in considerazione per il Collegio, quale criterio ermeneutico, il profilo funzionale del rapporto di causalità come è complessivamente disciplinato nell’ordinamento dagli artt. 40 e 41 cp.; nessuna ragione autorizza infatti a distinguere il profilo del concorso di persone nel reato dal punto di vista del nesso di causalità: ed è pertanto corretta l’affermazione comune secondo la quale ciò che distingue l’ipotesi del concorso di cause indipendenti dalla cooperazione colposa (art. 113 cp) è soltanto l’elemento della rappresentazione dell’altrui condotta che, assente nel primo caso, deve essere presente nel secondo caso.
Fatta tale premessa, per il Collegio residuano le ipotesi, non oggetto di altrettanto specifica disciplina, della partecipazione sinergica a titolo soggettivo diverso, con particolare riferimento al reato monosoggettivo. Sul punto, risulta decisivo come non sia riconoscibile il ritenuto effetto preclusivo discendente dalla norma di cui all’art.42, comma secondo cod. pen., sicché restano superate anche le ragioni della (prevalente) opposizione della dottrina.
Decisivo è anche, per il Collegio, il fatto che sia ritenuto ammissibile il concorso doloso nel reato colposo (viene evocato il famoso caso di colui che assecondi la guida spericolata dell’autista, rappresentandosi ed anzi volendo l’uccisione anche del parroco che certamente è alla testa del corteo religioso di cui è nota la ricorrenza).
Va poi precisato che il caso concreto – vasto incendio di un deposito di pneumatici provocato da ignoti, posto a carico del custode, a titolo di incendio colposo, per la mancata adozione delle disposizioni impartite dalle autorità locali competenti per prevenire eventi di quel genere – va sussunto nell’ambito del concorso di cause indipendenti, ai sensi dell’art. 41 cod. pen., non essendo riscontrabile, nell’agente mediato in colpa, l’elemento psicologico proprio della responsabilità concorsuale, ossia la consapevolezza di cooperare con l’altrui condotta antigiuridica.
2008
L’11 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.10795 alla cui stregua va assunto ammissibile il “concorso colposo” nel delitto doloso e ciò tanto nel caso di cause colpose indipendenti (rispetto al reato doloso) quanto nel caso di cooperazione colposa (a reato doloso), purché in entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa (diversamente ne risulterebbe violato il disposto dell’art. 42, co. 2, c.p.) e nella relativa condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che connotano, per l’appunto, la colpa.
Più nel dettaglio, per il Collegio è tuttavia necessario che la regola cautelare inosservata dal compartecipe “colposo” sia diretta a scongiurare anche il rischio dell’atto doloso del terzo (c.d. concretizzazione del rischio che la norma cautelare violata intende scongiurare), risultando dunque tale atto doloso del terzo prevedibile per l’agente che, per trascuratezza, non lo prevede.
Per la Corte occorre prendere le mosse dall’ormai riconosciuto superamento delle teorie che si rifanno al concetto di unitarietà del fatto reato di natura concorsuale, dovendosi in proposito assumere superabili le obiezioni normalmente mosse alla fattispecie “dissociata”: l’esame congiunto degli art. 42, comma 2, c.p. e 113 c.p. consente difatti per il Collegio di sostenere come la compartecipazione “colposa” sia stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perché, nel caso di compartecipazione “colposa” a reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore – potrebbe dirsi “in aggiunta” – rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l’aver previsto e voluto l’evento (sia pure con la sola accettazione del relativo verificarsi, nel caso di dolo eventuale).
Il dolo per la Corte è qualche cosa “di più”, non “di diverso”, rispetto alla colpa, secondo una impostazione che può essere riassunta nella formula “non c’è dolo senza colpa”.
Corollario di tale premessa per il Collegio è che non era affatto necessario prevedere expressis verbis l’applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso: se difatti è prevista la compartecipazione nell’ipotesi più restrittiva, quella “tutta colposa” (art.113 c.p.), tale compartecipazione non può essere esclusa nell’ipotesi più ampia che la prima ricomprende e che non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili.
Per la Sezione, tale rilettura incrina anche il valore della tradizionale obiezione dottrinale imperniantesi sulla previsione dell’art. 42, comma 2, c.p.: non si tratterebbe della inammissibile previsione implicita di un reato colposo (concorrente con quello doloso), quanto piuttosto di una ricostruzione che ha disciplinato espressamente un aspetto del problema (il reato colposo unito a quello doloso) sul presupposto che la disciplina riguardi anche il tema più generale (il reato colposo unito a quello, del pari, colposo).
Riconosciuta l’astratta ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso, per il Collegio va precisato tuttavia come non in ogni caso questa compartecipazione possa essere riconosciuta; accertata l’influenza causale della condotta colposa dell’agente, occorre infatti per la Corte verificare l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell’evento siccome concretamente dispiegatosi.
Più precisamente, per il Collegio è necessario che la regola cautelare inosservata sia diretta a scongiurare proprio la condotta delittuosa del terzo: così, ad esempio, il farmacista non può vendere un farmaco potenzialmente letale alla persona che sa aver già tentato di avvelenare un familiare.
Un utile strumento di verifica per il Collegio può quindi essere quello che si rifà allo scopo della regola cautelare violata dall’agente che, di volta in volta, versa in colpa: se la regola cautelare è diretta anche alla tutela di terzi dall’aggressione dolosa dei loro beni o interessi, è tale tutela “funzionalizzata” che rende configurabile la partecipazione dell’agente in colpa al delitto doloso altrui che offenda simili beni o interessi.
Per il Collegio va dunque confermata nel caso di specie la condanna di un medico psichiatra il quale, riducendo e poi sospendendo in maniera imprudente il trattamento farmacologico cui era sottoposto un proprio paziente ricoverato in una comunità, sì da renderlo inidoneo a contenerne la pericolosità, abbia determinato l’aggravamento della patologia e una recrudescenza della pericolosità del paziente stesso, tali da avere provocato la crisi nel corso della quale lo stesso paziente ha aggredito ed ucciso uno degli operatori della comunità ridetta.
2009
Il 28 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.4107, Calabrò e altro, che si occupa della sentenza di condanna di uno psichiatra e di un medico militare, ritenuti responsabili a titolo di concorso colposo nei delitti dolosi di duplice omicidio e di lesioni personali commessi da un soggetto (C.) affetto da seri problemi di natura psichiatrica con l’utilizzo di un fucile ottenuto grazie alla licenza per porto d’armi colposamente rilasciata da tali medici e che aveva ucciso due donne con l’arma legalmente detenuta e, poi, aveva sparato dalla finestra dell’abitazione ad altre persone ferendole ed infine si era suicidato.
La Corte svolge qui la più completa analisi rintracciabile nella giurisprudenza di legittimità sul tema del concorso colposo nel reato doloso, che diverrà sicuro riferimento di tutte le successive decisioni conformi.
Premessa l’adesione alla tesi secondo la quale la cooperazione colposa richiede esclusivamente la consapevolezza del soggetto che la propria condotta si colloca in un fascio di condotte in un medesimo contesto ovvero nella gestione di un medesimo caso, la Corte assume che nella specie i giudici di merito abbiano errato a non ritenere l’ipotesi della cooperazione colposa, optando piuttosto per il concorso di cause indipendenti.
Per la Corte va comunque ribadita l’affermazione di responsabilità per gli imputati, dacché la cooperazione colposa comprende anche il concorso colposo nel delitto doloso, precisando, tuttavia, che “pur potendosi parlare di cooperazione colposa per quanto riguarda le condotte degli agenti ritenuti (o che potranno essere ritenuti) in colpa, tutte queste condotte sono certamente indipendenti rispetto a quella di C.” (agente doloso).
La Corte rammenta le critiche indirizzate alla tesi favorevole alla configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso, osservando, in senso a propria volta critico, che dall’esame congiunto dell’art. 42 e dell’art. 113 cod. pen. emerge che la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perché, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso, ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore – potrebbe dirsi “in aggiunta” – rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l’aver previsto e voluto l’evento (sia pure, nel caso del dolo eventuale, con la sola accettazione del relativo verificarsi). Insomma il dolo è qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione è stata riassunta nella formula espressa da un illustre studioso della colpa che l’ha così sintetizzata: “non c’è dolo senza colpa“.
Ad avviso della Corte, tali rapporti correnti tra il dolo e la colpa non rendono necessario prevedere espressamente l’applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso “perché se è prevista la compartecipazione nell’ipotesi più restrittiva non può essere esclusa nell’ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili“.
Quanto all’obiezione fondata sul vincolo derivante dalla previsione dell’art. 42, co. 2 cod. pen., ad avviso della Corte “non si tratterebbe di una previsione implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto che la disciplina riguardasse anche il tema più generale“.
Come già nel precedente del 2002, il Collegio assume di poter superare l’ostacolo della previsione dell’art. 42, co. 2 cod. pen. rilevando che la disciplina da esso recata riguarda esclusivamente la previsione delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa, ma non (anche) la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre dagli artt. 110 e 113 del medesimo codice.
Prendendo in considerazione il concorso di cause colpose indipendenti, la Corte osserva che – stante l’indipendenza delle azioni – diviene irrilevante che uno o più dei contributi causali possa avere carattere doloso perché la disciplina sulla causalità contenuta nell’art. 41 riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi.
Ma, conclude il Collegio, se per il riconoscimento della partecipazione colposa indipendente al reato doloso non esistono particolari ostacoli, non sarebbe irragionevole, nel caso di cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso, solo perché l’agente è consapevole della condotta colposa di altri che con lui cooperano? La risposta deve essere ovviamente positiva e, per maggior peso, va aggiunto per il Collegio che “il dippiù costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non attenua, il disvalore sociale della condotta: quale spiegazione razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di questa condotta e non quando questa consapevolezza esista“?
La Corte ammonisce infine circa il fatto che il riconoscimento dell’astratta possibilità di un concorso colposo nel reato doloso non può significare che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perché, si precisa, una volta accertata l’influenza causale della condotta colposa dell’agente, andrà invece verificata l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell’evento:
- a) se la regola cautelare inosservata era diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo, tenendo conto dello scopo della regola cautelare violata dall’agente in colpa;
- b) se è prevedibile l’atto doloso del terzo.
In sintesi, con questa sentenza le argomentazioni poste a fondamento dell’indirizzo più rigoroso si arricchiscono del principio ‘non c’è dolo senza colpa’, dal quale si trae motivo per ribadire che, essendo stato disciplinato il ‘più‘, doveva ritenersi previsto anche ‘il meno‘.
2011
Il 20 settembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.34385 alla cui stregua va ribadita la configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso, dovendosi affermare nel caso di specie la responsabilità per duplice omicidio di un dirigente dell’ufficio di Pronto intervento della Questura di Torino da cui dipende l’Ispettore Capo della Polizia di Stato che, con la pistola d’ordinanza, abbia cagionato la morte della moglie e del cognato.
Il dirigente ha infatti omesso – rammenta la Corte – di trasmettere all’ufficio sanitario un rapporto informativo sull’ispettore, già sottoposto a vigilanza medica, non tenendo dunque adeguatamente conto di un precedente episodio di violenza che l’ispettore medesimo aveva posto in essere nei confronti della moglie, omettendo di tempestivamente disporre il ritiro dell’arma in di lui dotazione.
Per la Corte tale dirigente, quale titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei dipendenti della struttura di polizia che dirige, aveva invece l’obbligo di controllare la situazione, di rappresentarsi che essa si presentava rischiosa e di assumere tutte le scelte opportune ed idonee a prevenire l’evento verificatosi, sempre operando nel limite della discrezionalità che gli era riconosciuta.
Nel caso di specie, egli deve dunque assumersi aver concorso colposamente nel reato doloso altrui (concorso omissivo colposo a reato commissivo doloso).
2014
Il 18 settembre esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione n.38343, Espenhahn e altri, che si occupa della cooperazione colposa di cui all’art.113 c.p.
Per quanto qui di interesse, la Corte afferma come la necessità di arginare l’eccesso espansivo dell’istituto – derivante dalla sufficienza della mera consapevolezza dell’intreccio cooperativo – vanno individuate “con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza“.
2015
Il 6 marzo esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.9855 secondo la quale – in netto superamento delle critiche più volte registratesi sul punto in passato – va ribadito che la “partecipazione colposa” al delitto doloso è ammissibile sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell’evento secondo lo schema del “concorso di cause indipendenti”, sia anche nell’ipotesi di vera e propria cooperazione colposa a reato doloso (e, dunque, di reato collettivo ad imputazione soggettiva disomogenea), purché in entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella relativa condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa.
Per la Corte, la regola cautelare violata deve tuttavia essere giocoforza diretta a prevenire anche il rischio dell’atto doloso del terzo; tale atto doloso del terzo (col quale si concorre) deve poi risultare prevedibile per l’agente che ne risponde a (diverso) titolo di colpa.
Nella fattispecie, il Collegio si trova al cospetto di un concorso omissivo improprio colposo nel reato doloso, in relazione al quale, quanto all’obbligo di prevenire anche il rischio dell’atto doloso del terzo – ai fini dell’operatività della così detta clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, c.p. – nell’accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia l’interprete deve tenere presente la fonte dai cui scaturisce l’obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte “obbligatoria”.
Al fine poi di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo – siccome scaturente dalla fonte di pertinenza – occorre per il Collegio valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l’obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza.
La conclusione è che è ben ammissibile il concorso omissivo improprio colposo nel reato doloso del terzo da parte di chi rivesta una data posizione di garanzia rispetto agli “interessi” (beni) vulnerati della vittima.
2016
Il 27 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.32567 che ribadisce la piena configurabilità di un concorso colposo nel reato doloso con riguardo alla posizione di taluni agenti di polizia preposti al rinnovo del porto d’armi.
Essi, per il Collegio vanno puniti per aver accordato il provvedimento ampliativo (rinnovo del porto d’armi) ad un soggetto già destinatario di un divieto d’urgenza di tenere armi in ragione delle relative, precarie condizioni psichiche, che abbia dipoi ucciso – sulla base del ridetto titolo ampliativo “rinnovato” – due persone con arma regolarmente acquistata.
2019
Il 14 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.7032, che si occupa ancora una volta della ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso.
Il Collegio dichiara di voler procedere, in primo luogo, alla disamina del ricorso proposto dal ricorrente. Con il primo motivo questi sostiene che la sentenza impugnata è inficiata da un vizio di fondo in quanto viene affermata la propria responsabilità penale, a titolo di colpa, in relazione agli eventi – morte di X e Y cagionata con dolo da Z – pur in assenza, nell’ambito delle fattispecie plurisoggettive, di una disposizione ad hoc che sia idonea a conferire legittimità a tale costruzione ipotizzabile solo in via teorica, tenuto conto dei principi di tipicità e tassatività che caratterizzano la materia penale e, nella specie, quella del concorso di persone nel reato.
Il tema introdotto dal ricorrente si colloca per la Corte, più in generale, nella dibattuta questione relativa alla configurabilità, nel nostro ordinamento giuridico, dell’ipotesi del concorso di persone con coefficiente psicologico eterogeneo. Esso non ha un rilievo soltanto teorico; invero, ove fosse esclusa la configurabilità nell’ordinamento nazionale del concorso colposo nel delitto doloso – secondo l’avviso del giudice di primo grado, disatteso dalla Corte distrettuale – risulterebbe priva di riscontro normativo la ricostruzione operata con la sentenza di condanna e, dovendosi allora fare riferimento all’ipotesi di concorso di cause indipendenti, sarebbe da verificare l’avvenuto accertamento da parte del secondo giudice di tutte le componenti strutturali di un giudizio fondato sul combinato disposto dagli articoli 40 cpv., 41 co. 2, 42 e 589 cod. pen.
Si impongono al riguardo, per il Collegio, talune puntualizzazioni, muovendo dal rilevare come la dottrina classica che afferma l’impossibilità della configurazione del concorso di persone, ai sensi del combinato disposto degli artt. 110 e segg. cod. pen. e delle singole fattispecie incriminatrici, qualora la realizzazione pluripersonale del fatto illecito sia accompagnata da titoli soggettivi diversi per i partecipi, tragga spunto dal dogma della unitarietà del reato concorsuale e desumendo, implicitamente o esplicitamente, che esso si rifletta anche nella esigenza di omogeneità dell’elemento psicologico.
Secondo questa impostazione, poiché il reato è unico rispetto a tutti i concorrenti, la volontà e la rappresentazione richieste per la partecipazione delittuosa devono uniformarsi all’elemento psichico proprio del reato che si considera dolo nei reati dolosi e colpa in quelli colposi.
Le elaborazioni teoriche più evolute si pongono – chiosa tuttavia il Collegio – in una prospettiva critica rispetto alla tesi tradizionale e sottolineano che l’analisi delle norme che disciplinano l’istituto del concorso di persone nel reato chiariscono che il principio di unitarietà della responsabilità penale dei concorrenti è limitato all’esigenza che i partecipi contribuiscano alla stessa offesa tipica sotto un profilo essenzialmente causale, senza che ciò comporti alcuna conseguenza in ordine alla punibilità, al titolo di reato e alla forma dell’elemento psicologico.
Si afferma che l’unità del reato concorsuale non potrebbe infatti intendersi né come uguale punibilità estesa a tutti i concorrenti (sia per quanto riguarda l’an che il quantum della pena) né come titolo di responsabilità (sub specie di elemento soggettivo doloso, colposo, preterintenzionale) né, infine, come identità del nomen iuris della fattispecie attribuita ai compartecipi. A conforto di tale assunto vengono valorizzati gli artt. 111 e 112, ultimo comma, cod. pen. in tema di responsabilità per determinazione al reato di persona non imputabile a cagione di una condizione o qualità personale e in materia di aggravamenti di pena previsti dai nn. 1, 2, 3 dell’art. 112 cod. pen.
Tali disposizioni infatti, da un lato, ascrivono espressamente all’istituto concorsuale le ipotesi nelle quali vi sia concorso doloso in un fatto incolpevole e, dall’altro, consentono di affermare, per ragioni di ordine logico e di equità sostanziale, l’applicabilità delle norme sul concorso di persone anche alle ipotesi che rappresentano un minus rispetto a quelle prese in considerazione dalle norme in questione, ovvero di semplice diversità e non già di totale carenza dell’elemento psicologico che accompagna la condotta di taluno dei concorrenti rispetto a quello che contrassegna il comportamento dell’altro.
Ed ancora, tali conclusioni sono suffragate dai contenuti impliciti dell’art. 117, comma 1, cod. pen. che, nel disciplinare l’unificazione del titolo di reato tra concorrenti, in ipotesi di mutamento di esso a cagione delle condizioni o qualità personali del colpevole o per i rapporti tra il colpevole e l’offeso, lascia implicitamente intendere che nei casi in cui il cambiamento della qualificazione giuridica sia dovuta a motivi diversi, pur operando la disciplina concorsuale, si applica la disciplina comune della differenziazione del titolo di reato.
Quanto al regime dell’elemento psicologico nel fatto realizzato da più soggetti in concorso tra loro, prosegue la Corte, una ancor più significativa serie di indicazioni normative orienta nel senso di ritenere che il dogma della unitarietà vada circoscritto alla dimensione lesiva, sul piano oggettivo, delle varie condotte concorrenti, senza implicare, sul piano soggettivo, la identità dei coefficienti psichici cui si riferisce il titolo di responsabilità dei vari concorrenti.
Depone in tal senso l’art. 116 cod. pen. che costituisce una conferma dell’ammissibilità di fattispecie concorsuali nelle quali taluno dei partecipi e, precisamente, l’esecutore del reato commesso agisce con il coefficiente psichico del dolo mentre gli altri, ovvero coloro che volevano il reato diverso, rispondono a titolo diverso (responsabilità oggettiva o colpa, a seconda degli indirizzi dottrinari e giurisprudenziali seguiti).
Inoltre l’art. 48 cod. pen. ribadisce, da un punto di vista sistematico, la possibilità di invocare l’istituto del concorso di persone nel reato anche quando al fatto doloso di uno dei compartecipi si affianchi il fatto colposo di altri. Tale norma configura, infatti, un’ipotesi nella quale alla responsabilità a titolo di dolo dell’ingannatore, nelle ipotesi in cui il fatto sia previsto come colposo, si affianca la responsabilità a titolo di colpa dell’ingannato.
Ciò chiarito in punto di astratta ammissibilità delle condotte concorsuali a componente mista e ritenuta dal Collegio condivisibile la tesi del superamento del postulato dell’unicità del titolo soggettivo, rimangono da approfondire le peculiarità che caratterizzano le due ipotesi enunciate.
Il fenomeno della partecipazione sinergica di più persone nel reato, sorretto da diversi atteggiamenti psicologici dei concorrenti, si estrinseca per la Corte, per quanto di specifico interesse, nelle forme del c.d. concorso doloso nel delitto colposo e del c.d. concorso colposo nel delitto doloso, il cui discrimen va, in prima battuta, ravvisato nel carattere doloso o colposo della condotta che realizza direttamente l’offesa penalmente rilevante. Al fine di sgombrare il campo da possibili equivoci di ordine terminologico, si procede a tracciare una definizione generale delle due fattispecie ricavata da un procedimento di astrazione delle esemplificazioni che sono il frutto della elaborazione teorica.
Il c.d. concorso doloso nel delitto colposo si verifica. quando un soggetto, assecondando e sostenendo l’altrui condotta colposa, si rappresenta e accetta il possibile verificarsi – come conseguenza di essa – dell’evento tipico del delitto che non deve, invece, essere previsto dall’autore diretto della condotta colposa. Tale ipotesi ricorre, pertanto, nel caso in cui un soggetto strumentalizza con dolo l’altrui condotta colposa. La manualistica richiama, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui un soggetto sostiene ed incita, con dolo, l’autista a guidare in modo pericoloso, rappresentandosi ed accettando il possibile verificarsi dell’uccisione di una persona presente sul luogo; rappresentazione che, invece, non ha l’autore diretto della condotta colposa; ed ancora, il caso in cui un soggetto sostituisce con un veleno la fiala che l’infermiera deve iniettare e quest’ultima trascura colposamente di rilevare la diversità di confezione e somministra la sostanza letale da cui deriva la morte del paziente.
Il c.d. concorso colposo nel delitto doloso – prosegue la Corte – ricomprende, invece, le ipotesi in cui un soggetto, pur potendo prevedere l’evento criminoso, pone in essere una condotta colposa che fornisce un contributo alla realizzazione di propositi delittuosi deliberati e concretizzati da parte dell’autore diretto il quale agisce in dolo. La dottrina richiama, a titolo esemplificativo, il caso in cui un soggetto, pur essendo a conoscenza del proposito omicida di una donna, sua conoscente, nei confronti del marito le consegna un veleno topicida nella erronea convinzione che serva ad uccidere i ratti mentre la donna lo utilizza proprio per uccidere il coniuge.
Osserva il Collegio che non sussistono preclusioni, né normative né concettuali, alla riconducibilità dell’istituto del c.d. concorso doloso al delitto colposo al combinato disposto dell’art. 110 cod. pen. e delle singole norme incriminatrici di parte speciale che vengono, di volta in volta, in questione con riferimento all’illecito colposo. Ed invero il dolo dell’atto di concorso di persone nel reato ai sensi dell’art. 110 cod. pen. assume come oggetto la condotta tenuta e la relativa connessione con quella degli altri compartecipi e come proprio contenuto strutturale la-coscienza e volontà di contribuire alla realizzazione del fatto di reato.
Non è necessario il c.d. “previo concerto” dato che il concorso può instaurarsi senza alcuna determinazione preventiva e la volontà di concorrere può essere anche unilaterale.
L’autonomia della posizione di ciascun concorrente rende, dunque, ammissibile il concorso doloso nel delitto colposo. Ed invero, posto che l’esecutore della fattispecie monosoggettiva può anche agire senza dolo, senza con ciò escludere la responsabilità degli altri concorrenti, ne deriva a fortiori che può agire con colpa. Si tratta di una partecipazione non solo causalmente rilevante ma anche tipica rispetto agli eventi concreti previsti dal combinato disposto dell’art. 110 cod. pen. con le norme di parte speciale.
E’ chiaro per il Collegio che, nelle fattispecie causalmente orientate che sono originariamente conformi alle fattispecie delineate dalle norme che sanzionano i delitti monosoggettivi, sia nella forma colposa che in quella dolosa, e, dunque, già di per sé punibili, l’art. 110 cod. pen. è destinato a svolgere una funzione eminentemente “di disciplina”, il che consente l’applicazione, a tutti i concorrenti, sia dei regimi circostanziali di aggravamento per le condotte di promozione, organizzazione e determinazione alla commissione del reato, che di attenuazione per le partecipazioni di minima importanza (ex art. 114, cod. pen.), ed ancora l’estensione delle circostanze oggettive di esclusione della pena (art. 119 cpv. cod. pen.).
Il ricorso alla normativa concorsuale, in tali casi, è pienamente giustificato oltre che, sotto il profilo oggettivo, dalla pluralità di agenti e dal concorrere della loro condotta al verificarsi dell’offesa, anche dalla presenza del requisito soggettivo proprio del concorso. Ed invero il soggetto che agisce in dolo ben si rappresenta il comportamento del soggetto che versa in colpa, concorrente con il proprio.
La configurabilità della figura del concorso doloso nel delitto colposo assume, invece, una vera e propria funzione “incriminatrice” nelle fattispecie a forma vincolata in quanto consente di rendere penalmente rilevanti le condotte di “partecipazione dolosa atipica” nel delitto colposo da altri commesso, che altrimenti rimarrebbero impunite.
Il caso esemplificativo richiamato dalla dottrina – chiosa la Corte – è quello di chi istiga taluno, il quale versa già in una situazione di errore colposo sulla natura tossica di una sostanza, ad immetterla in acque destinate all’alimentazione allo scopo, di cui l’istigato è ignaro ma al quale è addebitabile la violazione di norme cautelari, di provocare un avvelenamento, ai sensi dell’art. 439 cod. pen., che poi si verifica; in tal caso è evidente la rilevanza pratica della ammissibilità di tale figura sul piano della “tipicità” della condotta dell’istigatore che non rientra, di per sé, nella fattispecie tipica.
Quest’ultimo non può infatti essere chiamato a rispondere direttamente del reato essendo il relativo comportamento atipico rispetto al delitto di cui all’art. 439 cod. pen.; né può trovare applicazione l’art. 48 cod. pen. perché l’istigatore non induce in errore ma si limita a sfruttare l’errore colposo preesistente di colui che realizza l’azione esecutiva.
Ed ancora non è applicabile l’art. 113 cod. pen., non potendosi configurare a carico dell’istigatore una condotta colposa in quanto egli manifesta inequivocabilmente la rappresentazione e volontà dell’evento criminoso.
Ben più controverso risulta invece, riprende a questo punto il Collegio, l’istituto del c.d. concorso colposo nel delitto doloso altrui, la cui configurabilità viene posta in dubbio anche da parte di quegli orientamenti dottrinari che ritengono ormai ampiamente superato il principio dell’unicità del titolo soggettivo della responsabilità concorsuale.
Il fondamento della posizione negatoria viene individuato nel disposto normativo di cui agli artt. 42, comma 2, e 113 cod. pen. Da un lato, si osserva, l’art. 42 comma 2, cod. pen. pone il principio generale – non derogabile nell’ambito della partecipazione – della necessità di una espressa previsione di legge per ascrivere a titolo di colpa una qualunque fattispecie delittuosa. Dall’altro lato, l’art. 113 cod. pen., per come si desume dal tenore letterale della disposizione, limita la cooperazione colposa al solo delitto colposo, non permettendo di intendere che la condotta tipica possa essere dolosa.
In tale prospettiva, prosegue il Collegio, viene anche valorizzata la circostanza che il legislatore ha contemplato ipotesi tassative di agevolazione colposa punite come reato a sé stante, come ad esempio gli artt. 254, 259 e 350 cod. pen.
La giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, dopo aver mantenuto un orientamento concordante con la prevalente dottrina, a partire da una decisione del 2002 ha consolidato una diversa posizione, attestandosi sulla tesi della ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso. La complessità del tema richiede di richiamare con un certo dettaglio le scansioni argomentative utilizzate dalle più esplicative tra le sentenze che sostanziano l’indirizzo sin qui prevalente.
Nella pronuncia con la quale la Suprema Corte (Sez. 4 n. 39680 del 22 novembre 2002 Rv. 223214), discostandosi dall’orientamento tradizionale (cfr. Sez. Un. n. 2720 del 03/02/1990 Rv. 183495; Sez. 4 n. 9542 dell’11/10/1996, Rv. 206798; Sez. 3, n. 5071 del 20/03/1991, Rv. 187331), ha assunto una nuova posizione circa la possibile differenziazione dei titoli soggettivi di responsabilità tra i concorrenti, si è sostenuto che “la norma di cui all’art. 42 concerne soltanto le norme c. d. incriminatrici, e dunque la c. d. parte speciale del codice penale… Dunque, la norma di cui all’art. 42, comma secondo cp, non interessa le disposizioni di cui agli artt. 110 e 113 in maniera diretta ed immediata, nel senso che non costituisce un limite alla rispettiva applicabilità. Deve invece venire in considerazione, quale criterio ermeneutico, il profilo funzionale del rapporto di causalità come è complessivamente disciplinato nell’ordinamento dagli artt. 40 e 41 cp. … nessuna ragione autorizza a distinguere il profilo del concorso di persone nel reato dal punto di vista del nesso di causalità: ed è pertanto corretta l’affermazione comune secondo la quale ciò che distingue l’ipotesi del concorso di cause indipendenti dalla cooperazione colposa (art. 113 cp) è soltanto l’elemento della rappresentazione dell’altrui condotta che, assente nel primo caso, deve essere presente nel secondo caso“.
Fatta tale premessa la Corte ha ammesso che “residuano le ipotesi, non oggetto di altrettanto specifica disciplina, della partecipazione sinergica a titolo soggettivo diverso, con particolare riferimento al reato monosoggettivo“. Ma per essa risulta decisivo che non è riconoscibile “… il ritenuto effetto preclusivo discendente dalla norma di cui all’art.42, comma secondo cod. pen.“, sicché “…restano superate anche le ragioni della (prevalente) opposizione della dottrina, fatta propria dalla pronuncia di questa Sezione“.
Decisivo è anche il fatto che sia ritenuto ammissibile il concorso doloso nel reato colposo (viene evocato il famoso caso di colui che assecondi la guida spericolata dell’autista, rappresentandosi ed anzi volendo l’uccisione anche del parroco che certamente è alla testa del corteo religioso di cui è nota la ricorrenza).
Per incidens, nell’occasione la Corte ha precisato che il caso concreto sottoposto al relativo esame – vasto incendio di un deposito di pneumatici provocato da ignoti, posto a carico del custode, a titolo di incendio colposo, per la mancata adozione delle disposizioni impartite dalle autorità locali competenti per prevenire eventi di quel genere – andava sussunto nell’ambito del concorso di cause indipendenti, ai sensi dell’art. 41 cod. pen., non essendo riscontrabile, nell’agente mediato in colpa, l’elemento psicologico proprio della responsabilità concorsuale, ossia la consapevolezza di cooperare con l’altrui condotta antigiuridica.
In una successiva pronuncia le argomentazioni della Corte sono state ulteriormente articolate.
Dopo che Sez. 4, n. 10795 del 14/11/2007 – dep. 11/03/2008, Pozzi, Rv. 238957 aveva riconosciuto la responsabilità penale di un medico psichiatra a titolo di concorso colposo in omicidio volontario in quanto, con la relativa condotta negligente ed imperita – consistente nell’avere inopinatamente ridotto e poi cessato in tempi brevi la terapia farmaceutica somministrata ad un paziente affetto da disagio psichico – aveva contribuito a scatenare il raptus di quest’ultimo nei confronti di un operatore della comunità ove si trovava ricoverato che veniva aggredito con un coltello cagionandone la morte, in Sez. 4, n. 4107 del 12/11/2008 – dep. 28/01/2009, Calabrò e altro, Rv. 242830 – rammenta il Collegio – ci si occupò della sentenza di condanna di uno psichiatra e di un medico militare, ritenuti responsabili a titolo di concorso colposo nei delitti dolosi di duplice omicidio e di lesioni personali commessi da un soggetto (C.) affetto da seri problemi di natura psichiatrica con l’utilizzo di un fucile ottenuto grazie alla licenza per porto d’armi colposamente rilasciata da tali medici e che aveva ucciso due donne con l’arma legalmente detenuta e, poi, aveva sparato dalla finestra dell’abitazione ad altre persone ferendole ed infine si era suicidato.
In questa occasione la Corte ha svolto la più completa analisi rintracciabile nella giurisprudenza di legittimità, da allora sicuro riferimento delle decisioni conformi.
Premessa l’adesione alla tesi secondo la quale la cooperazione colposa richiede esclusivamente la consapevolezza del soggetto che la propria condotta si colloca in un fascio di condotte in un medesimo contesto ovvero nella gestione di un medesimo caso, la Corte ritenne che nella specie i giudici di merito avessero errato a non ritenere l’ipotesi della cooperazione colposa ma quella del concorso di cause indipendenti; ma che comunque andava ribadita l’affermazione di responsabilità perché la cooperazione colposa comprende anche il concorso colposo nel delitto doloso, precisando, tuttavia, che “pur potendosi parlare di cooperazione colposa per quanto riguarda le condotte degli agenti ritenuti (o che potranno essere ritenuti) in colpa, tutte queste condotte sono certamente indipendenti rispetto a quella di C.” (agente doloso).
La Corte rammentò le critiche indirizzate alla tesi favorevole alla configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso, osservando, in senso a propria volta critico, che dall’esame congiunto dell’art. 42 e dell’art. 113 cod. pen. emerge che la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perché, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore – potrebbe dirsi “in aggiunta” – rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l’aver previsto e voluto l’evento (sia pure, nel caso del dolo eventuale, con la sola accettazione del relativo verificarsi). Insomma il dolo è qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione è stata riassunta nella formula espressa da un illustre studioso della colpa che l’ha così sintetizzata: “non c’è dolo senza colpa“.
Ad avviso della Corte, tali rapporti correnti tra il dolo e la colpa non rendevano necessario prevedere espressamente l’applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso “perché se è prevista la compartecipazione nell’ipotesi più restrittiva non può essere esclusa nell’ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili“.
Quanto all’obiezione fondata sul vincolo derivante dalla previsione dell’art. 42, co. 2 cod. pen., ad avviso della Corte “non si tratterebbe di una previsione implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto che la disciplina riguardasse anche il tema più generale“. Come già nel precedente del 2002, rammenta ancora il Collegio, la Corte ritenne di poter superare l’ostacolo della previsione dell’art. 42, co. 2 cod. pen. rilevando che la disciplina da esso recata riguarda esclusivamente la previsione delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa, ma non la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre dagli artt. 110 e 113 del medesimo codice.
Prendendo in considerazione il concorso di cause colpose indipendenti, la Corte osservò che stante l’indipendenza delle azioni diviene irrilevante che uno o più dei contributi causali possa avere carattere doloso perché la disciplina sulla causalità contenuta nell’art. 41 riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi.
Ma, concluse la Corte, se per il riconoscimento della partecipazione colposa indipendente al reato doloso non esistono particolari ostacoli, non sarebbe irragionevole, nel caso di cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso, solo perché l’agente è consapevole della condotta colposa di altri che con lui cooperano? La risposta fu ovviamente positiva e per maggior peso si aggiunse: “il dippiù costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non attenua, il disvalore sociale della condotta: quale spiegazione razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di questa condotta e non quando questa consapevolezza esista“?
La Corte – chiosa ancora il Collegio – ammonì nell’occasione circa il fatto che il riconoscimento dell’astratta possibilità di concorso colposo nel reato doloso possa significare che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta; ciò perché, precisò, una volta accertata l’influenza causale della condotta colposa dell’agente, andrà invece verificata l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell’evento: a) se la regola cautelare inosservata era diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo, tenendo conto dello scopo della regola cautelare violata dall’agente in colpa; b) se è prevedibile l’atto doloso del terzo.
In sintesi, conclude sul punto la Corte, con la sentenza appena rammentata le argomentazioni poste a fondamento dell’indirizzo più rigoroso si sono arricchite del principio ‘non c’è dolo senza colpa’, dal quale si è tratto motivo per ribadire che essendo stato disciplinato il ‘più’ doveva ritenersi previsto anche ‘il meno’.
Negli anni a seguire l’insegnamento è stato ripetuto senza ulteriori approfondimenti.
Così:
– in Sez. 4, n. 34385 del 14/07/2011 – dep. 20/09/2011, Costantino e altri, Rv. 251511, in cui il Dirigente dell’ Ufficio del Pronto Intervento della Questura di Torino è stato chiamato a rispondere, a titolo di duplice omicidio colposo, degli eventi morte cagionati con dolo da un Ispettore Capo della Polizia di Stato in servizio presso la predetta Questura il quale, con l’arma di ordinanza che non gli era stata ritirata malgrado i precedenti plurimi segnali di comportamenti aggressivi e violenti, aveva cagionato volontariamente la morte della moglie e del cognato;
– in Sez. 4, n. 22042 del 27/04/2015 – dep. 26/05/2015, Donatelli e altri, Rv. 263499, in cui il medico attestava, contrariamente al vero, che il paziente non era affetto da turbe psicofisiche consentendogli di ottenere il porto dell’arma con cui uccideva una persona e poi si suicidava;
– in Sez. 4. n. 32567 del 06/07/2016, Corrado e al., ove si afferma che sono quantomeno ipotizzabili tutte le condizioni previste dalla giurisprudenza di legittimità per la configurabilità della fattispecie del concorso colposo nel delitto doloso.
Fatta questa lunga premessa storica, reputa tuttavia a questo punto la Corte che la tesi sin qui adottata meriti di essere riconsiderata, alla luce di taluni rilievi che ne rendono incerto il fondamento.
In primo luogo occorre considerare che in assenza di una esplicita previsione legale il rinvenimento di una disciplina ‘implicita’ deve risultare incontrovertibile allorquando – come nel caso che occupa – la tesi non opera una contrazione dell’area del penalmente rilevante, bensì una relativa espansione.
Il concorso colposo nel delitto doloso, infatti, nelle intenzioni dei relativi sostenitori avrebbe proprio la funzione di rendere tipiche condotte altrimenti atipiche. Non appare pletorico al Collegio rammentare il vincolo che viene all’interprete dal principio di legalità, per esso astretto al dovere di non operare ‘accessioni’ in malam partem; ferma restando la indiscutibile necessità di trarre dalla legge ogni possibile plausibile significato attraverso i noti criteri interpretativi.
Ciò implica, ad avviso della Corte, che più dell’argomento logico (se è disciplinato l’uno allora è disciplinato anche l’altro) vale il limite della previsione legale, perché è da dimostrare che il legislatore abbia inteso ricorrere ad una penalizzazione estesa piuttosto che contratta. Pertanto non sembra convincente un’impostazione che miri ad evidenziare che ‘nulla osta’ alla configurabilità del concorso colposo nel delitto doloso; piuttosto è necessario dimostrare che vi è una previsione legale che contempla tale istituto.
Orbene, osserva il Collegio che non appaiono convincenti gli argomenti posti a base della diversa ricostruzione esegetica che circoscrive l’applicabilità 42, comma 2, cod. pen. alle singole fattispecie incriminatrici previste dalla parte speciale del codice penale e non anche agli istituti o alle disposizioni di parte generale, cosicché il principio della necessaria previsione legislativa delle ipotesi di responsabilità colposa in ambito delittuoso non costituirebbe un limite all’applicabilità in via estensiva degli artt. 110 e 113 cod. pen. ai casi di concorso, a titolo di colpa, nel delitto doloso.
Ed invero, tale assunto viene ricavato da una lettura artificiosa del contenuto di tale disposizione (l’art.113 c.p.), incentrata sul rilievo che essa esplicherebbe la duplice funzione: a) di norma chiarificatrice del titolo di responsabilità in ipotesi di cooperazione colposa omogenea e b) di norma di copertura del titolo di responsabilità colposa nelle ipotesi di cooperazione nelle quali convergono anche contributi dolosi.
Ed ancora, l’argomento secondo cui la cooperazione colposa prevista nell’art.113 cod. pen. sarebbe, di per sé, ricomprensiva dell’ipotesi più ampia, ovvero quella del dolo, collide per il Collegio con il principio di legalità che implica il divieto di analogia in malam partem, posto che il dolo e la colpa sono coefficienti soggettivi di attribuzione della responsabilità che presentano una diversità strutturale tanto a livello ontologico quanto normativo.
Si osserva, inoltre, che, al di là dell’assenza di un reale substrato normativo che legittimi la configurazione di tale istituto, risulta problematico, già sul piano concettuale, ipotizzare una consapevole interazione, sul piano soggettivo, tra la condotta dell’agente che versa in colpa e il comportamento doloso del terzo.
Ed invero il termine «cooperazione», derivante dal latino cooperari, allude all’agire congiunto di più persone ed implica la consapevolezza della convergenza del proprio e dell’altrui comportamento alla realizzazione di una condotta unitaria e comune.
In particolare per il Collegio, a riguardo della tesi che considera il concorso colposo nel delitto doloso fornito di ‘copertura legale’ ,va in primo luogo dato atto alla stessa di aver collocato l’interpretazione nel quadro più coerente alla scelta operata dal legislatore del 1930, di superamento della previgente tipizzazione dei singoli contributi causali che danno luogo alla fattispecie plurisoggettiva. Per tal motivo, occorre essere avvertiti della necessità di non subire la suggestione della teoria dell’accessorietà, e quindi di intravedere sullo sfondo, nella dimensione effettuale sottostante la norma, una condotta principale e una condotta accessoria.
Ciò detto, pare al Collegio quanto meno incerto che l’art. 113 cod. pen. sia incentrato sull’evento cagionato dalla cooperazione di più persone, e pertanto che quando esso menziona la cooperazione di più persone rinvia sia alla partecipazione dolosa che a quella colposa, secondo l’insegnamento della dottrina alla quale si ispira la tesi ora criticata. Infatti, la disposizione si apre con la locuzione ‘nel delitto colposo’ e ciò sembrerebbe dimostrare che essa si propone di disciplinare la partecipazione nel delitto colposo.
La diversa interpretazione sembra marginalizzare in eccesso tale dato testuale, leggendo la disposizione come se menzionasse un onnicomprensivo fatto plurisoggettivo, in ordine al quale si preoccuperebbe di esplicare la sorte del contributo colposo. Ma questa lettura per la Corte non convince, stante il tenore dell’enunciato, che significativamente si apre con la locuzione ‘nel delitto colposo’.
Ora, messa da parte la teoria dell’accessorietà, si deve ammettere per la Corte che in via di principio tale partecipazione potrebbe essere tanto colposa che dolosa. Tuttavia, poiché la previsione dispone che ciascuno dei partecipi ‘soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso’, non essendo revocabile in dubbio che ‘stesso’ sta ad indicare proprio il delitto colposo, si dovrebbe ammettere che grazie all’art.113 cod. pen. il partecipe doloso sia assoggettato alle pene previste per il delitto colposo: una conclusione evidentemente assurda.
Sotto diverso aspetto, alla Corte sembra che la tesi che si rifà ai rapporti tra dolo e colpa presti il fianco ad alcune perplessità. Quando nella sentenza Calabrò si sostiene che la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perché, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore – potrebbe dirsi “in aggiunta” – rispetto a quelli previsti peri! fatto colposo, e quindi – sembra di capire – che ‘non c’è concorso doloso senza che ci sia concorso colposo’, si opera un salto logico.
Essa fa dire ad uno dei più eminenti studiosi italiani della colpa più di quanto non abbia detto, sì da rinvenire un criterio ricostruttivo di generale valenza dove, invece, era espressa una puntuale notazione, secondo la quale esiste una base comune a dolo e a colpa, costituita dalla violazione di un dovere oggettivo di diligenza. Pertanto, sintetizzò l’autorevole dottrina, “si configura la realizzazione dolosa di un fatto, sempreché – in assenza di dolo – siano presenti, rispetto allo stesso fatto, gli estremi della colpa“.
La tesi non ha prodotto particolari svolgimenti nella successiva riflessione dottrinaria e men che meno nella giurisprudenza.
Ma, a prescindere dalla relativa fondatezza, è indubbio che ricavare dalla puntualizzazione fatta da quella dottrina – circoscritta ad uno specifico componente della fattispecie tipica e precipuamente funzionale alla dimostrazione della ‘autosufficienza‘ della teorica della colpa elaborata dalla dottrina italiana – che l’ordinamento ha implicitamente disciplinato anche il concorso colposo nel delitto doloso è per il Collegio senz’altro operazione nient’affatto scontata e meritevole di più persuasiva argomentazione.
Sostenere che nel delitto doloso è comunque riscontrabile la violazione di un dovere oggettivo di diligenza non significa ancora che il legislatore ha voluto riconoscere attraverso l’art. 113 il concorso colposo nel delitto doloso. Peraltro, si può rammentare che la dottrina italiana e d’oltralpe insegna da tempo – almeno da quando ha preso piede la concezione normativa della colpevolezza – che il fatto doloso ed il fatto colposo danno luogo a fattispecie strutturalmente diverse.
Appare davvero marginale quel che dei due tipi permetterebbe di dire che essi sono in rapporto scalare, come scrisse l’eminente studioso; ben più robusto è il profilo che li pone in rapporto di eterogeneità (come insegna la moderna analisi del reato).
Vi è poi, chiosa ancora il Collegio, un ulteriore rilievo: nella stessa sentenza Calabrò la Corte precisò che “pur potendosi parlare di cooperazione colposa per quanto riguarda le condotte degli agenti ritenuti (o che potranno essere ritenuti) in colpa tutte queste condotte sono certamente indipendenti rispetto a quella di C.” (agente doloso).
Anche per la Corte non è quindi l’istituto della cooperazione colposa a connettere il fatto colposo a quello doloso. Ma non avrebbe alcun rilievo pratico parlare di cooperazione colposa senza coinvolgere in essa anche il partecipe doloso. Se fosse sufficiente la connessione eziologica, il referente normativo sarebbe l’art. 41 cod. pen. D’altro canto, le condotte atipiche connotate da colpa possono dar luogo alla fattispecie plurisoggettiva solo se vi è consapevolezza dell’agire cooperativo.
Le più recenti acquisizioni giurisprudenziali in materia di cooperazione colposa – del tutto sintoniche alla più acuta riflessione dottrinaria – ne definiscono per la Corte anche il campo di operatività, che è quello dell’attività rischiosa ma consentita.
Come statuito dalle Sezioni Unite, la necessità di arginare l’eccesso espansivo dell’istituto derivante dalla sufficienza della mera consapevolezza dell’intreccio cooperativo, vanno individuate “con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza” (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261107, in motivazione).
Già in precedenza si era rimarcato che la cooperazione è ipotizzabile anche in tutti quelle ipotesi nelle quali un soggetto interviene essendo a conoscenza che la trattazione del caso o la sistemazione di un’opera non è a lui soltanto riservata perché anche altri operanti ne sono investiti (Sez. 4, n. 26020 del 29/04/2009, Cipiccia e altri, Rv. 243932). In altra occasione si è osservato che “il comune .coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che … sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche“.
Di qui – prosegue la Corte – l’obbligo per ciascun agente di agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui; il legame e l’integrazione tra le condotte opera non solo sul piano dell’azione, ma anche sul regime cautelare, e richiede a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto (la cd. “pretesa d’interazione prudente” (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 1786 del 02/12/2008, Tomaccio e altri, Rv. 242566; Sez. 4, n. 1428 del 02/11/2011, Gallina, Rv. 252940).
L’integrazione tra le più condotte imposta dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o che sia almeno “contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza“, appare al Collegio un presupposto estraneo al ‘concorso colposo nel delitto doloso’, nel quale non vi è alcuna opera comune che tenga insieme i vari contributi, perché tutti funzionalmente e consapevolmente convergenti verso il medesimo risultato. Giammai può dirsi che l’operato del medico in colpa e quello dell’omicida deliberato convergano consapevolmente verso il conseguimento di un comune traguardo.
Si è obiettato che per il cooperante colposo sarebbe sufficiente la prevedibilità dell’agire altrui. Ma non sembra al Collegio una replica convincente. Infatti, la prevedibilità della quale si discorre attiene alla colpa in cui deve versare il cooperante e non alla premessa strutturale della cooperazione colposa, così come definita dalle Sezioni Unite per delimitarne l’ambito di applicazione.
Se così è, assume maggior valore anche il rilievo critico per il quale, una volta identificato l’elemento psicologico della cooperazione colposa con la rappresentazione dell’altrui comportamento, l’istituto del concorso colposo nel delitto doloso rischierebbe di caratterizzarsi per la compresenza di due requisiti logicamente incompatibili, ossia la colpa derivante dalla violazione di una regola cautelare costruita sulla prevedibilità di un fatto doloso di terzi e la contestuale rappresentazione della condotta del terzo con la erronea convinzione, al contempo, che quest’ultimo non versi in dolo.
Dovrebbe essere accertata, sul piano oggettivo, la realizzazione, ad opera di un terzo, di un delitto doloso che costituisca la concretizzazione del rischio che la regola cautelare violata dall’agente mediato mira a prevenire e, contestualmente, sul piano soggettivo, la consapevolezza, da parte dell’agente che versa in colpa, di cooperare con il terzo, autore della condotta dolosa. Tale evenienza appare insuscettibile di ricevere concreta traduzione in termini realistico – fattuali in quanto la rappresentazione, da parte dell’agente mediato, dell’altrui contegno doloso comporterebbe, inevitabilmente, la configurabilità di un concorso doloso nel delitto doloso.
Non è casuale, conclude sul punto la Corte, che la maggior parte delle ipotesi possano essere più propriamente ricondotte al concorso di cause indipendenti, difettando in essi il legame psichico dei coagenti che costituisce, invece, il requisito soggettivo necessario per l’esistenza della fattispecie concorsuale.
Ne deriva, conseguentemente, la configurazione, ove ne ricorrano i presupposti, di due fattispecie monosoggettive, l’una colposa e l’altra dolosa, dato l’intersecarsi di condotte causali indipendenti disciplinate ai sensi dell’art. 41 cod. pen.
Anche nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio il S. è chiamato a rispondere, a titolo di colpa, in relazione a un evento doloso che è stato posto a suo carico per l’intervento del successivo agire umano volontario da parte dello Z.. Ne consegue che la verifica circa la legittimità o meno del giudizio di condanna pronunciato nei confronti del S. implica per la Corte, anche alla stregua degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sin qui richiamati, una verifica della sussistenza dei requisiti del reato monosoggettivo colposo e di quello doloso, secondo lo schema del concorso di cause indipendenti.
Alla stregua di tali considerazioni si rileva che i fatti posti a carico del ricorrente sono inquadrabili giuridicamente negli artt. 41 e 589 cod. pen., così come correttamente addebitato nel capo di imputazione, e che i rilievi sollevati dalla difesa del S. in ordine alla contestata funzione estensiva della punibilità attribuita all’applicazione dei criteri di compartecipazione criminosa di cui all’art.113 cod. pen. sono fondati.
Tuttavia la diversa qualificazione giuridica del fatto – rammenta la Corte – non importa di per sé l’annullabilità della decisione, considerato che l’art. 619 cod. proc. pen. statuisce che “Gli errori di diritto nella motivazione e le erronee indicazioni di testi di legge non producono l’annullamento della sentenza impugnata, se non hanno avuto influenza decisiva sul dispositivo. La corte tuttavia specifica nella sentenza le censure e le rettificazioni occorrenti“.
Quanto alla richiesta avanzata dal ricorrente di rimessione della questione alle SSUU della Suprema Corte ai sensi dell’art. 610, co. 2 cod. proc. pen., diversamente da quanto rilevabile in sede di esame preliminare del ricorso nella fase pre-processuale – ove il Primo Presidente ha il potere di apprezzare il carattere di «speciale importanza» delle questioni sottese ad un ricorso – una volta che di questo sia stato investito un collegio della Suprema Corte, una simile valutazione per il Collegio non è più esercitabile, mentre la verifica dei presupposti per una simile assegnazione rimane circoscritta entro i limiti dettati dall’art. 618 cod. proc. pen., ovvero in una presa di posizione del collegio che esprima un dissenso in atto o potenziale nella soluzione accordata ad una determinata questione di diritto.
Peraltro, rammenta ancora il Collegio, in tal caso la rimessione è (comunque) facoltativa; il comma 1 dell’art. 618 cod. proc. pen. prevede che la sezione della corte “può con ordinanza rimettere il ricorso alle sezioni unite“. Solo l’ipotesi di cui al successivo comma (1-bis) contempla una ipotesi di rimessione obbligatoria, giustificata dalla messa in discussione di un principio posto dalle Sezioni Unite. L’art. 618, co. 1 non esplicita i criteri in ragione dei quali va esercitata la discrezionalità conferita al giudice di legittimità.
Pare allora alla Corte che la decisione – nel caso di specie – possa essere guidata dalla esistenza di un contrasto sufficientemente consolidato, sì che risulti superata la soglia della ordinario svolgimento di una riflessione giurisprudenziale in progressivo affinamento per essere sedimentate posizioni delle quali non è prevedibile l’ulteriore evoluzione.
Alla stregua di tale criterio, appare tuttavia evidente al Collegio che la propria, presente decisione non vale a costituire, di per sé sola e anche alla luce delle argomentazioni in parte originali, orientamento consolidato al punto da suggerire la necessità di un intervento risolutore delle Sezioni Unite.
Ciò chiarito, per la Corte, sul piano della causalità materiale, non può dubitarsi della circostanza che, così come correttamente argomentato dalla Corte distrettuale, l’arma utilizzata dallo Z. per compiere le azioni omicidiarie (ovvero la pistola semiautomatica, marca Beretta mod. Stoeger calibro 9 x 21), è stata acquistata dal predetto presso l’armeria M. proprio a seguito della esibizione della licenza di rinnovo del porto d’armi per uso sportivo n. 917267 rilasciata dalla Questura di Perugia il 29 settembre 2012, ottenuta all’esito del procedimento amministrativo avente ad oggetto la verifica della idoneità psico-fisica e morale del richiedente.
E’ sufficiente rammentare – prosegue il Collegio – che, in base all’art. 35, comma 4, r.d. 18 giugno 1931 n. 773 è fatto divieto all’armaiolo di «vendere o in qualsiasi altro modo cedere a privati che non siano muniti di permesso di porto d’armi ovvero di nulla osta all’acquisto rilasciato dal questore». Non risulta, del resto, nemmeno ipotizzato che l’acquisto dell’arma da sparo da parte dello Z. sia stato il frutto di un comportamento illecito di terzi autonomo e sganciato dal possesso da parte del predetto dell’autorizzazione al porto d’armi.
Si osserva inoltre che i giudici di secondo grado hanno correttamente evidenziato che la disciplina normativa in tema di pubblica sicurezza avente ad oggetto il rilascio di qualsiasi abilitazione all’acquisto, detenzione e porto di armi è finalizzata ad evitare che, data la loro oggettiva forza letale, ne ottengano la disponibilità soggetti che possano utilizzarle in violazione delle prescrizioni agli stessi impartite. In tale contesto assume fondamentale rilievo il vaglio valutativo delle istanze dei privati da parte dei preposti alla trattazione del relativo procedimento amministrativo che va condotto nella prospettiva, tutt’altro che astratta, dell’uso improprio dell’arma in danno dei consociati.
Dunque, da un lato, il medico di base e il competente ufficiale sanitario sono tenuti a verificare la sussistenza dei requisiti psico – fisici prescritti e, dall’altro, il personale della Questura deve accertare eventuali ragioni ostative in termini di rischio di commissione di reati mediante l’uso di violenza, ovvero l’esistenza di precedenti penali, di carichi pendenti o la emanazione di pregressi provvedimenti aventi ad oggetto i divieti di detenere armi.
Tali soggetti rivestono dunque, chiosa ancora la Corte, una posizione di garanzia c.d. di controllo che impone loro di neutralizzare i pericoli che il richiedente può cagionare ai consociati, e che trova il fondamento nell’art. 2050 cod. civ. In particolare, per quanto di più specifico interesse, la idoneità psico – fisica ai sensi del decreto del Ministero della Sanità del 28 aprile 1988 (applicabile ratione temporis), va dichiarata, con una apposita certificazione redatta da ben delineate figure professionali, segnatamente medici dipendenti delle strutture medico – legali delle aziende sanitarie locali o dalle strutture militari e della polizia di Stato, previa acquisizione da parte dei suddetti soggetti competenti di un certificato c.d. anamnestico rilasciato dal medico curante che, ai sensi degli artt. 3 e 4 del citato decreto, deve attestare l’assenza di alterazioni neurologiche che possano interferire con lo stato di vigilanza o che abbiano ripercussioni invalidanti di carattere motorio statico e/o dinamico nonché l’assenza di disturbi mentali, di personalità o comportamentali.
In particolare non deve riscontrarsi dipendenza da sostanze stupefacenti, psicotrope o da alcool. Costituisce altresì causa di non idoneità l’assunzione anche occasionale di stupefacenti e l’abuso di alcool e/o stupefacenti.
Così delineato il contenuto e il fondamento delle regole cautelari in subiecta materia, il cui spettro preventivo deve chiaramente considerarsi diretto ad impedire il comportamento doloso del terzo, si osserva ancora da parte della Corte che gli eventi omicidiari che si sono verificati nel caso di specie sono strettamente collegati all’attività autorizzata e ne rappresentano proprio la concretizzazione del rischio.
Si osserva che, come ben evidenziato nella sentenza impugnata, non può dubitarsi della rilevanza dell’omissione della segnalazione, nel certificato anamnestico rilasciato dal S., quale medico curante, nella successiva catena degli eventi, avuto riguardo alla funzione che, nella previsione normativa, riveste tale passaggio iniziale dell’iter amministrativo che è quello di fornire una prima base informativa, appunto anamnestica, per le successive determinazioni dei medici e degli altri funzionari chiamati a valutare ed attestare l’idoneità del richiedente in quanto era idoneo a creare una apparenza di normalità psichica non corrispondente alla realtà; e ciò a fronte della possibilità, di certo non remota, che tale attestazione venisse pedissequamente recepita dal medico certificatore, così come del resto è puntualmente avvenuto.
E’ indubbio per la Corte che il documento redatto dal S. ha causalmente condizionato il certificato di idoneità del medico certificatore e, poi, anche il rilascio da parte del Questore dell’autorizzazione richiesta introducendo, così, un fattore eziologico che ha contribuito a cagionare gli eventi hinc et nunc cagionati con dolo dallo Z.. Né può ravvisarsi nella condotta dolosa posta in essere dallo Z. il carattere dell’abnormità ed atipicità tale da potersi ascrivere a causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento ex art. 41 comma 2, cod. pen.
E’ bene rammentare in proposito – rammenta la Sezione – che, secondo l’interpretazione in prevalenza accreditata e comunque preferibile di tale disposizione (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 – dep. 2017 -, Rv. 269603; Sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, rv. 266786), l’interruzione del nesso di causalità ricorre solo laddove si tratti di sopravvenienza del tutto esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia e del tutto eccentrica rispetto alla serie causale di eventi ordinariamente rientranti in tale area.
Tale atipicità non è predicabile nel caso di specie, ove la valutazione dei problemi psichiatrici è imposta proprio al fine di escludere dal possesso di armi da sparo soggetti in condizioni psichiche tali da non dare sicuro affidamento sul pieno equilibrio e autocontrollo, data la estrema pericolosità che da esse può derivare.
Non può essere nemmeno utilmente invocato il cd. principio di affidamento, in base al quale ciascuno è tenuto ad adottare tutte le precauzioni idonee ad evitare che dalla propria condotta possa derivare la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici appartenenti a terzi confidando che gli altri consociati si astengano da comportamenti illeciti.
Ed invero l’operatività di tale principio è suscettibile di eccezioni, anche con riferimento alla condotta di soggetti autoresponsabili, laddove è previsto che un consociato sia tenuto a tenere conto dell’agire altrui in virtù del peculiare ruolo dal medesimo ricoperto.
Su altro profilo, nel richiamare quanto sin qui esposto, la Corte ribadisce ulteriormente che la condotta del S. ha creato le imprescindibili premesse su cui si è, poi, innestato il comportamento del personale della Questura di Perugia che, dal canto suo, ha negligentemente trascurato l’esistenza del decreto del Prefetto del 02 dicembre 2009 che inibiva allo Z. di detenere armi e munizioni. La Corte distrettuale, con congrue e logiche argomentazioni, ha osservato che il mancato rilievo, da parte del personale della Questura di Perugia, dell’esistenza di tale pregresso provvedimento non è certamente una causa sopravvenuta autonoma ed indipendente bensì una concausa che, unitamente alla mancata certificazione dei disturbi mentali imposta dal decreto del Ministero della Sanità, ha contribuito alla emanazione del provvedimento autorizzatorio che ha consentito allo Z. di acquistare l’arma con la quale ha commesso i fatti omicidiari.
Siamo dunque, prosegue il Collegio, di fronte all’intersecarsi di apporti causali indipendenti diretti alla produzione del medesimo evento, ai sensi dell’art. 41 cod. pen. Del tutto inconferente è l’invocato vizio motivazionale per travisamento della prova che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 – dep. 2017 – Rv. 269217), ricorre solo qualora il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale oppure nel caso in cui sia stata omessa la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; circostanze queste non ricorrenti nel caso in esame.
Ancora, per la Corte perché l’agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma è necessario gli fosse prevedibile che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza l’evento verificatosi. Come insegna la giurisprudenza della medesima Corte, il principio di colpevolezza impone la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso (ex multis, Sez. 4, n. 32216 del 20/06/2018 – dep. 13/07/2018, Capobianco e altro, Rv. 273568).
A tal riguardo la Corte assume di non condividere il principio secondo il quale – ai fini del giudizio di prevedibilità richiesto per la configurazione della colpa – deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione “ex ante” dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la relativa gravità ed estensione (tra le altre Sez. 4, n. 35309 del 25/06/2013 – dep. 21/08/2013, Baracchi, Rv. 255956), risultando imposto dal principio di colpevolezza quanto meno la prevedibilità della tipologia di lesione che concreta il reato di cui trattasi.
E’ quanto statuito dalle S.U. con insegnamento che deve per la Corte essere ribadito: la necessaria prevedibilità dell’evento – anche sotto il profilo causale – non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le relative più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 – dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261106).
Nel caso di omicidio colposo, quindi, non è sufficiente una generica prevedibilità di lesione della integrità fisica ma occorre la prevedibilità della lesione del bene vita. Merita di essere precisato altresì che la valutazione in ordine alla prevedibilità dell’evento va compiuta avendo riguardo anche alla concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle proprie, specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento (Sez. 4, n. 49707 del 04/11/2014 – dep. 28/11/2014, Incorvaia e altro, Rv. 263283).
Orbene, prosegue la Corte, nel caso in esame i giudici di secondo grado hanno affermato che le informazioni sullo stato di salute, conosciute o comunque conoscibili dal S. al momento della redazione del certificato anamnestico, erano tali da far sorgere seri e fondati dubbi sulla malattia mentale da cui era affetto lo Z. e sull’assunzione, da parte sua, di sostanze di natura psicotropa; dati questi, che avrebbero dovuto essere necessariamente inibirne il rilascio o, quantomeno, attivare gli opportuni approfondimenti.
La Corte distrettuale è pervenuta a tale convincimento rappresentando che dall’esame dell’archivio informatico dei pazienti risultava che il 26 aprile 2012 (primo giorno in cui lo Z. era ufficialmente transitato sotto l’assistenza sanitaria del S., a seguito di revoca del precedente medico di fiducia, dott. X) il suo sostituto, dott. B., aveva prescritto il medicinale Seroquel, unitamente ad esami ematologici legati anche al valore del litio, mentre il 4 maggio 2012 il S. aveva personalmente consegnato allo Z. la c.d. ricetta per l’acquisto del farmaco Depakin Chrono 30 cpr, 300 mg. Ha osservato, al riguardo, che il litio è sostanza notoriamente utilizzata quale stabilizzatore dell’umore nei casi di disturbi psichiatrici e che la prescrizione del farmaco Seroquel è subordinata alla presentazione di un piano terapeutico dei servizi specialistici.
Quanto al medicinale Depakin, la corte territoriale ha riportato le indicazioni terapeutiche previste nel documento informativo acquisito in sede di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen. Tale analisi attiene, tuttavia, alla violazione della regola di diligenza, la quale prescrive di non emettere la certificazione in favore di chi sia riconoscibile quale soggetto portatore di patologie psichiche. Ma trattandosi di condotta che si vuole causalmente connessa all’evento omicidiario, occorre anche che quest’ultimo fosse quanto meno prevedibile.
La motivazione resa dalla Corte di Appello sul punto è, per la Corte, del tutto carente. Si sostiene che al S. erano prevedibili gli eventi in parola “perché il procedimento autorizzativo nel quale la sua opera intervenne è finalizzato ad evitare che persone pericolose entrino in possesso di armi utili a recare offesa all’incolumità delle persone …”.
Ma tanto vale a giustificare il giudizio di prevedibilità dell’uso del certificato per armarsi, non anche per uccidere o uccidersi. La conoscenza della specifica patologia psichica dello Z., la conoscenza della personalità dello stesso, di circostanze in grado di dare indicazioni sull’orientamento della relativa volontà rispetto alla frustrazione, all’inimicizia, il rispetto per l’altrui persona: questi (oltre a quelli concernenti la persona stessa dell’imputato) sono solo alcuni dei fattori che la Corte di Appello avrebbe potuto e dovuto prendere in considerazione per poter argomentare in ordine alla prevedibilità per il S. dell’uso delle armi da parte dello Z. a fini omicidiari.
Su tale specifico aspetto risulta inoltre evidente – chiosa ancora il Collegio – la violazione dei principi di matrice convenzionale e di diritto vivente che impongono nel caso, come quello in esame, di sentenza di condanna emessa, in riforma del giudizio assolutorio di primo grado, a seguito di accoglimento dei ricorsi della Pubblica Accusa, l’obbligo, per il giudice, di una motivazione rafforzata che deve necessariamente aggiungersi a quello generale evincibile dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che, in tale ipotesi, il giudice dell’appello è tenuto a delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e a confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (cfr. Sez. Un. n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231679) e di mettere in luce le carenze e le aporie di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del provvedimento impugnato (cfr. Sez. 2 n..50643 del 18/11/2014, Rv. 261327), dando alla decisione una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia compiutamente ragione delle difformi conclusioni (Sez. 6 n. 1253 del 28/11/2013 – dep. 2014 -, Rv. 258005; n. 46742 dell’08/10/2013, Rv. 257332; Sez. 4 n. 35922 dell’11/07/2012, Rv. 254617).
Dunque, per la Corte ai fini della riforma della sentenza assolutoria, in assenza di elementi sopravvenuti, non basta una diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in primo grado, che sia caratterizzata da pari plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, in quanto occorre una maggior forza persuasiva, potendo la pronuncia di colpevolezza fondarsi su puntuali rilievi di contraddittorietà della motivazione assolutoria, ai quali il giudice pervenga sulla scorta del medesimo materiale probatorio, ma ampliando la piattaforma valutativa esaminata in prime cure (cfr. Sez. 1 n. 12273 del 05/12/2013 – dep. 2014 -, Rv. 262261; Sez. 6 n. 45203 del 22/10/2013, Rv. 256869; Sez. 6 n. 46847 del 10/07/2012, Rv. 253718).
Nel caso che occupa, il primo giudice aveva posto in evidenza l’abitudine dello Z. ad assumere comportamenti ingannatori; inganni compiuti anche nella interlocuzione con il S., da poco tempo suo medico curante, al quale aveva dichiarato di aver fornito indicazioni veritiere, nella consapevolezza delle sanzioni previste per l’infedele dichiarazione. Il tema non è stato oggetto di considerazione da parte della Corte di Appello, che si è limitata ad osservare che al S. sarebbe bastato esaminare la scheda-paziente relativa allo Z. per conoscere della patologia di questi “e rendere vano qualunque tentativo di inganno“. Su quali premesse probatorie sia pervenuta a tal ultima conclusione non è chiarito dalla corte territoriale.
Infine, fondata è per la Sezione anche la censura con la quale si lamenta che la Corte di Appello non abbia preso in esame la consulenza tecnica del prof. B. e che pertanto sia pervenuta ad affermare la riconoscibilità della patologia psichica dello Z. sulla scorta di evidenze smentite in tale consulenza. Il tema involge anche la violazione del canone legale di valutazione della prova imposto dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, Rv. 270108).
La regola di giudizio compendiata nella formula dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» impone, infatti, al giudicante l’adozione di un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria, volto a superare l’eventuale sussistenza di dubbi intrinseci a quest’ultima, derivanti, ad esempio, da auto – contraddittorietà o da incapacità esplicativa, o estrinseci, in quanto connessi, come nel caso in disamina, all’esistenza di ipotesi alternative dotate di apprezzabile verosimiglianza e razionalità (Sez. 1, 24/10/2011, n. 4111, Rv. 251507).
Può infatti addivenirsi a declaratoria di responsabilità, in conformità a tale regola di giudizio, solo qualora la ricostruzione fattuale a fondamento della pronuncia giudiziale espunga dallo spettro valutativo soltanto eventualità remote, astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle risultanze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e dell’ordinaria razionalità umana (Sez. 2, n. 2548 del 19/12/2014, Rv. 262280; Sez. 1 n. 17921 del 03/03/2010, Rv. 247449; Sez. 1 n. 23813 dell’08/05/2009, Rv. 243801; Sez. 1, n. 31456 del 21/05/2008, Rv. 240763).
Alla stregua di tali principi, prosegue il Collegio, qualora la prospettazione difensiva sia estrinsecamente corroborata dall’oggettività di acquisizione probatorie, il giudice deve farsi carico di confutarla specificamente dimostrandone, in modo rigoroso, l’inattendibilità attraverso un adeguato apparato argomentativo. Obbligo che, nel caso sub iudice, non risulta adempiuto dalla Corte d’appello, onde la sentenza impugnata va per la Corte annullata sul punto, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello (nel caso di specie, quella di Firenze).
Quanto al ricorso proposto dalle parti civili, si osserva preliminarmente dal Collegio che le ridette parti civili non hanno proposto impugnazione avverso la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di Perugia assolveva il S. dal reato di omicidio colposo contestato in relazione all’evento morte per suicidio di Z..
Ritiene il Collegio di dare in proposito continuità all’indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo il quale la parte civile che non ha proposto impugnazione avverso la sentenza di primo grado sfavorevole può comunque impugnare quella di appello (Sez. Un. n. 30327 del 10/07/1992, Rv. 222001; Sez. 5, n. 20343 del 29/01/2015, Rv. Sez. 5, n. 12190 del 13/01/2015, Rv. 263457). Tale orientamento si fonda sul c.d. principio di immanenza della parte civile nel processo penale stabilito dagli artt. 76, comma 2, e 601, comma 4, cod. proc. pen. Inoltre, l’art. 597, comma 2, lett. a e b, del codice di rito prevede che se l’appello è proposto dal PM contro una sentenza di proscioglimento, il giudice di appello può pronunciare condanna e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge.
Depone in tal senso anche l’art. 651 cod. proc. pen. che consente alla parte civile, anche in caso di mancata impugnazione della sentenza di assoluzione dell’imputato, di far valere in sede civile la condanna dell’imputato intervenuta in secondo grado.
Tanto premesso, la Corte rileva che nella prospettazione accusatoria viene contestato al S. di avere contribuito causalmente, con la propria condotta colposa, all’evento morte per suicidio dello Zampi, ai sensi dell’art. 589 cod. pen.
I motivi di ricorso sono per la Corte manifestamente infondati risultando assorbente il rilievo che, come già sopra esposto, in capo al S. non era configurabile l’obbligo giuridico di impedire l’evento – morte di A. Z. per suicidio – in quanto l’istante è equiparato ad una fonte di pericolo rispetto alla quale il garante ha il dovere di neutralizzarne gli effetti lesivi verso i terzi.
E’ bene evidenziare che, proprio alla stregua delle predette considerazioni, il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Perugia non ha proposto ricorso per cassazione avverso questo capo assolutorio della pronuncia. La responsabilità, a titolo di colpa, per l’evento morte per suicidio di un terzo può essere, invece, configurata a carico di chi riveste una posizione di garanzia c.d. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l’integrità.
Ciò si verifica per il Collegio nella diversa situazione in cui versano il medico psichiatra e gli operatori sanitari di tale settore specialistico i quali hanno in cura il paziente con malattia mentale e che, in ragione della peculiare complessità della situazione rischiosa che sono tenuti a governare, hanno il dovere di tutelare il soggetto debole, non solo rispetto agli atti etero-lesivi, ma anche a quelli pregiudizievoli per sé stesso (Sez. 4, n. 43476 del 18/05/2017, Rv. 270884; Sez. 4, n. 33609 del 14/06/2016, Rv. 267446; Sez. 4, n. 14766 del 03/02/2016, Rv. 266831; Sez. 4, n. 48292 del 27/11/2008, Rv. 242390).
2020
Il 23 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.29541 alla cui stregua i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (con violenza o minaccia, rispettivamente, alle persone o alle cose) hanno natura di reato proprio non esclusivo; in particolare poi, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie.
La Corte si occupa anche delle fattispecie “collettive”, stabilendo in particolare che il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità.
Le SSUU rammentano come la giurisprudenza della Corte abbia tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del relativo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 c.p. nella previsione dell’art. 393 – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 c.p. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651).
Questo orientamento per le SSUU va condiviso e ribadito.
Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati:
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo;
– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico.
Di conseguenza, prosegue la Corte, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio.
Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Non appare inopportuno poi alla Corte precisare che, di conseguenza, nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. “finalità mafiosa” (art. 416-bis.1 c.p.: essere “i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi (…) al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste” dall’art. 416-bis c.p.), la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 c.p., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto lato sensu) di profitto di terzi.
D’altro canto, la Corte ha già chiarito che non è configurabile il reato di ragion fattasi, bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista del conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori (Sez. 2, n. 1556 del 01/04/1992, Dionigi, Rv. 189943; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117).
Da rilevare come il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone sia dunque configurabile per la Corte nei soli casi in cui tale terzo si limiti ad offrire un contributo alla pretesa (violenta o minacciosa) del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità; si tratta di una fattispecie nella quale, laddove l’ausilio del terzo al creditore si realizzi sul presupposto di una assunta “giustizia” (nella c.d. sfera parallela laica, e dunque nella prospettiva dell’”uomo della strada”, non giurista) dell’esazione del proprio credito da parte di questi, la posizione psicologica del terzo medesimo non appare scevra da profili di colpa, che invece certamente non si ravvisano nel caso in cui il terzo agisca (anche) per un interesse proprio, facendo luogo ad estorsione.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare del concorso di persone nel reato con specifico riferimento all’atteggiamento psicologico dei correi?
- si verte in tema, per l’appunto, di reato “collettivo” e dunque di concorso di persone nel reato;
- la questione concerne, in particolare, l’elemento soggettivo che “colora” la condotta di ciascuno dei correi;
- il problema, ancora più in specie, è quello di verificare se sono configurabili fattispecie di concorso in cui l’atteggiamento psicologico di ciascuno dei correi sia non già omogeneo (solo dolo; solo colpa), quanto piuttosto disomogeneo (dolo e colpa);
- si può astrattamente configurare una fattispecie di partecipazione colposa nel delitto doloso altrui: classico esempio quello di chi – pur a conoscenza del proposito omicida, al momento tutt’affatto astratto, di un terzo – metta a disposizione di quest’ultimo un’arma che poi questi concretamente usi per uccidere la vittima (art.575 c.p.);
- si può, del pari astrattamente, anche configurare una fattispecie di partecipazione dolosa nel delitto colposo altrui: esempio (del pari classico) è quello di chi – già in grave errore colposo in ordine alla natura tossica di una data sostanza – la versi in acque destinate all’alimentazione (art.439 c.p.) dietro dolosa istigazione in tal senso da parte di un terzo;
- sulla concreta ammissibilità di un concorso di persone “soggettivamente eterogeneo” si registra un dibattito acceso, in dottrina come in giurisprudenza;
- secondo una prima tesi – salva espressa, diversa disposizione di legge – il titolo soggettivo di responsabilità dei concorrenti deve assumersi unico e, dunque, necessariamente “omogeneo”; ciò al cospetto della sostanziale unità del reato nel quale si concorre, siccome scolpita all’art.110 c.p. laddove esplicitamente parla di “medesimo reato”, da intendersi dunque tale anche sul crinale soggettivo; diversamente, andrebbe ammessa una concezione c.d. “pluralistica” del concorso di persone, che tuttavia proprio l’art.110 c.p. smentisce clamorosamente (come regola generale, e salvo specifiche eccezioni); questo non significa che di un omicidio non si possa rispondere chi a titolo di dolo, chi a titolo di colpa: significa piuttosto solo che non si applica in simili fattispecie il regime del concorso di persone di cui agli art.110 e seguenti c.p., onde ciascun soggetto agente risponderà di un proprio titolo di reato (doloso, colposo e così via) “indipendentemente” dal titolo di responsabilità applicabile agli altri che abbiano concorso a “cagionare” l’evento (fatto inadempimento reato), siccome riconducibile a contributi autonomi e indipendenti;
- nel prisma ermeneutico di una seconda tesi, è ammissibile un “medesimo reato”, e dunque un reato collettivo commesso in concorso, quand’anche i plurimi soggetti attivi siano connotati ciascuno da un atteggiamento psicologico diverso rispetto all’altro, e dunque da un profilo soggettivo “disomogeneo”; è solo necessario che “una” sia l’offesa tipica cui i concorrenti contribuiscono, sul crinale dunque del nesso causale; possono invece essere “plurimi”, o meglio “disomogenei”: h.1) il titolo del reato: un medesimo fatto “oggettivo” sul crinale sostanziale può recare seco diverse imputazioni “formali” (in termini di qualificazione giuridica) a seconda dell’atteggiamento psicologico del correo, come nel caso classico, portato in dottrina, di due soggetti attivi che distruggano una medesima bandiera, volendo l’uno consapevolmente danneggiarla (art.635 c.p.) e l’altro, del pari consapevolmente, vilipenderla (art.292 c.p.); altro esempio che viene addotto è quello del soggetto A che sa gravemente malata di cuore la vittima X, ed istiga il soggetto B a percuoterla, circostanza che potrebbe produrgli un arresto cardiaco e quindi la morte: se la fattispecie oggettiva si arresta oltre la soglia del tentativo, ma senza lambire la consumazione, per A si tratta di tentato omicidio e per B solo di tentate percosse; h.2) la punibilità del reato: ai sensi dell’art.112, comma 2, c.p., il concorso non è escluso nel caso in cui uno dei concorrenti sia “non punibile”, implicando ciò solo un aggravamento sanzionatorio per gli altri correi; h.3) l’elemento psicologico del reato: lo dimostra l’art.48 c.p. che, nel prevedere l’applicazione dell’art.47 c.p. anche nel caso in cui l’errore sul fatto che costituisce reato sia stato determinato dall’altrui inganno, palesa la possibilità che conviva il dolo del decipiens (ingannatore) e la – quantomeno potenziale – colpa del deceptus (ingannato), quest’ultimo incriminato appunto a titolo di colpa laddove il fatto inadempimento reato sia previsto anche come delitto colposo; lo dimostrano, ancora, gli articoli 111 e 112 c.p. in tema di circostanze aggravanti che – nel prevedere un’ipotesi di concorso di persone (almeno secondo un’impostazione: per un’altra si tratterebbe invece di “reità mediata”) con una punibilità a titolo di dolo e una “non punibilità”, a fortiori ammette (almeno teoricamente) la possibilità di un concorso in cui al titolo soggettivo “dolo” si affianca il titolo soggettivo “colpa”; lo dimostra altresì l’art.116 c.p. sul c.d. concorso anomalo, laddove dal punto di vista oggettivo il fatto inadempimento reato è “uno”, ma – sul crinale soggettivo – a chi viene punito a titolo di dolo si affianca chi, avendo voluto il reato diverso, subisce il trattamento sanzionatorio penale a (diverso) titolo di responsabilità oggettiva o – almeno a partire dalla sentenza della Corte costituzionale 42.65 – a titolo (appunto) di colpa; e lo dimostra, infine, l’art.117 che – nel disciplinare l’unificazione del titolo di reato tra concorrenti in ipotesi di mutamento di esso a cagione delle condizioni o qualità personali del colpevole o per i rapporti tra il colpevole e l’offeso – lascia implicitamente intendere che nei casi in cui il cambiamento della qualificazione giuridica sia dovuta a motivi diversi, pur operando la disciplina concorsuale, si applica la (opposta) disciplina “comune” della differenziazione (potenzialmente, anche soggettiva) del titolo di reato;
- per quanto concerne l’art.116 c.p. peraltro: i.1) se per alcuni esso reca seco la generale ammissibilità di un concorso, ad un tempo, doloso e colposo, nel “medesimo reato”; i.2) per altri è invece eccezione (come tale, non “estensibile”: art.14 delle Preleggi) alla regola generale che nega tale ammissibilità, onde configurare il ridetto “concorso soggettivamente eterogeneo” generalizzato finirebbe col porsi in netta frizione financo col principio di legalità (che l’art.116 ridetto derogherebbe eccezionalmente);
- l’ipotesi che ammette un concorso di persone nel reato con differenti titoli soggettivi di imputazione, leggendo l’art.110 c.p., parla – più che di “fattispecie plurisoggettiva eventuale”, che è “una” fattispecie nel cui contesto tutti vengono puniti per un medesimo titolo soggettivo – di plurime “fattispecie plurisoggettive differenziate”, onde l’applicazione del ridetto art.110 c.p. e degli articoli successivi, nel combinato disposto con ciascuna norma di parte speciale, può dare la stura a tante fattispecie penalmente rilevanti, ciascuna caratterizzata da un proprio titolo di imputazione soggettiva, da un proprio, conseguente trattamento sanzionatorio più o meno grave (a seconda anche delle circostanze aggravanti o attenuanti applicabili), financo da un proprio titolo di reato e, in casi particolari, anche dalla punibilità di taluni e dalla contestuale non punibilità di talaltri dei correi.
Cosa occorre rammentare del concorso doloso nel reato colposo?
- si prendono le mosse da un delitto strutturalmente colposo;
- si ammette da taluni la possibilità che vi si possa concorrere a titolo di dolo;
- in sostanza, si tratta di fattispecie – per vero, rare – nelle quali uno dei correi sfrutta dolosamente, strumentalizzandola, la colpa di un altro; in simili casi, si ritiene di dover punire il correo che ha agito a titolo di dolo senza mandarlo esente da pena, circostanza che finirebbe col far luogo ad una lacuna ordinamentale;
- quand’anche peraltro il correo in dolo sia già di per sé punibile sulla base di una specifica fattispecie di parte speciale (celebre l’esempio di A che, col proposito di uccidere, consegni a B del veleno all’uopo e questi, al corrente di tutto, lasci il veleno incustodito in un luogo accessibile ad un terzo C che, assuntolo, resta ucciso), predicarne il concorso doloso nel delitto colposo (piuttosto che l’autonoma punizione, sempre a titolo doloso) non è irrilevante: in sostanza, la funzione incriminatrice viene svolta dalla norma che punirebbe in ogni caso (anche) il correo in dolo (nell’esempio fatto, l’art.575 c.p.), ma la fattispecie nel relativo complesso viene assunta – per ragioni di equità sostanziale – disciplinata dalle norme sul concorso; si tratta di condotte che già sarebbero tipiche di per sé e punibili l’una a titolo di dolo e l’altra a titolo di colpa, e tuttavia poiché l’offesa tipica si è prodotta dal convergere del contributo causale di entrambe, peraltro assistito dall’atteggiamento psicologico “concorsuale” tipico dell’art.110 c.p. (entrambi volevano infatti uccidere col veleno, ed il soggetto A si è rappresentato la condotta di B, concorrente con la propria), con conseguente, potenziale applicabilità delle circostanze aggravanti ex art.112 c.p., ma anche di quelle attenuanti ex art.114 c.p. e massime, per “estensione”, delle eventuali circostanze oggettive di esclusione della pena ex art.119 c.p.;
- sul crinale sistematico, non manca chi – seppure minoritariamente – assume la fattispecie di chi concorra con dolo nel reato colposo altrui quale ipotesi peculiare di “reità mediata” ex art.48 c.p., onde chi opera in colpa si atteggia a “strumento non doloso” per la realizzazione del fatto che egli commette, per l’appunto, con colpa; anche se in questo peculiare caso chi è in dolo (autore mediato) non esercita il c.d. dominio finalistico sul fatto, generando un errore colposo dell’esecutore materiale del fatto stesso (autore immediato), tale opzione ermeneutica ammette comunque l’applicazione dell’art.48 ridetto, assumendo come centrale in tale fattispecie codicistica sia il processo causativo dell’evento, nel quale può appunto inserirsi la condotta dolosa del terzo che, anche se non ve lo pone (perché già lo è), mantiene deliberatamente l’esecutore del fatto in una condizione psicologica di errore utilizzandone il contegno imprudente, negligente o imperito, dal quale scaturisce poi il “comune” reato, a doppio (e disomogeneo) titolo di imputazione soggettiva; anche chi ammette in generale la figura dell’autore mediato (contrastata “a monte” da chi, muovendo dal superamento della c.d. “accessorietà estrema” nel concorso di persone, ne scardina lo stesso fondamento dogmatico), finisce tuttavia col far rilevare come applicare l’art.48 c.p. anche ai casi in cui l’errore colposo già si configuri in capo al “deceptus” (autore immediato) si risolva in una inammissibile estensione analogica della pertinente previsione, applicabile piuttosto al solo caso in cui tale errore sia piuttosto, ed “ab origine”, indotto dal decipiens (c.d. autore mediato);
- dal punto di vista pratico, la configurabilità di un concorso a titolo di dolo nel reato colposo altrui può anche sortire – con particolare riguardo alle fattispecie c.d. “a forma vincolata” – un effetto di incriminazione cui non si assisterebbe nel caso in cui tale figura si assumesse inammissibile, giusta “tipizzazione” a fini di sanzione penale di condotte che altrimenti rimarrebbero atipiche e, come tali, sostanzialmente non punibili; la dottrina utilizza, a scopo di illuminante esempio, l’art.439 c.p. in tema di avvelenamento di acque (o di sostanze alimentari), punibile anche a titolo di colpa ai sensi del successivo art.452 c.p., muovendo dalla situazione di B, già in errore inescusabile con riguardo alla natura tossica di una data sostanza, che viene indotto dolosamente da A ad immetterla in acque destinate all’alimentazione, così – per l’appunto – “avvelenandole”; in simili evenienze, se da un lato l’art.439 c.p. appare inapplicabile ad A, sanzionando solo chi materialmente “avvelena” le acque (e dunque B), con la conseguenza che la relativa condotta di dolosa induzione resta “atipica”, dall’altro neppure può invocarsi l’art.48 c.p., dal momento che B è già in una situazione di errore colposo, e non viene indotto in errore da A (che approfitta dell’errore preesistente in capo a B); sullo specifico crinale del concorso di persone, gli articoli 111 e 112 c.p. non escludono la punibilità di uno dei concorrenti se l’altro non è punibile perché non “colpevole” (e, dunque, per difetto dell’elemento soggettivo), ma qui in realtà B è punibile a titolo di colpa e ciò mette fuori gioco le due norme ridette; ancora, A sarebbe ben punibile – in veste di istigatore – qualora il fatto commesso da B non fosse punibile a titolo di colpa, come nel caso in cui A avesse istigato B a rubare qualcosa di proprietà di un terzo C (magari facendogli credere che era una cosa propria); il fatto dunque che l’avvelenamento operato da B sia punibile anche a titolo colposo consentirebbe, in modo paradossale, di punire soltanto lui (a titolo di colpa) e non anche A (a titolo di dolo), stante la condotta “atipica” perpetrata da quest’ultimo, unica via di uscita additata dalla dottrina potendo proprio essere la configurabilità del concorso doloso di A nel delitto colposo di B e, dunque, l’operatività dell’art.110 c.p., assumendo “medesimo reato” anche quello che è tale solo nella relativa componente oggettiva, palesandosi “disomogeneo” nella pertinente imputazione soggettiva.
Cosa occorre rammentare del concorso colposo nel reato doloso?
- si prendono le mosse da un delitto strutturalmente doloso;
- si ammette da taluni la possibilità – almeno teoricamente – che vi si possa concorrere a titolo di colpa;
- una tesi che viene in primo luogo contrastata dalla dottrina maggioritaria (e tradizionale): c.1) sul crinale oggettivo, facendo perno sulla causalità ed assumendo il contributo doloso di uno dei concorrenti quale “eccezionale” e, come tale, capace di interrompere per l’appunto l’eziogenesi con riguardo del contributo colposo; c.2) sul crinale soggettivo, utilizzando le medesime argomentazioni “generali” che impedirebbero l’imputazione soggettiva disomogenea di un medesimo fatto, e negando dunque l’ammissibilità tanto di un concorso doloso nel delitto colposo quanto, all’opposto ed appunto, l’ammissibilità di un concorso colposo nel delitto doloso;
- una tesi che viene contrastata, altresì, anche da chi in generale ammette la possibile disomogeneità del titolo di imputazione del reato tra i concorrenti, calandolo tuttavia nel solo, possibile schema del concorso doloso nel reato colposo altrui;
- gli argomenti addotti sono in genere declinati: e.1) in ottica “letterale”: è ammissibile una “cooperazione nel delitto colposo” ex art.113 c.p. (da assumersi quale norma di sbarramento), non anche una “cooperazione colposa nel delitto”, onde chi commette un fatto con dolo può essere al più punito “individualmente” rispetto a chi lo commette con colpa, non anche a titolo “collettivo” (concorsuale); e.2) in ottica “sistematica”; i delitti colposi sono l’eccezione espressamente prevista dalla legge, ex art.42, comma 2, c.p., onde se un fatto inadempimento reato è punito a titolo di dolo, occorre una espressa previsione per punire a titolo di colpa un concorrente nella relativa fattispecie criminosa (ubi lex voluit, dixit), come dimostrano le – per l’appunto, “tipiche” – fattispecie di agevolazione colposa di un reato doloso, siccome previste dal codice penale (art.254 c.p.; art.259 c.p.; art.350 c.p.);
- laddove il soggetto agente consente sul crinale oggettivo, attraverso la propria condotta colposa, il fatto doloso di un terzo senza tuttavia essere consapevole, sul versante soggettivo, di cooperare con esso (in dottrina si fa l’esempio del farmacista che dimentica negligentemente una sostanza venefica incustodita ed un terzo se ne impossessa dolosamente commettendo un omicidio), quantunque non si verifichi un concorso colposo nell’altrui reato doloso, resta la possibilità di una divaricata imputazione di entrambi a titolo di reato monosoggettivo;
- fattispecie particolari sono quelle nelle quali chi agisce con colpa è consapevole di cooperare con un altro soggetto (che si sa del pari in colpa), e tuttavia la concreta condotta di quest’ultimo non rappresenta concretizzazione del rischio che la norma cautelare violata dal primo mirava a scongiurare;
- si tratta, esemplificativamente, dell’ipotesi in cui A partecipa – con condotta imprudente – ad una corsa automobilistica assieme a B e quest’ultimo coltiva il segreto intendimento di uccidere C, che pure partecipa alla imprudente gara: C viene tamponato e scaraventato in un burrone da B, che risponde di omicidio doloso, mentre A non potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo “concorsuale colposo”, avendo violato norme cautelari sulla circolazione stradale il cui scopo è quello di impedire lesioni o morti “colpose” – e non già dolose, come in concreto avvenuto – di terzi;
- in simili fattispecie, per la dottrina il dolo di B “assorbe” la colpa di A, che potrebbe essere chiamato a rispondere a titolo “concorsuale colposo” solo ove la relativa condotta abbia violato una regola cautelare avente come specifico oggetto la prevenzione di reati dolosi di terzi (rischio la cui concretizzazione la regola cautelare de qua vorrebbe scongiurare), laddove A dovrebbe tuttavia rappresentarsi non già il dolo di B (ipotesi che configurerebbe un concorso doloso di A nel reato doloso di B) quanto piuttosto, per l’appunto, una colpa di B (che in realtà è in dolo);
- in sostanza, per realizzare la fattispecie del concorso colposo di A nel reato doloso di B, nelle peculiari ipotesi in parola, occorrerebbe che A violi la regola cautelare orientata a specificamente prevenire il dolo di B e tuttavia, proprio quando A viola “colposamente” tale regola, è perché si rappresenta la concretizzazione del pertinente rischio (B è in dolo), ed in questo quadro è difficile non pensare, assai più semplicemente, ad un concorso “doloso” (e non già “colposo”) di A nella condotta, del pari dolosa, di B;
- la giurisprudenza della IV sezione della Cassazione tuttavia, a partire dagli anni Duemila, non ha mancato di sottolineare – giusta interpretazione in “combinato disposto” degli art.42, comma 2, e 113 c.p. – come in realtà possa dirsi pienamente ammissibile la cooperazione colposa di A ad un reato doloso di B, configurando il dolo un “di più” rispetto alla colpa, sempre che il reato doloso di B, siccome nel caso di specie realizzato, si ponga quale concretizzazione del rischio che la regola cautelare violata da A (in colpa) mirava a scongiurare;
- una presa di posizione che è stata tuttavia smentita da una più recente giurisprudenza del 2019 che, muovendo dal principio di legalità e dalla concezione della cooperazione colposa abbracciata dalle SSUU nel 2014, assume non potersi ammettere l’estensione in malam partem della previsione di cui all’art.113 c.p. – disciplinante appunto la cooperazione colposa “omogenea” – alla diversa fattispecie “eterogenea” del concorso colposo nel delitto doloso, stante anche la diversità strutturale tra dolo e colpa e l’impossibilità logica di concepire una violazione (colposa) di regola cautelare che non si intrecci con altre violazioni (del pari colpose) di regole cautelari da parte di terzi nel quadro della gestione integrata di un rischio corso in guisa collettiva – come nel classico caso dell’attività medica di equipe – ma piuttosto con il contegno doloso di un terzo che, se in qualche modo previsto, finisce col configurare piuttosto un concorso “doloso” nel delitto doloso di tale terzo o, a tutto voler concedere, un concorso di cause indipendenti.
Come interagisce in particolare la più recente concezione della colpa penale sul concorso colposo nel reato doloso?
- la colpa penale è sempre più oggetto di una rivisitazione sistematica in chiave evoluzionistica, collateralmente al progressivo invalere dei canoni di affidamento e di auto responsabilità;
- ciò proprio nel prisma “collettivo” della compartecipazione criminosa;
- il problema è capire fino a che punto A, destinatario di un obbligo di diligenza X suo proprio, possa rispondere della violazione dell’obbligo di diligenza Y, proprio di B, da parte di quest’ultimo;
- si parla, più specificamente, di un “dovere obiettivo di diligenza” che grava su ciascun consociato;
- l’ampiezza di tale dovere obiettivo di diligenza va tuttavia calibrata sul principio della responsabilità penale “personale” e, dunque, sul canone della colpevolezza;
- in un contesto in cui tutti i consociati devono assumersi responsabili delle proprie condotte, ciascun individuo capace di intendere e di volere deve essere considerato portatore di una propria “autodeterminazione responsabile” essendo tenuto, come tale, a scongiurare i soli rischi avvinti alla propria condotta, senza nel contempo essere obbligato ad impedire la realizzazione di scelte pericolose da parte di altri consociati del pari dotati di propria (ed autonoma, seppur connessa) “autodeterminazione responsabile”;
- in sostanza, ciascun consociato può ordinariamente confidare nel fatto che gli altri consociati con i quali viene in relazione si comportino in piena osservanza degli obblighi cautelari su di loro gravanti, secondo una concezione che – con specifico riguardo alla materia della circolazione stradale – trova origine nella dottrina tedesca e che si impernia sul c.d. Vertrauensgrunsatz, ovvero sull’”affidamento”;
- proprio muovendo da questo presupposto, è il c.d. “divieto di regresso” ad impedire che un contributo colposo di A possa “abbinarsi” ad uno doloso di B, non potendo assumersi colposa – sulla scorta della mera prevedibilità del pertinente evento – quella condotta che non è pericolosa in sé, con riguardo dunque al dovere obiettivo di diligenza X gravante su A, ma lo diventa fornendo l’occasione a B di commettere un fatto illecito (se non doloso, quanto meno violativo del diverso dovere obiettivo di diligenza Y su di lui gravante);
- il meccanismo si rivela capace di rendere compatibile la colpa proprio con il canone di personalizzazione della responsabilità penale ai sensi dell’art.27, comma 1, Cost., dovendosi rispondere solo di “proprie” condotte colpevoli, senza dover allo stesso tempo prevedere lo strumentale approfittamento di tali condotte, siccome eventualmente operato da terzi per commettere reati che solo ad essi possono, alfine, essere attribuiti;
- in sostanza dunque il problema del concorso colposo nel reato doloso non va impostato né in ottica “oggettiva” (nesso causale), né in ottica “soggettiva generica” (omogeneità o disomogeneità dell’imputazione soggettiva del medesimo fatto), quanto piuttosto in ottica “soggettiva specifica”, siccome calibrata sulla “colpa” del compartecipe (rispetto a chi agisce dolosamente), dovendosi scandagliare quando in concreto il principio di autoresponsabilità (ed il connesso canone dell’affidamento) che inerisce a tutti e a ciascuno possa soffrire deroghe, costringendo – in uno spettro di ragionevolezza – chi agisce a guardarsi non solo dai rischi che egli stesso può ingenerare, ma anche da quelli che la propria condotta potrebbe sollecitare giusta condotta “strumentale” di terzi (che dolosamente ne approfittano);
- il principio di affidamento soffre, su questo crinale, una serie di precisi ed indefettibili limiti:
- un primo limite è dato dalla eventuale posizione di garanzia che incombe sul soggetto agente, il quale è tenuto a presidiare beni o interessi di un terzo, quand’anche dolosamente aggredito da un altro consociato (non può una guardia del corpo rimanere inerte dinanzi all’aggressione dolosa del soggetto che essa dovrebbe piuttosto presidiare);
- un secondo limite affiora allorché – pur non configurandosi una posizione di garanzia in capo al soggetto agente – gli si presentino indizi concreti in ordine alla possibilità che un consociato che egli conosce possa commettere un fatto illecito penalmente rilevante, come esemplificativamente accade nel caso in cui il soggetto agente sia in grado di controllare fonti certe di pericolo quali veleno, armi e così via e, ad un tempo, conosca bene il terzo che, sulla base di circostanze concrete, sussiste elevata probabilità che commetta un crimine; in simili evenienze, la condotta del soggetto agente ridetto non può essere totalmente libera, “affidante” e “confidante” nella diligenza altrui, dovendo piuttosto ispirarsi ad una logica di neutralizzazione di tali rischi a sé “esterni”, senza potersi trincerare dietro un formale ossequio ai canoni di affidamento e di autoresponsabilità (non si presta un coltello a chi, conosciuto come persona violenta, ha appena finito di malmenare un terzo lasciandolo riverso in strada);
- un terzo limite affiora allorché – pur non configurandosi una posizione di garanzia nel soggetto agente, e pur non emergendo indizi concreti in ordine alla possibilità che un consociato che si conosce possa commettere un fatto illecito penalmente rilevante sulla scorta di fonti di pericolo “controllabili” – nondimeno il soggetto agente A, violando autonomamente una regola cautelare che lo coinvolge, si muova con trascuratezza tale da consentire di affermare che l’evento – scaturigine, nel caso di specie, del dolo del terzo B – si sarebbe potuto verificare ugualmente anche in difetto del ridetto fatto doloso del terzo B, concretizzando specificamente il rischio della norma cautelare violata (da A), con vulnus al pertinente interesse giuridicamente protetto (non si priva colposamente un ospedale dei necessari presidi antincendio invocando dipoi la propria estraneità al fatto incendiario doloso di un terzo che cagioni lesioni o morte ai pazienti, stante come l’evento avrebbe potuto in ogni caso verificarsi, dovendosi assumere dunque persistente il nesso di causalità e, ad un tempo, predicabile la fisionomia colposa del contributo offerto dal soggetto attivo A all’evento lesivo finale scaturito dal dolo di B).