<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 6 marzo 2019 n. 34</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va ribadito che, in linea di principio, l’abrogazione (ancor più se, come in questo caso, implicita) di una norma opera </em>ex nunc<em> (in via non retroattiva) e non è, quindi, sostenibile che possa derivarne la prospettata «</em>neutralizzazione<em>» degli effetti verificatisi, </em>ratione temporis<em>, fin quando la norma abrogata sia stata in vigore. Nel caso di specie, il tenore letterale della disposizione di cui all’art. 6, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001 chiaramente ne implica l’applicabilità (solo) pro futuro: ai sensi di detta norma, l’ammissibilità della domanda di equa riparazione per l’eccessiva durata di processi amministrativi è condizionata dalla intervenuta proposizione del «</em>rimedio preventivo<em>» dell’istanza di prelievo «</em>almeno sei mesi prima<em>» della scadenza del termine di ragionevole durata del processo, ed è evidente che una tale condizione – riscritta ora nei più incisivi termini di un onere di diligenza posto a carico della parte chiamata a cooperare con il giudice al fine di evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo – non può che riferirsi a processi ancora pendenti, la cui ragionevole durata si protragga per il tempo necessario a consentire alle parti di proporre l’istanza di prelievo nel termine introdotto dalla legge n. 208 del 2015; il che, appunto, spiega perché, ai sensi del successivo comma 2-ter dello stesso art. 6 della legge n. 89 del 2001, la così riformulata condizione di proponibilità si applichi (solo) nei processi amministrativi che eccedano (nel grado) il rispettivo termine di ragionevole durata al 31 ottobre 2016, in data, quindi, di oltre sei mesi successiva a quella (1° gennaio 2016) di entrata in vigore della legge n. 208 del 2015.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In tema di irragionevole durata del processo amministrativo poi dichiarato perento, va assunta non fondata l’eccezione di inammissibilità della pertinente questione di legittimità costituzionale per asserito difetto di motivazione sulla rilevanza, proprio in ragione della circostanza della intervenuta perenzione dei processi amministrativi cui si riferiva la pretesa indennitaria: la Corte di cassazione rimettente, ai fini della rilevanza della sollevata questione, non ha mancato infatti di motivare espressamente sulla ininfluenza della omessa istanza di fissazione dell’udienza nel giudizio amministrativo e della susseguente intervenuta dichiarazione di perenzione del ricorso, e ciò in coerenza con la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità per cui, in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la dichiarazione di perenzione del giudizio da parte del giudice amministrativo non consente di ritenere insussistente il danno per disinteresse della parte a coltivare il processo, in quanto, altrimenti, verrebbe a darsi rilievo ad una circostanza sopravvenuta – la dichiarazione di estinzione del giudizio – successiva rispetto al superamento del limite di durata ragionevole del processo (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione 2, sentenza 5 agosto 2016, n. 16404; sezione sesta civile, sottosezione 2, sentenza 9 luglio 2015, n. 14386).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La disposizione di cui all’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008 – nel testo, come convertito e successivamente modificato, applicabile </em>ratione temporis<em> in tutti i giudizi </em>a quibus<em> –viola l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, restando assorbita ogni altra censura. Secondo costante giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma ciò solo se “</em>effettivi<em>” e, cioè, nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente (così, in particolare, Corte europea dei diritti dell’uomo, grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia); con più specifico riferimento alla disposizione ora in esame, con sentenza del 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, detta Corte, pur dichiarando il ricorso inammissibile per il mancato esperimento del rimedio giurisdizionale interno, aveva preannunciato che una prassi interpretativa ed applicativa dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, nel testo antecedente alla modifica di cui al d.lgs. n. 104 del 2010 – che avesse avuto come effetto quello di opporsi all’ammissibilità dei ricorsi ex lege Pinto (relativi alla durata di un processo amministrativo conclusosi prima del 25 giugno 2008), per il solo fatto della mancata presentazione di un’istanza di prelievo – avrebbe privato sistematicamente alcune categorie di ricorrenti della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente; più di recente, con la sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia, la Corte EDU ha affrontato il problema dell’effettività del rimedio nazionale ex lege n. 89 del 2001, soggetto alla condizione di proponibilità dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008: esaminando diacronicamente tale disposizione, fino al testo scaturito dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 104 del 2010, ha conclusivamente ritenuto che la procedura nazionale per lamentare la durata eccessiva di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo, risultante dal combinato disposto della “</em>legge Pinto<em>” con la disposizione stessa, non possa essere considerata un rimedio effettivo ai sensi dell’art. 13 della CEDU e ciò soprattutto sul rilievo che il sistema giuridico nazionale non prevede alcuna condizione volta a garantire l’esame dell’istanza di prelievo. Con il principio enunciato da tale ultima decisione – che questa Corte, con la recente sentenza n. 88 del 2018, ha considerato in linea con la «costante giurisprudenza della Corte EDU» – si pone appunto in contrasto la censurata disposizione nazionale; ed infatti – mentre per la giurisprudenza europea il rimedio interno deve garantire la durata ragionevole del giudizio o l’adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale ed il rimedio preventivo è tale se efficacemente sollecitatorio – l’istanza di prelievo, cui fa riferimento l’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008 (prima della rimodulazione, come rimedio preventivo, operatane dalla legge n. 208 del 2015), non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente (ex art. 71, comma 2, del codice del processo amministrativo, la parte «</em>può<em>» segnalare al giudice l’urgenza del ricorso), con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “</em>prenotazione della decisione<em>” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata; antecedentemente alle richiamate sentenze della Corte EDU, la stessa giurisprudenza interna (con riferimento al previgente sistema normativo) aveva, del resto, affermato che, in tema di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001, la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, andava riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa potesse subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo o alla sua ritardata presentazione (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 dicembre 2005, n. 28507 e successive conformi fino a sezione prima civile, sentenza 20 gennaio 2011, n. 1359).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Se è vero che la mancata presentazione dell’istanza di prelievo può costituire elemento indiziante di una sopravvenuta carenza, o di non serietà, dell’interesse della parte alla decisione del ricorso, un tale elemento può assumere rilievo ai fini della quantificazione dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non può viceversa condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda, senza con ciò venire in contrasto con l’esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata, garantita dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell’art. 117, primo comma, Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) e dall’art. 1, comma 3, lettera a), numero 6, del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui condiziona la proponibilità del giudizio ex legge Pinto alla presentazione, nel processo amministrativo, dell’istanza di prelievo.</em></p>