Corte Costituzionale, sentenza 27 gennaio 2022 n. 22
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 206 e 222 del codice penale e dell’art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 30 maggio 2014, n. 81, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 27, 32 e 110 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli .
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– È preliminarmente opportuno precisare i confini delle censure formulate nell’ordinanza di rimessione, rispetto alle quali questa Corte ha ritenuto necessari gli approfondimenti istruttori disposti con l’ordinanza n. 131 del 2021.
Il giudice rimettente deve decidere, nella propria qualità di GIP, su un’istanza del pubblico ministero che lo ha sollecitato ad assumere provvedimenti in relazione alla constatata impossibilità di dar corso all’ordinanza di applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), emesso undici mesi prima nei confronti di P. G., e dunque gli ha chiesto – in sostanza – di impartire le necessarie istruzioni per l’esecuzione delle misure già disposte, o al limite di rivalutare la sussistenza dei loro presupposti e, se del caso, di revocarle, alla luce delle circostanze di fatto rappresentate. In relazione a tale istanza, il giudice rimettente da un lato ha revocato, con separato provvedimento, la parte della propria precedente ordinanza con la quale aveva disposto, nelle more della collocazione in una REMS dell’interessato, l’applicazione provvisoria della libertà vigilata con affidamento ai servizi territoriali, in considerazione dell’impossibilità di esecuzione di tale misura a causa della mancata collaborazione dell’interessato stesso; e, dall’altro, si è riservato ogni decisione in merito all’applicazione provvisoria del ricovero dell’interessato in REMS, rimettendo a questa Corte una serie di questioni di legittimità costituzionale, di carattere a suo avviso pregiudiziale rispetto alla decisione sull’istanza del pubblico ministero della quale è investito. Il rimettente assume, in sostanza, che l’impossibilità sino a quel momento riscontrata di dare esecuzione alla propria precedente ordinanza di ricovero in una REMS trovi la propria causa non già in difficoltà di ordine pratico o organizzativo, quanto piuttosto in un assetto della legislazione vigente in materia incompatibile con la Costituzione.
Ciò sotto un duplice, concorrente profilo.
In primo luogo, la disciplina censurata estrometterebbe completamente il Ministro della giustizia da ogni competenza in materia di esecuzione di una misura di sicurezza come quella in esame: il che contrasterebbe, in particolare, con l’art. 110 Cost., a tenore del quale «spettano al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia». Nella prospettiva del rimettente, proprio tale estromissione spiegherebbe l’impossibilità di eseguire il provvedimento di ricovero in REMS nel caso concreto: la gestione esclusivamente sanitaria delle REMS, interamente affidata a Regioni e Province autonome, farebbe sì che il Ministro della giustizia, e in particolare il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), non siano in grado di assicurare la tempestiva esecuzione di una misura di sicurezza, e cioè di un provvedimento emesso dal giudice penale per far fronte a una situazione di pericolosità sociale di una persona che risulti aver commesso un fatto di reato, o a carico della quale sussistano gravi indizi di commissione di un tale fatto. E ciò in violazione, appunto, del precetto costituzionale che affida allo stesso Ministro della giustizia la responsabilità del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
In secondo luogo, la disciplina censurata sarebbe costituzionalmente illegittima, nella misura in cui demanda ad atti normativi secondari, ovvero ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, la regolamentazione di aspetti essenziali della disciplina relativa a una misura di sicurezza privativa della libertà personale che si risolve, al tempo stesso, in un trattamento sanitario obbligatorio. Cuore di tale secondo gruppo di censure è l’asserita violazione delle riserve di legge poste dagli artt. 25, terzo comma, e 32, secondo comma, Cost. in materia, rispettivamente, di disciplina delle misure di sicurezza e di trattamenti sanitari obbligatori. Tali riserve sarebbero eluse per effetto del rinvio, operato dalle disposizioni censurate, a fonti secondarie e ad accordi con le autonomie territoriali, i quali avrebbero da parte loro determinato un’applicazione non omogenea della disciplina in materia di REMS nel territorio nazionale.
2.1.– Entrambi i gruppi di censure sono formulati nei confronti del combinato disposto degli artt. 206 e 222 cod. pen. e dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, nel testo da ultimo modificato dal d.l. n. 52 del 2014, come convertito. A ben guardare, esse concernono però soltanto l’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011 e successive modificazioni: e cioè la disposizione che, nel disciplinare il processo di definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e la loro sostituzione con le REMS, avrebbe – nella prospettazione del rimettente – estromesso il Ministro della giustizia da ogni competenza rispetto all’esecuzione delle misure di sicurezza disposte dal giudice penale nei confronti di persone inferme di mente, in violazione dell’art. 110 Cost., e avrebbe altresì demandato a fonti normative secondarie o ad accordi con le autonomie territoriali la regolamentazione di aspetti essenziali delle misure di sicurezza in esame. Per contro, gli artt. 206 e 222 cod. pen. – che disciplinano rispettivamente l’applicazione provvisoria e definitiva, tra l’altro, della misura di sicurezza del ricovero in un OPG (da intendersi oggi riferita al ricovero in una REMS ai sensi del menzionato art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito) – nulla dispongono né in merito alle competenze del Ministro della giustizia, né in merito alla più precisa disciplina delle REMS; onde le questioni di legittimità costituzionale che hanno ad oggetto tali disposizioni del codice penale debbono considerarsi in radice inammissibili per aberratio ictus.
3.– Ancora in limine, è infine opportuno precisare che non incide sull’ammissibilità di tali questioni la circostanza che, come comunicato a questa Corte successivamente all’ordinanza istruttoria n. 131 del 2021, l’interessato nel giudizio a quo sia stato nel frattempo giudicato nel merito dal Tribunale di Tivoli, sezione penale, per il reato rispetto al quale il GIP rimettente procedeva in via cautelare, e sia stato ivi assolto con sentenza ormai passata in giudicato, con la quale gli è stata applicata una misura di sicurezza diversa dal ricovero in REMS.
Dall’art. 21 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale si desume infatti un principio generale di autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità, che come tale non risente delle vicende di fatto successive all’ordinanza di rimessione; sicché la rilevanza delle questioni rispetto alla decisione del processo a quo deve essere vagliata ex ante, con riferimento al momento della prospettazione delle questioni stesse (sentenze n. 127 del 2021 e n. 84 del 2021).
4.– L’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, introdotto dalla legge di conversione n. 9 del 2012, costituisce lo snodo essenziale del processo che ha condotto al definitivo superamento, nel nostro ordinamento, degli ospedali psichiatrici giudiziari e delle case di cura e di custodia, originariamente previsti dal codice penale quali strutture per l’esecuzione di misure di sicurezza per le persone affette, rispettivamente, da vizio di mente totale o parziale. Di tali strutture si avvertiva, da tempo, la inidoneità a garantire la salute mentale di chi ivi era ricoverato (sentenza n. 186 del 2015); e da ultimo la Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, istituita con deliberazione del Senato del 30 luglio 2008, aveva evidenziato, nella propria relazione approvata il 20 luglio 2011, all’esito di visite e ispezioni negli OPG italiani, «gravi e inaccettabili […] carenze strutturali e igienico-sanitarie».
4.1.– Come recentemente rammentato da questa Corte nella sentenza n. 99 del 2019, il processo di superamento degli OPG aveva preso avvio con l’art. 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008 (Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria), che aveva sancito il trasferimento alle Regioni delle funzioni sanitarie afferenti agli OPG e, all’Allegato C, aveva dettato le linee di indirizzo per gli interventi negli OPG e nelle case di cura e custodia, ispirate alla creazione di un assetto organizzativo «in grado di garantire una corretta armonizzazione fra le misure sanitarie e le esigenze di sicurezza», attraverso «una costante collaborazione fra operatori sanitari, operatori dell’Amministrazione della Giustizia e la magistratura», sul presupposto che «l’ambito territoriale costituisce […] la sede privilegiata per affrontare i problemi della salute, della cura, della riabilitazione delle persone con disturbi mentali per il fatto che nel territorio è possibile creare un efficace sinergismo tra i diversi servizi sanitari, tra questi e i servizi sociali, tra le Istituzioni e la comunità per il fine fondamentale del recupero sociale delle persone».
4.2.– L’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, prevedeva anzitutto, al comma 1 nella sua versione originaria, il superamento degli OPG entro il termine del 1° febbraio 2013 (termine poi più volte prorogato, da ultimo fino al 31 marzo 2015, come oggi chiarito dal comma 4 della disposizione censurata).
Il comma 2 demanda a un decreto di natura non regolamentare del Ministro della salute – da emanare di concerto con il Ministro della giustizia e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano – la definizione dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle «strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia».
Il comma 3 specifica che l’emanando decreto dovrà attenersi ai criteri guida dell’esclusiva gestione sanitaria all’interno delle strutture, di una attività soltanto perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna, e della destinazione delle strutture ai «soggetti provenienti, di norma, dal territorio regionale di ubicazione delle medesime».
Il comma 4 prevede che, a partire dal completamento del processo di superamento degli OPG, le misure di sicurezza del ricovero in OPG e dell’assegnazione a casa di cura e custodia siano eseguite esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2, specificando tra l’altro che «[il] giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale».
I commi successivi dettano le relative disposizioni finanziarie; e il comma 9 stabilisce che nell’ipotesi di mancato rispetto, da parte delle Regioni e delle Province autonome, del termine fissato per la presentazione dei programmi di utilizzo delle risorse o di mancato completamento di tali programmi, il Governo provveda in via sostitutiva.
4.3.– In attuazione dei commi 2 e 3 dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, il Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia e acquisita l’intesa della Conferenza unificata, ha emanato il decreto del 1° ottobre 2012, che ha dettato i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture destinate a sostituire gli OPG.
Tale decreto, all’Allegato A, ha disciplinato le caratteristiche delle aree abitative di tali strutture, prevedendo in particolare un numero massimo di venti posti letto a struttura e disponendo che con appositi accordi tra il DAP, il Ministero della salute, le Regioni e le Province autonome venisse regolamentato lo svolgimento delle funzioni di cui alla legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e al d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), anche con riferimento agli aspetti della esecuzione della misura di sicurezza e alle forme dei rapporti con la magistratura. Il decreto ha altresì regolamentato la tipologia di attrezzature necessarie, il numero e la tipologia di operatori sanitari che debbono essere presenti in ciascuna residenza, nonché l’organizzazione del lavoro degli operatori stessi, «fermo restando quanto sarà disciplinato dagli appositi Accordi in materia, [e rinviando] alla potestà delle Regioni e delle Province Autonome, ai sensi del Titolo V della Costituzione, l’organizzazione delle strutture residenziali».
4.4.– Secondo quando previsto dall’Allegato A del predetto decreto del Ministro della salute, il 26 febbraio 2015 la Conferenza unificata ha stabilito con apposito accordo tra il Governo, le Regioni, le Province autonome e le autonomie locali la disciplina delle strutture medesime, denominate «Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza» (REMS).
Nelle premesse di tale accordo, si rammenta che «i diritti delle persone internate negli OPG […] sono disciplinati dalla normativa penitenziaria di cui alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e del decreto del Presidente della Repubblica del 30 giugno 2000, n. 230», e si stabilisce che «con il passaggio ad una organizzazione esclusivamente sanitaria alle persone internate nelle REMS sono garantiti tutti i diritti di cui al precedente alinea [e cioè i diritti riconosciuti dalla legge sull’ordinamento penitenziario e dal relativo regolamento], secondo proprie procedure ed organizzazione; e che, in tal senso, detti diritti sono pienamente garantiti, in prospettiva ampliativa, anche in considerazione della esclusiva gestione sanitaria».
Sempre in premessa, si afferma la necessità di predisporre per ogni paziente uno «specifico percorso terapeutico-riabilitativo individualizzato», che comprenda tra l’altro «la prevenzione dei comportamenti a rischio – che sia comunque finalizzato alla reintegrazione sociale – nonché aspetti specifici di trattamento […] anche attraverso il mantenimento (o la ricostruzione) dei rapporti con la famiglia, con la comunità esterna, con il mondo del lavoro». Si impegnano poi le Regioni e le Province autonome a «garantire l’accoglienza nelle proprie REMS di persone sottoposte a misura di sicurezza detentiva residenti nel proprio ambito territoriale regionale o provinciale», specificando però che la capienza massima di venti ospiti prevista dal decreto del Ministro della Salute del 1° ottobre 2012 deve intendersi come «inderogabile», dovendo le Regioni e le Province autonome provvedere «ad una idonea programmazione che tenga conto delle esigenze in corso e a venire, con specifico riguardo alla evoluzione del numero dei propri pazienti».
Tutto ciò premesso, l’accordo regola, tra l’altro, il trasferimento nelle REMS, a cura del DAP, degli internati presenti negli OPG secondo il principio della territorialità, in base alla disponibilità di posti letto nelle strutture (art. 1), e fissa il principio secondo cui – superato un periodo transitorio di un anno, che prevede il coinvolgimento del personale dell’amministrazione penitenziaria – i procedimenti di ammissione alle REMS e la gestione dei rapporti con l’autorità giudiziaria, comprensivi della comunicazione dei provvedimenti da questa emessi («a titolo di esempio: permessi, licenze, notifiche»), siano di esclusiva competenza del personale amministrativo delle REMS (art. 3), sotto la responsabilità di un direttore sanitario (art. 5), restando demandati a specifici accordi con le prefetture i servizi di sicurezza e vigilanza perimetrale sulle strutture (art. 6). Si demanda poi a specifici accordi tra le Regioni, le Province autonome, il DAP e «la Magistratura, attraverso le proprie articolazioni territorialmente competenti per ciascuna REMS», la definizione delle «modalità di collaborazione […] inerenti l’applicazione delle misure di sicurezza detentive, la loro trasformazione e l’eventuale applicazione di misure di sicurezza, anche in via provvisoria, non detentive», dovendosi in tali accordi prevedere «il costante coinvolgimento degli Uffici Esecuzione Penale Esterna territorialmente competenti», nonché la predisposizione e l’invio alle autorità giudiziarie competenti dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali finalizzati all’adozione di soluzioni diverse dalla REMS (art. 7).
4.5.– Non essendosi compiuto il processo di chiusura degli OPG entro il termine del 31 marzo 2015, da ultimo previsto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 52 del 2014, come convertito, il Governo, esercitando il potere sostitutivo ex art. 120 Cost. previsto dall’art. 3-ter, comma 9, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, ha nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 19 febbraio 2016 un commissario unico per provvedere in via sostitutiva, in luogo delle Regioni Calabria, Abruzzo, Piemonte, Toscana, Puglia e Veneto, alla realizzazione di programmi al fine di garantire la chiusura degli OPG e il tempestivo ricovero presso le competenti REMS delle persone ancora ivi internate.
Il commissario ha concluso il proprio mandato nel febbraio 2017, dando atto del raggiungimento dell’obiettivo del definitivo superamento degli OPG nell’intero territorio nazionale, ma sottolineando al contempo una serie di difficoltà applicative nell’esecuzione delle misure di sicurezza nelle REMS (relazioni semestrali rispettivamente relative al periodo 19 febbraio-19 agosto 2016 e al periodo 19 agosto 2016-19 febbraio 2017).
5.– Tutto ciò premesso, occorre esaminare – anche alla luce delle risultanze dell’attività istruttoria, di cui si è dato conto nel Ritenuto in fatto (punto 5) – le censure del rimettente concernenti l’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, e successive modificazioni, con particolare riguardo alla disciplina – in esso contenuta – relativa alle «strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia» (comma 2), definite come REMS dalle fonti normative successive.
5.1.– Al riguardo, è anzitutto necessario chiarire quale sia la natura della misura di assegnazione a una REMS.
Già dallo scarno dato testuale del comma 3 della disposizione censurata emerge l’accentuata vocazione di strumento di tutela della salute mentale del destinatario che il legislatore ha inteso assegnare alle strutture in questione: esse debbono essere caratterizzate da una «esclusiva gestione sanitaria» al loro interno, e possono prevedere, «ove necessario in relazione alle condizioni dei soggetti interessati», una attività di sicurezza e di vigilanza soltanto «perimetrale» ed «esterna», sì da impedire l’allontanamento non autorizzato dalle strutture.
Appare inoltre evidente l’ulteriore intenzione del legislatore di inserire la realizzazione e la successiva gestione delle strutture in questione nell’ambito dei sistemi sanitari regionali, e in particolare dei rispettivi dipartimenti per la salute mentale. Il comma 2 demanda, infatti, l’ulteriore disciplina delle strutture a un successivo decreto del Ministro della salute, da adottarsi di concerto con il Ministro della giustizia e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali; mentre i commi successivi assegnano risorse finanziarie alle Regioni e alle Province autonome allo scopo, tra l’altro, di realizzare le strutture medesime.
Cionondimeno, l’assegnazione a una REMS – così come oggi concretamente configurata nell’ordinamento – non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria.
Il comma 4 dell’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, dispone che, a partire dalla data di definitiva chiusura degli OPG, «le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia sono eseguite esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie di cui al comma 2», sempre che permanga la pericolosità sociale della persona interessata.
La disposizione ora menzionata, pur non chiarissima nel suo dato letterale (che potrebbe anche intendersi come riferito alle sole misure già disposte al momento della chiusura degli OPG), costituisce la base normativa che consente oggi di sostituire automaticamente i riferimenti alle misure di sicurezza del ricovero in OPG o dell’assegnazione a casa di cura e di custodia, ancora presenti nel codice penale e nella disciplina penitenziaria, con l’assegnazione a una REMS.
Quest’ultima costituisce così, a tutti gli effetti, una nuova misura di sicurezza, ispirata ad una logica di fondo assai diversa rispetto al ricovero in OPG o all’assegnazione a casa di cura o di custodia, ma applicabile in presenza degli stessi presupposti, salvo il nuovo requisito della inidoneità di ogni misura meno afflittiva introdotto dall’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito. Al punto che l’art. 1, comma 1-quater, del d.l. n. 52 del 2014, convertito nella legge n. 81 del 2014, include espressamente il «ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» tra le «misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive».
L’analisi dei contenuti dell’assegnazione a una REMS conferma la sua distinzione da ogni ordinario trattamento sanitario della salute mentale, in armonia con la sua caratterizzazione anche come misura di sicurezza.
L’assegnazione in parola consiste, anzitutto, in una misura limitativa della libertà personale – il che è evidenziato già dalla circostanza che al soggetto interessato può essere legittimamente impedito di allontanarsi dalla REMS. Durante la sua esecuzione possono essere praticati al paziente trattamenti sanitari coattivi, ossia attuabili nonostante l’eventuale volontà contraria del paziente. Essa si distingue, peraltro, dal trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale disciplinato dagli articoli da 33 a 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), esso pure di carattere coattivo, giacché:
– presuppone non solo a) una situazione di malattia mentale (un «vizio di mente», secondo la terminologia del codice penale), ma anche b) la previa commissione di un fatto costitutivo di reato da parte del soggetto che vi deve essere sottoposto (art. 202 cod. pen.), nonché c) una valutazione di pericolosità sociale di quest’ultimo (ancora, art. 202 cod. pen.), intesa quale probabilità di commissione di nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (art. 203 cod. pen.);
– è applicata non già dall’autorità amministrativa con successiva convalida giurisdizionale, come nell’ipotesi disciplinata dall’art. 35 della legge n. 833 del 1978, bensì dal giudice penale, con la sentenza che accerta il fatto (art. 222 cod. pen.) ovvero in via provvisoria (art. 206 cod. pen.);
– sulla sua concreta esecuzione sovraintende il magistrato di sorveglianza (art. 679, comma 2, cod. proc. pen.; art. 69, comma 3, ordin. penit.), che «[p]rovvede al riesame della pericolosità ai sensi del primo e secondo comma dell’art. 208 del codice penale, nonché all’applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca, anche anticipata, delle misure di sicurezza» (art. 69, comma 4, ordin. penit.), e dunque può sempre revocare l’assegnazione ad una REMS ovvero sostituirla con la meno afflittiva misura della libertà vigilata (sentenza n. 253 del 2003), con correlativo affidamento dell’interessato ai servizi territoriali per la cura della salute mentale.
5.2.– In quanto misura di sicurezza, l’assegnazione alla REMS non può che trovare la propria peculiare ragion d’essere – a fronte della generalità dei trattamenti sanitari per le malattie mentali – in una specifica funzione di contenimento della pericolosità sociale di chi abbia già commesso un reato, o sia gravemente indiziato di averlo commesso, in una condizione di vizio totale o parziale di mente.
Questa funzione, d’altronde, non è incompatibile con la finalità di cura della malattia mentale: anzi, proprio in tale concorrente finalità – essa stessa espressiva del dovere primario dell’ordinamento di cura della salute di ogni individuo, sancito dall’art. 32 Cost. – si realizza, rispetto a questa specifica categoria di autori di reato, la vocazione naturale di ogni misura di sicurezza al loro recupero sociale che accomuna, nel vigente quadro costituzionale, pene e misure di sicurezza (sentenze n. 197 del 2021, punto 4 del Considerato in diritto, e n. 73 del 2020, punto 4.4. del Considerato in diritto).
Come questa Corte, quasi un ventennio fa, ebbe a sottolineare a proposito della misura di sicurezza dell’OPG e – implicitamente – della misura della libertà vigilata per i malati mentali, resa possibile proprio da quella pronuncia, l’infermità di mente di autori di reato che, essendo penalmente non responsabili, «non possono essere destinatari di misure aventi un contenuto anche solo parzialmente punitivo», richiede «misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici. D’altra parte, la pericolosità sociale di tali persone, manifestatasi nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato, e valutata prognosticamente in occasione e in vista delle decisioni giudiziarie conseguenti, richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli. Le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci totali si muovono inevitabilmente fra queste due polarità, e in tanto si giustificano, in un ordinamento ispirato al principio personalista (art. 2 della Costituzione), in quanto rispondano contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili (cfr. sentenza n. 139 del 1982), di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità sociale. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste finalità (e così a quella di controllo dell’infermo “pericoloso”), e non all’altra, non potrebbe ritenersi costituzionalmente ammissibile» (sentenza n. 253 del 2003).
La sostituzione delle misure di sicurezza del ricovero in OPG e dell’assegnazione a casa di cura e di custodia, così come previste dal legislatore penale del 1930, con l’assegnazione alla REMS rappresenta un passo significativo nella direzione dell’attuazione dei principi espressi in quella pronuncia. A fronte della conclamata inidoneità di quelle istituzioni, costruite attorno a una logica custodialistica che privilegiava in maniera pressoché esclusiva le ragioni di tutela della collettività contro la pericolosità dell’internato, finendo per sancirne di fatto la totale e spesso definitiva segregazione dal contesto sociale, la disciplina che ha gradualmente preso forma a partire dal 2012 ha ripensato in radice la logica delle misure di sicurezza per gli autori di reato non imputabili o semimputabili, onde assicurarne l’effettiva funzionalità a quella finalità terapeutica che ne condiziona, per quanto appena osservato, la stessa legittimità costituzionale.
Coerentemente, si è conferito marcato carattere terapeutico-riabilitativo alla nuova misura dell’assegnazione in REMS, costruita attorno all’idea di un percorso di progressiva riabilitazione sociale, da compiersi in strutture residenziali di dimensioni ridotte chiamate a favorire il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno. Parallelamente, si è espressamente confinato l’ambito applicativo di questa nuova misura – pur sempre custodiale – ai casi in cui essa si riveli effettivamente necessaria a contenere la pericolosità sociale dell’autore di reato, in applicazione del principio di extrema ratio, o di minore sacrificio necessario, desumibile dall’art. 13 Cost. in relazione a tutte le misure privative della libertà personale (sentenza n. 250 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto, in relazione alle misure di sicurezza detentive; sentenza n. 179 del 2017, punto 4.4. del Considerato in diritto, in relazione alla pena detentiva; sentenza n. 265 del 2010, punto 13 del Considerato in diritto, in relazione alle misure cautelari). In difetto di effettiva necessità, il giudice dovrà dunque privilegiare strategie di controllo e di terapia alternative, come in particolare quelle assicurate dai dipartimenti per la salute mentale territorialmente competenti, eventualmente nel quadro delle prescrizioni dettate attraverso la meno afflittiva misura della libertà vigilata.
5.3.– La natura “ancipite” di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico che l’assegnazione in una REMS conserva nella legislazione vigente comporta, peraltro, la necessità che essa si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori.
5.3.1.– Sul primo versante, l’art. 25, terzo comma, Cost. dispone che «[n]essuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge». Tale norma costituzionale declina il principio di legalità rispetto alle misure di sicurezza in modo differenziato rispetto a quanto previsto nel secondo comma a proposito delle pene, non prevedendo – in particolare – la garanzia della loro irretroattività in peius. Tuttavia, non vi è motivo per ritenere che il diverso corollario della riserva di legge, espressamente stabilito tanto nel secondo quanto nel terzo comma, abbia contenuto differenziato rispetto a pene e misure di sicurezza, trattandosi dunque sempre di una riserva di legge statale, da intendersi come assoluta (sul carattere assoluto della riserva di legge in materia penale, ordinanza n. 24 del 2017 e sentenze n. 333 del 1991, n. 282 del 1990 e n. 26 del 1966; sulla insufficienza di una legge regionale a soddisfare la riserva di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., sentenze n. 5 del 2021, n. 134 del 2019 e n. 487 del 1989).
Inoltre, per quanto l’art. 25, terzo comma, Cost. espressamente richieda soltanto che la legge preveda i «casi» in cui può essere applicata una misura di sicurezza, una lettura di tale norma alla luce dell’art. 13, secondo comma, Cost. non può non condurre alla conclusione che la legge deve altresì prevedere, almeno nel loro nucleo essenziale, i «modi» con cui la misura di sicurezza può restringere la libertà personale del soggetto che vi sia sottoposto. È infatti impensabile che la Costituzione abbia inteso, in linea generale, gravare la legge dell’onere di precisare le modalità delle possibili restrizioni della libertà di personale, e abbia poi rinunciato a tale requisito proprio nei confronti delle pene e delle misure di sicurezza, e cioè delle misure che più tipicamente sono suscettibili di restringere la libertà personale degli individui, ed anzi di privarli della loro libertà, spesso per periodi duraturi o – addirittura – per l’intera vita residua. Proprio per soddisfare tale requisito costituzionale, d’altronde, il legislatore è intervenuto, mediante la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975, a dettare una puntuale e articolata disciplina in materia di esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza, che per troppo tempo era rimasta affidata a mere fonti secondarie (per l’ormai risalente affermazione, nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’ordinamento penitenziario è «materia di legge, alla stregua dell’art. 13 Cost.», sentenza n. 26 del 1999; sull’estensione di un diverso corollario della legalità della pena – in particolare, il divieto di applicazione retroattiva in peius – alla disciplina delle modalità esecutive della pena, sentenze n. 32 del 2020 e, successivamente, n. 183 del 2021 e n. 193 del 2020).
Considerazioni in parte analoghe debbono essere svolte anche sul diverso versante della riserva di legge in materia di trattamenti sanitari obbligatori, di cui all’art. 32, secondo comma, Cost. Quanto meno allorché un dato trattamento sia configurato dalla legge non soltanto come “obbligatorio” – con eventuale previsione di sanzioni a carico di chi non si sottoponga spontaneamente ad esso –, ma anche come “coattivo” – potendo il suo destinatario essere costretto con la forza a sottoporvisi, sia pure entro il limite segnato dal rispetto della persona umana –, le garanzie dell’art. 32, secondo comma, Cost. debbono sommarsi a quelle dell’art. 13 Cost., che tutela in via generale la libertà personale, posta in causa in ogni caso di coercizione che abbia ad oggetto il corpo della persona (sentenza n. 238 del 1996). Con conseguente necessità che la legge preveda anche i «modi», oltre che i «casi», in cui un simile trattamento – che lo stesso art. 32, secondo comma, Cost. esige d’altronde sia «determinato», e dunque descritto e disciplinato dalla legge – può essere eseguito contro la volontà del paziente.
5.3.2.– L’attuale disciplina in materia di assegnazione alle REMS – come giustamente rileva l’ordinanza di rimessione – rivela però evidenti profili di frizione con tali principi.
In effetti, l’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, in questa sede censurato, rappresenta la sola disposizione contenuta in un atto avente forza di legge su cui si fonda, oggi, l’intera disciplina dell’assegnazione a una REMS. La disposizione in parola – inserita in sede di conversione del decreto-legge in questione con lo scopo essenziale di dare avvio al processo di definitivo superamento degli OPG, i cui gravi difetti erano apparsi vieppiù evidenti alla luce delle conclusioni della commissione di inchiesta parlamentare, pubblicate appena qualche mese prima (supra, punto 4) – contiene al comma 4, come poc’anzi rammentato, la clausola di “trasformazione automatica” nella nuova misura dei ricoveri in OPG e dell’assegnazione a casa di cura e di custodia disposte dall’autorità giudiziaria; e si limita poi, al comma 3, a dettare tre principi generali – esclusiva gestione sanitaria, attività di vigilanza perimetrale e di sicurezza esterna, destinazione di norma delle strutture a soggetti residenti nella regione – cui si sarebbe dovuta attenere la regolamentazione delle nuove «strutture», ancora neppure individuate con il nome di REMS. Il comma 2 demanda poi pressoché interamente tale regolamentazione a un successivo decreto non regolamentare del Ministro della salute, da adottarsi di concerto con il Ministro della giustizia e d’intesa con la Conferenza Stato e autonomie territoriali.
Conseguentemente, la gran parte della disciplina vigente delle REMS si fonda oggi su atti distinti dalla legge: sul decreto ministeriale del 1° ottobre 2012 (supra, punto 4.3.), sull’accordo adottato in Conferenza unificata il 26 febbraio 2015 (supra, punto 4.4.) e, a cascata, su tutti gli atti conseguenti adottati a livello delle singole Regioni e Province autonome.
Il risultato è che, se oggi la fonte primaria – e in particolare le norme del codice penale, in combinato disposto con l’art. 3-ter, comma 4, del d.l. n. 211 del 2011, come convertito – indica in quali «casi» può trovare applicazione la nuova misura di sicurezza (in pratica: tutti quelli in cui, in passato, poteva essere applicato il ricovero in OPG o l’assegnazione a casa di cura o di custodia, risultando inidonea ogni possibile alternativa non custodiale), i «modi» di esecuzione della misura, e dunque della privazione di libertà che ne è connaturata, restano invece pressoché esclusivamente affidati a fonti subordinate e accordi tra il Governo e le autonomie territoriali.
Non solo: tanto il codice penale, quanto la legge sull’ordinamento penitenziario e il regolamento penitenziario continuano oggi a menzionare e a disciplinare le misure di sicurezza del ricovero in OPG e dell’assegnazione in casa di cura e custodia, ormai scomparse dall’ordinamento per effetto della disposizione in questa sede censurata, senza che il legislatore si sia ancora fatto carico di modificare tali riferimenti e di operare i necessari coordinamenti di disciplina – coordinamenti, peraltro, non solo formali, stante la profonda differenza di struttura, di funzionamento e di logica complessiva delle REMS rispetto ai previgenti istituti.
La necessità che una fonte primaria disciplini organicamente tale misura a livello statale, stabilita dalla Costituzione, risponde d’altronde a ineludibili esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei suoi destinatari, particolarmente vulnerabili proprio in ragione della loro malattia. Basti pensare, in proposito, che nella prassi dei trattamenti per la cura della malattia mentale non infrequentemente si fa uso delle pur controverse pratiche della contenzione fisica o farmacologica, che rappresentano forse le forme più intense di coazione cui possa essere sottoposta una persona. Gli artt. 13 e 32, secondo comma, Cost., unitamente all’art. 2 Cost. – che tutela i diritti involabili della persona, tra cui la sua integrità psicofisica – esigono che il legislatore si assuma la delicata responsabilità di stabilire – in ogni caso in chiave di extrema ratio ed entro i limiti della proporzionalità rispetto alle necessità terapeutiche e del rispetto della dignità della persona – se e in che misura sia legittimo l’uso della contenzione all’interno delle REMS, ed eventualmente quali ne siano le ammissibili modalità di esecuzione (sui limiti di legittimità della contenzione fisica del paziente psichiatrico dal punto di vista del diritto internazionale dei diritti umani, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 19 febbraio 2015, M.S. contro Croazia n. 2, paragrafi 98 e 103-105, nonché, più recentemente, 15 settembre 2020, Aggerholm contro Danimarca, paragrafi 81-85; nell’ordinamento tedesco, recentemente sul tema Tribunale costituzionale federale, sentenza 24 luglio 2018, 2 BvR 309/15 e 2 BvR 502/16).
Ancora, la legge non può non farsi carico della necessità di disciplinare in modo chiaro, e uniforme per l’intero territorio italiano, il ruolo e i poteri dell’autorità giudiziaria, e in particolare della magistratura di sorveglianza, rispetto al trattamento degli internati nelle REMS e ai loro strumenti di tutela giurisdizionale nei confronti delle decisioni delle relative amministrazioni (sull’obbligo costituzionale, gravante sull’ordinamento, di assicurare «garanzie giurisdizionali entro le istituzioni preposte all’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale», sentenza n. 26 del 1999). La vocazione accentuatamente terapeutica di tali strutture non esclude che il trattamento in esse praticato avvenga in una situazione in cui il paziente è fortemente limitato nella propria libertà personale; e non fa venir meno, pertanto, la necessità di tutelarlo efficacemente contro sempre possibili abusi.
5.4.– Sottesa all’intera ordinanza di rimessione è, poi, una valutazione di grave malfunzionamento strutturale del sistema di applicazione dell’assegnazione in REMS, che sarebbe dimostrata nel caso oggetto del giudizio a quo dall’impossibilità di eseguire la misura nei confronti dell’interessato, a quasi un anno di distanza dall’ordinanza che per la prima volta l’aveva disposta in via provvisoria, nonostante gli innumerevoli tentativi compiuti dal pubblico ministero di cui l’ordinanza dà puntualmente conto.
L’istruttoria esperita da questa Corte ha largamente confermato, e consentito di meglio precisare, la prospettazione del rimettente.
Un numero di persone almeno pari a quelle ospitate nelle 36 REMS allo stato attive – più in particolare un numero compreso tra le circa 670 (secondo i calcoli del Ministero della salute e della Conferenza delle Regioni e della Province autonome) e le 750 persone (secondo i calcoli del Ministero della giustizia) – è, oggi, in attesa di trovare una collocazione in una REMS, nella propria regione o altrove (Ritenuto in fatto, punto 5.3.). La permanenza media in una lista d’attesa è pari a circa dieci mesi; ma in alcune Regioni i tempi per l’inserimento in una REMS possono essere assai più lunghi (ancora Ritenuto in fatto, punto 5.3.). Le persone che si trovano in lista d’attesa sono spesso accusate, o risultano ormai in via definitiva essere autrici, di reati assai gravi – tra gli altri, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, violenza sessuale, rapina, estorsione, lesioni personali e persino omicidi, tentati e consumati (Ritenuto in fatto, punto 5.4.).
Non spetta a questa Corte stabilire se, come ritiene il Ministero della giustizia, l’esistenza di lunghe liste d’attesa sia ascrivibile principalmente all’insufficienza complessiva dei posti letto disponibili, all’assenza di soluzioni alternative sul territorio in grado di salvaguardare assieme le esigenze di salute del singolo e di sicurezza pubblica, nonché al mancato esercizio di poteri sostitutivi da parte dello Stato nei confronti delle Regioni nelle quali si manifestano le maggiori difficoltà; ovvero se, come sostenuto dal Ministero della salute unitamente alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, vi sia piuttosto un eccesso di provvedimenti di assegnazione alle REMS da parte dell’autorità giudiziaria in conseguenza di una diffusa mancata adesione al nuovo approccio culturale sotteso alla riforma.
Questa Corte non può però non rilevare la problematicità dell’esistenza di liste d’attesa nell’esecuzione di provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria nei confronti di autori di reato, sul presupposto della loro pericolosità sociale – e dunque, ai sensi dell’art. 203 cod. pen., sulla base di una valutazione di probabilità che essi commettano nuovi fatti previsti dalla legge come reati. Per loro natura, simili provvedimenti dovrebbero essere immediatamente eseguiti, così come destinate a essere immediatamente eseguite sono le misure cautelari previste dal codice di procedura penale che si fondano sulla necessità di prevenire rischi quale – in particolare – il pericolo di commissione di gravi reati da parte dell’imputato (art. 274, comma 1, lettera c, del codice di procedura penale).
Una situazione in cui sistematicamente restano per molti mesi ineseguiti provvedimenti volti a evitare la commissione di nuovi reati, lungi dal costituire un inconveniente di mero fatto nell’attuazione concreta della disciplina legislativa, evidenzia un difetto sistemico di effettività nella tutela dell’intero fascio di diritti fondamentali che l’assegnazione a una REMS mira a tutelare; difetto rispetto al quale questa Corte – non meno che la Corte di Strasburgo, che ormai da molti decenni sottolinea come la Convenzione intenda proteggere i diritti nella loro dimensione di effettività (quanto meno a partire da Corte EDU, sentenza 9 ottobre 1979, Airey contro Irlanda, paragrafo 24: «The Convention is intended to guarantee not rights that are theoretical or illusory but rights that are practical and effective») – non può rimanere indifferente, anche alla luce dell’art. 3, secondo comma, Cost. (come già sottolineato dalla sentenza n. 215 del 1987, in tema di effettività del diritto all’educazione; sul principio di effettività della tutela giurisdizionale, sentenze n. 10 del 2022, n. 157 e n. 48 del 2021 e precedenti nelle stesse richiamati, nonché la sentenza n. 26 del 1999 più volte citata).
Da un lato, un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in esame comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche, e già autore spesso di gravi o gravissimi fatti di reato, potrebbe nuovamente realizzare, e che l’ordinamento ha il dovere di prevenire. Dall’altro, la mancata tempestiva esecuzione di questi provvedimenti lede, al contempo, il diritto alla salute del malato, al quale nell’attesa non vengono praticati i trattamenti – rientranti a pieno titolo tra i LEA (Ritenuto in fatto, punto 5.9.) – che dovrebbero essergli invece assicurati, per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società.
È chiaro che la soluzione a tale deficit di tutela dei diritti fondamentali non può essere quella dell’assegnazione in soprannumero delle persone in lista d’attesa alle REMS esistenti: un simile rimedio finirebbe soltanto per creare una situazione di sovraffollamento di queste strutture, snaturandone la funzione e minandone in radice la funzionalità rispetto ai propri scopi terapeutico-riabilitativi. Ed è altresì evidente che l’alternativa non può essere quella di collocare provvisoriamente in istituti penitenziari queste persone, le quali necessitano di terapie e di un percorso riabilitativo che il carcere non è in alcun modo idoneo a fornire; tanto che, a fronte anche della comunicazione al Governo italiano di vari procedimenti pendenti avanti alla Corte EDU (uno dei quali ora definito con sentenza 24 gennaio 2022, Sy contro Italia) promossi da persone affette da patologie psichiatriche detenute in strutture penitenziarie, la relazione dei Ministri della giustizia e della salute e della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha dato atto dell’impegno congiunto di tutti gli attori istituzionali coinvolti a eliminare al più presto queste situazioni, suscettibili di dar luogo a loro volta a intollerabili violazioni dei diritti fondamentali delle persone interessate (Ritenuto in fatto, punto 5.5.).
Il problema delle liste d’attesa esige, piuttosto, di essere affrontato senza indugio – sulla base di adeguati finanziamenti da parte dello Stato e delle autonomie territoriali – attraverso le differenti strategie prospettate nella loro relazione dagli stessi Ministeri della giustizia e della salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (Ritenuto in fatto, punto 5.12.); strategie miranti a ridurre gradatamente, sino ad azzerare, l’attuale divario tra il numero di posti disponibili e il numero dei provvedimenti di assegnazione. E ciò mediante l’articolata gamma di interventi già indicati dai diversi attori istituzionali: dalla valorizzazione e potenziamento delle alternative terapeutiche per la salute mentale esistenti sul territorio, sì da contenere il più possibile la necessità di ricorrere ai provvedimenti custodiali nelle REMS; ad iniziative dirette alla definizione di standard condivisi nella scelta della misura più appropriata in relazione alla situazione clinica e alla pericolosità sociale dei singoli interessati; sino eventualmente alla realizzazione di nuove REMS, laddove se ne evidenzi l’imprescindibilità per far fronte a una domanda che si rivelasse non ulteriormente riducibile.
L’istruttoria ha, peraltro, mostrato che le segnalate difficoltà sono concentrate soprattutto in talune Regioni, dove le liste d’attesa sono particolarmente numerose e i tempi di attesa medi anche sensibilmente superiori all’anno. Ciò determina una situazione di diseguale tutela dei diritti fondamentali – delle potenziali vittime di persone socialmente pericolose, e della salute di queste ultime – nel territorio nazionale, che reclama di essere eliminata con ogni strategia opportuna: compreso l’esercizio degli ordinari poteri sostitutivi da parte del Governo ai sensi dell’art. 120, secondo comma, Cost, in caso di riscontrata inadempienza di quelle Regioni che fossero venute meno al proprio dovere costituzionale di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali nei confronti dei destinatari dei provvedimenti di assegnazione alle REMS.
5.5.– Il giudice rimettente si duole, infine, dell’estromissione del Ministro della giustizia pressoché da ogni competenza in materia di esecuzione della misura di sicurezza in oggetto, in violazione – a suo avviso – dell’art. 110 Cost.
Dagli scarni dati normativi vigenti, e in particolare dalla disposizione censurata, non si evince in effetti alcuna specifica indicazione sulle competenze del Ministro della giustizia rispetto a strutture definite espressamente come «a esclusiva gestione sanitaria»; strutture che l’accordo tra Governo e autonomie territoriali stipulato in sede di Conferenza unificata il 26 febbraio 2015 ha poi affidato interamente al personale sanitario delle Regioni o delle Province autonome, al quale spetta la direzione della struttura e la gestione dei rapporti con l’autorità giudiziaria, comprensiva dei provvedimenti da questa emessi, come i permessi o le licenze (supra, punto 4.4.).
La relazione congiunta del Ministero della giustizia, del Ministero della salute e della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha, in proposito, ulteriormente chiarito che – secondo l’interpretazione della normativa vigente invalsa nella prassi – la competenza del DAP è essenzialmente limitata alla indicazione all’autorità giudiziaria che ne faccia richiesta della REMS territorialmente competente all’accoglienza dell’interessato, il cui effettivo ricovero è però subordinato alla dichiarazione di disponibilità di un posto letto da parte del responsabile della struttura (Ritenuto in fatto, punto 5.8.).
Una simile situazione, che risulterebbe coerente con una prospettiva che riconoscesse natura di mero trattamento sanitario all’assegnazione in REMS, non appare in linea con la caratterizzazione di tale assegnazione, univocamente desumibile dal quadro normativo vigente, come misura di sicurezza (supra, punto 5.1.). Una misura di sicurezza disposta dal giudice penale in seguito alla commissione di un reato da parte dell’interessato, sulla cui esecuzione è chiamato a sovraintendere il magistrato di sorveglianza, e che può essere sempre da lui revocata o modificata, rientra a pieno titolo – non meno di quanto avviene per la pena – tra i «servizi relativi alla giustizia», e in particolare della giustizia penale, sulla cui organizzazione e funzionamento il Ministro della giustizia esercita una competenza fondata direttamente sull’art. 110 Cost.
Dal momento che la misura in parola è fortemente caratterizzata in senso terapeutico, non contrasta invero con la Costituzione, ed anzi appare naturale, che il legislatore – nonché gli atti di normazione secondaria e gli accordi tra Stato e autonomie territoriali che ne hanno gradatamente precisato i contorni – ne abbia affidato la gestione ai sistemi sanitari regionali, anche allo scopo di assicurarne il necessario raccordo con i dipartimenti per la salute mentale territorialmente competenti; dipartimenti che sono chiamati a prendere in carico i pazienti non appena ne sia possibile la dimissione dalla REMS, e sono sollecitati ancor prima ad offrire alternative terapeutiche che, assicurando esse stesse un’adeguata tutela della collettività contro il pericolo di commissione di nuovi reati da parte dell’interessato, rendano non necessaria la sua assegnazione a una REMS. E tuttavia, non può ritenersi conforme all’art. 110 Cost. una disciplina che, come quella vigente, non attribuisca alcun ruolo in materia al Ministro della giustizia, lasciando così le singole autorità giudiziarie – magistrati di sorveglianza, ma anche giudici penali e pubblici ministeri durante la fase delle indagini preliminari e del processo – a interagire direttamente con le strutture amministrative delle singole REMS e i vari dipartimenti regionali per la salute mentale, ciascuno operante – per di più – con logiche differenti e sulla base di realtà organizzative tra loro assai eterogenee.
La già avvenuta attivazione o riattivazione, in epoca successiva all’ordinanza istruttoria di questa Corte, di vari meccanismi di coordinamento e tavoli tra i diversi attori istituzionali coinvolti, compreso lo stesso Ministero della giustizia (Ritenuto in fatto, punto 5.7.), rappresenta un segnale significativo e incoraggiante nella direzione di una maggiore sinergia tra tali attori, nello spirito di una loro leale collaborazione in vista dell’obiettivo di un migliore funzionamento del sistema delle REMS, e in definitiva di una tutela effettiva dei diritti fondamentali di tutte le persone coinvolte. Ma rimane l’esigenza, ai sensi dell’art. 110 Cost., di assicurare una esplicita base normativa allo stabile coinvolgimento del Ministero della giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture esistenti o degli strumenti alternativi.
6.– Riconosciuta dunque l’effettiva sussistenza dei vulnera lamentati dal rimettente, e ferma restando l’inammissibilità per aberratio ictus delle questioni sollevate sugli artt. 206 e 222 cod. pen. (supra, punto 2.1.), questa Corte non può, tuttavia, che ritenere altresì inammissibili le questioni prospettate dal rimettente sull’art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011, come convertito, anche alla luce di quanto è emerso dall’istruttoria.
Quanto alla censura concernente l’estromissione del Ministro della giustizia da qualsiasi competenza significativa in materia di collocazione nelle REMS, in violazione dell’art. 110 Cost., proprio l’istruttoria compiuta ha mostrato come lo specifico problema lamentato dal giudice a quo – l’inesistenza di un meccanismo che consenta di collocare tempestivamente l’internando in una REMS – non sia affrontabile semplicemente mediante una pronuncia di questa Corte che restituisca al Ministro della giustizia una competenza nel processo di individuazione di una REMS disponibile e di successivo collocamento dell’interessato, anche al di fuori della Regione di residenza di quest’ultimo. I dati forniti congiuntamente dai Ministri della giustizia e della salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome hanno mostrato che, allo stato, tutte le REMS esistenti nelle varie realtà territoriali sono occupate quasi al limite delle rispettive capacità regolamentari; sicché i posti disponibili sull’intero territorio nazionale sono ampiamente inferiori al numero delle persone che si trovano in lista d’attesa, comunque determinato. Il rimedio auspicato dal rimettente sarebbe, in questo caso, palesemente inidoneo a garantire il risultato pratico cui egli mira.
Una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata per violazione delle riserve di legge poste dall’art. 25, terzo comma, e dall’art. 32 Cost. determinerebbe, d’altra parte, l’integrale caducazione del sistema delle REMS, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG; e produrrebbe non solo un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, ma anche un risultato diametralmente opposto a quello auspicato dal rimettente, che mira invece a rendere più efficiente il sistema esistente, mediante il superamento delle difficoltà che impediscono la tempestiva collocazione degli interessati in una struttura idonea (sulla inammissibilità di questioni il cui accoglimento produrrebbe un risultato incongruo rispetto all’obiettivo perseguito, sentenze n. 21 del 2020, n. 239 del 2019 e n. 280 del 2016).
Le considerazioni sin qui svolte hanno, piuttosto, evidenziato l’urgente necessità di una complessiva riforma di sistema, che assicuri, assieme:
– un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, secondo i principi poc’anzi enunciati (supra, punto 5.3.);
– la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività (e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei fatti di reato che potrebbero essere commessi dai destinatari delle misure) (supra, punto 5.4.);
– forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture esistenti o degli strumenti alternativi (supra, punto 5.5.).
Nel dichiarare l’inammissibilità delle odierne questioni, questa Corte non può peraltro non sottolineare – come in altre analoghe occasioni (segnatamente, sentenza n. 279 del 2013; nonché recentemente, in diverso contesto, sentenza n. 32 del 2021) – che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia.