Massima
La figura del non-nato oscilla, specie a partire dal codice civile del 1942, tra soggettività (e capacità) giuridica, da un lato, e oggetto di tutela dall’altro, facendo costantemente i conti con la figura, certamente dotata di soggettività (e capacità) giuridica, della madre (e del relativo partner).
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Il codice civile si occupa del nascituro in materia di relativa rappresentanza (articoli 224, 225 e 236); di capacità a succedere (articoli 724 e 764) e in particolare di disposizioni testamentarie in relativo favore (art.860); di capacità di ricevere per donazione (art. 1059). L’art. 236 prevede poi, nel caso in cui la moglie sia incinta ed il marito muoia, la nomina di un curatore del ventre su istanza della persona interessata.
1942
Nel codice civile viene ventilata la possibilità per il concepito di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive ante ortum, segnatamente agli articoli 1 (onde la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita ed i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati a tale evento della nascita); 254 e 256; 320, 462 (onde, con terminologia un poco ambigua, sono “capaci di succedere” tutti coloro che sono non solo nati , ma anche solo concepiti al tempo dell’apertura della successione, presumendosi salvo prova contraria concepito al tempo dell’apertura della successione chi è nato entro i 300 giorni dalla morte della persona della cui successione si tratta; la norma aggiunge che possono ricevere per testamento anche i figli nascituri di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore, benché non ancora concepiti); 643, 687, 715 e 784 (onde, abbandonandosi l’ambiguo riferimento alla capacità di succedere, si dispone che la donazione può essere fatta anche a favore di chi è soltanto concepito, ovvero a favore dei figli nascituri di una determinata persona vivente al tempo della donazione, benché non ancora concepiti). All’art.339 viene prevista ancora la figura del curatore del ventre, per il caso in cui muoia il marito quando la moglie è incinta: lo scopo della nomina è la protezione del nascituro e, occorrendo, l’amministrazione dei relativi beni.
1948
Entra in vigore il 1 gennaio la Costituzione repubblicana che, agli articoli 2 e 32, richiama i diritti alla vita e alla salute del “singolo” dell’”individuo” e, dunque, anche del concepito; la stessa tutela della “maternità”, oltre che dell’infanzia e della gioventù, prevista dall’art.31 della Carta, fa pensare (seppure indirettamente) ad una qualche tutela del concepito.
1959
Viene firmata a New York il 20 novembre la Dichiarazione sui diritti del fanciullo, laddove si fa riferimento nel preambolo alla necessità di una protezione legale appropriata sia prima che dopo la nascita.
1973
Il 28 dicembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.3467 la quale nega al concepito il diritto a nascere sano per due fondamentali ordini di motivi: perché la capacità giuridica del concepito (preteso titolare di tale diritto) deve intendersi ridotta ai casi eccezionalmente previsti dalla legge (oltre che subordinata all’evento della nascita); perché il sistema della responsabilità civile esige, affinché si configuri il nesso di causalità, una relazione intersoggettiva tra due soggetti (danneggiante e danneggiato) entrambi esistenti, circostanza che non si verifica nel caso in cui uno dei due soggetti sia soltanto “concepito”.
1975
Il 18 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.27 che, in tema di procurato aborto di donna consenziente, dichiara che la tutela del concepito ha copertura costituzionale (articoli 2 e 31 Cost.), e che tuttavia essa va raccordata con la tutela di altri beni costituzionalmente protetti, tra i quali la salute (benessere psico-fisico) della madre. In caso di aborto “terapeutico”, non può predicarsi l’applicabilità al medico dell’art.54 del codice penale (scriminante dello stato di necessità), in quanto il danno o il pericolo può non essere assolutamente inevitabile e può sussistere in ogni caso la volontaria causazione del medesimo da parte del soggetto agente (medico): per la Corte sono tuttavia gli interessi in gioco a non essere equiparabili, la madre è già persona ed ha diritto alla salute e alla vita, mentre l’embrione deve ancora diventare una persona e, dunque, merita una tutela solo recessiva, anche se ove possibile il feto (concepito) va tutelato.
Il 19 maggio viene varata la legge n.151 che contiene la riforma del diritto di famiglia; l’art.159 abroga la figura del curatore del ventre: la ratio della norma viene vista – muovendo dalla situazione di immedesimazione organica che avvince la gestante al feto – nella necessità di lasciare libera la donna di autodeterminarsi, senza essere costretta a soggiacere alla surrettizia potestà che una forma di affidamento prenatale quale la “cura ventris” potrebbe per essa implicare (in termini di scelta) anche laddove vi fosse pericolo per la propria salute o per la propria vita.
Il 29 luglio viene varata la legge n.405 in materia di consultori familiari, che si prefigge quale scopo la tutela della salute della donna e del “prodotto del concepimento”.
1978
Il 22 maggio viene varata la legge n.194 sul c.d. aborto (interruzione volontaria della gravidanza) che, assieme al diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore della maternità e dichiara di tutelare la vita umana fin dal suo inizio.
1989
Il 20 novembre viene approvata la Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che richiama la Dichiarazione di New York del 1959.
1991
L’Italia ratifica il 27 maggio, con legge n.197, la Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia.
1997
Il 10 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.35 che dichiara inammissibili i quesiti referendari in materia di interruzione della gravidanza (legge 194/78), richiamando espressamente le norme della Dichiarazione sui diritti del fanciullo di New York del 1959: si tratta di norme dalla natura costituzionalmente necessitata, dando attuazione interna ad impegni internazionali con conseguente inammissibilità del referendum abrogativo ai sensi dell’art.75, comma 2, Cost..
Viene firmata il 4 aprile la Convenzione di Oviedo, considerata il primo trattato internazionale sulla bioetica, al cui articolo 1 vita umana viene assunta tutelabile sin dal suo inizio, affermazione che viene interpretata come tutela del concepito.
2000
Il 13 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 11625, che afferma che laddove il feto nasca, al momento della nascita egli diviene personalmente titolare del diritto di agire per il risarcimento del danno provocatogli dal fatto ingiusto che ne ha colpito la salute (diritto alla salute) quando era ancora feto; nel caso in cui la nascita non si verifichi, ovvero laddove al fatto illecito che ha colpito il concepito sia stato posto rimedio o comunque non permangano conseguenze dannose dopo la nascita, l’azione risarcitoria non è ammessa. La pronuncia è importante anche perché opera un revirement in ordine al rapporto di alterità soggettiva tra danneggiante e danneggiato al momento dell’illecito: non è più necessario che al momento del fatto illecito danneggiante e danneggiato siano entrambi esistenti, essendo piuttosto sufficiente che esista un nesso di causalità tra il fatto illecito (che presuppone esistente il danneggiante che lo compie) e le conseguenze dannose (che invece presuppongono esistente il soggetto che le subisce).
2001
Il 28 marzo, con la legge n.145, l’Italia ratifica la Convenzione di Oviedo del 1997.
Il 28 novembre esce la sentenza della Cassazione francese sul noto arresto Perruche: viene riconosciuta al bambino nato malformato la legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni che gli derivano dall’handicap (c.d. wrongful life) nei confronti del medico che ha impedito alla madre di scegliere l’interruzione della gravidanza, configurando dunque in capo al concepito, in qualche modo, un “diritto a non nascere se non sano”.
2002
Esce il 4 marzo in Francia la legge n.303, la quale riconosce la legittimazione ad agire nel nato malformato nei confronti del medico solo per i comportamenti inadempienti “positivi” di quest’ultimo, e non nel caso “negativo” di omessa diagnosi che ha impedito alla madre la scelta dell’interruzione di gravidanza.
2004
Il 19 febbraio viene varata la legge n.40 in materia di procreazione medicalmente assistita, dichiarando che sono assicurati i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito.
Il 29 luglio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n. 14488 che, in tema di prestazione contrattuale del medico verso la gestante, ed in particolare degli effetti protettivi del relativo contratto, afferma che il dovere di protezione del medico stesso nei confronti del concepito riguarda la nascita (come fatto positivo) e non la “non nascita” (come fatto negativo), con riferimento alla possibilità di eliminare tutte le malformazioni e le patologie che la scienza medica consenta di curare (diritto a nascere sano): secondo la Corte il nostro ordinamento tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza verso la nascita, non verso la “non nascita”, sicché può solo parlarsi di un diritto a nascere (sano), non già di un diritto a non nascere (se non sano).
2005
Il 28 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.45 che dichiara inammissibili i quesiti referendari in materia di procreazione assistita (legge 40/04), richiamando espressamente le norme della Convenzione di Oviedo del 1997: si tratta di norme dalla natura costituzionalmente necessitata, dando attuazione interna ad impegni internazionali. La Corte, con l’occasione, afferma che quando la legge n.40/04 parla di diritti del concepito (quale soggetto coinvolto nella procreazione assistita) essa usa una espressione meramente enunciativa, senza reale portata giuridica; tuttavia, nel corpo della motivazione, la Corte ribadisce la necessità della tutela di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda procreativa, e dunque anche del concepito, in qualche modo riaffermandone una qualche rilevanza giuridica, pur essendo esso privo della capacità giuridica.
Il 20 ottobre esce la sentenza n. 20320 della III sezione della Cassazione che riconosce al padre di un bimbo nato malformato la legittimazione ad agire, anche per il risarcimento del danno non patrimoniale, nei confronti del medico che ha errato nella diagnosi, sulla scorta del c.d. “contratto protettivo a favore di terzi”: l’omessa diagnosi delle malformazioni del concepito vulnera il diritto (anche) del padre ad esplicare la propria personalità nel contesto di un nucleo familiare sereno e stabile, avulso dalle preoccupazioni, dalle rinunce e dalle angosce prodotte normalmente dalla nascita di un bambino malato o comunque non voluto.
2009
L’11 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n. 10741 la quale, facendo leva sullo schema del contratto protettivo a favore di terzo, riconosce al bimbo nato malformato il diritto ad agire per il risarcimento del danno (anche non patrimoniale) nei confronti del medico e della struttura sanitaria che hanno interagito con la madre ledendo il relativo “diritto a nascere sano”: la responsabilità di tipo “contrattuale” consente di superare il problema della contestualità cronologica (o comunque della prossimità) tra fatto ed evento dannoso, essendo sufficiente che un determinato danno sia ricollegabile, secondo un principio di regolarità causale, ad una precisa condotta (c.d. causalità adeguata): nel caso di specie i medici avevano violato il dovere di corretta informazione in ordine ai possibili effetti della terapia prescritta alla madre (che aveva problemi a rimanere incinta), ed il dovere di non somministrare farmaci dannosi per il nascituro.
2010
Il 4 gennaio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.13 che si occupa del vulnus alla libertà di scelta della donna (e del proprio partner) in ordine alla prosecuzione o meno della gravidanza, cagionato dalla imperizia del medico che ha omesso di informare in ordine a gravi malformazioni del feto: in questo caso la lesione investe (oltre al patrimonio) la salute psichica della coppia ed il diritto alla programmazione della propria vita individuale e familiare, in quanto si verifica un peggioramento complessivo e significativo della vita di ogni giorno, con conseguente danno non patrimoniale.
2011
Il 3 maggio esce la sentenza della Cassazione n.9700 la quale si occupa della possibilità per il nato di chiedere il risarcimento del danno (patrimoniale e) non patrimoniale subito quando era ancora solo concepito per uccisione del proprio padre (e conseguente lesione del rapporto parentale). In realtà, ai fini della soggettività giuridica, non occorre fare riferimento alla situazione del concepito, ed alla tutela ad esso offerta dall’ordinamento nazionale ed internazionale: è sufficiente porsi infatti nella prospettiva del nato orfano, come tale destinato a vivere senza la figura fondamentale del padre. Il diritto al godimento del rapporto parentale si configura solo dopo la nascita, ed è tale diritto ad essere leso. La mancanza del rapporto intersoggettivo con il padre, una mancanza solo potenziale quando era concepito (ed è accaduto l’evento lesivo), è divenuta attuale con la nascita: essa fa luogo ad una propagazione intersoggettiva degli effetti dannosi dell’illecito accaduto ante nascita (quando il nato era ancora solo concepito), che finisce con il ledere il diritto del nato al proprio rapporto con il padre, e dunque il diritto alle relazioni familiari del concepito poi nato.
2012
Il 12 ottobre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.16754 la quale riconosce, sulle orme della dottrina, che il concepito non è un soggetto di diritto, il che va di pari passo con il fatto che esso non ha capacità giuridica, ma è tuttavia un oggetto speciale di tutela da parte dell’ordinamento. La dottrina chiarisce infatti che per essere soggetto di diritto, titolare di capacità giuridica e centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, occorre essere titolare di interessi giuridicamente rilevanti: e poiché l’interesse si risolve nella “tensione” verso un bene percepito capace di soddisfare un bisogno, occorre che il soggetto di diritto sia in qualche modo “cosciente”, cosa non predicabile per il concepito che, come tale, non è tanto un soggetto di diritto quanto un “oggetto di tutela giuridica”. Secondo la Corte peraltro, ove venisse riconosciuto al concepito il diritto a non nascere se non sano, esso sarebbe un diritto adespota fino alla nascita (non avendo il concepito, fino alla nascita appunto, la capacità giuridica che gli consente di imputarsi tale diritto), mentre “scomparirebbe” con la nascita, in quanto proprio quando il concepito nasce e potrebbe vantare ed esercitare il c.d. “diritto a non nascere”, quel diritto è ormai eliso proprio dall’evento-nascita (in realtà, la dottrina favorevole alla relativa configurabilità afferma come la nascita rappresenti l’evento che viola irreversibilmente il diritto a non nascere, più che farlo scomparire).
2015
Il 23 febbraio esce l’ordinanza della sezione III della Cassazione n.3569, con la quale vengono rimesse alle SSUU due questioni importanti in tema di omessa diagnosi del medico e di nascita indesiderata per mancata interruzione della gravidanza: la prima riguarda l’onere probatorio gravante in capo alla madre, con riguardo ai fatti costitutivi a) del nesso causale tra omessa diagnosi e concreta scelta di ricorrere all’aborto e b) dell’ulteriore nesso causale, nei casi previsti per l’ipotesi in cui si siano superati i 90 giorni dal concepimento, tra l’omessa diagnosi e il grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna; si tratta di capire se alla donna è sufficiente allegare che ha chiesto una diagnosi prenatale, potendosi considerare normale che se lo fa intende abortire in caso di diagnosi nefasta; ovvero se la richiesta di una diagnosi prenatale costituisce solo un indizio della propria volontà di abortire, che va corroborato caso per caso con altri elementi di prova. La seconda questione riguarda il diritto del concepito a nascere sano, ed il conseguente suo diritto al risarcimento del danno nei confronti del sanitario che abbia omesso od errato la diagnosi sul relativo stato di salute a prescindere dalla eventuale scelta della madre di abortire ovvero della natura congenita della malattia: una volta omessa od errata la diagnosi, il bimbo nato malato avrebbe diritto al risarcimento del danno da parte del medico avendo egli interesse ad alleviare la propria condizione di vita, che gli impedisce una libera estrinsecazione della sua personalità.
Il 5 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.96 che dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche. Per la Corte – la cui pronuncia costituisce anche una forma di indiretta tutela della salute dello stesso nascituro – si registra in primo luogo un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni e ciò in quanto, con palese antinomia normativa (sottolineata anche dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Costa e Pavan contro Italia), il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) − quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto accertati processi patologici relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In altri termini, precisa la Corte, il sistema normativo cui danno luogo le disposizioni censurate non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire “prima” alla donna una informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la relativa salute; ne deriva, per la Corte, la violazione anche dell’art. 32 Cost. in cui incorre la normativa in esame, stante l’evidente mancato rispetto del diritto alla salute della donna, senza peraltro che il vulnus così arrecato a tale diritto alla salute della donna possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto. La normativa denunciata costituisce allora, per la Corte, il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in violazione anche del canone di razionalità dell’ordinamento, palesandosi lesiva del diritto alla salute della donna fertile portatrice (ella o l’altro soggetto della coppia) di grave malattia genetica ereditaria, nella parte in cui non consente, e dunque esclude, che, nel quadro di disciplina della legge in esame, possano ricorrere alla PMA le coppie affette da patologie siffatte, adeguatamente accertate, per esigenza di cautela, da apposita struttura pubblica specializzata; ciò al fine esclusivo della previa individuazione di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro, alla stregua del medesimo “criterio normativo di gravità” già stabilito dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978. Una volta accertato che, in ragione dell’assolutezza della riferita esclusione, le disposizioni in questione si pongono in contrasto con parametri costituzionali la Corte non può dunque sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio dichiarandone l’illegittimità (viene richiamata la precedente sentenza n. 162 del 2014), essendo poi compito del legislatore – nell’esercizio della relativa discrezionalità – introdurre apposite disposizioni al fine della auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base della evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle (anche valorizzando, eventualmente, le discipline già appositamente individuate dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici europei in cui tale forma di pratica medica è ammessa).
Il 22 dicembre esce la sentenza delle SSUU n.25767 in tema di diritto a nascere sani e di connesso danno non patrimoniale, secondo la quale
- in primo luogo, nel risarcimento del danno da nascita indesiderata, la prova che la gestante, se adeguatamente informata dai sanitari delle malformazioni del feto, avrebbe interrotto la gravidanza, può essere data per presunzioni; più nel dettaglio, secondo la Corte in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno (madre o padre) ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; più nel dettaglio, occorre provare, nel caso di gestazione protratta oltre il novantesimo giorno, che il nascituro presentava rilevanti anomalie e che queste erano eziologicamente correlate con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre (così la l. 194/75 sull’interruzione di gravidanza); deve poi essere provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza: parte del «fatto complesso» da provare è costituita, si sottolinea, da un fatto psichico, del quale non si può fornire rappresentazione immediata e diretta. Se ne deve fornire prova in via induttiva ed inferenziale, ricorrendo all’ormai consolidato parametro del «più probabile che non», avvalendosi della praesumptio hominis, rispondente ai requisiti di cui all’art. 2729 c.c., che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit, ma anche di circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche — emergenti dai dati istruttori raccolti: quali, ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc. e tutto ciò va apprezzato secondo un criterio di regolarità causale, restando sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale.
- La Corte precisa poi che non è risarcibile il danno da lesione del diritto a non nascere (se non sani): in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l’ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino (il relativo venire alla luce) può integrare un danno-conseguenza dell’illecito omissivo del medico. Secondo la Corte, la non risarcibilità di tale danno non si deve inferire invocando il tradizionale argomento del difetto di capacità giuridica del concepito, essendo stato da tempo chiarito che per proteggere una certa entità non occorre necessariamente qualificarla come soggetto di diritto, essendo sufficiente che sia oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, come appunto accade per il concepito; né rileva il fatto che l’evento dannoso è destinato a prodursi solo con la nascita, essendo ben possibile che tra causa ed evento lesivo (e relative conseguenze pregiudizievoli) intercorra una cesura spazio-temporale tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell’effetto pregiudizievole; in astratto la legittimazione del figlio malformato ad agire sussiste, ma la Cassazione esclude comunque – in concreto – la risarcibilità del danno in quanto ad ammetterla si incorrerebbe in una contraddizione: muovendo infatti dal concetto di danno-conseguenza, riassumibile empiricamente nell’”avere di meno, a seguito dell’illecito” (perdita), la tesi che ammette il risarcimento cade in una contraddizione insuperabile dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra le due situazioni, prima e dopo l’illecito, è la “non vita” da interruzione della gravidanza, e la “non vita” non può essere nel medesimo tempo un bene della vita; né sarebbe comunque configurabile, sul piano dell’ingiustizia, un diritto a non nascere che si possa ritenere leso: la vita — e non la sua negazione — è sempre stata il bene supremo protetto dall’ordinamento anche perché ad ammettere la risarcibilità si dovrebbe consentire al figlio di agire pure contro la madre che non abbia abortito pur sapendo delle malformazioni, in tal modo orientando il sistema ad una reificazione dell’uomo (con rischi di derive eugenetiche) oltre che finendo con l’attribuire alla responsabilità civile una funzione vicaria suppletiva di misure di previdenza e assistenza sociale nei confronti dei disabili; peraltro la soluzione della non risarcibilità trova riscontro in diritto comparato (Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia).
2017
Il 10 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.243 che si occupa del caso del medico ginecologo al quale si è rivolta la gestante per accertamenti sulle condizioni della gravidanza e del feto, laddove quegli non adempia correttamente alla propria prestazione professionale non prescrivendo l’amniocentesi; si pone, più in specie, il problema di capire cosa accade se, nato un bimbo affetto da sindrome che avrebbe potuto affiorare da tale accertamento, la gestante abbia rifiutato di sottoporsi ad amniocentesi durante la gravidanza a seguito di visite in ulteriore struttura, dando fiducia al proprio medico personale. Quest’ultimo, secondo la Corte, risponde in ogni caso dei danni; il rifiuto della gestante è infatti avvenuto, sottolinea la Corte, proprio sotto l’effetto del condizionamento arrecatole dall’inadempimento del proprio medico di fiducia, che non perde efficienza causale per il fatto che successivamente altra struttura consigli di sottoporsi ad amniocentesi e la gestante, appunto, rifiuti. La sorpresa dell’esito della gravidanza non è dipesa dunque solo dal rifiuto ex post, ma prima ancora dall’inadempimento del medico di fiducia, che ha prodotto una perdita della chance di conoscere lo stato del feto prima dell’esito della gravidanza. Si tratta di danni dovuti alla gestante ma che, in prospettiva e a determinate condizioni, potrebbero essere invocati anche dal figlio per la sindrome contratta a cagione dell’inadempimento del medico.
L’11 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.9251 che, ribadendo quanto affermato dalle SSUU n. 25767/2015, approfondisce – in un caso di bimbo nato privo della mano sinistra – l’aspetto riguardante la possibilità di interruzione della gravidanza e la connessa questione della prova del nesso causale tra il difetto di informazioni fornite dal medico curante e le possibili scelte della gestante. L’ordinamento non ammette il c.d. “aborto eugenetico“, che prescinda cioè dal “serio” o dal “grave pericolo” per la “vita” o la “salute fisica o psichica” della donna, e disconosce l’interruzione di gravidanza come “mezzo di controllo delle nascite”, essendo l’interruzione di gravidanza finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente): le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nei termini in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante medesima, non dunque autonomamente considerate con riferimento al nascituro. Quanto al danno fatto valere dallo stesso nato disabile, per la Corte – come già precisato dalle Sezioni Unite – non ne è in radice data la stessa configurabilità, in quanto la ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare, nella migliore delle ipotesi, non preparato ad accoglierlo si rivela sostanzialmente quale mero mimetismo verbale del c.d. diritto a non nascere se non sani, andando pertanto incontro alla obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, quand’anche derivante da difetto di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile rappresentata dall’interruzione della gravidanza e dunque dalla “non nascita”, non essendo d’altro canto possibile stabilire un “nesso causale” tra la condotta colposa del medico e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita. Senza per altro verso sottacersi che il danno del nato disabile risulta dai genitori prospettato, nel caso di specie, quale conseguenza del danno da essi asseritamente subito onde, ravvisata l’insussistenza di quest’ultimo, a fortiori difetta per la Corte lo stesso presupposto per la configurabilità di un pregiudizio che si assume esserne conseguentemente derivato in capo al nato.
Il 5 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 10906 in tema di nascita indesiderata onde un rapporto sessuale tra due persone consenzienti (e tra l’altro, pacificamente, non riconducibile ad alcuna attività di prostituzione) non può assimilarsi ad un rapporto contrattuale al fine di individuare in esso l’obbligo di ciascuno di informare l’altro del proprio stato di fertilità o meno (ed il correlato, presunto diritto ad esserne informati), ostando a ciò il diritto alla riservatezza della persona che è invece, senza dubbio, tutelato dall’ordinamento. Quanto poi all’eventuale illecito aquiliano, se una persona fornisce all’altra con cui intende compiere un atto sessuale completo una informazione non corrispondente al vero in ordine al proprio attuale stato di fertilità o infertilità, nulla ne può derivare in termini risarcitori, per il combinato disposto dell’articolo 1227, comma 2, e dell’articolo 2056, comma 1, c.c., rientrando nell’ordinaria diligenza di ciascuna persona sessualmente matura adoperarsi per evitare conseguenze notoriamente legate alle proprie potenzialità generative.
2018
Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 2070 che, abbandonando il precedente orientamento di segno contrario, riconosce – nel caso in cui l’erronea esecuzione dell’intervento di interruzione della gravidanza determini una nascita indesiderata – non solo il danno alla salute della madre ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della libertà di autodeterminazione, diritto che una lettura costituzionalmente orientata della L. n. 194 del 1978 consente di ricollegare ad una visione complessiva del bene salute, inteso come benessere psicofisico della persona; inoltre, la Corte evidenzia come la tutela invocata in simili fattispecie prescinde del tutto dalle condizioni di salute della neonata, riconoscendosi dunque autonome, negative ricadute esistenziali (risarcibili) nella vita dei genitori quale conseguenza della violazione del loro diritto a non dar seguito alla gestazione, esercitato nell’ambito dei tempi e delle modalità disciplinate dalla normativa della L. n. 194 del 1978, e non esercitato in conseguenza del colpevole inadempimento dei medici e/o della struttura sanitaria a ciò preposti.
Il 5 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 2675 in tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata. In tale ipotesi, il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale gravante sulla stessa, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura ove egli opera non può ritenersi estraneo il padre che deve, perciò, considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra cui deve ricomprendersi il pregiudizio patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli.
Il 4 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 31235 che, in tema di nesso causale tra comportamento dei sanitari e danno subito dal neonato in occasione di un ritardo nell’eseguire un parto cesareo, afferma che la corte di merito avrebbe applicato un criterio di causalità addirittura più svantaggioso per il responsabile, e più favorevole per la vittima, nel considerare che un più tempestivo intervento da parte del primario avrebbe avuto possibilità di successo quasi nulle, posto che sarebbe stato sufficiente il criterio c.d. della “probabilità dell’evidenza”, o del “più sì che no”. Per affermare la responsabilità del sanitario, alla luce di questo criterio, la Corte d’Appello si sarebbe potuta limitare ad accertare che un parto cesareo, eseguito più tempestivamente, avrebbe avuto ragionevoli probabilità di successo; i Giudice di merito invece sono andati oltre, accertando in fatto che un più tempestivo intervento avrebbe avuto possibilità di successo non già “probabili”, ma pressoché inesistenti. Se, infatti, un intervento tempestivo “certamente” non avrebbe evitato il danno, a fortiori dovrà ammettersi che non l’avrebbe evitato nemmeno “probabilmente”. L’applicazione del corretto criterio di causalità, dunque, avrebbe addirittura rafforzato la statuizione di esclusione del nesso di causa. Stabilire, poi, se la suddetta valutazione fu corretta o meno alla luce delle prove acquisite, è questione di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato della Corte di Cassazione.
Il 22 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 12572 onde il danno patrimoniale è risarcibile soltanto qualora sia riscontrabile l’eliminazione o la riduzione dalla capacità del danneggiato di produrre reddito, mentre il danno da lesione della cenestesi lavorativa va liquidato in modo onnicomprensivo come danno alla salute.
Questioni intriganti
Quali sono i rapporti tra concepito e capacità giuridica?
La capacità giuridica del concepito, nelle diverse opzioni dottrinali e giurisprudenziali:
- è anticipata al momento del concepimento: il concepito ha già dunque una propria capacità giuridica incondizionata sin dal momento del concepimento (tesi del tutto minoritaria);
- è risolutivamente condizionata alla mancata nascita: il concepito ha già una propria capacità giuridica, ma ove non venisse alla luce, sarebbe come se non l’avesse mai avuta (tesi recessiva);
- è sospensivamente condizionata all’evento della nascita: il concepito si trova in una posizione di aspettativa e solo nel caso in cui intervenga la nascita si verifica l’evento condizionante cui sono subordinati gli effetti ricollegabili ad una sorta di capacità giuridica anticipata (tesi prevalente);
- è irrilevante, in quanto il concepito può essere visto, prima ancora che come “soggetto” di diritti, come “oggetto” di tutela da parte dell’ordinamento.