Massima
Nella forbice tra “uno” e “più”, il reato continuato può apparire fuorviante laddove vi si scorga una forma tipica e “monistica” di reato-inadempimento; si è piuttosto al cospetto di più fatti inadempimento reato avvinti dal vincolo della continuazione, onde un unico disegno criminoso sarebbe capace di far apparire meno riprovevole tutt’un insieme in successione di condotte penalmente rilevanti poste in essere dal soggetto attivo; il quale ultimo può essere uno o può essere a propria volta plurimo e collettivo, con necessità in queste ipotesi di distinguere la continuazione criminosa dall’associazione a delinquere, considerata per sé stessa ovvero in rapporto ai pertinenti reati-fine.
Crono-articolo
Nel diritto romano, dominato dal rigido canone “tot crimina tot poenae”, non si rinvengono tracce specifiche del regime – tipicamente pro reo – di cui alle ipotesi di concorso di reati addebitabili ad un medesimo autore ed in seguito definito “continuazione”, per il cui primo, incerto affiorare occorre fare riferimento – in epoca medioevale – agli statuti comunali: si richiamano in genere lo statuto della Valsassina del 1343 che, in caso di commissione di tre furti da parte del medesimo autore prevede – in senso aggravativo – la pena di morte; ed il successivo statuto di Narni del 1371 che, in ottica piuttosto mitigatoria, laddove un soggetto abbia commesso più lesioni personali o molteplici episodi di percosse, prevede una attenuazione al rigido regime del concorso di reati; si tratta di esempi significativi di fattispecie in cui rilevano più reati commessi dal medesimo autore, al netto della questione, dibattuta nella dottrina specialistica, se si tratti di ipotesi trattate come reato unico o come pluralità di reati collegati (in senso soggettivo) dall’autore che in successione li compie. Secondo una accreditata opinione dottrinale, è Bartolo da Sassoferrato, nella prima metà del secolo XIV, a delineare per primo in modo compiuto il reato continuato, quale forma di unificazione di reati diversi avvinti da un medesimo fine perseguito dal relativo autore; parimenti significativo il contributo del giurista Prospero Farinacci a cavallo tra i secoli XVI e XVII, specie in termini di rilievo attribuito all’elemento cronologico nella unificazione dei reati avvinti dalla continuazione. Si viene dunque via via delineando una particolare figura di concorso di reati con riferimento alla quale si avverte vieppiù l’esigenza di mitigare il regime sanzionatorio per il reo a fronte della sostanziale unicità del disegno da questi perseguito: l’approdo finale è l’art.80 del codice penale toscano del 1853, alla cui stregua “più violazioni della stessa legge penale, commesse in uno stesso contesto di azione, o anche in tempi diversi, con atti esecutivi della medesima risoluzione criminosa, si considerano per un solo delitto continuato”: il riferimento è dunque a reati omogenei (elemento oggettivo) che la medesima risoluzione criminosa, riconducibile ad uno stesso autore (elemento soggettivo) per la prima volta nettamente unifica in un’unica fattispecie di “reato” in senso giuridico.
1889
La codificazione liberale Zanardelli prevede il reato continuato all’art.79, alla cui stregua più violazioni della stessa disposizione di legge, anche se commesse in tempi diversi, con atti esecutivi della medesima risoluzione, si considerano per un solo reato; ma la pena è aumentata da 1/6 alla metà. Quando il reato è continuato si applica dunque la fictio iuris del reato unico con pena aggravata, purché tuttavia si tratti della violazione della medesima disposizione di legge (concorso omogeneo di reati), quand’anche articolantesi in tempi diversi, quale epifania esecutiva di una medesima risoluzione che si prolunga nel tempo giusta compimento plurimo dello stesso reato.
1930
Nel codice penale Rocco il reato continuato viene previsto all’art.81 in tema di concorso di reati, ed in particolare al comma 2, onde – a differenza di quanto normalmente accade nelle ipotesi di concorso formale (comma 1: chi, con una sola azione od omissione, viola diverse disposizioni di legge o commette più violazioni della medesima disposizione di legge), vale a dire l’applicazione dello stesso, rigoroso regime del concorso materiale di reati di cui agli articoli precedenti (e relativo a più azioni od omissioni) – laddove con più azioni od omissioni esecutive tuttavia di un medesimo disegno criminoso il soggetto agente commette, anche in tempi diversi, più violazioni della stessa disposizione di legge, anche di diversa gravità, non si applica il principio tot crimina tot poenae, le diverse violazioni considerandosi come un solo reato (comma 3) ed applicandosi la pena che si dovrebbe infliggere per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo. In sostanza dunque mentre al concorso materiale (più azioni od omissioni) e formale (una azione od omissione) si applica il rigoroso principio tot crimina tot poenae, quando si è al cospetto di un concorso materiale omogeneo (più violazioni, quand’anche di diversa gravità, della stessa disposizione di legge) avvinto dal medesimo disegno criminoso, il trattamento sanzionatorio è più favorevole al reo (pena per il reato più grave, aumentata fino al triplo). Importante anche l’art.158 che, in tema di prescrizione, per determinare il tempo necessario a prescrivere fa riferimento, in caso di continuazione, al giorno in cui è cessata la continuazione medesima unitariamente considerata, e non già al giorno di consumazione dei singoli reati che la continuazione avvince: una disciplina che, posticipando il dies a quo di decorrenza della prescrizione, si pone in frizione con gli effetti – favorevoli al reo – che sottendono l’istituto stesso del reato continuato. Nel codice la continuazione è ammissibile solo con riferimento a violazioni della stessa disposizione di legge, e dunque si configura solo in presenza di una omogeneità dei reati avvinti dalla continuazione. E’ sufficientemente agevole dunque individuare quale sia la violazione più grave, trattandosi per l’appunto di violazioni omogenee, onde la fattispecie consumata è più grave di quella tentata, mentre le circostanze aggravanti o attenuanti possono sospingere nel considerare l’una fattispecie più grave dell’altra. Sulla base di queste considerazioni la giurisprudenza tenderà ad una valutazione meramente astratta al fine di valutare quale sia la “violazione più grave”, facendo appunto riferimento, in astratto, alla violazione (omogenea) consumata piuttosto che tentata, circostanziata piuttosto che semplice, pluricircostanziata piuttosto che mono circostanziata.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede all’art.25, comma 2, che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, così cristallizzando a livello costituzionale il principio di legalità del fatto-inadempimento reato ma anche della corrispondente pena: per quest’ultima, emblematico il riferimento implicitamente contenuto nella parola “punito” utilizzata dai Costituenti, come peraltro dimostra il successivo comma 3 laddove si dispone che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza (e, dunque, a fortiori a “pene”) se non nei casi previsti dalla legge.
1974
L’11 aprile viene varato il decreto legge n.99, il cui art.8 incide in modo consistente sull’art.81 del codice penale onde chi, con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge (concorso formale) viene ormai punito non in modo identico a chi commette concorso materiale, bensì con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo, regime prima applicabile al solo reato continuato. Quest’ultimo non si configura più solo come commissione – giusta più azioni od omissioni esecutive, anche in tempi diversi, di un medesimo disegno criminoso – di più violazioni della stessa legge (concorso omogeneo), ma anche come violazione di “diverse” disposizioni di legge, applicandosi dunque la continuazione anche in caso di concorso eterogeneo di reati: un cambiamento che entra peraltro in contraddizione con l’art.61, n.2, c.p., laddove si configura come aggravante comune (e dunque non come fattispecie che attenua il trattamento sanzionatorio) il c.d. nesso teleologico, ovvero l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato. La configurabilità della continuazione anche in ipotesi di reati eterogenei muta anche l’approccio al meccanismo di individuazione della violazione più grave (cui applicare l’aumento fino al triplo): in precedenza si è preferito un criterio di determinazione di tipo astratto, mentre si affaccia ormai la possibilità di valutare in concreto quale sia la violazione (eterogenea) più grave tra tutte quelle avvinte dalla continuazione. Si prevede infine che sia in caso di concorso formale, sia in caso di continuazione nella nuova versione allargata, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti, e dunque vi è un limite massimo di pena corrispondente all’applicazione del principio previsto per il concorso materiale del “tot crimina tot poenae”. Importante anche la soppressione, nel comma 3 dell’art.81, dell’inciso “le diverse violazioni si considerano come un solo reato”, che contribuirà a spostare l’asse ermeneutico della continuazione da una visione unitaria ad una sempre più parcellizzata.
Il 7 giugno viene varata la legge n.220 che converte con modificazioni il decreto legge 99.
1976
Il 23 ottobre esce la sentenza delle SSUU, Desideri, che esclude la compatibilità della continuazione con le fattispecie in cui il medesimo disegno criminoso avvinca reati puniti con pene eterogenee per genere (pena detentiva e pena pecuniaria) o per specie (reclusione e arresto; multa e ammenda): il reato continuato reca una pena necessariamente unitaria ma occorre evitare di irrogare al reo un trattamento sanzionatorio più grave, sul piano qualitativo, rispetto a quello previsto per il reato satellite (in quanto l’aumento di pena si parametra sulla pena del reato più grave); ciò a fortiori dovendo rispettare il principio di legalità della pena, che preclude la possibilità di applicare una pena diversa rispetto a quella ex lege contemplata per il singolo reato (ancorchè satellite).
1977
Il 18 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.34 che, nel dichiarare non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 81, primo e secondo comma, del codice penale (nel nuovo testo risultante dall’art. 8 del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 220), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13 e 25, secondo comma, della Costituzione, afferma come le ordinanze di rimessione muovano da una interpretazione della norma impugnata sulla continuazione (quella per cui potrebbe ad essa farsi sempre ricorso anche quando per i reati concorrenti siano comminate pene eterogenee) che, nei termini suddetti, non é certo – per la Corte – quella comunemente seguita e che, anzi, sia in dottrina che in giurisprudenza é contrastata da interpretazioni ed applicazioni di natura e di portata diversa. La giurisprudenza della Corte di cassazione, ricorda la Consulta, superando qualche incertezza iniziale, si é ormai, anche per effetto di recentissime sentenze delle Sezioni Unite penali, fermamente ed univocamente consolidata nel senso che lo speciale criterio di determinazione della pena stabilito nel nuovo testo dell’art. 81 c.p. non sia applicabile quando renderebbe necessaria l’unificazione di pene di specie diversa in una sola di unica specie anche se dello stesso genere con aumento della pena unica ai sensi del primo e del secondo comma dell’art. 81 del codice penale. Va pertanto esclusa per la Corte l’applicazione dello speciale criterio di determinazione della pena, stabilito nei primi due commi dell’art. 81 c.p., nei casi in cui il concorso formale e la continuazione si pongono rispetto a reati puniti con pene eterogenee.
1978
*Il 22 ottobre esce la sentenza delle SSUU, Zavatti, che esclude la compatibilità della continuazione con le fattispecie in cui il medesimo disegno criminoso avvinca reati puniti con pene eterogenee per genere (pena detentiva e pena pecuniaria) o per specie (reclusione e arresto; multa e ammenda): il reato continuato reca una pena necessariamente unitaria ma occorre evitare di irrogare al reo un trattamento sanzionatorio più grave, sul piano qualitativo, rispetto a quello previsto per il reato satellite (in quanto l’aumento di pena si parametra sulla pena del reato più grave); ciò a fortiori dovendo rispettare il principio di legalità della pena, che preclude la possibilità di applicare una pena diversa rispetto a quella ex lege contemplata per il singolo reato (ancorchè satellite).
1979
Il 22 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Pino, che si occupa degli elementi costitutivi dell’associazione a delinquere nel solco della pertinente giurisprudenza di legittimità: si tratta della formazione e della permanenza di un vincolo associativo continuativo tra 3 o più persone con lo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, giusta predisposizione comune dei mezzi occorrenti per la realizzazione del pertinente programma delinquenziale e – sul crinale soggettivo – giusta permanente consapevolezza in capo a ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del programma stesso.
1980
Il 12 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Serra, che per la prima volta ammette poter operare la continuazione anche laddove i reati avvinti dal medesimo disegno criminoso siano puniti con pene eterogenee, ed in particolare quando il reato più grave sia punito con pena detentiva e quello satellite con pena detentiva congiunta con pena pecuniaria. La Corte segue quella dottrina che – al fine di coniugare la unificazione tipica della continuazione con la necessità di non far perdere autonomia ai singoli reati satellite – propone, una volta identificata la violazione più grave, di aumentare la pena (con riguardo dunque proprio ai reati satellite) non già “per moltiplicazione” della pena base (che presuppone sempre pene dello stesso genere e specie), ma “per aggiunta”, in tal modo consentendo di determinare la pena complessiva muovendo dalla pena base detentiva, con aumento della pena omogenea ed addizione della pena eterogenea propria del reato satellite, nel limite massimo di cui al comma 3 dell’art.81, utilizzando all’uopo i criteri di ragguaglio tra pene pecuniarie e detentive previsti dall’art.135 c.p..
1984
Il 16 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Andolina, onde il grado di organizzazione necessario per predicare la sussistenza di una associazione a delinquere va individuato precipuamente nella semplice e rudimentale predisposizione comune di attività e di mezzi tra gli associati.
1986
Il 24 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Graziano, onde il grado di organizzazione necessario per predicare la sussistenza di una associazione a delinquere va individuato precipuamente in un minimo (appunto) di organizzazione che autonomizzi l’associazione dai delitti scopo.
1988
Il 17 marzo esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.312 che assume infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.81, comma 2, c.p. in tema di continuazione, sollevata con riguardo all’art.3 della Costituzione, nella parte in cui consentirebbe di effettuare il giudizio di continuazione soltanto fra reati con pene omogenee e non anche fra reati puniti con pene di specie diversa. Per la Corte, non sussiste alcuna ragione per non dare integrale applicazione all’istituto della continuazione, ed ai benefici che ne derivano in ordine alle conseguenze sanzionatorie pro reo, quand’anche le pene che si sarebbero dovute irrogare per le singole violazioni siano di specie diversa, dovendo escludersi che in ciò sia ravvisabile una violazione del principio di legalità della pena, in quanto pena legale non è soltanto quella comminata dalle singole fattispecie penali, ma anche quella risultante dall’applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, compreso ovviamente l’art.81, comma 2, c.p.
Il 23 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Olivieri, onde il grado di organizzazione necessario per predicare la sussistenza di una associazione a delinquere va individuato precipuamente nel mero accordo afferente ad un generico programma criminoso (c.d. affectio societatis sceleris). La pronuncia si colloca nel solco di una progressiva rarefazione degli elementi capaci di identificare un’associazione a delinquere, massime proprio dal punto di vista strutturale, accontentandosi di un accordo di carattere generale inteso all’attuazione di un programma del tutto indeterminato di reati scopo, rilevante in sé ed a prescindere dalla effettiva consumazione di questi ultimi.
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, il cui articolo 671 viene esplicitamente dedicato (anche) alla continuazione, onde nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale ovvero, appunto, del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione; il giudice dell’esecuzione provvede su tale richiesta determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto. Si tratta della possibilità di applicare il regime più favorevole della continuazione anche in sede esecutiva.
*Il 28 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Donato, che si colloca nel solco di una progressiva rarefazione degli elementi capaci di identificare un’associazione a delinquere, massime proprio dal punto di vista strutturale, accontentandosi di un accordo di carattere generale inteso all’attuazione di un programma del tutto indeterminato di reati scopo, rilevante in sé ed a prescindere dalla effettiva consumazione di questi ultimi.
Il 01 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione onde il principio per cui motivi di incompatibilità logica escludono l’applicazione della continuazione tra reati colposi e reati dolosi (per essere la colpa incompatibile con il medesimo disegno criminoso) non fa venir meno la possibilità di assumere configurabile la continuazione ridetta (eccezionalmente) tra il reato di detenzione e cessione di modica quantità di sostanze stupefacenti e quello di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art.586 c.p.), dal momento che tale ultimo reato, pur essendo punito a titolo di colpa, esige in ogni caso che il reato base sia doloso.
1989
Il 22 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Morelli, che si occupa di cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso. La pronuncia si colloca in ogni caso nel solco di una progressiva rarefazione degli elementi capaci di identificare un’associazione a delinquere, massime proprio dal punto di vista strutturale, accontentandosi di un accordo di carattere generale inteso all’attuazione di un programma del tutto indeterminato di reati scopo, rilevante in sé ed a prescindere dalla effettiva consumazione di questi ultimi.
Il 24 maggio esce la sentenza della Cassazione che si occupa della possibilità di configurare una continuazione tra il delitto di associazione a delinquere ex art.416 c.p. e i relativi reati scopo; la Corte nega la compatibilità tra l’accordo programmatico, generico ed indeterminato, che caratterizza l’associazione a delinquere e che si volge alla commissione da parte degli associati di una serie indeterminata di reati, con il medesimo disegno (programma) criminoso che caratterizza la continuazione, laddove i singoli reati che compendiano tale disegno (programma) sono già tutti previsti all’inizio nei minimi dettagli dal soggetto agente (o dai soggetti agenti in concorso tra loro). In sostanza, il pactum sceleris che lega i sodali nell’associazione a delinquere si compendia in un programma generico che è strutturalmente ed ontologicamente incompatibile, rispetto ai pertinenti reati fine, con quel “medesimo disegno criminoso” di cui all’art.81, comma 2, c.p., che richiede invece una precisa individuazione ex ante dei reati che si andranno a commettere a livello unipersonale o concorsuale.
Il 28 luglio viene varato il decreto legislativo n.271, recante disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, secondo il cui articolo 187 per la determinazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione si considera “violazione più grave” quella per la quale è stata inflitta la pena più grave. La norma costituirà una freccia nell’arco dell’opzione ermeneutica tendente a considerare “più grave” la violazione in concreto assunta tale dal giudice (che infligge la pena), piuttosto che quella in astratto prevista dal legislatore. I sostenitori della tesi opposta rappresenteranno tuttavia come la norma riguardi solo le ipotesi in cui la continuazione trovi applicazione in sede esecutiva, e dunque in una peculiare fase del processo penale in cui l’unico parametro utilizzabile è quello della valutazione in concreto della gravità del trattamento sanzionatorio, dovendosi anche considerare l’impossibilità per il giudice dell’esecuzione di stravolgere un giudizio già reso definitivamente in sede di cognizione.
1991
*L’11 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Niccolai, che ribadisce cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso.
1992
Il 27 marzo esce la sentenza delle SSUU n.4901, Cardarilli, che afferma – statuizione che sarà poi ribadita più diffusamente dalle SSUU nel 1993 – come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo.
1993
*Il 15 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Ambrosino, che ribadisce cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso.
Il 27 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Salvo, onde il grado di organizzazione necessario per predicare la sussistenza di una associazione a delinquere va individuato precipuamente in un minimo (appunto) di organizzazione che autonomizzi l’associazione dai delitti scopo, dovendo in ogni caso l’organizzazione del sodalizio criminoso essere adeguata rispetto al programma criminoso divisato.
Il 12 ottobre esce la sentenza delle SSUU alla cui stregua la “violazione più grave” nella continuazione va individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 1, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p.
1994
*Il 25 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.748 che ribadisce come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 2, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p.
Il 20 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9994 che afferma la incompatibilità strutturale tra continuazione e reati colposi onde l’art. 81 c.p., anche se non pone alcuna distinzione tra delitti e contravvenzioni (in quanto la norma si riferisce ai reati in genere e tali sono sia gli uni che le altre) tuttavia presuppone una unicità di trattamento sanzionatorio collegata al “medesimo disegno criminoso” da intendersi comunque subordinata alla condizione che l’elemento soggettivo comune sia il dolo e non la colpa.
*Il 15 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Semeraro, che ribadisce cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso.
1995
*Il 12 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Mauriello, che ribadisce cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso.
*Il 14 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Montani, che si colloca nel solco di una progressiva rarefazione degli elementi capaci di identificare un’associazione a delinquere, massime proprio dal punto di vista strutturale, accontentandosi di un accordo di carattere generale inteso all’attuazione di un programma del tutto indeterminato di reati scopo, rilevante in sé ed a prescindere dalla effettiva consumazione di questi ultimi.
1996
Il 5 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione che si occupa di una fattispecie di condanna per spaccio di droga e, ad un tempo, per morte come conseguenza di altro delitto ex art.586 c.p.; nel caso di specie, la persona cui è stato fornita la droga è caduta in uno stato soporoso a seguito della pertinente assunzione, ed è poi deceduta in ospedale dove vi è stata condotta con notevole ritardo dal medesimo cedente; in ipotesi di tal fatta, per la Corte va esclusa la continuazione tra le due fattispecie incriminatrici dal momento che l’evento non voluto, vale a dire la morte del tossicodipendente, è stato causato da una serie di atti e di comportamenti che in concreto vanno valutati come colposi, onde non può configurarsi quel medesimo disegno criminoso che è il presupposto della continuazione e che è ineludibilmente avvinto ad un fattore intellettuale e volitivo unitario non compatibile, per la Corte, con la natura dei reati colposi.
1997
Il 13 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4322 che, andando in contrario avviso rispetto al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, afferma che per “violazione più grave” ai fini della continuazione deve assumersi quella “concretamente” tale, muovendosi dunque non già su un terreno astratto, ma concreto. Occorre dunque vedere come ha concretamente punito il giudice, non già come ha astrattamente previsto la punizione il legislatore. Bisogna giungere – per ciascuno dei reati, ed in disparte le relative previsioni edittali – alla pena da infliggere in concreto, a valle della valutazione di ogni singola circostanza e dell’eventuale giudizio di comparazione ex art.69 c.p.; solo una volta compiuta questa operazione per ciascuna delle violazioni perpetrate, e dunque dei reati commessi, si individua quella più grave sulla quale applicare il quantum di aumento per la continuazione.
Il 2 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.1474 che, in tema di rapporti tra associazione a delinquere e pertinenti reati scopo, non esclude la possibilità di ravvisare la continuazione e, dunque, il medesimo disegno criminoso; per la Corte la questione non è infatti di compatibilità strutturale, dal momento che è ben possibile configurare un’associazione a delinquere che venga costituita e sin dall’inizio vari un proprio programma criminoso che concepisca uno o più reati scopo individuati in modo preciso o nelle pertinenti linee essenziali, così da consentire di ravvisare appunto, tra costituzione dell’associazione per delinquere e commissione dei singoli reati fine un medesimo disegno criminoso e, con esso, la continuazione. Si tratta allora di una questione di fatto il cui accertamento è demandato al giudice del merito.
Il 18 giugno esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.186, che dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.81, comma 2, c.p., con riferimento all’art.3 Cost., nella parte in cui non consente l’applicazione della disciplina (pro reo) del reato continuato ai reati colposi, muovendo dal presupposto che non è configurabile in tema di reati colposi un disegno criminoso dell’agente.
1998
*Il 16 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Pastori, che ribadisce cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso.
Il 3 febbraio esce la sentenza delle SSUU n.15, Varnelli, che ribadisce come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 1, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p. Per la Corte, su altro crinale, la sanzione complessiva per il reato continuato non può calcolarsi sommando pene non omogenee per genere o per specie, e dunque tra loro eterogenee, onde l’aumento da operare alla pena base nell’ipotesi di reati puniti con pene eterogenee determina la perdita dell’autonomia sanzionatoria dei reati meno gravi, l’aumento non potendo che consistere in un quantum di pena dello stesso genere e della stessa specie di quella prevista per la violazione più grave. Più in specie, ai fini della determinazione dell’aumento di pena per la continuazione nelle ipotesi in cui il reato più grave sia un delitto punito con la sola multa ed il reato satellite sia una contravvenzione punita con pena congiunta (arresto e ammenda), la pena pecuniaria, pur di specie diversa (ammenda), si cumula a quella del reato base divenendo ad essa omogenea, in quanto porzione della pena base aumentata, mentre per il calcolo della pena detentiva (arresto) occorre procedere prima ad una operazione intermedia, governata dall’art.135 c.p. sul ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive, e quindi, convertito l’arresto in pena pecuniaria, anche questa diviene porzione dell’aumento sulla pena base.
Il 3 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.3986, alla cui stregua, nel solco di consolidata giurisprudenza, ai fini dell’applicazione dell’amnistia è giuridicamente ammissibile scindere il reato continuato nelle relative, singole componenti laddove l’unificazione (fittizia) di tali componenti finisca col risolversi non già in un beneficio, ma in un pregiudizio per il condannato, come tale incompatibile con quella ratio di favor rei che ispira la continuazione siccome prevista dall’art.81, comma 2, c.p.
Il 25 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Villani, che in tema di associazione a delinquere richiede, ai fini della prova dell’accordo associativo, delle dimensioni minime che caratterizzano la struttura associativa.
1999
*Il 14 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.323 onde il principio per cui motivi di incompatibilità logica escludono l’applicazione della continuazione tra reati colposi e reati dolosi non fa venir meno la possibilità di assumere configurabile la continuazione ridetta (eccezionalmente) tra il reato di detenzione e cessione di modica quantità di sostanze stupefacenti e quello di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art.586 c.p.), dal momento che tale ultimo reato, pur essendo punito a titolo di colpa, esige in ogni caso che il reato base sia doloso.
Il 30 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1512 alla cui stregua, in caso di più reati giudicati separatamente, laddove per il primo reato giudicato sia stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, detto beneficio non si estende automaticamente alla seconda condanna nemmeno laddove sia riconosciuta la continuazione, in quanto quest’ultima produce l’unificazione tra più reati in via automatica ai soli fini dell’applicazione della pena principale, mentre per applicare la sospensione condizionale occorre specifica valutazione del giudice, avuto riguardo alla pena complessiva in concreto irrogata.
2001
Il 10 gennaio esce la sentenza della Cassazione n.1477 che si occupa della continuazione in rapporto alla sospensione condizionale della pena: per la Corte, laddove si rientri nei limiti di legge (2 anni complessivi di pena detentiva, ex art.163 c.p.), la sospensione condizionale della pena può essere concessa anche a chi è stato condannato per più reati avvinti dalla continuazione, con un un’unica sentenza o con separate sentenze, e ciò atteso come, attraverso la continuazione, la pluralità di condanne è assimilabile ad una condanna unica. Si tratta di una pronuncia che si inserisce in un solco pretorio consolidato in forza del quale la continuazione viene fittiziamente assunta come reato unico al fine della concessione, per l’appunto, della sospensione condizionale della pena; ciò in quanto per la concessione di tale beneficio occorre guardare alla pena concretamente irrogata dal giudice che, laddove non superi i limiti di legge, può dunque essere condizionalmente sospesa anche quando in realtà si tratti di pene plurime afferenti a pertinenti, plurimi reati.
2002
*Il 31 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.21509 che, in tema di rapporti tra associazione a delinquere e pertinenti reati scopo, non esclude la possibilità di ravvisare la continuazione e, dunque, il medesimo disegno criminoso; per la Corte la questione non è infatti di compatibilità strutturale, dal momento che è ben possibile configurare un’associazione a delinquere che venga costituita e sin dall’inizio vari un proprio programma criminoso che concepisca uno o più reati scopo individuati in modo preciso o nelle pertinenti linee essenziali, così da consentire di ravvisare appunto, tra costituzione dell’associazione per delinquere e commissione dei singoli reati fine un medesimo disegno criminoso e, con esso, la continuazione. Si tratta allora di una questione di fatto il cui accertamento è demandato al giudice del merito.
2004
*Il 10 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.26308 che ribadisce come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 2, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p.
*Il 3 settembre esce la sentenza della sezione feriale della Cassazione, Bosone, onde il grado di organizzazione necessario per predicare la sussistenza di una associazione a delinquere va individuato precipuamente nella semplice e rudimentale predisposizione comune di attività e di mezzi tra gli associati.
Il 29 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.43062 che, in tema di indulto, assume – ai fini della relativa applicazione – doversi scindere il reato continuato nei singoli reati che lo compongono e nei vari episodi che singolarmente afferiscono a ciascuno dei reati in continuazione, con conseguente possibilità, in tal modo, di applicare il beneficio a quei reati o a quegli episodi che rientrino nel limite temporale di applicazione dell’indulto stesso.
2005
Il 19 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 1285, onde la continuazione può essere ravvisata tra contravvenzioni solo se l’elemento soggettivo ad esse comune sia il dolo e non la colpa, atteso che la richiesta unicità del disegno criminoso è di natura intellettiva, e consiste nella ideazione contemporanea di più azioni antigiuridiche programmate nelle loro linee essenziali.
*Il 16 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.20545 che, in tema di indulto, ribadisce – ai fini della relativa applicazione – doversi scindere il reato continuato nei singoli reati che lo compongono e nei vari episodi che singolarmente afferiscono a ciascuno dei reati in continuazione, con conseguente possibilità, in tal modo, di applicare il beneficio a quei reati o a quegli episodi che rientrino nel limite temporale di applicazione dell’indulto stesso.
Il 18 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44606 che, in ordine ai rapporti tra associazione a delinquere e reati fine, esclude che la continuazione sia del tutto inconfigurabile per incompatibilità strutturale, potendo ben darsi che, sin dalla costituzione del vincolo associativo, sussista un medesimo disegno criminoso (sufficientemente specifico) che avvince per l’appunto la strutturazione associativa siccome forgiata dai sodali ed i reati fine che la compagine andrà a realizzare. Se problema si pone, esso è allora per la Corte di carattere essenzialmente probatorio, connesso com’è all’accertamento di una questione di fatto che va demandata al giudice del merito.
Il 5 dicembre viene varata la legge n.251 (c.d. ex Cirielli), il cui articolo 5, comma 2, inserisce nell’art.671 c.p.p. un terzo comma, alla cui stregua il giudice dell’esecuzione può concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale quando ciò consegue al riconoscimento del concorso formale o della continuazione, per l’appunto, in sede esecutiva, adottando ogni altro provvedimento conseguente. Il neo innesto dimostra che, ai fini della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, la continuazione viene vista come reato unico, e non come pluralità di reati, sulle orme della costante giurisprudenza in materia. Altra importante novità recata dalla legge è il mutamento del termine iniziale di prescrizione per i reati avvinti dalla continuazione: esso non è più, ai sensi del novellato art.158 c.p., quello coincidente con la cessazione della continuazione, ma quello di consumazione di ciascuno dei reati che la continuazione avvince, con trattamento maggiormente favorevole al reo.
Il 30 dicembre viene varato il decreto legge n.272, che innesta nel primo comma dell’art.671 c.p.p. un ultimo periodo alla cui stregua fra gli elementi che incidono sull’applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato (unificante) di tossicodipendenza.
2006
Il 21 febbraio viene varata la legge n.49 che converte in legge il decreto legge 272.05.
*Il 21 aprile esce la sentenza della IV sezione della Cassazione, Q. e altro, che ribadisce cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso.
L’11 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, D’Attis, onde il grado di organizzazione necessario per predicare la sussistenza di una associazione a delinquere va individuato precipuamente in un minimo (appunto) di organizzazione che autonomizzi l’associazione dai delitti scopo; la Corte precisa che in caso di associazione con modesto organigramma, occorre che il vincolo tra i sodali sia continuativo.
Il 29 novembre esce la sentenza della IV sezione della Cassazione onde l’unicità del disegno criminoso, tipica del reato continuato ex art.81, comma 2, c.p., mal si concilia con i reati colposi, nei quali l’evento non è voluto dall’agente, così che la condotta – questa sì genericamente voluta dall’agente medesimo – non può considerarsi in alcun modo finalizzata (all’evento medesimo). L’unica eccezione, per la Corte, si verifica quando l’agente abbia posto in essere il reato colposo agendo nonostante la previsione dell’evento: ipotesi nella quale viene quindi contestata la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.3, c.p., ovvero la c.d. colpa con previsione. Muovendo da questi presupposti, la Corte ha escluso la configurabilità del vincolo della continuazione tra il reato di omicidio colposo e i reati contravvenzionali commessi dal datore di lavoro in tema di norme di sicurezza dei lavoratori.
Il 30 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.39726, che ammette in astratto la possibilità che possa accertarsi la continuazione tra l’associazione a delinquere ed i reati fine che gli associati si propongono; la Corte distingue tuttavia il medesimo disegno criminoso, che è tipico della continuazione, dal programma criminoso che è proprio dell’associazione a delinquere. Per la Corte l’associazione a delinquere si caratterizza normalmente per un generico accordo programmatico finalizzato alla realizzazione di delitti, mentre per potersi far luogo ad un c.d. reato continuato non basta un generico piano di attività delinquenziale (proprio del singolo agente o di più soggetti agenti in concorso tra loro) occorrendo piuttosto che tutte le azioni od omissioni che si andranno a commettere siano dal principio ricomprese, nei relativi elementi essenziali ed individualizzanti, per l’appunto in un medesimo disegno criminoso.
2007
Il 22 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24750 che ribadisce la non incompatibilità logica e strutturale tra associazione per delinquere, reati-scopo divisati e continuazione, quest’ultima dunque pienamente configurabile tra i primi due (associazione per delinquere da un lato e reati scopo dall’altro). Per la Corte, in linea generale è ben vero che la continuazione – laddove presuppone la anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, e dunque di più reati che il soggetto agente già si prefigura tutti nella mente in modo specifico, almeno a grandi linee – è cosa ben diversa dalla mera inclinazione a reiterare violazioni della legge penale (reati) della stessa specie o di specie diverse, che normalmente si configura allorché si faccia luogo ad una associazione a delinquere, la cui attività criminosa si presenti come oggetto di un programma generico da sviluppare in futuro secondo contingenti opportunità; tale constatazione nondimeno, per la Corte, non può condurre ad escludere sempre e comunque la configurabilità di una continuazione tra l’associazione a delinquere ed i singoli reati fine, laddove chi si associa abbia già previsto sin dall’origine nel momento in cui costituisce l’associazione o vi aderisce, quale sarà il percorso criminoso da realizzare ed i singoli reati da commettere.
2008
Il 5 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5579 alla cui stregua, una volta assunta l’unicità del disegno criminoso tra due fatti oggetto di due diverse sentenze e una volta applicata per conseguenza la disciplina del reato continuato, ove sia stata disposta la sospensione condizionale della pena con la prima condanna per uno dei due fatti, essa non viene automaticamente revocata per intervento della seconda condanna per l’altro fatto, dovendo piuttosto il giudice valutare se il beneficio già concesso possa estendersi alla pena complessivamente (in concreto) determinata, ovvero se debba essere revocato per essere ormai venuti meno i pertinenti presupposti di legge.
Il 01 settembre esce la sentenza della sezione feriale della Cassazione n.34505 che, in tema di prescrizione dei reati avvinti dalla continuazione, in applicazione dell’art.158 c.p. come novellato dalla legge 251.05 (c.d. ex Cirielli), assume doversi “parcellizzare” il reato continuato, facendo decorrere la prescrizione dalla consumazione di ciascuno dei reati avvinti appunto dalla consumazione.
2009
Il 23 gennaio esce la sentenza della SSUU n.3286, che si occupa della natura giuridica – unitaria o frazionata – del reato continuato con particolare riguardo all’applicazione delle circostanze “di danno”, ed in particolare di quelle attenuanti previste dall’art.62, numeri 4 e 6, c.p. (danno o lucro di speciale tenuità; riparazione del danno) e quella prevista dall’art.61, n.7, c.p. (danno patrimoniale di rilevante gravità). La Corte registra in proposito un contrasto di giurisprudenza che è coerente con la diversa natura di volta in volta attribuita al reato continuato: le sentenze che lo considerano come un solo reato affermano che le valutazioni aggravatorie e quelle attenuative devono, per conseguenza, riferirsi a tutti i reati che la continuazione avvince complessivamente considerati, e non già solo a taluni di essi (ed in particolare a quello più grave); le sentenze che invece lo considerano come una pluralità di reati fittiziamente uniti, tendono ad applicare le circostanze esclusivamente al reato cui esse pertengono, senza possibilità di estensione applicativa agli altri reati che pure rientrano nella continuazione, né tampoco al reato continuato nella relativa, meramente fittizia unitarietà. La Corte muove dunque dalla natura e dalla ratio del reato continuato, che è quella di garantire in ogni caso al reo un trattamento più favorevole: ne discende che – come afferma la dottrina e la giurisprudenza prevalente – per la Corte il reato continuato può assumersi come un unico reato solo laddove una apposita disposizione normativa lo consideri in tal senso, ovvero laddove appunto la soluzione unitaria (e non parcellizzata) implichi un effetto più favorevole per il reo. Dinanzi alla continuazione, per la Corte non si muove dunque mai da una struttura unitaria, ma piuttosto parcellizzata, e dunque dall’autonomia e dalla distinzione tra i singoli reati che costituiscono l’esecuzione di un medesimo disegno criminoso: perché dalla parcellizzazione si possa giungere ad una considerazione unitaria della continuazione (sì da far luogo ad un “reato continuato”) occorre accertare la presenza di due specifiche condizioni, alternative tra loro: una apposita previsione di legge che disponga l’unitarietà; ovvero, la garanzia di un trattamento più favorevole al reo laddove si interpreti la continuazione come un solo reato. La Corte raggiunge questa prima conclusione operando anche un riferimento di tipo storico: la riforma del 1974 ha recato seco il passaggio da una continuazione meramente omogenea (stessa violazione di legge) ad una eterogenea (violazione della stessa o di diverse disposizioni di legge), in tal modo incrinando implicitamente la concezione unitaria del reato continuato; un colpo esplicito è stato poi sferrato dalla medesima riforma laddove, sopprimendo l’inciso contenuto nell’originario comma 3 dell’art.81 alla cui stregua “le diverse violazioni si considerano come un solo reato”, ha optato per una visione per l’appunto parcellizzata della continuazione. Anche l’intervento riconducibile alla legge c.d. ex Cirielli (251.05) in tema di decorrenza della prescrizione, che fa ormai riferimento non già al termine della continuazione, ma alla consumazione di ciascun singolo reato che da essa è avvinto, sospinge la Corte nel senso della “parcellizzazione” come regola e della unitarietà come eccezione pro reo, la concezione unitaria dovendo alfine assumersi definitivamente superata, facendo luogo la continuazione ad una pluralità di illeciti e dunque ad una peculiare ipotesi di concorso di reati che può essere assunto unitariamente solo agli effetti espressamente previsti dalla legge, primo fra tutti la determinazione della pena principale; per tutti gli altri effetti che non siano espressamente previsti, la considerazione unitaria della figura può essere ammessa solo laddove da essa sortisca una applicazione più favorevole al reo. Proprio per questo motivo, prosegue la Corte, ai fini dell’applicazione delle circostanze aggravanti ed attenuanti va considerato non già il “reato continuato”, ma ciascuno dei singoli reati avvinti dalla continuazione, onde sia al fine di valutare l’attenuante della speciale tenuità del danno o quella dell’intervenuto risarcimento del danno, sia per valutare l’aggravante del rilevante pregiudizio patrimoniale di cui agli articoli 62 e 61 c.p., tanto l’entità del danno quanto l’efficacia della condotta riparatoria attribuibile al reo vanno valutati in relazione a ciascun singolo reato esecutivo del medesimo disegno criminoso, e non già al “reato continuato” unitariamente assunto. Prima ricaduta dell’interpretazione della Corte è che, al fine di individuare quale sia la violazione (reato) più grave ai sensi dell’art.81, comma 2, c.p. occorre considerare anche le circostanze aggravanti e quelle attenuanti riferite a ciascuno tra i singoli reati avvinti dalla continuazione; una volta individuato il reato più grave, se quest’ultimo è circostanziato, la pena-base per il calcolo dell’aggravamento di pena scaturente dalla continuazione sarà comprensiva della circostanza (normalmente, aggravante poiché proprio nell’aggravare implica la pertinente selezione come violazione “più grave”), mentre laddove le circostanze ineriscano agli altri reati esecutivi anch’essi del medesimo disegno criminoso, dette circostanze influiscono sul quantum concreto dell’aumento di pena rispetto alla pena-base.
*Il 27 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n.6853 , Maciocco, che ribadisce come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 2, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p.
*Il 12 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.19978 che, andando in contrario avviso rispetto al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, afferma che per “violazione più grave” ai fini della continuazione deve assumersi quella “concretamente” tale, e dunque non già su un piano astratto. Occorre dunque vedere come ha concretamente punito il giudice, non già come ha astrattamente previsto la punizione il legislatore. Bisogna giungere – per ciascuno dei reati, ed in disparte le relative previsioni edittali – alla pena da infliggere in concreto, a valle della valutazione di ogni singola circostanza e dell’eventuale giudizio di comparazione ex art.69 c.p.; solo una volta compiuta questa operazione per ciascuna delle violazioni perpetrate, e dunque dei reati commessi, si individua quella più grave sulla quale applicare il quantum di aumento per la continuazione.
2010
*Il 9 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.12675 che, andando in contrario avviso rispetto al prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità, afferma che per “violazione più grave” ai fini della continuazione deve assumersi quella “concretamente” tale, e dunque non già su un piano astratto. Occorre dunque vedere come ha concretamente punito il giudice, non già come ha astrattamente previsto la punizione il legislatore. Bisogna giungere – per ciascuno dei reati, ed in disparte le relative previsioni edittali – alla pena da infliggere in concreto, a valle della valutazione di ogni singola circostanza e dell’eventuale giudizio di comparazione ex art.69 c.p.; solo una volta compiuta questa operazione per ciascuna delle violazioni perpetrate, e dunque dei reati commessi, si individua quella più grave sulla quale applicare il quantum di aumento per la continuazione.
*Il 12 febbraio esce la sentenza delle V Sezione della Cassazione n.12473, Salviani, che ribadisce come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 2, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p.
*Il 23 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.11087, che ribadisce come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 2, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p.
*Il 23 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.34382 che ribadisce come la “violazione più grave” nella continuazione vada individuata secondo criteri astratti, e non concreti, e dunque facendo riferimento alla pena in astratto prevista dal legislatore; solo questa opzione garantisce infatti la certezza del diritto ancorando la decisione del giudice a criteri predeterminati dalla legge e, per l’appunto, astratti, tagliando alla radice la possibilità di interpretazioni discrezionali e soggettive da parte del giudice medesimo. Del resto, il codice penale parla di “violazione più grave”, e non già di “pena più grave”, ponendosi a monte rispetto alla punizione e guardando quest’ultima come il frutto di una scelta astratta e legislativa, non già concreta e giurisdizionale, vale a dire discrezionale nell’ambito della forbice edittale. Per la Corte peraltro non occorre fare riferimento – per ciascuna delle violazioni commesse tra le quali identificare quella “più grave” – agli indici c.d. “di gravità concreta” previsti dall’art.133 c.p., dovendosi il giudice piuttosto, e più semplicemente, affidare alla pena edittale siccome prevista per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato). Si tratta di una interpretazione che peraltro, per la Corte, meglio si adatta alla lettera della legge, e ciò proprio in quanto il codice all’art.81, comma 2, parla di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave, locuzione che avrebbe utilizzato laddove avesse voluto far riferimento ad un criterio di ordine “concreto” e non astratto, come tale ancorato agli indici di determinazione della pena previsti dall’art.133 c.p.
2011
Il 5 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.13609 che si occupa della possibilità di configurare una continuazione tra associazione per delinquere e singoli reati fine. La Corte, pur ammettendo astrattamente tale configurabilità, la nega nel caso di specie in relazione a quei reati fine che – pur rientrando nell’ambito delle attività del sodalizio criminoso e palesandosi finalizzati a rafforzarlo – non sono stati programmati (né erano programmabili) ab origine dai sodali, per essere gli stessi legati a circostanze ed eventi contingenti ed occasionali o comunque non immaginabili al momento in cui l’associazione ha preso abbrivio.
*Il 2 luglio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, n.29581, che ribadisce cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: per la Corte si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare consistente allarme sociale a cagione di questa stabilità; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente esaurimento dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso.
2012
Il 5 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.39378 che si occupa degli elementi costitutivi dell’associazione a delinquere nel solco della pertinente giurisprudenza di legittimità: si tratta della formazione e della permanenza di un vincolo associativo continuativo tra 3 o più persone con lo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti, giusta predisposizione comune dei mezzi occorrenti per la realizzazione del pertinente programma delinquenziale e – sul crinale soggettivo – giusta permanente consapevolezza in capo a ciascun associato di far parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del programma stesso. La sentenza è importante perché si sofferma sul grado di organizzazione necessario per configurare la ridetta associazione, elemento idoneo a distinguerla dalla mera partecipazione a titolo di concorso rispetto ad una serie di reati avvinti dalla continuazione senza che tuttavia vi sia alle spalle una associazione, e dunque una (più o meno) stabile organizzazione. Ripercorrendo la giurisprudenza sul punto, la Corte rileva come il grado di organizzazione necessario per predicare la sussistenza di una associazione a delinquere sia stato di volta in volta individuato ora nel mero accordo afferente ad un generico programma criminoso (c.d. affectio societatis sceleris); ora nella semplice e rudimentale predisposizione comune di attività e di mezzi tra gli associati; ora in un minimo di organizzazione capace di autonomizzare il sodalizio rispetto ai delitti scopo, con necessità che l’organizzazione associativa sia adeguata rispetto al programma criminoso divisato. Secondo la Corte non è mancata, nel corso degli anni, una progressiva rarefazione degli elementi capaci di identificare un’associazione a delinquere, massime proprio dal punto di vista strutturale, talvolta accontentandosi la giurisprudenza di un accordo di carattere generale inteso all’attuazione di un programma del tutto indeterminato di reati scopo, rilevante in sé ed a prescindere dalla effettiva consumazione di questi ultimi. Lo stesso elemento organizzativo, segnala la Corte, è divenuto via via sempre più secondario, essendo sufficiente provare che si sia perfezionato un accordo tra i sodali. E tuttavia, per la Corte anche tale rarefazione dell’elemento organizzativo dell’associazione per delinquere non appare idonea a scalfire la distinzione, pure pretoriamente delineata, tra concorso necessario proprio dell’associazione a delinquere e concorso eventuale nella continuazione, ovvero in una serie di reati avvinti dal medesimo disegno criminoso, essendo necessario comunque nel primo caso (associazione a delinquere; concorso necessario) un vincolo associativo che si fonda su un accordo stabile e duraturo, capace di creare un consistente allarme sociale, mentre nel secondo (continuazione; concorso eventuale nella serie di reati avvinti dal medesimo disegno criminoso) palesandosi sufficiente un accordo occasionale, contingente, accidentale che punti alla realizzazione di uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso per esaurirsi nella commissione degli stessi, con assai minore allarme sociale.
Il 22 ottobre esce l’importante ordinanza della II sezione della Cassazione n.41084 che – rilevato il pertinente (e persistente) contrasto di giurisprudenza – rimette alle SSUU la questione se per violazione più grave di cui all’art.81, comma 2, c.p. in tema di reato continuato debba assumersi quella ricavata per via astratta ed edittale secondo la previsione legislativa, ovvero quella in concreto punita più gravemente a valle dell’accertamento operato dal giudice penale.
2013
Il 13 giugno esce la sentenza delle SSUU n.25939, Ciabotti, onde, in tema di reato continuato, conformemente all’orientamento maggioritario, la violazione più grave va individuata in astratto sulla base della pena edittale prevista per il reato più grave, dovendosi assumere per reato più grave quello per cui è prevista la pena edittale maggiore tenuto conto tuttavia delle circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e l’eventuale giudizio di comparazione tra di esse. Se dunque si è al cospetto, nel contesto del medesimo disegno criminoso, di delitti e contravvenzioni, non potrà mai assumersi più grave una contravvenzione, anche perché il legislatore valuta sempre più grave la violazione compendiante un delitto rispetto a quella punita come contravvenzione, come dimostrano diversi istituti dell’ordinamento penale anche latamente inteso (prescrizione ed altro ancora). Peraltro, ponendosi anche dal punto di vista della Costituzione, non può essere il giudice a decidere quale violazione sia più grave di un’altra, dal momento che tale valutazione spetta in astratto al legislatore, del quale verrebbe – in tesi opposta – invaso il campo da parte del giudice medesimo. Del resto, il legislatore del codice penale si esprime proprio in termini di “violazione” più grave, e non già di “pena” più grave: la violazione è cosa distinta ed autonoma rispetto alla pena, ed evoca una condotta che contrasta con una norma incriminatrice disegnata dal legislatore, che la correda con un minimo ed un massimo edittale di sanzione comminabile. Ancora, da un punto di vista logico-sistematico la Corte fa notare come il legislatore processuale penale àncori diversi istituti in cui rileva la gravità del reato alla pena astrattamente comminata dalla legge, e non già a quella concretamente determinata dal giudice, come nelle ipotesi delle misure cautelari ovvero della competenza (per materia o per connessione). Peraltro, pur rimanendosi su di un piano astratto, la nozione di “violazione più grave” ha per la Corte una valenza non già semplice, ma “complessa”, che implica di necessità la valutazione di come tale violazione si è concretamente manifestata, dovendosi in particolare tenere conto delle circostanze che da tale epifania sono affiorate (a meno che specifiche e tassative disposizioni escludano, a determinati effetti ed ancora una volta su di un piano astratto, la rilevanza delle ridette circostanze o di talune di esse), onde l’individuazione in astratto della pena edittale richiede comunque calcolarsi nel minimo l’effetto di riduzione per le attenuanti e nel massimo l’effetto di aumento per le aggravanti, che potrebbero neutralizzarsi in caso di bilanciamento paritario. Ne escono le linee guida per l’individuazione della violazione più grave ai fini della continuazione, onde occorre sempre guardare in primis alla pena principale che il legislatore commina (i delitti sono sempre più gravi delle contravvenzioni, indipendentemente dalla forbice edittale); in presenza di più delitti o di più contravvenzioni, si considera più grave la violazione (reato) con il massimo edittale di pena più elevato e, a parità di massimi, quello con il minimo edittale più elevato; detti massimo e minimo vanno tuttavia calcolati tenendo conto, per ciascuna violazione (e dunque per ciascun reato) dell’effetto di riduzione indotto dalle attenuanti e dell’effetto di aumento indotto dalle aggravanti, oltre che dell’eventuale bilanciamento e degli effetti che esso sortisce in termini neutri, di aumento o di diminuzione; sicché viene ribadito il criterio astratto, ma si tratta di un astratto in parte “concretizzato” da come la violazione si è manifestata, e dunque dalle pertinenti circostanze, seppure facendo sempre riferimento alla forbice edittale per dette circostanze prevista astrattamente dal legislatore (e non alla concreta punizione inflitta dal giudice). Individuata la violazione più grave, la pena base sulla quale calcolare l’aumento fino al triplo ai fini della continuazione non può mai – per la Corte – essere inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati avvinti dal medesimo disegno criminoso.
2014
Il 25 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.32 che dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49. In sostanza, e per quanto qui di interesse, la Corte dichiara non conforme a Costituzione la legge c.d. Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti, nella parte in cui equipara il trattamento sanzionatorio penale previsto per le droghe c.d. pesanti anche alle droghe c.d. leggere (facendo così rivivere la precedente legge Jervolino-Vassalli, più favorevole per chi avesse posto in essere condotte penalmente rilevanti legate a droghe “leggere”).
Il 14 aprile esce la sentenza delle SSUU n.16208 che si pronuncia sul quesito di diritto se viola o meno il divieto di reformatio in peius scolpito all’art.597 del codice di rito penale il giudice di rinvio (giudice dell’impugnazione) che, individuata la violazione più grave ai sensi dell’art.81, comma 2, c.p. in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Cassazione che ha disposto il rinvio, apporti per uno dei reati in continuazione un aumento di pena maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore. Nel dare risposta negativa a tale quesito di diritto – peraltro specificando come la irrevocabilità della decisione della Cassazione sulla responsabilità penale dell’imputato e sulla qualificazione giuridica dei fatti ascrittigli, quand’anche vi sia stato rinvio ai fini della determinazione della pena, esclude (ex art.2, comma 4, c.p.) che la successiva entrata in vigore di una legge modificativa più favorevole possa trovare applicazione nel giudizio di rinvio – la Corte si sofferma in modo significativo sulla figura della continuazione e sul meccanismo normativo che la compendia, forgiando il “reato continuato”. Per la Corte, quando unico appellante è l’imputato, il meccanismo previsto dall’art.81, comma 2, c.p. non può implicare per lui un effetto in peius: e per divieto di peggioramento non potrebbe – almeno a prima vista – intendersi solo il mutamento in peius della pena complessiva irrogata, ma occorrerebbe spingersi a considerare anche come essa viene irrogata, e dunque al rapporto tra pena base e quantum di aumento per i reati satellite. Ma ad un più attento esame, occorre preliminarmente verificare se il reato continuato vada visto in termini unitari, ovvero in termini atomistici, e dal punto di vista strutturale esso si palesa in realtà porsi a metà strada, al confine tra concorso materiale (atomistico) e formale (unitario): da un lato infatti si assiste ad un concorso materiale di reati, e dall’altro vi è il fattore unificante del medesimo disegno criminoso, con meccanismo sanzionatorio (cumulo giuridico) identico a quello previsto per il concorso formale, con necessità di identificare la violazione più grave per aumentarla fino al triplo. L’agente cede ai motivi a delinquere una sola volta, stante il complessivo disegno criminoso che egli forgia, con minore riprovevolezza complessiva della relativa condotta e più mite trattamento sanzionatorio, onde caratteristica del reato continuato (pur essendosi al cospetto di un concorso materiale di reati) è l’unificazione della pena che – una volta individuata la violazione (reato) più grave – tende a cancellare l’individualità degli altri reati satellite che, qualora siano assistiti (come sovente accade) da pene eterogenee, divengono meri componenti di un aumento della pena base prevista per la violazione più grave: persa in qualche modo la propria singola identità, i reati satellite la ritrovano, per così dire, solo nel momento in cui va determinato il limite di ciascun aumento di pena, che non può comunque superare (anche spingendosi fino al triplo della pena base) il limite del cumulo materiale. Concludendo, si fa applicazione del cumulo giuridico, con pena base (violazione più grave) e singoli aumenti di pena di cui ai reati satellite secondo un certo ordine di sequenza: qualora muti uno dei termini, ovvero l’ordine della pertinente sequenza, si ha novazione strutturale del meccanismo di unificazione (giusta cumulo giuridico) del trattamento sanzionatorio (che normalmente atterrebbe ad un concorso materiale di reati); bisogna allora sempre considerare, come parametro per valutare un eventuale trattamento in peius, la pena finale (unificata), che è l’unico limite davvero invalicabile da parte del giudice del gravame (anche in sede di rinvio), stando anche al parametro della “pena complessivamente irrogata” previsto dall’art.597 c.p.p., sicché quel che conta per valutare se si è al cospetto di un trattamento sanzionatorio in peius, vietato, è la pena complessiva che funge da parametro, e non già i singoli segmenti di pena per come concretamente (e diversamente) determinati dai due giudici del primo grado, prima, e dell’impugnazione, poi.
2015
Il 28 maggio esce la sentenza delle SSUU n.22471, che – a valle della sentenza della Corte costituzionale n.32 del 2014 in tema di trattamento sanzionatorio (necessariamente differenziato) per condotte penalmente rilevanti afferenti, rispettivamente, a droghe leggere e a droghe pesanti – viene chiamata a stabilire se, in presenza di condanna per reato continuato, in simili casi – in cui le condotte afferenti a droghe leggere hanno assunto il ruolo di reati satellite, in quanto meno gravi – si debba procedere ad una rivalutazione del complessivo trattamento sanzionatorio alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali ultime violazioni (a seguito della pronuncia della Consulta), ovvero se, considerato l’effetto unificante del meccanismo sanzionatorio ai sensi dell’art.81, comma 2, c.p., a tanto non si debba procedere, dal momento che i singoli aumenti di pena si atteggiano a meri “incrementi sanzionatori” della individuata pena base. La Corte opta per la prima soluzione, onde per i delitti previsti dall’art.73 del D.p.R. 309.90, l’aumento di pena calcolato a titolo di continuazione per i reati satellite in relazione alle c.d. droghe leggere deve essere oggetto di specifica rivalutazione da parte dei giudici di merito, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali violazioni a seguito della sentenza n.32 del 2014 della Corte costituzionale, che, nel dichiarare incostituzionali gli articoli 4.bis e 4.vicies-ter della legge 49.06 (di conversione del decreto legge 272.05) ha determinato la reviviscenza della più favorevole disciplina anteriormente vigente. Per la Corte è la stessa “visione multifocale” del reato continuato (ora unitaria, ora pluralistica) che dà ragione della necessità della individuazione delle singole pene per i reati-satellite ed è essenziale ai fini della “misura” degli aumenti da apportare alla pena-base. La perdita della autonomia sanzionatoria dei reati-satellite nell’ambito del reato continuato non comporta affatto infatti, per la Corte, la irrilevanza della valutazione della gravità dei predetti reati, in sé considerati, per l’ottima ragione che il momento sanzionatorio segue quello valutativo e dunque lo presuppone e – ovviamente – si distingue da esso. Proprio la lettera del comma 2 dell’art. 533 del codice di rito (per il quale se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione), anzi, impone tale procedura bifasica, una procedura per la quale il giudicante, prima, “stabilisce” la pena per ciascun reato, poi, “determina” la pena da applicare per il reato unitariamente considerato. La seconda fase (la “determinazione“) per le SSUU ovviamente presuppone la prima, ridefinendo, in vista della unitaria risposta repressiva, la pena “complessiva“ da applicare. La riprova della fondatezza di tale assunto la giurisprudenza la fornisce con riferimento al tema dell’incidenza delle circostanze in relazione al reato continuato. Invero, procede la Corte, se è indubbio che il giudizio di bilanciamento ai sensi dell’art. 69 c. p. deve effettuarsi solo con riguardo alle circostanze inerenti il reato più grave (vengono citate della Sez. 6 la sentenza n. 10266/91, Capozza, e della Sez. 5 la sentenza n. 4609/96, Soggia), nondimeno, le circostanze inerenti il reato-satellite, se pure rimangono – come si è appena detto – prive di efficacia nella determinazione della pena-base, devono esser tenute presenti, sia per identificare il reato – in astratto – più grave (appunto: per la determinazione della predetta pena-base), sia per determinare l’aumento che, in relazione a ciascun “reato minore“, deve essere apportato alla pena-base. Ed è anzi stato chiarito (viene richiamata, della Sez. 1, la sentenza n. 33758 /01, Cardamone, e della Sez. 3, la sentenza n. 1810/10) che ciò deve avvenire anche nel caso in cui si tratti di circostanza (del reato satellite) incompatibile con la violazione più grave.
2017
Il 10 febbraio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 6296 che interviene in tema di calcolo in sede di esecuzione degli aumenti per il reato continuato. Analizzando l’art. 671 c.p.p., la Corte prende atto dell’esistenza di due teorie. Secondo la prima, la norma richiamata deve essere interpretato nel senso che essa esclude la possibilità di rettificare in aumento la pena inflitta per le singole fattispecie criminose minori. A sostegno di tale conclusione le pronunce di legittimità: a) valorizzano il principio del favor rei che ispirerebbe l’istituto; b) evidenziano il dato processuale che è l’interessato a domandare l’applicazione del principio a sentenze rimesse alla sua esclusiva scelta, di guisa che ricorre nella specie la legittima aspettativa dell’intangibilità in peius della decisione; c) argomentano che, pur in assenza di un disposto normativo espresso, il giudicato è vincolante in sede di esecuzione, e che esso può essere superato soltanto a favore del condannato In base alla seconda, il giudice dell’esecuzione è vincolato alla individuazione del reato più grave ed alla pena per esso stabilita, senza che analogo vincolo ricorra quanto al trattamento sanzionatorio relativo ai reati-satellite, per i quali può pertanto rideterminare la pena in misura superiore a quella inflitta in sede di cognizione. A sostegno della tesi si richiama il dettato normativo dell’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., il quale fa riferimento al solo limite della entità complessiva della pena inflitta col singolo titolo dedotto per la continuazione, e si assume che siffatta operazione non viola il divieto di reformatio in peius. Il Collegio aderisce all’indirizzo più favorevole al reo evidenziando come: a) l’istituto disciplinato dall’art. 671 cod. proc. pen., nella intenzione del legislatore, ha la funzione di mitigare il regime sanzionatorio riveniente dalle sentenze pronunciate dal giudice della cognizione, considerata la difficoltà, attesa la natura del processo accusatorio, di pervenire alla celebrazione di processi complessi e coinvolgenti plurime condotte riferibili ad un medesimo imputato, difficoltà che il legislatore non ha inteso far gravare su quest’ultimo; b) trattasi, comunque, di una potestà di tipo correttivo, rimessa in executivis, pur sempre subordinata alla decisione del giudice del processo circa ogni accertamento finalizzato all’applicazione della continuazione; c) La riconosciuta cedevolezza del giudicato è stata applicata sempre e soltanto in favore del condannato e mai contro, di guisa che l’opzione favorevole alla possibilità di una decisione in peius del giudice dell’esecuzione, chiamato a determinare la sanzione del reato-satellite nella situazione data dal ricorso in esame, si appalesa contraria all’attuale fase evolutiva del diritto penale e processuale. Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: “Il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna”.
2018
L’11 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 866 che, giudicando su una complessa situazione di fatto, richiama l’attenzione sull’oggetto del giudizio al fine della concessione del più favorevole trattamento del reato continuato. A tale scopo, è importante che venga dimostrata sul piano giuridico la riconducibilità delle condotte a un’unica ideazione criminosa posta a base di un originario e unitario programma criminoso e non, piuttosto, la inclinazione criminosa del reo in termini di scelta di vita ispirate alla sistematica consumazione di illeciti, non predeterminati nelle loro linee essenziali, per reperire, sussistendone l’occasione o l’opportunità, denaro/provvista economica.
Il 12 gennaio 2018 esce la sentenza della Cassazione penale, sez. I, n. 979, che si pronuncia in tema di procedimento di esecuzione. Sostiene la Corte che è improponibile davanti alla Corte di cassazione (e, quindi, inammissibile il relativo motivo di ricorso) la richiesta di applicazione della continuazione tra un reato ancora sub iudice ed altro reato per il quale sia intervenuta condanna definitiva successivamente alla pronuncia della sentenza oggetto di ricorso, rimanendo aperta, in tale eventualità, soltanto la possibilità che la continuazione venga applicata, in sede esecutiva, ai sensi dell’art. 671 c.p.p.
L’8 marzo esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 53 che avalla l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unita circa l’applicabilità della disciplina del reato continuato anche in sede esecutiva.
L’11 aprile esce l’ordinanza della IV sezione della Cassazione n. 16104 che rimette alle Sezioni Unite la questione se sia ammissibile la continuazione tra reati puniti con pene eterogenee e se, in ossequio al favor rei, ferma la configurabilità della continuazione tra reati puniti con pene eterogenee, ove il reato più grave sia punito con la pena detentiva e quello satellite esclusivamente con la pena pecuniaria, l’aumento di pena per quest’ultimo debba conservare il genere di pena pecuniaria.
Il 26 luglio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 35852 sull’esatta applicazione dello sconto di un terzo in caso di applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri con rito abbreviato. La Corte giunge ad affermare che l’applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri giudicati con rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi deve operare la riduzione di un terzo della pena. In particolare, dal punto di vista applicativo, il giudice della nomofilachia insegna che se la violazione più grave è quella giudicata con rito abbreviato, prima si applica la riduzione di 1/3 (di natura processuale premiale) prevista per il rito abbreviato e poi si aumenta la pena fino al triplo tenendo conto dei reati giudicati con rito ordinario; non si può invece determinare la pena complessiva muovendo dal reato giudicato con rito abbreviato, aumentando prima fino al triplo e poi procedendo alla riduzione di pena (processuale premiale) di 1/3 per l’intera pena così determinata perché i questo modo si finirebbe per applicare l’istituto processuale premiale anche con riguardo a reati giudicati con rito ordinario ed in relazione ai quali l’imputato non ha chiesto la premialità dell’abbreviato (rinunciando contestualmente al dibattimento e a tutti gli altri effetti riconnessi al rito ordinario).
Il 27 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 36036 in tema di rapporti tra reato continuato e abitualità del reato. La Cassazione ricorda i propri precedenti insegnamenti secondo cui se quindi già in sede di cognizione, i giudici, a prescindere dal rito seguito nella celebrazione del processo, abbiano rapportato la violazione di volta in volta accertata e quelle già giudicate in precedenza con distinti titoli di condanna ad unica fattispecie penale continuata, viene meno la possibilità di ravvisare la pluralità di delitti nel numero minimo preteso per legge per configurare l’abitualità nel reato. Del resto, come sostenuto dalla più autorevole dottrina, l’abitualità postula un impulso criminoso reiterato nel tempo ed autonomamente emerso e realizzato in concreto, che è incompatibile con l’essenza stessa della continuazione, che resta qualificata da una ideazione e determinazione unitaria di più reati poi realizzati separatamente, al punto che può affermarsi l’incompatibilità tra i due istituti.
L’11 settembre esce la sentenza della II sezione civile della Cassazione n. 22028 che ritiene non applicabili le regole del reato continuato in caso di sanzioni amministrative. Ricorda la Corte che l’istituto del cumulo giuridico tra sanzioni è applicabile alla sola ipotesi di concorso formale (omogeneo o eterogeneo) tra le violazioni contestate – per le sole ipotesi, cioè, di violazioni plurime commesse con un’unica azione od omissione – non essendo per converso invocabile con riferimento alla diversa ipotesi di concorso materiale, cioè, tra violazioni commesse con più azioni od omissioni. In tal caso, infatti, non può invocarsi neppure l’art. 81 c.p. in tema di continuazione tra reati, sia perché l’art. 8 della I. n. 689 del 1981 prevede espressamente tale possibilità soltanto per le violazioni in materia di previdenza e assistenza, sia perché la differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo non consente che, attraverso un procedimento di integrazione analogica, le norme di favore previste in materia penale vengano tout court estese alla materia degli illeciti amministrativi. Pertanto, qualora sulla base della pluralità oggettiva delle condotte poste in essere dal trasgressore si individui una fattispecie di concorso materiale, ne consegue l’applicazione della regola del c.d. cumulo materiale e, quindi, quod poenam, delle sanzioni previste per ogni singola violazione.
Il 24 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 40983 in tema di continuazione tra reati puniti con pene eterogenee. La continuazione, quale istituto di carattere generale, è applicabile in ogni caso in cui più reati siano stati commessi in esecuzione del medesimo disegno criminoso, anche quando si tratti di reati appartenenti a diverse categorie, e puniti con pene eterogenee. Nei casi di reati puniti con pene eterogenee (detentive e pecuniarie), posti in continuazione, l’aumento di pena per il reato satellite va comunque effettuato secondo il criterio della pena unitaria progressiva per moltiplicazione, rispettando tuttavia, per il principio della pena e del favor rei, il genere della pena previsto per il reato satellite, nel senso che l’aumento della pena detentiva del reato più grave andrà ragguagliato a pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 c.p..
L’11 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 46132 che, sempre in tema di effetti in executivis del reato continuato riconosce che, ai fini della possibile revoca dell’indulto, nel caso di commissione di delitti non colposi unificati dalla continuazione entro cinque anni dall’entrata in vigore della legge sull’indulto, il giudice dell’esecuzione deve accertare quale sia la pena rilevante (non inferiore a due anni) individuandola fra quelle in concreto inflitte per ciascun reato.
Il 30 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 49700 sui benefici penitenziari concedibili in caso di reato continuato. Secondo la Corte se sussistono più condotte delittuose, legate dal nesso della continuazione, di cui alcune integrate prima del compimento dei settant’anni, non trova applicazione il beneficio di cui all’art. 163, comma 3, c.p. (sospensione condizionale della pena), dovendo tutti i fatti essere stati realizzati dopo il raggiungimento del limite di età prescritto per legge.
Il 9 novembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 51063 che intervengono sul caso di detenzione congiunta di diverse sostanze stupefacenti. Non è dubbio, chiosa la Corte, che condotte consumate in contesti diversi – e che non abbiano ad oggetto il medesimo quantitativo di stupefacente od una sua partizione – realizzano fatti autonomi e che, qualora uno degli stessi possa essere qualificato di lieve entità, i reati rispettivamente integrati concorrono e, sussistendone i presupposti, possono essere unificati ai fini ed ai sensi dell’art. 81, secondo comma, cod. pen., anche a prescindere dalla omogeneità od eterogeneità delle sostanze che ne costituiscono l’oggetto. La consumazione in tempi diversi, ma in unico contesto di più condotte tipiche (inevitabilmente diverse tra loro) in riferimento al medesimo oggetto materiale (inteso nella sua identità naturalistica), integra invece un unico fatto di reato, atteso che quelle contenute nei commi 1 e 4 dell’art. 73 T.U. stup. sono norme miste alternative. La loro eventuale convergenza con la disposizione del comma 5 sull’unico fatto configurabile determina poi un concorso apparente tra norme incriminatrici che, come pure si è già illustrato, deve essere risolto in favore di quest’ultimo qualora il fatto medesimo venga ritenuto di lieve entità.
Il 28 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 53408 che, ribadisce il consolidato principio secondo cui il diritto di querela, in caso di reato continuato, decorre dal momento in cui la persona offesa giunge a conoscenza del reato, ossia dal momento in cui quest’ultima sia in possesso di tutti gli elementi di valutazione necessari per determinarsi e proporre l’istanza punitiva. Il reato continuato, quindi, deve essere considerato quale fenomeno unitario solo per i limitati fini previsti espressamente dalla legge. Pur in presenza di un unico disegno criminoso, infatti, ogni episodio delittuoso ha sue proprie caratteristiche e diversa potenzialità lesiva: la persona offesa, conseguentemente, ha il diritto di determinarsi diversamente con riguardo a ciascuno degli episodi, formulando, eventualmente, solo per taluni di essi istanza di punizione del presunto responsabile e soprassedendo per altri. Da ciò discende la necessità di far decorrere il relativo termine autonomamente per i singoli reati; né sarebbe ragionevole ritenere che il soggetto passivo possa chiedere, sin dal verificarsi del primo episodio, anche la punizione del reo per episodi futuri.
Il 19 dicembre esce la sentenza della Corte di Cassazione n. 57355, sez. IV penale, che si pronuncia sui rapporti esistenti tra reato continuato, recidiva e abitualità della condotta ex art. 131 bis c.p. Sostiene la Corte di Cassazione che a configurabilità della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto non è compromessa dalla presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora da questi emergano elementi incompatibili con l’abitualità ex dell’art. 131-bis c.p.p..
2019
Il 9 gennaio esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I Penale, n. 749, che si pronuncia sugli elementi caratterizzanti l’identità del disegno criminoso, proprio del reato continuato. Afferma in pronuncia la Corte che la brevità del lasso temporale che separa i diversi episodi illeciti, l’unitarietà del contesto, l’analogia dei singoli reati, l’identità della spinta a delinquere non costituiscono indizi necessari di una programmazione e deliberazione unitaria, ma ciascuno di questi elementi incrementa la possibilità di accertamento dell’esistenza di un medesimo disegno criminoso.
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Il 7 marzo esce la sentenza n. 10026 della Corte di Cassazione, sez. I Penale, in tema di obbligo di motivazione del giudice in caso di riconoscimento del vincolo della continuazione in sede esecutiva. Il giudice, segnatamente, ha l’obbligo di fornire un’adeguata motivazione solo nel caso in cui la diminuzione di pena sia lieve. Con la decisione in commento, la Suprema Corte ha ribadito un principio, ormai consolidato in giurisprudenza, secondo cui l’obbligo di motivazione dei provvedimenti, ed in particolar modo quello connesso alla definizione dei criteri utilizzati per la determinazione della pena, è direttamente connesso all’entità della pena irrogata.
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Il 12 aprile esce la sentenza dalla Corte di Cassazione, sez. I penale, n. 16128, che si pronuncia sulla rilevanza del contesto socio-ambientale per il riconoscimento della continuazione tra reati commessi da un minore, sancendo che spetta al giudice, con adeguata motivazione, considerare l’incidenza delle condizioni sociali e ambientali in cui il minore è cresciuto sulla programmazione delle condotte illecite tenute, in considerazione della particolare sensibilità del soggetto e della sua condizionabilità dal contesto che lo circonda.
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Il 16 aprile esce la sentenza n. 16502 della Corte di Cassazione penale, sez. III, che si pronuncia sancendo che Il reato continuato è compatibile con l’esclusione della punibilità per particolare tenuità, nel caso in cui si tratti di più azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e nei confronti della stessa persona.
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Il 13 maggio esce la sentenza n. 20536 della Corte di Cassazione, sez. V penale, che si pronuncia sugli atti persecutori, propri della condotta del delitto di stalking, e sulla loro qualificazione, chiarendo che gli atti persecutori costituiscono un’unitaria condotta offensiva e non una pluralità di delitti continuati. Il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. ha carattere abituale ed è il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso. Pertanto, la reiterazione degli atti considerati tipici, anche se realizzati con strumenti differenti, costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, senza che si configuri una pluralità di delitti avvinti sotto il vincolo della continuazione.Il 7 ottobre esce la sentenza n. 41063 della Corte di Cassazione penale, sez. III, che afferma il principio di diritto secondo cui l’imputato che richiede il riconoscimento della continuazione con reati già giudicati non può limitarsi ad indicare gli estremi delle sentenze rilevanti a tal scopo, ma ha l’obbligo di produrne la copia, dato che questi è assistito in giudizio da un difensore che ha a sua volta l’onere di produrre gli elementi posti alla base dell’istanza.
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Il 3 giugno esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I penale, n. 24660, che si pronuncia sui presupposti per il riconoscimento della continuazione tra reati. Decidendo in merito al ricorso avverso il diniego dell’applicazione della disciplina della continuazione tra reati, gli Ermellini richiamano i principi consolidati dalla giurisprudenza in tema di accertamento dell’unicità del disegno criminoso, presupposto per l’applicazione dell’invocata disciplina.
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Il 6 giugno esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. I Penale, n. 25205, che si pronuncia sulla rilevanza della condizione di tossicodipendenza dell’imputato ai fini del giudizio sulla sussistenza della continuazione tra reati, stabilendo che ai fini del giudizio sulla sussistenza della continuazione tra reati, il giudice non può tralasciare la condizione di tossicodipendente dell’imputato, debitamente documentata in giudizio.
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Il 1° luglio esce la sentenza della Cassazione penale, sez. III, che si pronuncia sulla sospensione condizionale della pena, nel caso del reato continuato, affrontando la questione se possa fuirne l’ultrasettantenne. Sostiene la Corte che in presenza di più episodi criminosi, avvinti dal vincolo
della continuazione, ove alcuni di essi siano stati commessi in epoca in cui l’imputato non aveva ancora compiuto settant’anni, non può trovare applicazione il disposto dell’art. 163, comma 3, c.p. che presuppone che tutti i fatti siano stati commessi “da chi ha compiuto gli anni settanta”, neppure rilevando l’eventuale circostanza che il fatto più grave sia stato commesso quando l’imputato aveva già compiuto i settant’anni.
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Lo stesso giorno esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. V, n. 28364, che affronta la questione se tra le condotte condotte di produzione, detenzione e traffico di stupefacenti, si possa ritenere configurabile il relativo assorbimento o il vincolo della continuazione tra le stesse. Questa è la questione di Massima, sostenuta dalla Corte di Cassazione: ai sensi dell’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, che prevede condotte tra loro alternative e concorrenti, potrà realizzarsi un assorbimento tra le stesse, che cosi perdono la loro individualità, quando queste si riferiscano alla stessa sostanza stupefacente e siano indirizzate ad un unico fine, cosicché, se consumate senza una apprezzabile soluzione di continuità, devono considerarsi come condotte plurime di un unico reato. Di contro, nel caso di scissione temporale tra due condotte, non potrà parlarsi di condotte plurime di un medesimo reato, ma di condotte diverse, suscettibili di essere avvinte dal vincolo della continuazione.
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Il 14 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione penale, sez. III, n. 46370, che riconosce che, in caso di ricorso presentato denunciando il vizio di omesso errore del giudice di merito sull’applicazione dell’aumento di pena, previsto per il reato continuato, la Corte di Cassazione può eventualmente annullare senza rinvio al giudice di merito, con rideterminazione della sanzione. In specie, ove l’aumento per la continuazione determinato dal giudice di merito superi il triplo della pena inflitta per la violazione ritenuta più grave, la Cassazione deve annullare la sentenza senza rinvio e rideterminare direttamente la sanzione fissandola nel valore triplo di quella inflitta per il reato base, ritenuta la pena quale risultante dall’applicazione delle circostanze ed aggravanti e dalla comparazione delle stesse ex art. 69 c.p..
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Il 3 dicembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, n. 49026, che riconosce che l’istituto del reato continuato è applicabile anche ai reati contravvenzionali. Infatti, secondo il ragionamento seguito dalla Corte, l’art 42 c.p. si limita a prevedere la punibilità delle contravvenzioni a titolo di colpa o dolo, indifferentemente. Ove sia dimostrato che le contravvenzioni commesse abbiano avuto tutte carattere doloso, l’istituto della continuazione è applicabile anche ai reati contravvenzionali.
2020
Il 25 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 7452 che si sofferma sul concetto di “medesimo disegno criminoso”. È stato chiarito che si tratta della rappresentazione, in capo al soggetto agente, della futura commissione dei reati, e dunque di elemento, che attiene alla sfera psicologica del soggetto, risalente a un momento precedente la commissione del primo fra i reati della serie considerata.
La ratio propria dell’istituto del reato continuato risiede nella considerazione che l’esistenza di un unitario momento deliberativo di più reati giustifica un trattamento sanzionatorio più favorevole e discrezionalmente determinato, non secondo i limiti edittali individuati da ciascuna fattispecie incriminatrice, bensì nel rispetto delle regole di cui all’art. 81 cod. pen..
In ordine al contenuto della rappresentazione delle future condotte criminose, va osservato che, da una parte, non può riguardare una scelta di vita, che implichi la reiterazione di determinate condotte criminose, né una generale tendenza a porre in essere determinati reati: la dedizione al delitto, il ricorso abituale ai proventi dell’attività criminosa e la soggettiva inclinazione a commettere gravi delitti dolosi sono connotazioni proprie del profilo soggettivo del reo che determinano, ai sensi degli artt. 102-108 cod. pen., un più grave trattamento sanzionatorio, e quindi risultano incompatibili con l’istituto della continuazione fra reati.
Dall’altra, la nozione di continuazione non può ridursi all’ipotesi che tutti i singoli reati siano stati dettagliatamente progettati e previsti, in relazione al loro graduale svolgimento, nelle occasioni, nei tempi, nelle modalità delle condotte, giacché siffatta definizione di dettaglio, oltre a non apparire conforme al dettato normativo – che parla soltanto di “disegno” – e a non risultare necessaria per l’attenuazione del trattamento sanzionatorio, non considera la variabilità delle situazioni di fatto e la loro prevedibilità normalmente solo in via di larga approssimazione.
Quello che occorre, invece, e che è sufficiente, è che si abbia una programmazione e deliberazione iniziale di una pluralità di condotte delineate (“disegnate”) attorno ad uno specifico elemento oggettivo idoneo a caratterizzare in termini di concretezza la deliberazione, così da poterle distinguere rispetto ad una scelta criminosa solo generica.
È significativo che anche la Corte costituzionale (sentenza n. 183 del 2013) abbia precisato che il giudizio sulla continuazione fra reati richiede sia accertato che il soggetto agente, prima di dare inizio alla serie criminosa, abbia avuto una rappresentazione, almeno sommaria, dei reati che si accingeva a commettere e che detti reati siano stati ispirati ad una finalità unitaria.
Nello stesso senso, la giurisprudenza è costante nel ricondurre la nozione in esame ad una rappresentazione, almeno sommaria o nelle linee essenziali, del fatto-reato oggetto di deliberazione, e non semplicemente di una astratta tipologia di reati.
L’accertamento dell’esistenza di un momento ideativo e deliberativo comune a più reati va compiuto, come ordinariamente avviene per l’accertamento degli stati soggettivi, secondo le regole della prova indiziaria.
Sono stati individuati una serie di elementi (il contesto di tempo e di luogo, le modalità esecutive, la comunanza di correi, il bene giuridico) rilevanti nell’accertamento in parola, da considerare con apprezzamento analitico, quanto alla specifica rilevanza di ciascuno, e complessivo, che li valuti in maniera unitaria.
Con particolare riguardo ai reati commessi da soggetto partecipe a sodalizio criminoso, si è posta la questione se la previsione del programma delittuoso del sodalizio, elemento costitutivo del reato associativo, significhi l’esistenza di un disegno criminoso comune alla partecipazione al sodalizio e alla commissione dei reati rientranti nel programma della associazione.
Di converso, ci si è chiesti se il fatto che un reato rientri nella tipologia dei reati fine di un sodalizio sia significativo di una originaria deliberazione criminosa unitaria e comune al reato associativo e ai singoli reati fine.
Osserva al Corte che la fattispecie associativa richiede l’elemento del fine di commettere più delitti, ed è stato precisato che si deve trattare di un programma criminoso indeterminato, mentre l’accordo per compiere una serie determinata di specifici delitti integra condotta di concorso morale in ciascun reato.
Ed ancora, è stato precisato che la condivisione del programma criminoso del sodalizio, proprio perché indeterminato, non determina, di per sé, responsabilità concorsuale nei reati commessi per attuare l’originario programma.
La continuazione tra reato associativo e uno o più reati-fine va quindi riconosciuta solo ove si accerti che nel momento della condivisione, da parte del partecipe, del generale programma criminoso del sodalizio – che è il momento della consumazione del delitto associativo – fosse precisato, e noto al partecipe, non solo un indeterminato programma delittuoso, ma anche la futura commissione di reati che risultino specificati, se non nel tempo e nelle modalità esecutive, comunque in relazione ad uno specifico dato fattuale idoneo a caratterizzare l’oggettività del fatto.
Dunque, chiosa la Corte, il giudizio sulla continuazione va rapportato al momento deliberativo del primo reato, che, nel caso di reato associativo, coincide con il momento in cui il soggetto inizia a partecipare al sodalizio, mentre la successiva condotta partecipativa, che si protrae nel tempo trattandosi di fattispecie di reato permanente, riguarda ancora la consumazione del reato, ma non il momento deliberativo.
L’oggetto del giudizio è la sussistenza di un disegno criminoso comune a più reati, e dunque una previsione di futuri reati indicati in termini tali da consentirne la individuazione specifica.
Si deve quindi escludere che la mera qualità di reato fine dell’associazione ovvero la mera strumentalità rispetto alla operatività del sodalizio siano elementi di per sé idonei a giustificare l’accertamento di un disegno criminoso comune al reato associativo, da una parte, e all’ulteriore e successivo reato, che sia fine o strumentale al sodalizio, dall’altra.
Le menzionate caratteristiche, infatti, consentono solo di ritenere che al momento dell’adesione al sodalizio l’associato abbia previsto la successiva commissione di un certo tipo di reati, perché rientranti nel programma associativo o perché evidentemente connessi al raggiungimento dei fini del gruppo criminale, ma non anche la futura commissione di reati specificamente individuati.
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Il 10 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 9528 onde, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, ex art. 671 c.p.p., quando la pena più grave è inerente ad una violazione già ritenuta nella sentenza di condanna in continuazione con altri reati, il giudice dell’esecuzione non può determinare aumenti di pena diversi da quelli stabiliti dal giudice della cognizione nella stessa sentenza, restando fermo però il suo potere di «autonoma determinazione degli incrementi di pena per gli ulteriori reati satelliti, separatamente giudicati e riconosciuti in continuazione con i primi, nel rispetto dei limiti statuiti in materia dagli articoli 81 e 671 c.p.p.».
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Il 6 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 13754 onde per “pena irrogata”, ai sensi dell’art. 445 cod. proc. pen., deve intendersi, nell’ipotesi di reati unificati sotto il vincolo della continuazione, quella complessivamente applicata all’esito dell’accordo sanzionatorio intervenuto tra le parti e ratificato dal giudice, ossia la pena unica finale complessivamente applicata ed eseguibile per effetto del cumulo giuridico delle sanzioni relative ai singoli reati; è a tale pena unitaria che deve aversi riguardo per rilevare l’entità della pena detentiva dalla cui misura discendono gli effetti contemplati dalla citata disposizione normativa, ivi compreso quello estintivo del reato.
Il paradigma concettuale della “pena irrogata” corrisponde al dato conclusivo, ossia alla pena complessiva applicata che, come segno della gravità del fatto-reato, costituisce, per chiara e insindacabile scelta legislativa, il discrimen ai fini dell’applicazione degli effetti riconnessi alla sentenza di patteggiamento dall’art. 445 citato: in funzione della ratio di premialità che ispira il rito del patteggiamento e al fine di incentivarne l’opzione, il legislatore ha previsto che, fino ad un determinato limite di riferimento, discrezionalmente fissato in misura non superiore a due anni di pena detentiva, l’imputato patteggiante è esentato dall’obbligo del pagamento delle spese del procedimento, è interdetta l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza e opera l’effetto estintivo del reato nel concorso delle altre condizioni di legge.
E la pena complessivamente irrogata costituisce anche misura della gravità dei reati unificati dal vincolo della continuazione e detta gravità corrisponde alla ragione per cui l’art. 445 cod. proc. pen. stabilisce un diverso trattamento, riconnettendo determinati effetti alla entità della pena finale; pena unica finale complessivamente applicata che non è più scindibile in relazione alle singole componenti, salvo il caso in cui vengano meno, per effetto del successivo proscioglimento dell’imputato, da qualsiasi causa determinato, alcune delle fattispecie criminose che costituiscono il reato continuato, il cui effetto qualificante resta pur sempre quello di accorpare distinte entità giuridiche espressione di una medesima risoluzione criminosa, trattate unitariamente ai fini del regime sanzionatorio.
Secondo la Corte, tale opzione ermeneutica è imposta dal tenore letterale dell’art. 445 cod. proc. pen., chiaramente riferito alla pena in concreto irrogata, cui vanno ricondotti gli effetti ivi contemplati, e dalla ratio ispiratrice della disciplina normativa che resterebbe elusa laddove, ai fini dell’applicabilità dell’effetto estintivo, la verifica del rispetto del limite di due anni di pena detentiva fosse condotta non già con riferimento alla pena complessivamente irrogata, ma alle quantità di pena eventualmente indicate per i singoli reati unificati per la continuazione, quale che sia la misura della pena finale, purché non superiore ai cinque anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria.
Viene dunque affermato il seguente principio: il limite di due anni di pena detentiva entro il quale, in caso di pena patteggiata, opera l’effetto estintivo previsto dall’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., deve intendersi riferito, in caso di più reati legati dal vincolo della continuazione, alla pena unica finale complessivamente applicata.
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Lo stesso giorno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 13756 onde una pena temporanea qual è la reclusione, applicata a reati separatamente giudicati, non può essere sostituita dalla diversa pena dell’ergastolo, in sede di esecuzione, per effetto del riconoscimento della continuazione tra gli stessi reati.
A tale esito ostano lettera e ratio della disciplina in materia di reato continuato.
L’art. 81, primo e secondo comma, cod. pen. dispone l’aumento fino al triplo della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, indicando al terzo comma come insuperabili, tra gli altri, i limiti agli aumenti applicabili a norma degli articoli precedenti sul concorso di reati; l’art. 187 disp. att. cod. proc. pen. impone, in caso di applicazione della disciplina del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, di considerare «violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con giudizio abbreviato»; l’art. 671, comma 2, cod. proc. pen., vieta al giudice dell’esecuzione di determinare la pena in misura superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza.
Se ne ricava, chiosa la Corte, un sistema che assume, come criterio di calcolo della pena del reato continuato, il cumulo giuridico ossia un moltiplicatore mobile (fino al triplo) di un moltiplicando fisso (pena più grave) per un prodotto (pena finale) omogeneo ai fattori impiegati, mentre il cumulo materiale consiste in una operazione di somma aritmetica di elementi (pene) che può comportare anche il superamento del triplo dell’addendo più elevato confluente nel calcolo.
Il cumulo giuridico è coerente con la finalità dell’istituto della continuazione tendente ad un trattamento sanzionatorio temperato per chi abbia commesso più violazioni della legge penale in esecuzione di un medesimo disegno, dimostrando in tal modo una volontà criminosa concentrata in un solo progetto illecito e non reiterata in plurime scelte devianti.
L’istituto della continuazione, per come disciplinato e per la finalità che esprime, non può dunque tollerare una mutazione peggiorativa della sua base sanzionatoria ovvero la trasformazione della pena temporanea della reclusione nella diversa pena dell’ergastolo, e ciò anche nel caso in cui alla pena per il delitto più grave nella misura massima di trenta anni di reclusione si sia pervenuti, a seguito di giudizio abbreviato, partendo dalla pena dell’ergastolo senza isolamento diurno.
Ricorda la Corte che il secondo comma dell’art. 73 si ponga in termini di specialità rispetto a quanto dettato dal successivo art. 78 cod. pen. in materia di limiti all’aumento di pena, poiché, se in sede cognitiva, esclude l’irrogazione della reclusione determinando l’applicazione diretta dell’ergastolo in luogo di più pene di ventiquattro anni di reclusione per più delitti, in sede di esecuzione realizza una vera e propria sostituzione delle pene originariamente inflitte con quella, di specie diversa, dell’ergastolo operando sempre, tuttavia, nell’ambito del concorso di pene temporanee non inferiori al suddetto limite per ciascun reato.
Nell’uno e nell’altro caso, quindi, il criterio regolatore di cui all’art. 73, secondo comma, cod. pen. postula una pluralità di reati o di pene concorrenti, mentre il reato continuato comporta una unificazione di plurime violazioni proprio a fini sanzionatori e, quindi, l’applicazione di una pena unica.
Se ne ricava che al reato continuato disciplinato dall’art. 81 cod. pen. va applicata la regola generale dell’art. 78, primo comma, n. 1, cod. pen. sui limiti degli aumenti della pena principale, ove il multiplo triplo della pena più grave superi il tetto massimo invalicabile di trenta anni di reclusione, e non la norma derogatoria di cui all’art. 73, secondo comma, dello stesso codice che presuppone, come detto, una pluralità di delitti sanzionabili con pene non inferiori a ventiquattro anni di reclusione in sede cognitiva ovvero una pluralità di pene separatamente inflitte per più delitti ciascuno dei quali sanzionato con una pena non inferiore a ventiquattro anni in sede esecutiva, a norma dell’art. 80 cod. pen..
Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: “In caso di applicazione della disciplina del reato continuato da parte del giudice dell’esecuzione, ove ì reati da unificare siano stati giudicati, tutti, con rito abbreviato, la diminuente ai sensi dell’art. 442, comma 2, terzo periodo, cod. proc. pen., nel testo applicabile ai fatti commessi fino a tutto il 20 aprile 2019, può essere calcolata, una volta sola, sulla pena complessiva, solo se resta immutata la specie di pena rispetto a quella applicata dal giudice della cognizione, mentre tale sistema di calcolo non è applicabile se comporta la sostituzione della reclusione con l’ergastolo, trovando applicazione in tal caso la regola generale sul limite dell’aumento della pena principale di cui all’art. 78 cod. pen. e non quella speciale di cui all’art. 73, secondo comma, cod. pen.”.
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Il 12 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 14688 che richiama il consolidato orientamento secondo cui, in ipotesi di determinazione del trattamento sanzionatorio, la latitudine del potere discrezionale del giudice si commisura alla pluralità degli indici declinati dall’art. 133 cod. pen., involgendo una complessiva valutazione di merito che, in quanto tale, esorbita dai limiti cognitivi della Cassazione.
Con specifico riferimento alla continuazione, l’orientamento di legittimità che preclude al giudice dell’esecuzione la possibilità di rettificare in aumento la pena inflitta in sede di cognizione per le singole fattispecie criminose, anche qualora erroneamente il giudice della cognizione non abbia disposto aumenti di pena per uno dei reati riconosciuti in continuazione, valorizza — nel quadro dei valori dell’intangibilità del giudicato e del/ divieto di trattamento deteriore – il potere discrezionale proprio del giudice del merito nella dosimeteria della sanzione.
In tal senso, è stato sottolineato come l’art. 533, comma 2, cod. proc. pen., pone la regola che, nella determinazione della pena per più reati ritenuti tra loro in continuazione, il giudice provvede ad indicare la sanzione per ciascuno di essi. Il reato continuato infatti, pur avendo natura unitaria, conserva la sua sostanza atomistica, scindendosi ove intervenga la necessità di applicare particolari istituti.
Di qui il rilievo connesso alla entità della sanzione riferita a ciascun reato portato in continuazione e, dunque, la incongruità di sistema di vedere peggiorato, in sede di legittimità, all’esito di una cognizione sommaria, il trattamento sanzionatorio e, con esso, di vedere precluso sul punto il diritto all’impugnazione.
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Il 17 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 18471 onde, ai fini dell’applicazione della disciplina della continuazione ex art. 671 c.p.p., il giudice dell’esecuzione è chiamato ad una riconsiderazione dei fatti giudicati per la verifica della prospettata unitarietà progettuale degli illeciti ai fini della sussistenza del requisito di cui all’art. 81 c.p..
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Il 23 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 22088, secondo cui, in tema di reato continuato, se il reato più grave è costituito da un delitto punito con pena alternativa e quello satellite da una contravvenzione punita con pena congiunta, il giudice opererà l’aumento di pena in relazione ad una soltanto delle pene previste per la violazione più grave, motivando la scelta ex art. 133 c.p..
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Il 13 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 28471, alla stregua della quale il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta ex art. 671 c.p.p. per il riconoscimento del vincolo della continuazione, pur godendo di piena libertà di giudizio, non può trascurare la valutazione già compiuta in sede cognitoria ai fini della ritenuta sussistenza di detto vincolo tra reati commessi in un lasso di tempo al cui interno si collocano, in tutto o in parte, quelli oggetto della domanda sottoposta al suo esame.
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Il 23 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 32701 onde non può procedersi alla revoca delle sospensioni condizionali della pena concesse quando i reati oggetto di separate sentenze passate in giudicato siano stati unificati in un unico reato continuato, essendo stata la pena complessiva (da ritenersi unica) sospesa.
2021
Il 12 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 9896, secondo cui il mancato riconoscimento di ufficio, da parte del Giudice della cognizione, della continuazione così detta esterna non costituisce giudicato negativo implicito sul punto, che quindi può formare oggetto di richiesta ai sensi dell’art. 671 c.p.p.. Nel giudizio promosso ai sensi dell’art. 671 c.p.p., la mancata proposizione, nel giudizio di cognizione, di analoga richiesta di continuazione non ne costituisce indicatore negativo.
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Il 29 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione Penale n. 16375, alla stregua della quale integra la fattispecie di riciclaggio continuato la condotta di chi riceve una pluralità di beni, ciascuno dei quali abbia una propria autonomia e una distinta provenienza delittuosa, così realizzandosi una pluralità di effetti giuridici e, quindi, di reati, che non può essere esclusa per il solo fatto che il soggetto abbia ricevuto i beni nel medesimo contesto temporale e dalla stessa persona.
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Il 20 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 27992 onde, in tema di continuazione nel reato, quando le singole azioni siano riconducibili ad un unico programma, la continuazione è configurabile anche tra un fatto per il quale sia intervenuta condanna irrevocabile ed altri commessi successivamente, dal momento che la controspinta psicologica derivante dall’arresto o dalla condanna non necessariamente interrompe la persistenza del disegno criminoso già concepito ed in parte attuato.
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L’11 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 40981, concernente la possibilità di applicare la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione: questione, quest’ultima, in ordine alla quale si ravvisano incertezze giurisprudenziali.
Più nel dettaglio, secondo un primo orientamento, il mentovato art. 131 bis c.p. potrebbe in ogni caso trovare applicazione qualora i reati commessi in presenza di un medesimo disegno criminoso riguardino azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo e non siano in numero tale da costituire ex se dimostrazione di serialità, ovvero di progressione criminosa indicativa di particolare intensità del dolo o versatilità offensiva.
A opinione di un differente orientamento, di contro, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis citato non potrebbe essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configurerebbe un’ipotesi di “comportamento abituale”, ostativa al riconoscimento del beneficio in esame.
Questioni intriganti
Quale natura giuridica va riconosciuta al reato continuato?
- si tratta (prima opzione, recessiva) sempre di un solo reato, pur al cospetto di molteplici violazioni – omogenee od eterogenee – della legge penale (in sostanza, di più reati);
- si tratta (seconda opzione, recessiva) sempre di molteplici violazioni – omogenee od eterogenee – della legge penale (in sostanza, di più reati);
- si tratta (opzione dominante), a seconda dei casi, di un solo reato o di più reati a seconda del risultato, più favorevole al reo, che ne discende, dovendosi sempre muovere dalla voluntas legis intesa a mitigare il trattamento sanzionatorio per il reo, in funzione della relativa (e complessiva) minore riprovevolezza per essere ciascuna violazione della legge penale (e dunque ciascun reato) esecutiva di un medesimo disegno criminoso; occorre dunque guardare agli effetti più favorevoli per il reo, che possono in alcuni casi far assumere la continuazione come facente luogo, in modo fittizio, ad un unico reato, ed in altri casi far considerare in modo isolato i singoli reati avvinti dalla continuazione;
- per quanto riguarda la pena principale, la continuazione viene assunta quale reato unico, con applicazione prevista per il reato più grave, aumentata fino al triplo (c.d. cumulo giuridico);
- da come si intende la natura giuridica della continuazione (unitaria o parcellizzata) discendono tuttavia diverse conseguenze in termini di applicazione al reo delle circostanze (preferibile in genere l’opzione parcellizzata), delle cause di estinzione del reato (si pensi alla sospensione condizionale della pena, al cui riguardo è più favorevole al reo assumere il reato continuato come “unitario”), delle cause di estinzione della pena (si pensi all’amnistia propria e impropria e all’indulto, al cui riguardo è più favorevole per il reo assumere il reato continuato come “parcellizzato”), delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, della dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato (ai fini di quest’ultima è ad esempio più favorevole al reo considerare fittiziamente la continuazione come un unico reato).
Quali problemi pone la continuazione con riguardo ai reati associativi?
- tutti i reati avvinti dalla continuazione, e dunque commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, possono essere realizzati da più soggetti in concorso tra loro; il concorso di persone nei reati di cui al disegno criminoso, e dunque nella continuazione, non impone tuttavia la previa costituzione di una associazione a delinquere, neppure precaria o rudimentale; si pone allora il problema di capire quando è associazione a delinquere – strutturalmente idonea e a partecipazione necessaria dei sodali – e quando è mero concorso eventuale nella continuazione; l’associazione a delinquere prevede un accordo orientato a compiere una serie indeterminata di reati, è strutturalmente più o meno stabile e crea maggiore allarme sociale, mentre la mera partecipazione ad una serie di reati avvinti dalla continuazione resta meramente contingente ed occasionale e l’episodio si chiude una volta commessi tutti i reati divisati e raccolti nel medesimo disegno criminoso, con minore allarme sociale;
- se un’associazione è stata costituita: b.1) ci si chiede se sia possibile – e con quali effetti – costituire una associazione a delinquere finalizzata a commettere reati scopo plurimi tra loro avvinti dalla continuazione; la risposta della dottrina e della giurisprudenza è normalmente positiva, e dunque è possibile che si configuri la continuazione tra tutti i reati scopo o tra alcuni di essi; alla fine si avrà da un lato il delitto associativo, e dall’altro i reati scopo in continuazione tra loro, e dunque un concorso tra delitto associativo e reato continuato; b.2) ci si chiede altresì cosa distingue la partecipazione ad una associazione a delinquere dalla partecipazione in concorso alla commissione di una serie di reati avvinti dalla continuazione: la risposta della giurisprudenza è, come accennato supra, che si partecipa ad una associazione a delinquere quando l’accordo associativo è diretto ad attuare un programma criminoso destinato a durare nel tempo, finalizzato a commettere una serie di delitti e dunque capace di creare allarme sociale; si partecipa alla continuazione, e dunque ad una serie di reati avvinti dalla continuazione, allorché ci si accordi in modo accidentale, contingente ed occasionale, senza creazione di una stabile organizzazione, con lo scopo di realizzare solo uno o più reati avvinti appunto dal medesimo disegno criminoso, con esaurimento degli effetti dell’accordo una volta commessi tutti i reati divisati e conseguente fine dell’allarme sociale e del pericolo ad esso connesso; b.3) ci si chiede infine, più a monte, se tra associazione a delinquere e reati scopo possa configurarsi la continuazione; essa può configurarsi, ma non è connaturata all’associazione a delinquere, il cui programma delinquenziale varato dagli associati può rimanere generico, impreciso e dunque non risolversi in un disegno criminoso specifico; in sostanza, secondo la maggioranza della dottrina e della giurisprudenza, quando si dà l’abbrivio ad una associazione per delinquere si vara un generico programma delinquenziale che non implica preventiva e precisa rappresentazione da parte di tutti gli associati delle singole violazioni che si andranno a perpetrare, e dunque dei singoli reati che si andranno a commettere; laddove tale preventiva rappresentazione e volizione vi sia, può tuttavia configurarsi continuazione tra il delitto associativo ed i reati scopo concretamente posti in essere; non sussiste dunque incompatibilità strutturale, né indefettibile contiguità temporale, tra programma associativo a delinquere – generico ed indeterminato – e disegno criminoso della continuazione – preciso e determinato – come invece assunto da parte della giurisprudenza; si tratta piuttosto di una questione di fatto che va di volta in volta rimessa all’accertamento del giudice del merito, in quanto astrattamente è ben possibile che tra associazione a delinquere e singoli reati fine vi sia continuazione, ma in concreto ciò va accertato al fine di applicare il peculiare regime pro reo che contraddistingue la continuazione medesima, dovendo acclararsi se il programma criminoso dell’associazione, normalmente generico, sia invece così specifico in rapporto ai reati fine divisati da configurare per l’appunto un medesimo disegno criminoso. Parte della dottrina – in una prospettiva più ideologica che sistematica – ha peraltro evidenziato come sia almeno in parte fuorviante contrapporre la genericità del programma criminoso connesso alla costituzione di un’associazione a delinquere (che può piuttosto nascere già con un programma specifico di delitti da realizzare da parte dei sodali) alla specificità del disegno criminoso proprio del reato continuato (che può non essere così specifico ab origine, senza per questo perdere consistenza come tale, e dunque come reato continuato): piuttosto occorre verificare se il trattamento sanzionatorio più mite di cui al reato continuato sia compatibile con il giudizio di sostanziale riprovevolezza che (specie in contesti emergenziali) investe le stabili organizzazioni costituite appositamente per violare la legge penale.
Quale rapporto si configura tra reato continuato e reati colposi?
- incompatibilità strutturale: ne consegue la inapplicabilità della continuazione ai reati colposi, e dunque anche alle contravvenzioni a struttura colposa, dal momento che la continuazione – giusta riferimento al medesimo “disegno” criminoso – presuppone indefettibilmente il dolo (dottrina e giurisprudenza maggioritarie); in sostanza, l’evento nel reato colposo non è voluto, mentre il “disegno” criminoso presuppone eventi non solo voluti, ma tra loro in qualche modo collegati ex ante giusta, per l’appunto, un consapevole e volontario disegno del comune autore che, con plurime condotte, le orienta ad uno scopo unitario, voluto, che tutte le avvince e verso il quale tutte convergono palesandosi quali relative “esecuzioni”; ciò anche in considerazione del fatto che nel reato colposo la volontà dell’autore è connessa solo alla condotta imprudente, negligente, imperita (colpa generica) o violativa di norme (colpa specifica), e non anche all’evento che ne scaturisce e che, laddove in qualche modo previsto ed accettato quale possibile conseguenza della condotta medesima, configura già dolo (declinato come eventuale), e non più colpa (neppure con previsione, che è pure incompatibile con un progetto criminoso in cui si vogliono gli eventi, e non i pertinenti rischi assistiti dalla convinta certezza di non incorrervi): emblematico il caso – addotto ad esempio in dottrina – del costruttore edile che al precipuo fine di risparmiare non adotti determinate precauzioni a tutela dei propri lavoratori, accettando il rischio dei loro infortuni in successione, onde se è mera colpa vi è concorso di reati colposi, mentre se è dolo eventuale può potenzialmente configurarsi la continuazione;
- possibile, limitata compatibilità strutturale; ne consegue la possibile applicazione del regime della continuazione anche a fattispecie colpose, seppure in casi limitati e particolari (dottrina e giurisprudenza minoritarie); mentre in epoca recente le voci favorevoli sembrano voler scongiurare, sul piano astratto, un eccessivo schematismo concettuale della tesi opposta, gli esempi concreti più noti si ritrovano nella dottrina più remota, come nelle ipotesi di un cuoco di trattoria che avveleni in più occasioni più clienti per il relativo, continuato avvalersi di un arnese di rame mal stagnato; o nella fattispecie dell’automobilista che imprudentemente investa un pedone senza avvedersene, e ne investa poi un altro a cagione della medesima imprudenza, stavolta accorgendosene; come ben si nota tuttavia, in queste ipotesi il medesimo disegno avvolge semmai le condotte colpose in successione, e non gli eventi che – quand’anche omogenei – dalla relativa “esecuzione” discendono; chi è favorevole fa poi leva, secondo un criterio letterale, sulla dizione codicistica, alla cui stregua ben potrebbe un reato colposo essere commesso in “esecuzione” di un medesimo disegno criminoso che annoveri tutta una serie di reati dolosi, onde in occasione della “esecuzione” di tale preordinato disegno criminoso, vengono commessi anche dei reati colposi, che non possono non godere del medesimo trattamento favorevole pro reo perché si inseriscono in un contesto unitario in cui le contro spinte etiche rispetto al delitto sono comunque offuscate e affievolite, nel contesto generale di una dinamica psicologica meno grave che include tanto i reati dolosi rientranti a pieno titolo nel disegno criminoso, quanto i reati colposi commessi, dal punto di vista cronologico, per l’appunto in “esecuzione” di tale disegno, e dunque da esso occasionati, dovendosi anche considerare che una condotta violativa di norme cautelari vede scemare la propria evitabilità quando è per l’appunto inserita, sul crinale psicologico, nel contesto di un medesimo programma criminoso (il problema si è opposto per la morte come conseguenza di altro delitto ex art.586 c.p., per chi la considera fattispecie di dolo misto a colpa).
La responsabilità oggettiva è compatibile con la continuazione?
Si ritiene generalmente di no, tenuto conto del fatto che un medesimo disegno criminoso, e dunque un programma criminale divisato ex ante, non può annoverare eventi addossati al soggetto agente sulla sola base del nesso di causalità, tenuto conto che tali eventi sono normalmente imprevedibili e concretamente imprevisti, e dunque in netta frizione con quello che è preordinatamente voluto dal soggetto agente: ovviamente non applicare la continuazione si risolve in un trattamento sanzionatorio assai rigoroso per il soggetto agente (il problema si è opposto per la morte come conseguenza di altro delitto ex art.586 c.p., per chi la considera fattispecie di dolo misto a responsabilità oggettiva).
E’ applicabile la continuazione alle contravvenzioni?
- no: quando il legislatore forgia una contravvenzione, essa è punibile a titolo di dolo o a titolo di colpa, onde si prescinde dall’elemento soggettivo e ciò fa escludere l’applicabilità del regime della continuazione, che invece presuppone l’atteggiamento doloso (e preordinato) del soggetto agente; in sostanza, per le contravvenzioni è sufficiente la coscienza e volontà della condotta, in disparte se poi essa si traduca in un evento doloso o colposo onde, palesandosi inammissibili ed ultronee ulteriori indagini psicologiche con riguardo al soggetto agente, la continuazione è inapplicabile; peraltro, la bontà di questa opzione ermeneutica si ritrae anche dall’aggettivo “criminoso” che ha usato il legislatore del codice per qualificare il disegno del soggetto agente che, come tale, coinvolge solo le più gravi fattispecie dei delitti, e non anche le ipotesi in cui intervengano contravvenzioni miste a delitti, ovvero sole contravvenzioni (tesi più remota);
- si: al cospetto di una contravvenzione, è possibile accertare se essa – sul piano soggettivo – è in concreto sorretta dalla colpa ovvero dal dolo, per applicare eventualmente la continuazione in quest’ultimo caso, laddove il reato contravvenzionale (acclarato come doloso) sia tra quelli inseriti nel programma criminoso divisato dal soggetto agente (tesi più recente).
Come si determina la pena da applicare al reo in caso di continuazione?
- si individua la violazione (reato) più grave, tenendo conto delle eventuali circostanze; all’uopo, vanno valutati tutti i singoli reati avvinti dalla continuazione, sia dal punto di vista oggettivo che dal punto di vista soggettivo; dal punto di vista soggettivo, è importante la valutazione della colpevolezza, proprio al fine di verificare se il singolo reato è compatibile con il medesimo disegno criminoso, che rappresenta l’ubi consistam della continuazione e che il singolo reato deve aver contribuito ad eseguire; si distinguono due tesi: a.1) la valutazione va sempre fatta in astratto, trattandosi di un criterio legale e maggiormente garantista, onde un delitto è sempre più grave di una contravvenzione, anche qualora in concreto la contravvenzione sia punita in modo più grave del delitto; rileva il massimo di pena edittale e, in caso di parità, il maggior minimo edittale; a.2) la valutazione va sempre fatta in concreto, e dunque a valle dell’accertamento da parte del giudice, onde può accadere che su un piano astratto sarebbe più grave uno dei reati avvinti dalla continuazione, mentre a valle della concreta irrogazione della pena da parte del giudice è più grave un altro tra essi; che debba essere fatta in concreto, e non in astratto, affiora dall’art.187 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, dove si considera violazione più grave quella per la quale è inflitta dal giudice (in concreto dunque) la pena più grave: tale norma non si applica solo alla fase dell’esecuzione penale (come pretenderebbero i fautori della tesi opposta), ma anche in fase di cognizione; si tratta peraltro di individuare, tra le molteplici condotte poste in essere dal reo, quella che maggiormente entra in frizione con il sistema penale, onde è necessario lasciare spazio alla discrezionalità del giudice nella concreta individuazione di quale sia appunto, anche dal punto di vista maggiormente individualizzante e di personalizzazione del rimprovero penale, la violazione più grave, in piena consonanza con la ratio della riforma del 1974, sempre meno calibrata sulla violazione in astratto e sempre più puntata sulle violazione “in concreto” più grave, nell’ambito di violazioni molteplici e financo eterogenee; questa opzione ermeneutica segnala peraltro una possibile aberrazione degli esiti della teoria opposta, laddove il soggetto agente commetta tante contravvenzioni punite con pena detentiva ed un solo delitto punito con pena pecuniaria, circostanza nel cui contesto – optando per la tesi “astratta” – occorrerebbe punire per il delitto, e dunque con pena pecuniaria aumentata fino al triplo, con trattamento penale paradossalmente più favorevole rispetto a chi abbia commesso solo contravvenzioni punite con pena detentiva; alle precedenti considerazioni si aggiunge che – poiché una volta individuata la violazione più grave, la successiva operazione dell’aumento di pena fino al triplo coinvolge senza dubbio la pena “concretamente” applicata – appare poco ragionevole che il legislatore abbia previsto un criterio astratto per la determinazione a monte della “violazione più grave”, per poi tarare l’aumento di pena per la continuazione sulla pena, per l’appunto, “concretamente” inflitta, onde il giudice – più credibilmente – deve dapprima individuare il quantum “concreto” della sanzione da infliggere per la violazione più grave (secondo i criteri di cui all’art.133p.) e poi, del pari “in concreto” procedere con il “quantum pluris” per la continuazione utilizzando degli indici di personalizzazione (specie sul crinale soggettivo dell’adesione psicologica al medesimo disegno criminoso) ritratti dalla peculiarità dei reati c.d. satellite;
- si applica la pena-base stabilita per la violazione (reato) individuata come più grave, aumentandola fino ad un massimo corrispondente al relativo triplo; è il giudice in questo caso a stabilire il “quantum” concreto di aumento effettivo a titolo di continuazione; si fronteggiano due possibili opzioni ermeneutiche: b.1) la pena base va semplicemente moltiplicata per un fattore da 1 a 3, senza tenere conto in modo troppo aderente della consistenza dei singoli reati satellite; b.2) si opera sulla pena base non già moltiplicando per un fattore, ma andando per aggiunta e dunque sommando un quantum di pena per ciascun reato satellite, tenendo conto della relativa, specifica consistenza e delle eventuali circostanze inerenti, ovviamente entro il limite massimo del triplo rispetto alla pena base;
- non si supera mai la somma delle singole pene previste per le singole fattispecie avvinte dal medesimo disegno criminoso.
Come si procede al calcolo del quantum pluris di pena per i reati satellite, laddove reato base e reati satellite siano puniti da pene eterogenee?
- il problema si pone in particolare per l’ipotesi in cui il reato base (violazione più grave) sia punito con sola pena detentiva, e i reati satellite con pena pecuniaria (o pecuniaria congiunta a pena detentiva);
- operare “per aggiunta” applicando la sola pena detentiva (giusta ragguaglio ex art.135 c.p. con riguardo alla porzione pecuniaria, da trasformarsi in detentiva) è soluzione che – sul piano ontologico e quantitativo – rispetta il principio di legalità della pena; canone da ancorarsi non già solo alle singole fattispecie incriminatrici, bensì anche ai meccanismi sanzionatori comunque previsti dalla legge, tra i quali appunto il meccanismo della continuazione di cui all’art.81, comma 2, c.p.
- esiste tuttavia – oltre al limite “ontologico” (la pena deve essere prevista dalla legge) ed al limite quantitativo (del triplo) – anche un limite ex lege qualitativo per la pena, cristallizzato al comma 3 dell’art.81, onde nei casi preveduti dall’articolo, e dunque anche nell’ipotesi della continuazione, la pena medesima non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti (sul concorso di reati), anche dunque dal punto di vista della qualità, e non già solo della quantità: per rispettare la legalità della pena in termini di qualità (oltre che di quantità) della pena stessa, si suggerisce da parte della dottrina di procedere per addizione rispetto alla pena base aggiungendo pene anche di specie diversa (se la pena base è detentiva, le aggiunte vengono operate in termini tanto detentivi che, in caso di reati satelliti con pena pecuniaria o congiunta, pecuniari), salvo poi operare un ragguaglio fittizio della pena finale – ex 135 c.p.- al solo fine di verificare che non si sia superato il limite del triplo.