Massima
Quello della nullità parziale è un tema tornato recentemente alla ribalta del panorama giurisprudenziale e che va declinato non già solo secondo le tradizionali categorie della parzialità “oggettiva” (sono nulle alcune clausole del negozio) e di quella soggettiva (nell’ambito di un negozio plurilaterale, è nulla la sola “partecipazione” di un soggetto e non anche di tutti gli altri), ma anche in una nuova veste con connotati decisamente processuali, onde esistono nullità che solo una parte (più “debole”), e non anche l’altra (più “forte”) di un negozio può far valere innanzi ad un giudice, a propria volta chiamato a scandagliare la consistenza del (e i “non effetti” prodotti dal) pertinente vizio, se del caso, anche d’ufficio.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia (c.d. codice Pisanelli), di stampo liberale secondo il cui art.1628 nessuno può impegnarsi a prestare la propria opera presso terzi, se non a tempo o per una determinata impresa: la norma ha lo scopo di scongiurare rapporti contrattuali “perpetui”, in quanto assunti assimilabili alla servitù, con la conseguenza di assumere parzialmente nulla, ratione temporis, la clausola di illimitatezza diacronica del rapporto che dal contratto scaturisce.
Alla stregua poi dell’art.1132 vige il principio di conservazione degli effetti negoziali alla cui stregua, quando una clausola ammette due sensi, si deve intendere nel senso in cui può la medesima avere qualche effetto, piuttosto che in quello in cui non ne potrebbe avere alcuno.
Il principio interpretativo, limitato alla singola clausola contrattuale, richiama il passo del Digesto nel quale il giureconsulto Giuliano afferma che «quoties…. ambigua oratio est…» deve darvisi un’interpretazione maggiormente orientata alla vigenza che alla negatoria effettuale («res de qua agitur magis valeat quam pereat»).
Il codice difetta dunque di disposizioni esplicite sulla nullità parziale e tuttavia, attraverso il generale principio di conservazione del contratto, la giurisprudenza e la dottrina potranno in qualche modo discettarne.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile) che, innovando sul punto rispetto al codice del 1865 (e rifacendosi qui al modello tedesco – § 139 del BGB – assai più che a quello francese), dedica alla nullità parziale – nella materia contrattuale – una apposita disciplina in primis all’art.1419, onde la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto (travolgendolo integralmente), ma solo se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del relativo contenuto che risulta colpita dalla nullità (comma 1).
La nullità di singole clausole non importa tuttavia la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative (comma 2); è il caso ad esempio dell’art.1573, onde salvo diverse norme di legge, la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trent’anni e se stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, essa viene ridotta al termine suddetto.
Del pari, in materia di trasporto e segnatamente di pubblici servizi di linea, alla stregua dell’art.1679, comma 4, salve le speciali concessioni ammesse dalle condizioni generali, qualunque deroga alle medesime è nulla, e alla clausola difforme è sostituita la norma delle condizioni generali.
Ancora, in materia di assicurazione ed ai sensi dell’art.1932, e disposizioni degli articoli 1887, 1892, 1893, 1894, 1897, 1898, 1899, secondo comma, 1901, 1903, secondo comma, 1914, secondo comma, 1915, secondo comma, 1917, terzo e quarto comma, e 1926 non possono essere derogate se non in senso più favorevole all’assicurato (comma 1); le clausole che derogano in senso meno favorevole all’assicurato sono sostituite di diritto dalle corrispondenti disposizioni di legge (comma 2).
In materia di anticresi, campeggia l’art.1962 onde essa dura finché il creditore sia stato interamente soddisfatto del relativo credito, anche se il credito o l’immobile dato in anticresi sia divisibile, salvo che sia stata stabilita la durata (comma 1); in ogni caso, nondimeno, l’anticresi non può avere una durata superiore ai dieci anni (comma 2) e se è stato stipulato un termine maggiore questo si riduce al termine suddetto (comma 3)..
Stando poi all’art.2077, i contratti individuali di lavoro tra gli appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo (comma 1); le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro (comma 2).
In tema di mutuo, rileva significativamente l’art.1815 alla cui stregua, salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante, per la cui determinazione si osservano le disposizioni dell’art.1284 (comma 1); qualora siano convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e gli interessi sono dovuti solo nella misura legale.
Proprio in considerazione di molte delle norme testé citate, assume particolare pregnanza l’art.1339 in tema di sostituzione automatica di clausole, onde le clausole, i prezzi di beni o di servizi, imposti dalla legge o da norme corporative sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti.
Sul crinale soggettivo, rileva l’art.1420 in tema di contratto plurilaterale, onde, nei contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune, la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale.
Infine, ai sensi dell’art.1367, nel dubbio, il contratto “o le singole clausole” devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; viene dunque riproposto dal nuovo codice il principio di conservazione del contratto (e, con esso, più in generale del negozio giuridico); mentre tuttavia il testo dell’art.1132 del codice del 1865 faceva riferimento a singole clausole, l’art.1367 concerne l’intero contratto, oltre che le pertinenti clausole particolari; la Relazione al codice spiega sul punto come, in ogni caso, con tale innovazione si intenda «significare che l’interpretazione complessiva delle clausole deve essere fatta in modo che questo (il contratto) risulti efficace anziché senza effetto», considerazione senz’altro capace di riaffermare la possibile nullità (anche) “solo parziale” dell’intero contratto.
Sul versante processuale, da rammentare che – ai sensi dell’art.1421 – salvo diverse disposizioni di legge la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Significativi anche gli articoli 1341 e 1342 c.c., alla stregua del primo dei quali le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza (comma 1); in ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni (tra le quali, quella di nullità), restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria (comma 2).
Stando poi all’art.1342, nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, le clausole aggiunte al modulo o al formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse anche se queste ultime non sono state cancellate (comma 1), osservandosi inoltre la disposizione del secondo comma dell’articolo precedente in tema di specifica approvazione per iscritto (comma 2).
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, secondo il cui art.41, se da un lato l’iniziativa economica privata è libera (comma 1), dall’altro essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (comma 2), venendo demandato alla legge di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (comma 3).
Anche dal punto di vista costituzionale dunque, la nullità può non dover travolgere necessariamente un intero negozio, quante volte ciò finisca col collidere con l’utilità sociale o comunque con il recare danno alla sicurezza, alla libertà o alla dignità di almeno uno dei contraenti, massime se quest’ultimo si trovi in una condizione di squilibrio contrattuale.
1966
Il 30 giugno esce la sentenza della Corte Giustizia CEE, C- 56/65, LTM, alla cui stregua la sanzione della nullità si applica alle sole clausole dell’accordo o della decisione (anticoncorrenziali) colpite dal divieto, a meno che dette clausole risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione stessi, nel qual caso soltanto essi saranno travolti integralmente.
1974
L’11 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.3508 alla cui stregua, in tema di clausole vessatorie, se si riconosce che l’inciso iniziale dell’art. 1421 c.c. (“salvo diverse disposizioni di legge”) si ricollega a tutto il seguito della norma, si deve coerentemente sostenere che – accogliendosi l’assunto della nullità “relativa” per la clausola particolarmente onerosa non approvata – viene meno il potere del giudice di rilevare tale clausola ex officio, appunto perché in simili ipotesi esplicitamente escluso da una “diversa disposizione di legge”..
A fianco del rilievo d’ordine testuale – chiosa il Collego – sta l’incompatibilità logica fra il carattere relativo della nullità (che trova il proprio ubi consistam nel fatto di essere nella disponibilità esclusiva di determinati soggetti, al cui arbitrio è affidata la valutazione dell’interesse a farla valere) e il rilievo d’ufficio ad opera del giudice (che in ogni caso, se ammesso, si sovrapporrebbe a quella valutazione).
1978
Il 19 ottobre esce la sentenza della Cassazione n.4715, alla cui stregua – conformemente alla giurisprudenza dominante sul punto – l’art.1420 c.c. in tema di nullità parziale soggettiva coinvolge un fenomeno che può verificarsi solo in relazione ai contratti con comunione di scopo.
In essi la partecipazione di uno dei soggetti può non essere essenziale e vi si ravvisa un presupposto costante, ovvero la pluralità di interessi omogenei e convergenti, tali da accomunare i partecipanti in una medesima esigenza e da consentire loro di trovare nel contratto soddisfacimento attraverso un’utilità dello stesso tipo per ciascuno di essi.
1982
Il 3 maggio viene varata la legge n.203, recante norme sui contratti agrari, secondo il cui art.21 sono vietati i contratti di subaffitto, di sublocazione e comunque di subconcessione di fondi rustici (comma 1); la violazione di tale divieto nondimeno, ai fini della dichiarazione di nullità del subaffitto o della sub concessione, della risoluzione del contratto di affitto e della restituzione del fondo, può essere fatta valere dal solo locatore, entro 4 mesi dalla data in cui ne sia venuto a conoscenza; se egli non si avvale di tale facoltà, il subaffittuario o il subconcessionario subentra nella posizione giuridica dell’affittuario o del concessionario (comma 2).
Peraltro, se il locatore fa valere i propri diritti, il subaffittuario o il sub concessionario ha facoltà di subentrare nella posizione giuridica dell’affittuario o del concessionario per 3 annate agrarie a partire dalla scadenza di quella in corso e comunque per una durata non eccedente quella del contratto originario.
Si tratta di una c.d. nullità “di protezione” che palesa elementi di “parzialità” sul crinale processuale, potendo essa esser fatta valere solo da una parte nei confronti dell’altra, in deroga a quanto previsto dall’art.1421 c.c.
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Il 16 dicembre esce la sentenza della Cassazione n.6935 onde le regole della nullità parziale oggettiva non trovano operatività solo nell’ambito della nullità ridetta, estendendosi piuttosto, per analogia, anche ai negozi annullabili.
L’esigenza della conservazione degli effetti prodotti dal contratto infatti, per la Corte, si riscontra in tutte le ipotesi in cui si configuri un vizio parziale del contratto; di conseguenza, la regola dettata per una forma di invalidità (la nullità) non può non valere anche per l’altra (l’annullabilità), il giudizio sull’essenzialità della quota-parte di atto colpita dalla patologia dovendo svolgersi secondo i medesimi criteri.
1983
Il 23 marzo viene varata la legge n.77 in tema di istituzione e disciplina dei fondi comuni d’investimento mobiliare che, nel novellare l’art.18 del decreto legge 95.74, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 216.74, vi introduce tra gli altri un nuovo art.18 ter secondo il cui ultimo comma sono nulli i contratti stipulati a seguito di sollecitazione al pubblico risparmio in violazione di quanto prescritto dai comma precedenti.
A cagione del progressivo superamento della c.d. “concezione monolitica” della nullità negoziale, e giusta adeguata valorizzazione delle finalità protettive di diverse norme poste a tutela della parte debole di vari contratti, la dottrina tenderà a ravvisare anche in questa fattispecie una ipotesi di nullità “relativa”, pur nel silenzio, in proposito, del legislatore.
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Il 14 dicembre esce la sentenza della Corte Giustizia, 14/12/1983, C- 319/82, Societè de Vente de Cimentes, che si inserisce nel solco della giurisprudenza onde la portata e le conseguenze della nullità delle intese, per violazione dell’art.101 (ex 81 Trattato CE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, non dipendono direttamente dal diritto unionale, ma devono essere individuate dai giudici nazionali in base al diritto di ciascuno Stato membro.
Per la Corte – fermo restando il diritto al risarcimento del danno – la sorte dei contratti a valle di intese antitrust – che non vengono automaticamente travolti, in forza del diritto europeo, dalla nullità dell’intesa a monte – è riservata ai diritti nazionali.
Se ne inferisce che – fermo restando l’essenzialità, sul piano del diritto comunitario, del diritto del consumatore di far valere la nullità dell’intesa a monte e di chiedere il risarcimento dei danni subiti, come minimo comune denominatore in materia di tutela – la maggiore tutela del medesimo consumatore, in guisa da garantire la piena attuazione del diritto comunitario, è affidata ai giudice dello Stato di appartenenza.
1984
Il 17 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.6602, onde – in base all’art.18 della legge 765.67 – nella vendita di appartamenti è nulla la clausola con cui le parti abbiano escluso il trasferimento dei diritti relativi all’area di parcheggio.
Ne consegue, per la Corte, che all’acquirente si trasferisce il diritto reale d’uso su di essa e all’alienante spetta il prezzo relativo, da concordarsi tra le parti ovvero determinabile in corso di giudizio.
Si tratta di una fattispecie di nullità virtuale accompagnata da sostituzione automatica, ex art.1339 c.c., della clausola nulla con quella imposta dalla legge.
1988
Il 18 gennaio esce la significativa sentenza della sezione I della Cassazione n.321 alla cui stregua l’estensione della nullità “dalla parte al tutto” non opera soltanto all’interno del singolo contratto, ma può verificarsi anche da un contratto all’altro, quando si riscontri tra essi un collegamento negoziale.
Per il Collegio, ai contratti collegati è dunque applicabile la disposizione di cui allart. 1419 c.c., onde la nullità parziale di uno dei contratti o quella di singole clausole importa la nullità dell’intera operazione contrattuale; una forma di nullità che per la Corte può essere ravvisata d’ufficio dal giudice, senza che sia onere delle parti, che non abbiano mostrato interesse a mantenere in vita l’altro contratto, allegare la pertinente situazione di interdipendenza funzionale.
1989
Il 18 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.3363, in materia di aree destinate a parcheggio, alla cui stregua l’art.26, ultimo comma, della legge 47.85 non modifica il pertinente regime vincolistico, siccome previsto dall’art.18 della legge 765.67, che avvince l’unità abitativa e gli spazi di parcheggio condominiali, chiarendone solo l’originaria portata.
Per il Collegio deve dunque ritenersi che i contratti di autonoma disposizione dei ridetti spazi di parcheggio, pur ammissibili, non possono comunque intaccare il diritto reale di uso a favore dell’unità abitativa “collegata”.
E’ pertanto nulla, conclude la Corte, e va sostituita ope legis, la clausola contrattuale con la quale il venditore dell’immobile abbia riservato a sé la piena proprietà dell’area di parcheggio.
Ne discende che il regime di inserzione automatica di clausole opera anche nelle fattispecie di nullità c.d. virtuale, per violazione di norme imperative.
1990
Il 10 ottobre viene varata la legge n.287, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, secondo il cui art.2, comma 3, le intese restrittive della libertà di concorrenza sono vietate e sono nulle “ad ogni effetto”.
Sono considerate “intese”, a questo proposito, gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese, nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari.
1991
Il 2 gennaio viene varata la legge n.1, recante disciplina dell’attivita’ di intermediazione mobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei mercati mobiliari.
Stando al relativo art.6, comma 1, lettera c), nello svolgimento delle loro attività le società di intermediazione mobiliare, fra l’altro, devono stabilire i propri rapporti con il cliente stipulando un contratto scritto nel quale siano indicati la natura dei servizi forniti, le modalità di svolgimento dei servizi stessi e l’entità e i criteri di calcolo della remunerazione, nonché le altre condizioni particolari convenute con il cliente; copia del contratto deve poi essere consegnata contestualmente al cliente.
A cagione del progressivo superamento della c.d. “concezione monolitica” della nullità negoziale, e giusta adeguata valorizzazione delle finalità protettive di diverse norme poste a tutela della parte debole di vari contratti, la dottrina tenderà a ravvisare anche in questa fattispecie una ipotesi di nullità “relativa”, pur nel silenzio in proposito del legislatore (nel caso di specie, financo sulla sanzione di nullità).
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Il 26 aprile esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.4559 alla cui stregua, in tema di alienazioni di beni di interesse storico senza il rispetto delle prescritte condizioni di legge, se si riconosce che l’inciso iniziale dell’art. 1421 c.c. si ricollega a tutto il seguito della norma, si deve coerentemente sostenere che – accogliendosi l’assunto della nullità relativa per la clausola particolarmente onerosa non approvata – viene meno il potere del giudice di rilevarla ex officio.
A fianco del rilievo d’ordine testuale – chiosa il Collego – sta l’incompatibilità logica fra il carattere relativo della nullità (che ha il suo ubi consistam nel fatto di essere nella disponibilità esclusiva di determinati soggetti, al cui arbitrio è affidata la valutazione dell’interesse a farla valere) e il rilievo d’ufficio ad opera del giudice (che in ogni caso si sovrapporrebbe a quella valutazione).
1993
*Il 16 febbraio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.1906, alla cui stregua – conformemente alla giurisprudenza dominante sul punto – l’art.1420 c.c. in tema di nullità parziale soggettiva coinvolge un fenomeno che può verificarsi solo in relazione ai contratti con comunione di scopo, nei quali la partecipazione di uno dei soggetti può non essere essenziale e in cui si ravvisa un presupposto costante, ovvero la pluralità di interessi omogenei e convergenti, tali da accomunare i partecipanti in una medesima esigenza e da trovare nel contratto il loro soddisfacimento attraverso un’utilità dello stesso tipo per ciascuno di essi.
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Il 5 aprile viene varata la Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, secondo il cui art.6 gli Stati membri prevedono che le ridette clausole abusive, contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista, non vincolino il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti (nella porzione restante) secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive (paragrafo 1).
La norma ventila dunque la possibilità di una nullità meramente parziale che “vitiatur sed non vitiat”, laddove più conveniente al consumatore come parte debole del contratto.
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Il 01 settembre viene varato il decreto legislativo n.385, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, secondo il cui art.127, comma 1, le disposizioni previste dal Titolo VI (trasparenza delle condizioni contrattuali), sono derogabili solo in senso più favorevole al cliente (comma 1), e le nullità ivi previste possono essere fatte valere dal solo cliente.
Si tratta di una ulteriore fattispecie di nullità “relativa”, e dunque “parziale” dal punto di vista del possibile rilievo in sede processuale.
1995
Il 01 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2340 onde, in tema di prova della nullità parziale di un contratto, e secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto, l’effetto estensivo della nullità della singola clausola all’intero contratto non può essere dichiarato d’ufficio dal giudice, essendo onere della parte allegare e provare con ogni mezzo che il contratto non si sarebbe concluso senza quella clausola nulla.
Si tratta di una manifestazione, nel prisma processuale, del principio di conservazione del negozio che è alla base dello stesso regime sostanziale della nullità parziale.
1996
Il 7 marzo viene varata la legge n.108 in tema di usura, con rilevanti modifiche al sistema penale pertinente.
Il relativo art.4 sostituisce il comma 2 dell’art.1815 c.c., onde – se sono convenuti dalle parti interessi usurari – la clausola è nulla e non sono dovuti interessi; si tratta dunque sempre di un’ipotesi di nullità parziale che – come tale – non invalida l’intero contratto di mutuo, prevedendosi semplicemente che non siano dovuti dal debitore interessi (in luogo di quanto previsto in precedenza, che garantiva comunque al creditore gli interessi legali).
A cagione del progressivo superamento della c.d. “concezione monolitica” della nullità negoziale, e giusta adeguata valorizzazione delle finalità protettive di diverse norme poste a tutela della parte debole di vari contratti, la dottrina tenderà peraltro a ravvisare anche in questa fattispecie una ipotesi di nullità “relativa”, pur nel silenzio in proposito del legislatore.
1998
Il 28 gennaio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.831 che si occupa della norma di cui all’art. 10 della L. 17 febbraio 1992 n 154, laddove impone la fissazione dell’importo massimo garantito alle c.d. fideiussioni c.d. omnibus future.
Per il Collegio, la norma deve assumersi avere portata innovativa e, non spiegando efficacia retroattiva, non può determinare la nullità delle fideiussioni per obbligazioni future rilasciate anteriormente alla pertinente entrata in vigore, potendo tuttavia privarle di effetti rispetto alle obbligazioni (da garantirsi) sorte in epoca successiva.
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Il 24 febbraio viene varato il decreto legislativo n.58, recante Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52.
Stando al pertinente art.23, i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è conseguano ai clienti; la Consob, sentita la Banca d’Italia, può prevedere tuttavia con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma; nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo (comma 1).
E’ del pari nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a relativo carico, ed in tali casi nulla è dovuto (comma 2).
Nelle fattispecie di cui ai precedenti comma 1 e 2 la nullità può essere tuttavia fatta valere solo dal cliente (comma 3), con conseguente novella fattispecie di nullità c.d. relativa.
Il successivo art.24 disciplina la gestione dei portafogli di investimento, il relativo ultimo comma dichiarando nulli i patti contrari alle disposizioni dell’articolo medesimo (ad esempio, la necessaria forma scritta prevista al comma 1, lettera a), con nullità che può essere fatta valere, ancora una volta, dal solo cliente.
* * *
Il 18 giugno viene varata la legge n.192, recante disciplina della subfornitura nelle attivita’ produttive, secondo il cui art.2, comma 1, il rapporto di subfornitura si instaura con il contratto (pertinente), che deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità, costituendo forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuate per telefax o altra via telematica; in caso di nullità ai sensi della ridetta norma, il subfornitore ha comunque diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate e al risarcimento delle spese sostenute in buona fede ai fini dell’esecuzione del contratto.
Ancora, si sensi del successivo art.4, comma 2, gli accordi con cui il subfornitore affidi ad altra impresa l’esecuzione delle proprie prestazioni in violazione di quanto stabilito nel precedente comma 1 (sostanzialmente, senza l’autorizzazione del committente per una quota, di norma, superiore al 50%) sono nulli.
A cagione del progressivo superamento della c.d. “concezione monolitica” della nullità negoziale, e giusta adeguata valorizzazione delle finalità protettive di diverse norme poste a tutela della parte debole in vari contratti, la dottrina tenderà a ravvisare anche in questa fattispecie una ipotesi di nullità “relativa”, pur nel silenzio in proposito del legislatore.
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Il 9 dicembre viene varata la legge n.431, recante disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo, il cui art.13 prevede una serie di fattispecie nulle tra le quali, in particolare, quella di cui al comma 1 (determinazione di un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato) e comma 3 (deroga ai limiti di durata del contratto stabiliti dalla legge).
A cagione del progressivo superamento della c.d. “concezione monolitica” della nullità negoziale, e giusta adeguata valorizzazione delle finalità protettive di diverse norme poste a tutela della parte debole in vari contratti, la dottrina tenderà a ravvisare anche in questa fattispecie una ipotesi di nullità “relativa”, pur nel silenzio in proposito del legislatore.
1999
*Il 21 gennaio esce la sentenza del Tribunale europeo, 21/01/1999, T- 190/96, Chrístophe Palma, che si inserisce nel solco della giurisprudenza onde la portata e le conseguenze della nullità delle intese, per violazione dell’art.101 (ex 81 Trattato CE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, non dipendono direttamente dal diritto unionale, ma devono essere individuate dai giudici nazionali in base al diritto di ciascuno Stato membro.
Per la Corte – fermo restando il diritto al risarcimento del danno – la sorte dei contratti a valle di intese antitrust – che non vengono automaticamente travolti, in forza del diritto europeo, dalla nullità dell’intesa a monte – è riservata ai diritti nazionali.
Se ne inferisce che – fermo restando l’essenzialità, sul piano del diritto comunitario, del diritto del consumatore di far valere la nullità dell’intesa a monte e di chiedere il risarcimento dei danni subiti, come minimo comune denominatore in materia di tutela – la maggiore tutela del medesimo consumatore, in guisa da garantire la piena attuazione del diritto comunitario, è affidata ai giudice dello Stato di appartenenza.
2000
Il 22 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5286 che si occupa – in tema di mutuo – di una convenzione che abbia previsto un regime degli interessi che si sia ex post rivelato contrario alle norme sopravvenute anti-usura, prevedendo operativa in queste fattispecie la nullità parziale sopravvenuta (per usura, per l’appunto, sopravvenuta).
Per la Corte, va in primis precisato che una pattuizione di interessi intervenuta prima della entrata in vigore della legge n. 108/96 non può, stante il principio di cui all’art. 25, 2° comma, Cost., essere ritenuto penalmente rilevante sol perché detti interessi risultino superiori alla soglia fissata.
La Corte di merito, prosegue il Collegio, avrebbe dovuto considerare che, alla stregua della nuova normativa, gli interessi concordati (in particolare, al tasso del 28%, applicato in sede di condanna da parte del Tribunale, con decorrenza dal 1° ottobre ’82 e sino al soddisfo) erano divenuti usurari: in altri termini, che la nuova normativa aveva travolto la relativa clausola.
A tale conclusione non è di ostacolo per il Collegio la circostanza che la pattuizione degli interessi sia avvenuta in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996. Sotto un primo profilo, va osservato che nel caso di specie non si pone il problema se il combinato disposto degli artt. 1339 e 1419, 2° comma, cod. civ. sia applicabile nell’ipotesi in cui la norma imperativa non prevede una clausola sostitutiva, limitandosi ad eliminare la clausola illecita (problema che si potrebbe porre, con riferimento alla nuova formulazione dell’art. 1815, 2° comma, cod. civ., nel caso di interessi pattuiti nell’ambito di un contratto di mutuo stipulato prima dell’entrata in vigore della nuova normativa), dal momento che non si tratta di non attribuire alcun interesse, ma di sostituire un tasso diverso a quello divenuto usurario.
Sotto altro profilo, prosegue il Collegio, se è vero che nella giurisprudenza della Corte si è affermato, in via di principio, che il giudizio di validità deve essere condotto alla stregua della normativa in vigore al momento della conclusione del contratto, è anche vero che in dottrina è stato posto in rilievo come, verificandosi un concorso tra autoregolamentazione pattizia ed eteroregolamentazione normativa, si renda insostenibile la tesi che subordina l’applicabilità dell’art. 1419, 2° comma, cod. civ. all’anteriorità della legge rispetto al contratto, poiché l’inserimento ex art. 1339 c.c. del nuovo tasso incontra l’unico limite che si tratti di prestazioni non ancora eseguite (in tutto od in parte).
D’altro canto, chiosa ancora la Corte, la tesi ha trovato l’autorevole avallo della Corte Costituzionale nella sentenza n. 204 del 1997, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1938 c.c. proprio sulla base della considerazione che, pur avendo carattere innovativo la legge n. 154/92 e non applicandosi retroattivamente, tuttavia ciò non implica che la disciplina precedente “acquisti carattere ultrattivo, tale da consentire che la garanzia personale prestata dal fideiussore assista non solo le obbligazioni principali sorte prima dell’entrata in vigore della legge n. 154 del 1992, ma anche quelle successive, in modo da attribuire efficacia permanente alla illimitatezza del rapporto di garanzia. In altri termini, l’innovazione legislativa, che stabilisce la nullità delle fideiussioni per obbligazioni future senza limitazione di importo, non tocca la garanzia per le obbligazioni principali già sorte, ma esclude che si producono ulteriori effetti e che la fideiussione possa assistere obbligazioni principali successive al divieto di garanzia senza limiti“.
Sia pur con riferimento alla problematica riguardante il contratto di mutuo, rammenta ancora il Collegio, ma con argomenti del tutto sovrapponibili alla fattispecie che qui interessa, la dottrina ha osservato, in via generale, che l’obbligazione degli interessi non si esaurisce in una sola prestazione, concretandosi in una serie di prestazioni successive e, in particolare, che, ai fini della qualificazione usuraria dell’interesse, il momento rilevante è la dazione e non la stipula del contratto, come si evince anche dall’art. 644ter cod. pen. (introdotto dall’art. 11 L. n. 108/96), a mente del quale “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale“.
La tesi, poi, trova riscontro nella giurisprudenza penale della Corte, secondo cui in tema di usura, qualora alla promessa segua mediante la rateizzazione degli interessi convenuti la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo sostanziale del reato (così, Cass. Sez. I, 11055/98, imp. D’Agata e altri).
Non sembra superfluo al Collegio aggiungere che, quando anche non si volesse aderire alla configurabilità della nullità parziale sopravvenuta (come sembra preferibile), tuttavia non si potrebbe comunque continuare a dare effetto alla pattuizione di interessi superiori alla soglia usuraria, a fronte di un principio introdotto nell’ordinamento con valore generale e di un rapporto non ancora esaurito, come nel caso di specie, in cui (A) è stato condannato a corrispondere interessi del 28% dal 1° ottobre ’82 al soddisfo.
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Il 27 giugno esce la sentenza della Corte di Giustizia europea Océano Grupo Editorial SA, in cause riunite da C-240/98 a C- 244/98, stando alla quale l’interpretazione corretta dell’art. 6, dir. 93/13/CEE è quella onde al giudice spetta il potere di valutare d’ufficio l’illiceità della clausola del contratto per cui è causa.
Per la Corte, il sistema di tutela (del consumatore) istituito dalla Direttiva si basa sull’idea che la diseguaglianza tra il consumatore e il professionista possa essere riequilibrata solo grazie a un intervento positivo da parte di soggetti estranei al rapporto contrattuale, l’indicazione della Direttiva palesandosi nel senso per cui le clausole abusive «non vincolano» il consumatore.
Si tratta di una espressione atecnica che fissa un risultato, senza specificare lo strumento giuridico per conseguirlo; essa, se lascia libero il Legislatore nazionale di adottare il rimedio civilistico più opportuno e conforme a ciascun diritto interno, non è talmente generica da non individuare un nucleo forte di tutela, tale che, qualunque sia il rimedio caducatorio prescelto, la pertinente disciplina concreta non potrebbe atteggiarsi in modo da addossare al consumatore l’onere di agire o resistere in giudizio per liberarsi da una clausola che invece non deve spiegare per lui verun effetto vincolante, fosse pure il semplice effetto di “vincolarlo” ad intraprendere una difesa processuale.
Quale che sia il rimedio legale adottato dai legislatori nazionali, esso allora per la Corte non può non implicare che il giudice debba ex officio dichiarare una clausola “abusiva” e rifiutarne l’applicazione senza bisogno di una apposita domanda da parte del consumatore.
Precisa ancora il Collegio in proposito come per il contraente protetto il contratto o la clausola relativamente nulli non devono rappresentare un fardello giuridico più grave di quello che sarebbe un contratto affetto da nullità assoluta, a pena di giungere alla conseguenza paradossale che la nullità relativa, preordinata alla relativa protezione, costringa tale contraente protetto ad assumere un’iniziativa processuale, con i costi connessi, al fine di liberarsi dal vincolo obbligatorio.
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Il 29 dicembre viene varato il decreto legge n.394, alla stregua del cui art.1 si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono “promessi” o comunque “convenuti”, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro (effettivo) pagamento.
La disposizione, di interpretazione autentica, esclude dunque che l’usura possa essere “sopravvenuta” rispetto all’originaria pattuizione siccome divisata dalle parti, con ovvie conseguenze in termini di esclusione della pertinente nullità parziale (del pari, sopravvenuta) ex art.1815, comma 2, c.c.
2001
Il 28 febbraio viene varata la legge n.24 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge 394.00.
2002
Il 21 novembre esce la sentenza della Corte di Giustizia europea Cofidis SA, in causa C-473/00, che ribadisce come la Direttiva 93/13/CEE osti ad una normativa interna che, in un’azione promossa da un professionista nei confronti di un consumatore e basata su un contratto stipulato tra loro, vieti al giudice nazionale, alla scadenza di un termine di decadenza, di rilevare, d’ufficio o a seguito di un’eccezione sollevata dal consumatore, il carattere abusivo di una clausola inserita nel suddetto contratto.
2003
Il 10 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.35 che si occupa della presunta applicabilità degli articoli 1339 e 1419 del codice civile al bando di gara e alle disposizioni del capitolato speciale che regolano il procedimento di gara con riguardo alla potenziale, pertinente nullità, massime nei casi di frizione col diritto eurounitario: riconoscere infatti la nullità di tali clausole aprirebbe la strada alla possibile disapplicazione in ogni tempo del bando da parte del GA e, ancora più a monte, della stessa, eventuale sostituzione delle clausole “nulle” con le disposizioni imperative previste dal diritto interno o da quello europeo.
Tanto premesso, il Collegio procede in primis alla disamina della questione dell’ammissibilità della disapplicazione, da parte del giudice amministrativo, del capitolato speciale tardivamente impugnato.
Nel caso di specie i primi giudici, dopo aver riscontrato la tardività del ricorso, hanno proceduto comunque all’esame della legittimità della clausola controversa, provvedendo, quindi, a disapplicarla e ad annullare gli atti di gara conseguenti.
L’Azienda appellante contesta la correttezza del convincimento espresso dal T.A.R. circa l’ammissibilità della disapplicazione del capitolato speciale, mentre la società appellata difende la valutazione ammissiva di tale potere.
Così illustrata la questione principalmente controversa, appare opportuno al Collegio ricordare la natura del vizio rilevato dal T.A.R. in prime cure, al fine di circoscrivere ulteriormente l’ambito cognitivo.
La clausola che imponeva, a pena d’esclusione, l’indicazione nell’offerta economica di una retribuzione oraria minima del personale addetto all’espletamento del servizio è stata, in particolare, giudicata illegittima per la pertinente contraddittorietà con il criterio di aggiudicazione al prezzo più basso nonché per l’irragionevolezza della fissazione di una soglia minima di remunerazione dei dipendenti dell’impresa aggiudicataria.
Come si vede, prosegue la Sezione, il giudizio di illegittimità in questione risulta fondato sul decisivo rilievo dell’illogicità della previsione in esame più che sul riscontro del contrasto con una specifica disposizione di legge. Quando, infatti, si reputa illegittima la clausola controversa in quanto stabilita in evidente conflitto con la previsione del criterio di aggiudicazione al prezzo più basso nonché priva di adeguata giustificazione nel relativo contenuto precettivo, si accerta, in sostanza, la violazione, nell’esercizio del potere di regolamentazione della gara, dei canoni di coerenza, logicità e ragionevolezza che presiedono all’azione amministrativa e non anche, nonostante alcune diverse indicazioni rinvenibili nella motivazione, l’inosservanza di specifiche disposizioni normative.
Da tale qualificazione dei vizi riscontrati nel capitolato speciale discende per il Collegio che l’analisi relativa alla relativa disapplicabilità non comprende il complesso problema dell’ammissibilità della disapplicazione di atti amministrativi nazionali contrastanti con il diritto comunitario (o con le norme nazionali derivate), in quanto estraneo alla materia controversa.
L’indagine che compete al Collegio risulta, invece, circoscritta alla verifica del potere del giudice amministrativo di sindacare in via incidentale ed eventualmente di disapplicare gli atti amministrativi (tardivamente impugnati) sotto il profilo della difformità dal diritto nazionale.
Così chiariti i limiti della presente cognizione, occorre per la Sezione descrivere l’ambito oggettivo del potere di disapplicazione del giudice amministrativo, per come definito dalla prevalente giurisprudenza.
Com’è noto, a seguito di un complesso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, il Consiglio di Stato ha provveduto a rivedere i limiti del potere di disapplicazione di atti amministrativi non impugnati o impugnati in ritardo, superando il rigido orientamento tradizionale che escludeva, quasi in assoluto, l’ammissibilità di tale potestà.
Ai limitati fini che qui rilevano, pare al Collegio sufficiente riassumere lo stato dell’elaborazione giurisprudenziale sul tema appena illustrato nei seguenti termini: il potere del giudice amministrativo di disapplicare atti non ritualmente impugnati è ammesso nelle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva, relativamente alla controversie relative a diritti soggettivi (sulla base di un’interpretazione estensiva dell’art. 5 L. n. 2245/1865 all. E), nonché nei riguardi di regolamenti illegittimi, sia quando il provvedimento impugnato sia contrastante con il regolamento (Cons. Stato, Sez. V, n .154/92) sia quando sia conforme al presupposto atto normativo (Cons. Stato, Sez. V, 24 luglio 993, n. 799) e, in ogni caso, anche quando si verte in materia di interessi legittimi (Cons. Stato, Sez. V, 19 settembre 1995, n. 1332).
L’orientamento ammissivo della disapplicazione dei regolamenti non ritualmente impugnati – chiosa ancora la Sezione – risulta, in particolare, fondato sul rilievo della natura normativa del regolamento e sulla necessità, in caso di contrasto tra norme di rango diverso, di garantire il rispetto della gerarchia delle fonti e di accordare, quindi, prevalenza a quella di rango superiore (e cioè alla legge o ad altro atto di normazione primaria).
Ne consegue che, in conformità a tale orientamento, va esclusa, al di fuori delle limitate ipotesi sopra indicate, la disapplicazione di provvedimenti amministrativi non ritualmente impugnati, e, in particolare, di quelli che, ancorché connotati da una valenza generale, risultano privi di natura normativa, posto che, ammettendo il sindacato incidentale di questi ultimi, si finirebbe per sovvertire le regole del giudizio impugnatorio, per snaturarne i caratteri essenziali e, in definitiva, per consentire l’elusione del termine di decadenza stabilito al fine di ottenere dal giudice amministrativo l’eliminazione degli atti lesivi di interessi legittimi.
Sennonché – prosegue il Collegio – il Tribunale lombardo ha ripetutamente affermato, anche con la decisione in esame, la disapplicabilità del bando di gara (o di altro atto contenente la disciplina del procedimento, come il capitolato speciale) sulla base del duplice rilievo della pertinente qualificazione come atto normativo e della necessaria sostituzione di diritto, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c., delle clausole difformi da disposizioni legislative inderogabili.
Tali argomenti risultano assunti dai primi giudici in maniera autonoma e concorrente, sicché vanno per il Collegio esaminati separatamente.
Con il primo ordine di considerazioni, si sostiene la qualificabilità del bando come atto di normazione secondaria, in quanto diretto a dettare la disciplina della procedura, e si afferma, di conseguenza, la pertinente disapplicabilità sulla base del rispetto della gerarchia delle fonti ed in applicazione della regola di risoluzione delle antinomie tra disposizioni di rango diverso.
Tale tesi va per il Collego disattesa in quanto erroneamente fondata sulla presupposta natura normativa del bando (o del capitolato speciale). Come infatti già rilevato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 agosto 1998, n. 568), va negato ogni carattere normativo ai provvedimenti di disciplina della gara in considerazione dell’inconfigurabilità in essi dei requisiti essenziali per la qualificazione di un atto come fonte dell’ordinamento; nel bando di gara difettano, in particolare, sia l’elemento (necessario per definire un atto come normativo) dell’innovatività che quello dell’astrattezza.
La preordinazione del bando alla regolamentazione di una specifica procedura selettiva impedisce, infatti, di riconoscere in quell’atto qualsiasi idoneità ad introdurre definitivamente nell’ordinamento giuridico regole o precetti destinati ad essere applicati ad una serie indefinita di rapporti, di talché resta esclusa qualsiasi valenza normativa nelle relative prescrizioni dirette a disciplinare, seppur in via generale, uno specifico procedimento amministrativo e, quindi, destinate ad esaurire la loro efficacia con la conclusione di quest’ultimo.
Alle considerazioni che precedono conseguono la qualificazione del capitolato speciale in discussione come un provvedimento formalmente e sostanzialmente amministrativo e l’affermazione della pertinente soggezione al regime ordinario dell’impugnazione entro il prescritto termine di decadenza, pena la relativa inoppugnabilità e la consolidazione dei pertinenti effetti.
La negazione della natura normativa del capitolato speciale non vale tuttavia di per sé, prosegue la Sezione, ad accogliere l’appello, posto che la valutazione compiuta dai primi giudici in merito alla relativa disapplicabilità si fonda anche su un ulteriore, e concorrente, argomento.
Sostiene, infatti, il T.A.R. che la previsione nel capitolato speciale di una prescrizione difforme da disposizioni normative inderogabili implica la radicale invalidità della relativa clausola ed impone al giudice amministrativo, anche in difetto di rituale impugnazione del regolamento di gara, di provvedere alla inserzione automatica dei precetti imposti imperativamente dalla legge, con salvezza delle parti residue dell’atto così integrato, in ossequio al regime dettato in materia contrattuale dal combinato disposto degli artt.1339 e 1419 c.c..
Anche tale tesi si appalesa tuttavia al Collegio destituita di fondamento in quanto viziata sotto un duplice profilo.
Va, innanzitutto, rilevata l’assoluta inconferenza del riferimento normativo indicato a sostegno dell’ammissibilità (anzi: della doverosità) dell’inserzione automatica nel regolamento di gara delle clausole stabilite imperativamente dalla legge.
Mentre, infatti, l’art. 1339 c.c. assolve la funzione precipua di assicurare l’attuazione delle condizioni contrattuali previste in via inderogabile dalla legge, con il meccanismo dell’inserzione automatica delle clausole imperative in sostituzione di quelle difformi convenute dalle parti, e postula, dunque, la conclusione di un accordo negoziale il cui contenuto risulti parzialmente contrastante con quello imposto dal legislatore nonché sottratto, come tale, all’autonomia privata, i provvedimenti amministrativi relativi alla disciplina di gara si limitano a regolare il procedimento di selezione del contraente e non contengono, come tali, alcuna disposizione precettiva in ordine alla misura dei diritti e degli obblighi nascenti dal contratto che sarà stipulato all’esito della procedura.
Ne consegue che il principio dell’eterointegrazione negoziale, sancito dall’art. 1339 c.c., risulta assolutamente inconfigurabile ed inapplicabile alla materia controversa (neanche in via analogica, in considerazione della diversità delle situazioni), per la mancanza, nella lex specialis di gara, di alcuna convenzione il cui contenuto necessiti di essere integrato in quanto difforme da quello prescritto inderogabilmente dal legislatore.
Né vale per il Collegio sostenere, di contro, che il capitolato speciale riveste natura contrattuale e che, quindi, possa procedersi all’applicazione analogica dell’art. 1339 c.c., sia in quanto quest’ultima disposizione postula, per la relativa attuazione, l’avvenuta stipulazione del contratto (e non anche la predisposizione unilaterale delle condizioni generali) sia, e soprattutto, in quanto, nel caso di specie, nonostante il capitolato contenga ordinariamente la disciplina del rapporto contrattuale, la clausola controversa si risolve chiaramente in una regola di gara, in quanto diretta a prescrivere una modalità di presentazione dell’offerta e la sanzione per la pertinente, eventuale inosservanza.
Nei riguardi del regolamento di gara, in definitiva, non risulta applicabile il principio dell’inserzione automatica di clausole imposte dalla legge, in quanto quest’ultima è giustificata solo dall’esigenza, inconfigurabile nella fase procedimentale di scelta del contraente della PA, di prevedere un meccanismo che garantisca l’applicazione ai contratti già stipulati delle norme inderogabili che impongono il contenuto delle obbligazioni e dei diritti nascenti dall’accordo e la contestuale conservazione della validità e dell’efficacia di quest’ultimo.
In aggiunta a tale decisivo ordine di considerazioni, osserva ancora il Collegio, il ragionamento del Tribunale meneghino risulta comunque inficiato da un altro errore.
L’affermazione dell’applicabilità dell’istituto civilistico sopra richiamato è stata, infatti, sostenuta dal rilievo di un contrasto tra la previsione del capitolato in questione ed una disciplina normativa imperativa e, quindi, dalla riscontrata sottrazione alla discrezionalità amministrativa del potere di definire, sotto il profilo considerato, le regole della procedura in questione.
Pur non affermandolo chiaramente, il T.A.R. fonda, in sostanza, l’iter logico della decisione sul riscontro nell’atto disapplicato di un’invalidità radicale (e cioè di un vizio di nullità), consistita nell’inosservanza di norme di azione dettate con forza imperativa.
Sennonché, nel diritto amministrativo il vizio generato dall’inosservanza di una disposizione normativa diretta a regolare l’azione della pubblica amministrazione consiste nella sola illegittimità per violazione di legge che implica, al pari del vizio di annullabilità dei negozi giuridici, l’efficacia dell’atto fino al pertinente annullamento da parte del giudice amministrativo o della stessa amministrazione (in sede giustiziale o di autotutela).
La distinzione tra norme derogabili e imperative, rilevante nel diritto privato al fine di accertare la validità del negozio giuridico, non trova viceversa – chiosa ancora il Collegio giustificazione a quel fine nel diritto amministrativo, se non, sotto diversa catalogazione concettuale, per discernere le disposizioni di legge che regolano la condotta dell’Amministrazione in modo da lasciarle un margine di scelta discrezionale nell’esercizio concreto del potere da quelle che la vincolano in modo così puntuale da non consentirle alcuna ulteriore valutazione.
Anche l’inosservanza di queste ultime, tuttavia, implica l’illegittimità dell’atto per violazione di legge e, quindi, la pertinente annullabilità, senza che possa in alcun modo configurarsi una più grave ipotesi di invalidità (paragonabile alla nullità) che impedisca al provvedimento di produrre i suoi effetti tipici (se non nel diverso caso dell’atto adottato in carenza di potere) e che autorizzi il giudice amministrativo a disapplicarlo.
La violazione di una norma che regola l’azione dell’Amministrazione in modo da escludere qualsiasi scelta discrezionale nell’esercizio del relativo potere comporta, in definitiva, l’onere in capo al soggetto leso dal provvedimento così viziato di impugnarlo entro il termine perentorio al fine di farne accertare l’illegittimità e di ottenerne l’annullamento, non essendovi alcuna possibilità per il giudice amministrativo di sancirne l’inefficacia, prescindendo dalla sua rituale contestazione in giudizio.
Quand’anche tuttavia – prosegue la Sezione – si intendesse riconoscere nella pronuncia appellata anche l’accertamento del vizio di violazione di disposizioni di derivazione comunitaria, quali la surrettizia introduzione, in contrasto con l’art. 25 D. Lgs. n. 157/95, di un meccanismo di esclusione automatica delle offerte anomale, o di principi propri del diritto comunitario, quali la tutela della concorrenza, si perverrebbe, comunque, alle medesime conclusioni reiettive.
Va, infatti, rilevato, ad abundantiam rispetto alle dirimenti considerazioni appena svolte, che la più complessa questione della disapplicabilità di atti amministrativi nazionali contrastanti con il diritto comunitario (al quale può equipararsi quello interno di derivazione comunitaria) va risolta, in ogni caso, in senso negativo (e cioè negando, come per il caso di violazione di norme dell’ordinamento interno, il relativo potere del giudice amministrativo).
Va preliminarmente chiarito – premette il Collegio – che l’indagine appresso svolta risulta circoscritta all’ipotesi, esclusivamente rilevante ai fini della decisione, della disapplicabilità dell’atto amministrativo adottato in violazione di una disposizione di diritto interno di derivazione comunitaria, con esclusione, quindi, della disamina della diversa questione del regime del provvedimento adottato in conformità ad una legge nazionale incompatibile con la fonte comunitaria.
La soluzione del problema appena illustrato postula la preliminare definizione della natura dell’invalidità (decisiva per i relativi riflessi processuali) dalla quale risulta affetto l’atto amministrativo anticomunitario, con l’avvertenza che la violazione di una disposizione nazionale di derivazione comunitaria equivale, ai fini che qui interessano, all’inosservanza di norme comunitarie direttamente applicabili nell’ordinamento interno.
Non può anzitutto dubitarsi – chiosa la Sezione – che la disposizione comunitaria violata si ponga, soprattutto nel caso in cui risulti tradotta in una norma nazionale, come diretto parametro di legalità dell’atto amministrativo, anche tenuto conto del rapporto di integrazione tra i due ordinamenti (per come definito dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee), da giudicarsi preferibile rispetto a quello della loro separatezza ed autonomia (per come descritto dalla Corte Costituzionale).
Appare, allora, agevole rilevare che la violazione della disposizione comunitaria implica un vizio di illegittimità-annullabilità dell’atto interno contrastante con il relativo paradigma di validità e che la diversa forma patologica della nullità (o dell’inesistenza) risulta configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna (attributiva del potere nel cui esercizio è stato adottato l’atto) incompatibile (e, quindi, disapplicabile) con il diritto comunitario.
Al di fuori del caso da ultimo descritto, quindi, l’inosservanza di una disposizione comunitaria direttamente applicabile comporta, alla stregua degli ordinari canoni di valutazione della patologia dell’atto amministrativo, l’annullabilità del provvedimento viziato nonché, sul piano processuale, l’onere della pertinente impugnazione dinanzi al Giudice Amministrativo entro il prescritto termine di decadenza, pena la relativa inoppugnabilità.
Tale conclusione – chiosa ancora il Consiglio di Stato – risulta, peraltro, avvalorata e confermata dalla previsione contenuta nel disegno di legge recante modifiche e integrazioni della L. 7 agosto 1990, n. 241, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 marzo 2002, che, all’art. 13-sexies, qualifica espressamente come annullabile il provvedimento viziato da violazione di disposizioni di fonte comunitaria.
Accertato così che il provvedimento contrastante con il diritto comunitario soggiace al regime sostanziale e processuale dell’atto illegittimo-annullabile, occorre verificare se la disciplina processale interna, che impedisce il sindacato incidentale ed ufficioso dell’atto inoppugnato o tardivamente impugnato (con l’eccezione degli atti di normazione secondaria) e, quindi, la relativa disapplicazione, sia compatibile con il principio della primautè del diritto comunitario e con il suo carattere vincolante per i giudici, oltre che per i legislatori e le amministrazioni, degli Stati membri.
Si è, al riguardo, sostenuto, in dottrina ed in giurisprudenza (T.A.R. Lombardia, Sez. III, ord. 8 agosto 2000, n. 234) che, anche prescindendo dalla definizione dogmatica del regime di invalidità dell’atto contrastante con la normativa europea e dalla distinzione delle posizioni soggettive (nonché delle relative forme di tutela processuale) in diritti soggettivi ed interessi legittimi, propria dell’ordinamento italiano e sconosciuta al diritto comunitario, la preminente esigenza di garantire l’attuazione di quest’ultimo e di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale di situazioni soggettive di matrice comunitaria debba essere soddisfatta riconoscendo al Giudice Amministrativo il potere di sindacare d’ufficio la legittimità dell’atto nazionale difforme dal diritto europeo e di sancire l’applicazione di quest’ultimo mediante la rimozione dei provvedimenti che la ostacolano (con un meccanismo doverosamente analogo, cioè, alla disapplicazione degli atti normativi nazionali incompatibili con l’ordinamento europeo).
Tale tesi, ancorché la Corte di Giustizia non si sia ancora pronunciata sulla questione pregiudiziale rimessa dal Tribunale lombardo con l’ordinanza citata, sembrerebbe essere già stata avallata con diverse pronunce dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia, 14 dicembre 1995, causa C-312/93, 14 dicembre 1995, cause riunite C-430/932 e C-431/93, 29 aprile 1999, causa C-224/97).
L’orientamento della Corte di Lussemburgo sulla questione in esame va, tuttavia, precisato per il Collegio nei termini che seguono.
Pur riconoscendo che i giudici nazionali hanno l’obbligo di assicurare la tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive fondate su norme di diritto comunitario direttamente applicabili, la Corte europea ha, per altro verso, chiarito che, in mancanza (come nella fattispecie considerata) di una puntuale disciplina processuale comunitaria nella materia controversa, compete all’ordinamento degli Stati membri la regolamentazione delle modalità procedurali relative alla proposizione ed alla definizione dei ricorsi giurisdizionali contro atti amministrativi nazionali asseritamente lesivi di posizioni di matrice comunitaria (Corte di Giustizia, 14 dicembre 1995, causa C-312/93).
La Corte ha, inoltre, ulteriormente precisato che l’esercizio della potestà normativa in materia di disciplina delle forme di tutela giurisdizionale di posizioni soggettive costituite dal diritto comunitario deve ritenersi limitato dal rispetto degli inderogabili principi di equivalenza e di effettività (Corte di Giustizia, 15 settembre 1998, causa C-231/96).
Tali principi generali, da valersi quali paradigmi di legittimità della normazione nazionale in materia processuale amministrativa, implicano, in particolare, la necessità che le modalità procedurali intese a “…garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario non possano essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario” (cfr. conclusioni dell’Avvocato Generale presentate il 7 febbraio 2002 nella causa C-327/00).
In coerenza con tali parametri valutativi, prosegue la Sezione, la Corte di Giustizia ha affermato, in alcuni specifici casi, l’ammissibilità del potere del giudice nazionale di conoscere d’ufficio la legittimità di un atto amministrativo irritualmente censurato per violazione del diritto comunitario, ma solo nelle ipotesi in cui sono state rinvenute negli ordinamenti processuali nazionali disposizioni procedurali che, in contrasto con i principi prima enunciati, precludevano una tutela effettiva delle posizioni soggettive costituite dal diritto comunitario, impedendo, di conseguenza, al giudice nazionale di assicurarne l’applicazione.
Lungi dall’affermare in via generale il potere di sindacare d’ufficio, prescindendo dalle regole processuali degli ordinamenti interni, la legittimità degli atti amministrativi contrastanti con il diritto comunitario e di disapplicarli, la Corte di Lussemburgo si è limitata, in definitiva, ad accertare, in alcune peculiari fattispecie, l’inapplicabilità di norme procedurali interne, preclusive della cognizione di vizi ascrivibili all’illegittimità comunitaria, concretamente contrastanti con i ricordati principi di equivalenza e di effettività.
La Corte – chiosa ancora il Collegio – ha inoltre ulteriormente chiarito che la previsione di un termine di decadenza per l’attivazione della tutela giurisdizionale non è, di per sé, censurabile (Corte di Giustizia, 14 dicembre 1995, causa C-312/93) e che la verifica della compatibilità comunitaria di una norma processuale che imponga l’impugnazione di un provvedimento entro un termine perentorio, con conseguente effetto preclusivo dell’applicazione del diritto europeo alla fattispecie dedotta in giudizio, va compiuta, oltre che alla stregua dei suddetti principi, tenendo conto del complessivo sistema di tutela giurisdizionale nella quale è inserita e, in particolare, dei principi che lo fondano (quali ad es. la tutela dei diritti della difesa e l’esigenza di garantire la certezza del diritto).
Così definiti i criteri di giudizio in applicazione dei quali va valutata la compatibilità comunitaria delle disposizioni del sistema processuale amministrativo italiano, per come interpretate dalla giurisprudenza del relativo supremo organo, che impediscono la disapplicazione del bando tardivamente impugnato (quando sussisteva l’onere di insorgere immediatamente contro di esso), si deve rilevare per il Collegio che il regime di tutela appena descritto si rivela del tutto conforme ai principi di equivalenza e di effettività, nel significato assegnato loro dalla stessa Corte di Giustizia.
In merito al rispetto del principio di equivalenza è sufficiente rilevare che non è dato riscontrare alcun trattamento deteriore riservato dall’ordinamento interno al ricorrente che aziona una posizione soggettiva costituita dal diritto comunitario rispetto a quello che denuncia l’illegittimità dell’atto per contrasto con la legislazione nazionale.
Il termine perentorio prescritto per l’impugnazione del bando di gara, quando risulti immediatamente lesivo, e l’orientamento che impedisce al giudice amministrativo di disapplicarlo, quando non è stato tempestivamente impugnato si applicano infatti – rammenta il Collegio – indifferentemente sia ai ricorsi nei quali si denuncia la violazione del diritto comunitario sia a quelli nei quali si deduce la contrarietà al diritto interno.
In ordine al rispetto dell’ulteriore principio dell’effettività, che esige che l’ordinamento processuale interno non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile la tutela delle posizioni soggettive costituite dal diritto comunitario, si osserva che la previsione del termine perentorio di sessanta giorni per l’impugnazione del bando di gara (o del capitolato speciale, come nel caso in esame), di per sé non censurabile sotto il profilo considerato (come insegnato dalla Corte di Giustizia), non può ritenersi preclusivo o sproporzionatamente limitativo dell’esercizio efficace del diritto di difesa degli interessi derivanti dall’ordinamento comunitario.
Tale conclusione – riprende la Sezione – si fonda non solo sul rilievo della oggettiva congruità della durata del termine in questione rispetto all’esigenza di assicurare in maniera seria gli strumenti di tutela giurisdizionale necessari a rimuovere il provvedimento anticomunitario ma anche, e soprattutto, sulla considerazione della limitazione ai soli casi di immediata lesività del bando di gara delle situazioni nelle quali è imposta la pertinente impugnazione entro il termine di decadenza di sessanta giorni dalla relativa emanazione, con conseguente preclusione, nell’ipotesi del mancato assolvimento di detto onere, del sindacato ufficioso dell’atto inoppugnato e della sua disapplicazione (quand’anche violativo del diritto comunitario).
Come sopra rilevato infatti, prosegue il Collegio, la prevalente giurisprudenza amministrativa reputa necessaria l’immediata impugnazione del bando nelle sole ipotesi, quale quella in esame, in cui il regolamento di gara pregiudichi l’interesse partecipativo dell’impresa che aspiri a concorrere alla selezione, impedendole di accedere alla valutazione delle offerte e di concorrere alla competizione.
Tale orientamento, che esclude coerentemente la sussistenza dell’onere di immediata impugnazione del bando in presenza di clausole dubbie o plurivoche, ammette, in sostanza, la necessità dell’istantanea reazione al bando illegittimo solo quando il vizio di quest’ultimo risulti immediatamente e chiaramente percepibile dall’impresa interessata, comportandone, in forza dell’applicazione di un precetto univoco, l’esclusione dalla gara.
Se si riconoscesse invero, prosegue il Collegio, la necessità dell’impugnazione immediata del bando anche in presenza di clausole non immediatamente lesive o non chiaramente avvertibili come tali dai soggetti interessati, sarebbe legittimo dubitare della compatibilità di tale sistema processuale con il principio di effettività della tutela delle posizioni comunitarie (in tale ipotesi verosimilmente pregiudicata)
L’interpretazione offerta dalla giurisprudenza nazionale, con riferimento ai bandi di gara, della regola processuale che impone l’impugnazione, a pena di decadenza, del provvedimento amministrativo nel termine di sessanta giorni dalla relativa conoscenza risulta viceversa per il Collegio palesemente conforme alle esigenze di effettività della tutela segnalate dalla Corte europea; comportando il consolidamento degli effetti della lex specialis solo quando questa sia stata avvertibile come direttamente pregiudizievole per l’impresa interessata fin dalla relativa emanazione, il predetto sistema di tutela, infatti, non solo non può ritenersi idoneo a conculcare eccessivamente gli spazi di difesa riservati al soggetto leso ovvero ad impedire la tempestiva e consapevole attivazione dei rimedi apprestati dall’ordinamento, ma garantisce, anzi, una reazione immediata, e, quindi, maggiormente satisfattiva ed efficace, contro il regolamento di gara preclusivo della partecipazione dell’impresa interessata.
Risulta, in definitiva, rispettato il principio di effettività quando l’ordinamento processuale nazionale (come quello italiano) pone il soggetto nelle condizioni di comprendere il pregiudizio provocatogli da un atto amministrativo violativo del diritto comunitario ed appresta contestualmente validi strumenti di reazione, agevolmente azionabili (quali la proposizione di un ricorso giurisdizionale entro il termine di sessanta giorni), di guisa che l’omessa attivazione di tali rimedi va addebitata a negligenza della persona (fisica o giuridica) lesa dal provvedimento rimasto inoppugnato e non a disfunzioni o a carenze del sistema di tutela di riferimento.
Il regime processuale in esame – chiosa ancora il Consiglio di Stato – appare, inoltre, coerente con le esigenze di salvaguardia del diverso, ma altrettanto rilevante, interesse alla certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico (già segnalato da Cons. Stato, Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338 quale principio ostativo al riconoscimento del potere di disapplicazione in capo al giudice amministrativo), che verrebbe certamente pregiudicato, con conseguente stravolgimento della natura impugnatoria del giudizio amministrativo, se si ammettesse la disapplicabilità di provvedimenti amministrativi rimasti inoppugnati.
Anche tenuto conto del necessario rispetto dei principi generali, connaturati al sistema processuale nazionale, della certezza del diritto e della stabilità degli effetti dei provvedimenti amministrativi non tempestivamente impugnati, deve, quindi, concludersi per la compatibilità comunitaria delle regole processuali esaminate e, di conseguenza, per la tardività del ricorso proposto nel caso di specie in primo grado, non surrogabile dalla disapplicazione della regola di gara intempestivamente impugnata.
Tale conclusione impone infine al Collegio l’esame dell’istanza di rimessione in termini per errore scusabile, espressamente formulata dalla società appellata in via subordinata rispetto alle difese svolte in merito alla tempestività del ricorso originario. Il beneficio invocato non può tuttavia per la Sezione essere concesso, stante l’insussistenza dei pertinenti presupposti.
Posto, infatti, che l’istituto dell’errore scusabile esige la ricorrenza di una situazione, di fatto o di diritto, di oggettiva incertezza (Cons. Stato, Sez. IV, 20 giugno 1994, n. 522) che induca palesemente in errore il soggetto interessato circa l’attualità dell’onere di impugnazione e che non è dato ravvisare, nel caso di specie, il presupposto della difficoltà, complessità od equivocità della fattispecie controversa (anche tenuto conto del significato univoco della clausola del capitolato speciale ritenuta lesiva), esclusivamente idoneo ad ingenerare un affidamento incolpevole circa l’insussistenza del predetto onere, va negata la richiesta rimessione in termini e confermato, quindi, il giudizio di tardività del ricorso in primo grado.
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Il 5 maggio esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.6756 onde, in materia di nullità parziale oggettiva del contratto ex art.1419 c.c. – ed al fine di verificare se la pertinente clausola contrattuale può dirsi realmente essenziale (travolgendo, ove nulla, l’intero contratto) – va abbracciata la tesi “oggettiva”, e non già quella “soggettiva” secondo la quale tutto andrebbe rapportato alla volontà dei contraenti ed al pertinente, ipotetico intento al momento in cui hanno concluso il contratto
Per il Collegio occorre in proposito scongiurare di dover ricorrere a complesse indagini di tipo psicologico, l’essenzialità o meno della clausola dovendo piuttosto ritrarsi – attraverso lo strumento della buona fede – giusta verifica di compatibilità tra l’(eventuale) efficacia della parte valida di restante disciplina e l’assetto sostanziale dei rispettivi interessi delle parti siccome ab origine divisato.
Ciò in quanto la “contrazione” del regolamento negoziale rispetto alle primigenie intenzioni delle parti, parametrata agli interessi di ciascuna di esse, potrebbe recare seco uno squilibrio tale da danneggiare una ed avvantaggiare l’altra, unica circostanza realmente da scongiurare e, come tale, idonea a far eventualmente affermare (ove riscontrata) che la clausola nulla in parola vitiatur et vitiat.
2004
Il 18 novembre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.7555 in tema di eterointegrazione dei bandi di gara.
Per il Collegio, se è vero che le preminenti esigenze della certezza del diritto e della tutela della par condicio dei concorrenti impediscono all’Amministrazione di disattendere arbitrariamente i precetti fissati nella normativa di gara dalla stessa formulata, è altrettanto incontestabile che il rispetto della lex specialis giammai potrebbe condurre l’Amministrazione a ritenersi esonerata dalla puntuale osservanza degli obblighi derivanti da altri, superiori, formanti positivi.
Tale conclusione si impone non soltanto in forza del fondamentale canone di legalità, immanente ad ogni attività amministrativa, ma discende altresì dall’ovvia considerazione che un argomento del genere, qualora portato alle estreme conseguenze logiche, si tradurrebbe in un’inammissibile via per eludere, mediante la predisposizione di bandi di gara artatamente lacunosi, la portata vincolante di precisi dettami legislativi.
Così non è, non potendo per il Collegio dimenticarsi, a dispetto della fuorviante dizione latina, che la normativa di gara è posta da un atto amministrativo per il quale sicuramente valgono i principi dell’eterointegrazione precettiva.
In altre parole, se l’Amministrazione fissa una regola contraria alla legge, per chi ha interesse ad invalidarla si apre la via dell’impugnativa del bando di gara, nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge processuale siccome interpretata dalla giurisprudenza (a seconda della natura immediatamente lesiva, o meno, della clausola censurata); nel diverso caso – che è poi quello di specie – in cui la stazione appaltante ometta di inserire nella disciplina di gara un contenuto previsto come obbligatorio dall’ordinamento giuridico, invece non sussiste alcun onere di tempestiva impugnazione, soccorrendo al riguardo il suddetto meccanismo di integrazione automatica.
In tal guisa, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., si colmano per il Collegio – in via suppletiva – le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla p.a..
2005
Il 4 febbraio esce l’importante sentenza delle SSUU n.2207 alla cui stregua la legge antitrust n. 287 del 1990 detta norme – segnatamente l’art. 2 – a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata.
Al riguardo va tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto «a valle» costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti.
Ne discende per le SSUU che, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione «a monte», ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990, azione la cui cognizione è rimessa da quest’ultima norma – nel testo vigente al tempo della pronuncia – alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d’appello.
La Corte – pur non affrontandola in maniera specifica – opera nondimeno un importante riferimento, in motivazione, alla problematica concernente il contratto stipulato a valle dell’intesa vietata.
Ed invero, rammentano ancora le SSUU, la decisione in esame ha affermato che «il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito. A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anti-competitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile».
In altri termini – stante il «collegamento funzionale» con la volontà anti-competitiva a monte – ai contratti a valle non può attribuirsi un rilievo giuridico diverso rispetto all’intesa che li precede: nulla essendo quest’ultima, la nullità non può che inficiare anche l’atto conseguenziale.
Nel caso sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, dopo l’irrogazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato a numerose compagnie di assicurazione di una sanzione per la partecipazione a un’intesa restrittiva della concorrenza, il consumatore finale ha convenuto in giudizio, dinanzi al giudice di pace, la propria compagnia di assicurazioni, chiedendo il rimborso di una parte – il 20% – del premio corrisposto per una polizza di RC auto, assumendo che l’ammontare del premio è stato abusivamente influenzato dalla partecipazione dell’impresa assicuratrice all’intesa vietata.
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Il 14 febbraio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.453, alla cui stregua l’art. 1339 c.c. assolve la funzione precipua di assicurare l’attuazione delle condizioni contrattuali previste in via inderogabile dalla legge con il meccanismo dell’inserzione automatica delle clausole imperative in sostituzione di quelle difformi convenute dalle parti.
Essa postula dunque, precisa il Collegio, la conclusione di un accordo negoziale il cui contenuto risulti parzialmente contrastante con quello imposto dal legislatore, e sottratto come tale all’autonomia privata.
Il pertinente meccanismo civilistico – noto come inserzione automatica di clausole – deve assumersi per il Collegio applicabile anche ai contratti di durata stipulati con una P.A.
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Il 24 maggio esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.10920 alla cui stregua, in tema di alienazioni di beni di interesse storico senza il rispetto delle prescritte condizioni di legge, se si riconosce che l’inciso iniziale dell’art. 1421 c.c. si ricollega a tutto il seguito della norma, si deve coerentemente sostenere che – accogliendosi l’assunto della nullità relativa per la clausola particolarmente onerosa non approvata – viene meno il potere del giudice di rilevarla ex officio.
A fianco del rilievo d’ordine testuale – chiosa il Collego – sta l’incompatibilità logica fra il carattere relativo della nullità (che trova il proprio ubi consistam nel fatto di essere nella disponibilità esclusiva di determinati soggetti, al cui arbitrio è affidata la valutazione dell’interesse a farla valere) e il rilievo d’ufficio ad opera del giudice (che in ogni caso si sovrapporrebbe a quella valutazione).
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Il 20 giugno viene varato il decreto legislativo n.122, recante disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, a norma della legge 2 agosto 2004, n. 210.
Stando al pertinente art. 2, all’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente, il costruttore è obbligato a procurare il rilascio ed a consegnare all’acquirente una fideiussione di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento.
L’omissione è peraltro fonte di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente: un ulteriore fattispecie, dunque, di nullità c.d. relativa.
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Il 19 agosto viene varato il decreto legislativo n.192, recante attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia.
Ai sensi dell’art.15, in caso di violazione dell’obbligo previsto dall’art.6, comma 3 (allegazione all’atto di compravendita, in originale o copia autentica, dell’attestato di certificazione energetica) il contratto di vendita è nullo, con nullità che può essere fatta valere dal solo compratore (comma 8); parallelamente, in caso di violazione dell’obbligo previsto dall’art.6, comma 4 (messa a disposizione del conduttore o consegna al medesimo dell’attestato di certificazione energetica, in copia dichiarata conforme all’originale), il contratto di locazione è del pari nullo e la nullità può essere fatta valere dal solo conduttore (comma 9).
Si tratta di una ulteriore ipotesi di c.d. nullità “relativa” (che sarà nondimeno, successivamente, fatta oggetto di abrogazione).
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Il 6 settembre viene varato il decreto legislativo n.206, recante codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229.
Stando al pertinente art.134, rubricato “carattere imperativo delle disposizioni”, è nullo ogni patto, anteriore alla comunicazione al venditore del difetto di conformità (del bene venduto), volto ad escludere o limitare, anche in modo indiretto, i diritti ivi riconosciuti e la nullità può essere fatta valere solo dal consumatore, oltre a poter essere rilevata d’ufficio dal giudice (comma 1).
Si tratta di un ulteriore caso di nullità “relativa” (introdotto con norma che, tuttavia, subirà in seguito delle modifiche).
Su di un piano più generale, il precedente art.36 disciplina le c.d. nullità di protezione, affermando che le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto: si afferma pertanto esplicitamente il principio della nullità “parziale” del contratto affetto da clausole “abusive” sul crinale consumeristico (comma 1).
Vengono assunte più specificamente nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di: a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista; b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; c) prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto (comma 2).
Si tratta di una nullità che opera soltanto a vantaggio del consumatore e che può essere rilevata d’ufficio dal giudice (comma 3); il venditore, in particolare, ha diritto di regresso nei confronti del fornitore per i danni che ha subito in conseguenza della declaratoria di nullità delle clausole dichiarate abusive (comma 4).
Infine, è nulla ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di una legislazione di un Paese extracomunitario, abbia l’effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dal presente capo, laddove il contratto presenti un collegamento più stretto con il territorio di uno Stato membro dell’Unione europea (comma 5)
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Il 3 ottobre esce la sentenza della sezione … della Cassazione n.19308 che si occupa ancora una volta delle aree destinate a parcheggio, stavolta con riguardo al contratto di locazione stipulato dal proprietario con il conduttore.
Per il Collegio, più in specie, la speciale normativa urbanistica che prescrive la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggio (ex art. 41 sexies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, siccome aggiunto dall’art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765, e modificato dall’art. 9 della legge 24 marzo 1989, n. 122, e dall’art. 26, comma 4, della legge 28 febbraio 1985, n. 47) pone un vincolo pubblicistico di destinazione che non può subire deroga negli atti privati di disposizione degli spazi stessi.
In caso di locazione pertanto, precisa il Collegio, il diritto del proprietario di un’unità immobiliare all’uso dell’area predisposta per il parcheggio degli autoveicoli deve necessariamente essere trasferito al conduttore; laddove il contratto di locazione escluda tale trasferimento, esso è conseguentemente affetto da nullità parziale e l’uso del parcheggio va trasferito “ope legis” attraverso la sostituzione di diritto delle clausole difformi con la norma imperativa.
2006
Il 26 ottobre esce la sentenza della Corte di Giustizia Mostaza Claro, in causa C-168/05, che ribadisce come la facoltà di rilievo officioso riconosciuta al giudice nazionale in presenza di clausole abusive per il consumatore sia necessaria per garantire al consumatore medesimo una tutela effettiva, tenuto conto in particolare del rischio non trascurabile che questi ignori i relativi diritti o incontri difficoltà nell’esercitarli.
2007
Il 9 febbraio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.2871 che si occupa della norma di cui all’art. 10 della L. 17 febbraio 1992 n 154, laddove impone la fissazione dell’importo massimo garantito alle c.d. fideiussioni omnibus future.
Per il Collegio – che muta in proposito il proprio orientamento – va ribadito in primo luogo che la sopravvenienza dell’art 10 della legge n. 152/92 non incide sulla validità e sull’efficacia delle fideiussioni già stipulate, e ciò fino al momento della pertinente entrata in vigore, con conseguente responsabilità (accessoria) del fideiussore per le obbligazioni verso la banca eventualmente sorte prima della predetta data (ma dopo la stipula della fideiussione).
Con riferimento al periodo successivo, per la Corte va invece predicata la nullità sopravvenuta della ridetta fideiussione.
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*Il 21 maggio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.11673 onde, in materia di nullità parziale oggettiva del contratto ex art.1419 c.c. – ed al fine di verificare se la clausola contrattuale può dirsi realmente essenziale (travolgendo, ove nulla, l’intero contratto) – va abbracciata la tesi “oggettiva”, e non già quella “soggettiva” secondo la quale tutto andrebbe rapportato alla volontà dei contraenti ed al pertinente, ipotetico intento al momento in cui hanno concluso il contratto
Per il Collegio occorre in proposito scongiurare di dover ricorrere a complesse indagini di tipo psicologico, l’essenzialità o meno della clausola dovendo piuttosto ritrarsi – attraverso lo strumento della buona fede – giusta verifica di compatibilità tra l’(eventuale) efficacia della parte valida di restante disciplina e l’assetto sostanziale dei rispettivi interessi delle parti siccome ab origine divisato.
Ciò in quanto la “contrazione” del regolamento negoziale rispetto alle primigenie intenzioni delle parti, parametrata agli interessi di ciascuna di esse, potrebbe recare seco uno squilibrio tale da danneggiare una ed avvantaggiare l’altra, unica circostanza realmente da scongiurare e, come tale, idonea a far affermare che la clausola in parola vitiatur et vitiat.
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Il 23 ottobre viene varato il decreto legislativo n.221, recante disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, Codice del consumo, a norma dell’articolo 7, della legge 29 luglio 2003, n. 229.
Il pertinente art.9 – in sede di disciplina della commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, novella il codice del consumo prevedendo la nullità del contratto nel caso in cui il fornitore dei ridetti servizi ostacoli l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, ovvero violi gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle pertinenti caratteristiche; tale nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e obbliga le parti alla restituzione di quanto ricevuto (art. 67 septies decies).
I diritti attribuiti al consumatore dalla pertinente sezione sono irrinunciabili ed ogni clausola limitativa è affetta da nullità azionabile soltanto dal consumatore e rilevabile d’ufficio dal giudice (art. 67 octies decies).
2008
Il 01 settembre esce la sentenza della Corte Giustizia CEE, C- 279/06, CEPSA, che ribadisce come la sanzione della nullità si applichi alle sole clausole dell’accordo o della decisione (anticoncorrenziali) colpite dal divieto, a meno che dette clausole risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione stessi, nel qual caso soltanto essi saranno travolti integralmente.
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Il 13 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato, n.2959, ancora una volta sulla eterointegrazione del bando di gara.
Nel caso di specie, un soggetto è risultato vincitore della gara bandita da un Comune per l’affidamento di una spiaggia libera apprezzata in concessione ab origine provvisariamente aggiudicata ad un terzo, dopo esserne stato inizialmente escluso per non aver depositato la dichiarazione di cui alla legge 68/99 e, poi, riammesso, con conseguente riconvocazione della commissione esaminatrice, nuova formulazione di punteggi e definitiva aggiudicazione a proprio favore.
Il TAR ha nel caso di specie assunto assorbente il motivo di violazione e falsa applicazione dell’art. 17 L. 68/99, ritenendo che la mancanza della relativa dichiarazione fosse causa di esclusione dalla gara, anche se non prevista dal bando, operandovi il meccanismo di integrazione legale di cui all’art. 1339 Codice Civile.
Obietta l’appellante che il fenomeno dell’integrazione eteronoma del bando non può nella specie operare, atteso che il bando non era semplicemente lacunoso ma, piuttosto, conteneva una clausola che lasciava intendere come detta dichiarazione non fosse richiesta per le imprese individuali.
Per il Collegio l’appello è fondato; non è in discussione, in primis, l’equivocità del punto III sub. 4 della Sezione D del bando (che prescriveva la dichiarazione “solo per le società”), condivisa nella stessa sentenza appellata.
Discorso diverso allorché il giudice di primo grado implicitamente equipara tale situazione a quella che legittima l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 1339 Codice Civile; in proposito, per il Collegio proprio il precedente richiamato nella sentenza appellata a conforto della pertinente tesi (CdS V 7555/04) in realtà la smentisce.
In detta decisione infatti – precisa la Sezione, si affermava che “se l’amministrazione fissa una regola contraria alla legge, per chi ha interesse ad invalidarla si apre la via dell’impugnativa del bando di gara, nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge processuale siccome interpretata dalla giurisprudenza (a seconda della natura immediatamente lesiva, o meno, della clausola censurata); nel diverso caso – che è poi quello di specie – in cui la stazione appaltante ometta di inserire nella disciplina di gara un contenuto previsto come obbligatorio dall’ordinamento giuridico, invece non sussiste alcun onere di tempestiva impugnazione, soccorrendo al riguardo il suddetto meccanismo di integrazione automatica: in tal guisa, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., si colmano in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla PA.
Coglie allora nel segno l’appellante allorquando – chiosa il Collegio – egli evidenzia che esiste una profonda diversità tra i due casi (lacuna del bando, ovvero presenza di una clausola che esclude la necessità della dichiarazione di cui all’art. 17 L. 68/99), atteso che nel secondo vengono in gioco altri principi – rispetto a quello di legalità – la cui rilevanza non può essere taciuta nel particolare settore delle gare pubbliche.
Occorre considerare che, non solo fondamentali esigenze di certezza del diritto e tutela della par condicio dei concorrenti impediscono all’Amministrazione di disattendere i precetti fissati nella normativa di gara dalla stessa formulata, ma soprattutto il principio di affidamento (formalmente elevato al rango di principio generale dell’azione amministrativa dall’art. 1, comma 1 legge 241/90) impone che sul cittadino non possano ricadere gli errori dell’Amministrazione.
L’ordinamento giuridico moderno si è allontanato da una visione fortemente gerarchizzata degli interessi protetti, mostrando di prediligere la tecnica del contemperamento. Nella specie il punto di equilibrio è dato dalla correzione del procedimento da parte dell’amministrazione, con invito dell’interessato a integrare i requisiti mancanti non per sua colpa ed, anzi, per causa dell’ente pubblico.
2009
Il 4 giugno esce la sentenza della Corte di Giustizia europea Paunon GSM Zrt, in causa C-243/08, che afferma come il giudice nazionale debba esaminare d’ufficio la natura abusiva di una clausola contrattuale, a partire dal momento in cui dispone degli elementi di diritto e di fatto necessari all’uopo.
Laddove egli consideri abusiva una siffatta clausola, per la Corte non deve applicarla, tranne nel caso in cui il consumatore (stesso) vi si opponga; un obbligo che incombe sul giudice nazionale, peraltro, anche in sede di verifica della propria competenza territoriale.
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Il 17 dicembre esce la sentenza della I sezione della Corte di Giustizia europea, EDP Editores SL, in causa C-227/08, alla cui stregua in materia di tutela del consumatore, se l’art. 4, terzo comma, della Direttiva 85/577/CEE attribuisce agli Stati membri la responsabilità di disciplinare gli effetti del mancato rispetto dell’obbligo d’informazione ivi previsto, i giudici nazionali investiti di una controversia fra singoli, devono, dal canto loro, interpretare, per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità della Direttiva ridetta il complesso delle norme nazionali per giungere a una soluzione conforme all’obiettivo da essa perseguito.
Siffatta conclusione non esclude affatto – prosegue il Collegio – che altre misure possano ugualmente assicurare il livello di tutela in parola, come, ad esempio, la riapertura dei termini applicabili in materia di recesso dal contratto, in modo da consentire al consumatore di esercitare il diritto attribuitogli dall’art. 5, n. 1, della direttiva.
D’altro lato, il giudice nazionale adito potrebbe altresì dover tenere conto, in talune circostanze, della volontà del consumatore di non voler far valere la nullità del contratto in discussione.
Ancora, per la Corte il diritto comunitario, in via di principio, non impone ai giudici nazionali di sollevare d’ufficio un motivo basato sulla violazione di disposizioni comunitarie qualora l’esame di tale motivo li obblighi ad esorbitare dai limiti della lite quale è stata circoscritta dalle parti, basandosi su fatti e circostanze diversi da quelli che la parte processuale che ha interesse all’applicazione di dette disposizioni ha posto a fondamento della propria domanda (v. sentenze 14/12/1995, causa C-430/93, van Schijndel e van Veen; nonché 7/06/2007, cause riunite da C-222/05 a C-225/05, van der Weerd e a.).
Tale limitazione del potere del giudice nazionale è giustificata dal principio secondo il quale l’iniziativa di un processo spetta alle parti e, pertanto, il giudice può agire d’ufficio solo in casi eccezionali in cui il pubblico interesse esige il relativo impulso.
2010
Il 19 novembre esce la sentenza della I sezione del Tar Piemonte n.4168, onde il meccanismo civilistico noto come inserzione automatica di clausole e scolpito all’art. 1339 c.c., deve assumersi applicabile anche ai contratti di durata stipulati con una P.A.
Più nel dettaglio, per il Collegio il meccanismo civilistico noto come inserzione automatica di clausole e scolpito all’art. 1339 c.c., si applica anche ai contratti di durata stipulati con una P.A. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 5.10.2005, n. 5316; in termini, Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.2.2005 n. 453, secondo cui: “l’art. 1339 c.c. assolve la funzione precipua di assicurare l’attuazione delle condizioni contrattuali previste in via inderogabile dalla legge con il meccanismo dell’inserzione automatica delle clausole imperative in sostituzione di quelle difformi convenute dalle parti e postula dunque la conclusione di un accordo negoziale il cui contenuto risulti parzialmente contrastante con quello imposto dal legislatore, sottratto come tale all’autonomia privata”).
2014
Il 10 novembre esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.23950 alla cui stregua la nullità della singola clausola contrattuale – o di alcune soltanto delle clausole del negozio – comporta la nullità dell’intero contratto ovvero all’opposto, per il principio «utile per inutile non vitiatur», la conservazione dello stesso in dipendenza della scindibilità del contenuto negoziale.
L’accertamento di tale scindibilità richiede essenzialmente, per il Collegio la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all’eventualità del mancato inserimento di tale clausola, e, dunque, in funzione dell’interesse in concreto dalle stesse perseguito.
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Il 12 dicembre escono le sentenze delle SSUU della Cassazione n.26242 e 26243, onde il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la pertinente nullità solo parziale.
E tuttavia, precisa la Corte, qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di accertamento in tal senso, il giudice ridetto deve rigettare l’originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo.
2015
Il 17 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.18213, alla cui stregua in tema di locazione immobiliare ad uso abitativo, la nullità prevista dall’art. 13, comma 1, della L. n. 431 del 1998 sanziona esclusivamente il patto occulto di maggiorazione del canone, oggetto di un procedimento simulatorio, mentre resta valido il contratto registrato e resta dovuto il canone apparente.
In sostanza dunque per le SSUU, in caso di canone di locazione maggiorato, l’invalidità (parziale) del contratto scaturente dalla parziale simulazione, vitiatur sed non vitiat, onde il contratto resta valido, dovendo tuttavia il conduttore erogare il solo canone apparente, inferiore rispetto a quello (maggiorato) dissimulato.
Il patto occulto di maggiorazione del canone, in quanto nullo, per la Corte non può peraltro assumersi sanato dalla eventuale, pertinente registrazione tardiva, che compendia un “fatto extranegoziale” con valore tributario inidoneo ad influire sulla validità puramente civilistica dell’accordo.
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Il 6 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4653, in tema di gare, onde nel caso di specie l’impresa ausiliaria, nel configurare il rapporto obbligatorio che caratterizza l’avvalimento, avrebbe dichiaratamente limitato il regime di responsabilità nei confronti della Stazione appaltante, assumendo «la responsabilità solidale con l’I., nei confronti del committente, relativamente alla parte dei lavori che riguardano le attività svolte dalla ditta ausiliaria».
Pertanto, prosegue il Collegio, il regime di responsabilità solidale in favore della committente avrebbe riguardato unicamente le «attività svolte dalla ditta ausiliaria» e non già, come dispone l’art. 49, comma 4, del Codice, tutte le prestazioni oggetto del contratto di appalto.
Al riguardo, la Sezione coglie l’occasione per osservare che, in linea di principio – e come sostiene l’appellante – le previsioni di cui all’art. 49 citato non possono essere imposte attraverso il meccanismo della «sostituzione automatica» della clausola difforme dal paradigma normativo, poiché l’«inserzione automatica di clausole» ex art. 1339 c.c. opera sul piano dei (soli) rapporti paritetici, al fine di rendere l’assetto negoziale conforme alle norme aventi natura imperativa, ma non può essere applicato – con specifico riguardo alla fase procedimentale e, dunque, pre-contrattuale – al fine di integrare le condizioni che ogni concorrente è tenuto a soddisfare nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica, ai fini della ammissione alla gara e della dimostrazione del possesso dei requisiti partecipativi .
2016
Il 5 febbraio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.2314 onde la nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende all’intero contratto, o a tutta la clausola, solo ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità.
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Il 17 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.17150 alla cui stregua le norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell’usura (introdotte con la L. n. 108 del 1996, art. 4), pur non essendo retroattive, comportano l’inefficacia “ex nunc” delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in vigore sulla base del semplice rilievo, operabile anche d’ufficio dal giudice, che il rapporto giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito.
2017
Il 4 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.9405 alla cui stregua, in caso di c.d. usura sopravvenuta (per un calo del tasso di interesse “soglia”) il giudice può emendare la disciplina degli interessi siccome originariamente prevista dalle parti.
La diversità delle opzioni interpretative sul tema – rammenta la Corte – si è formata, anche successivamente all’entrata in vigore della norma d’interpretazione autentica introdotta dal D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1 convertito nella L. n. 241 del 2001, ritenuta costituzionalmente legittima dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 2002.
Nell’articolo sopra citato è affermato che s’intendono usurari gl’interessi che superano il limite legale nel momento in cui sono promessi o convenuti, indipendentemente dal momento del pagamento. Tale scelta legislativa secondo la quale “le sanzioni penali e civili stabilite nell’art. 644 c.p. e art. 1815 c.c. trovano applicazione con riguardo alle sole ipotesi di pattuizioni originariamente usurarie, costituisce tra le tante astrattamente possibili – un’interpretazione chiara e lineare delle suddette norme codicistiche e non determina alcuna efficacia irrazionalmente sanante della natura usuraria di tassi d’interesse corrispettivo contenuti in contratti preesistenti”.(sent. Corte Cost. 29 del 2002).
Una delle opzioni interpretative esclude che, all’esito dell’interpretazione autentica intervenuta D.L. n. 394 del 2000, ex art. 1 convertito nella L. n. 241 del 2001, il superamento del tasso soglia degli interessi corrispettivi originariamente convenuti in modo legittimo, in corso di esecuzione del rapporto, possa determinare ex art. 1339 e 1418 c.c. la riduzione entro i limiti stabiliti dalla legge così come integrata dai D.M. periodicamente emanati e contenenti la determinazione del tasso predetto per le diverse tipologie contrattuali cui esso è applicabile.
Viene valorizzato – precisa il Collegio – il dato testuale dell’art. 1 ed in particolare la locuzione “indipendentemente dal loro pagamento”.
La legittimità iniziale del tasso convenzionalmente pattuito spiega la propria efficacia per tutta la durata del contratto nonostante l’eventuale sopravvenuta disposizione imperativa che per una frazione o per tutta la durata del contratto, successiva alla pertinente instaurazione, ne indichi la natura usuraria a partire da quel momento in poi. Questo orientamento, precisa la Corte, formatosi su fattispecie consistenti in contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della L. n. 108 del 1996 ha trovato conferma nel 2016 con la sentenza n. 801 (preceduta da Cass. n. 480 del 2003; 6514 del 2007; 26499 del 2009).
Successivamente a tale pronuncia tuttavia, sostenuto da un rilevante numero di precedenti anche recenti (Cass. 2140 del 2006, con espresso riferimento alla norma d’interpretazione autentica, 17854 del 2007; 602 del 2013 e 6550 del 2013) si è affermato un orientamento contrario che merita adesione, con la pronuncia n. 17150 del 2016, secondo la quale le norme che prevedono la nullità dei patti contrattuali che determinano la misura degli interessi in tassi così elevati da raggiungere la soglia dell’usura (introdotte con la L. n. 108 del 1996, art. 4), pur non essendo retroattive, comportano l’inefficacia “ex nunc” delle clausole dei contratti conclusi prima della loro entrata in vigore sulla base del semplice rilievo, operabile anche d’ufficio dal giudice, che il rapporto giuridico, a tale momento, non si era ancora esaurito.
Alla luce di questo orientamento la norma d’interpretazione autentica contenuta nel citato D.L. n. 394 del 2000, art. 1 convertito nella L. n. 241 del 2001, secondo la quale la valutazione dell’usurarietà del tasso d’interesse deve essere svolta sulla base di quello pattuito originariamente, non elimina l’efficacia del rilievo dell’illiceità dovuta al sopravvenuto superamento del tasso soglia ma esclude che possano essere applicate le sanzioni civili e penali (come specificamente indicato da Corte Cost. n. 29 del 2002) stabilite all’art. 644 c.p. e art. 1815 c.c..
Questa costituisce per la Corte l’unica opzione ermeneutica compatibile con la natura inderogabile ed imperativa della determinazione normativa periodica dei tassi soglia per ciascuna tipologia contrattuale ivi prevista.
Pertanto ove, come nella specie, il rilievo dell’usurarietà sopravvenuta sia stato tempestivamente eccepito, il giudice del merito è tenuto ad accertarlo per la frazione temporale nella quale il superamento del tasso soglia sia effettivamente intervenuto ed applicare per quel segmento del rapporto contrattuale il tasso soglia previsto in via normativa secondo la rilevazione trimestrale eseguita L. n. 108 del 1996, ex art. 2.
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Il 9 ottobre esce la sentenza delle SSUU n.23601, alla cui stregua, in primo luogo, va ribadito che la mancata registrazione del contratto di locazione di immobili è causa di nullità del contratto stesso.
La Corte precisa altresì che il ridetto contratto di locazione di immobili, quando sia nullo per (la sola) omessa registrazione, può comunque produrre i propri effetti con decorrenza ex tunc, nel caso in cui la registrazione sia effettuata tardivamente; alla registrazione viene dunque accordata dalle SSUU una efficacia sanante della nullità del contratto ab origine non registrato, con effetti retroattivi.
Infine, per la Corte è nullo il patto col quale le parti di un contratto di locazione di immobili ad uso non abitativo concordino occultamente un canone superiore a quello dichiarato; tale nullità “parziale”, nondimeno, vitiatur sed non vitiat, con la conseguenza che il solo patto di maggiorazione del canone risulterà insanabilmente nullo, a prescindere dall’avvenuta registrazione, e dunque anche nel caso in cui la ridetta registrazione intervenga ex post in modo da “convalidare” ex tunc la restante porzione contrattuale.
Per la Corte il contratto di locazione di immobili, sia ad uso abitativo che ad uso diverso, contenente “ab origine” l’indicazione del canone realmente pattuito (e, dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi dell’art. 1, co. 346, della L. n. 311 del 2004, ma, in caso di tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, può comunque produrre i relativi effetti con decorrenza “ex tunc”, atteso che il riconoscimento di una sanatoria “per adempimento” è coerente con l’introduzione nell’ordinamento di una nullità (funzionale) “per inadempimento” all’obbligo di registrazione.
La sanzione di nullità sancita dall’art. 79 della L. n. 392 del 1978, tradizionalmente intesa come volta a colpire le sole maggiorazioni del canone previste “in itinere” e diverse da quelle consentite “ex lege”, deve, invece, essere letta nel senso che il patto di maggiorazione del canone è nullo anche se la relativa previsione attiene al momento genetico, e non già soltanto successivo e “funzionale”, del rapporto.
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Il 19 ottobre esce la attesa sentenza delle SS.UU. della Cassazione n. 24675 in tema di c.d. “usura sopravvenuta”, ossia al caso in cui il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996.
Secondo la Corte tale fenomeno non determina la nullità o l’inefficacia della clausola contrattuale di determinazione del tasso degli interessi stipulata anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge, o della clausola stipulata successivamente per un tasso non eccedente tale soglia quale risultante al momento della stipula; né la pretesa del mutuante di riscuotere gli interessi secondo il tasso validamente concordato può essere qualificata, per il solo fatto del sopraggiunto superamento di tale soglia, contraria al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto.
Viene evidenziato dal Collegio come la funzione del meccanismo di determinazione del tasso soglia introdotto dalla L. n. 108/1996 sia soltanto quella di permettere di definire un parametro (l’interesse usurario) che è elemento della fattispecie di reato non potendogli invece riconoscere, almeno direttamente, la (ulteriore) funzione di introdurre un meccanismo di governo del “giusto corrispettivo” del finanziamento.
La sentenza è inoltre interessante poiché contiene un importante passaggio sul concetto di buona fede e sulla portata di tale regola, volta cioè a presidiare la corretta esecuzione del rapporto, e non a consentire una modifica surrettizia dell’equilibrio contrattuale, quale finirebbe invece per diventare nelle prospettazioni dei sostenitori della teorica dell’usura sopravvenuta: l’unica valutazione che potrà essere compiuta dal giudice consisterà pertanto nel verificare se la riscossione degli interessi, in disparte la relativa (lecita) misura, avvenga attraverso comportamenti scorretti.
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Il 12 dicembre esce l’ordinanza della sezione I della Cassazione n.29810, che richiama, facendolo proprio, il proprio precedente di cui a Cass. n. 827/1999, laddove ha affermato che la distorsione della concorrenza ben può essere posta in essere anche mediante comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali».
In tal modo – osserva in motivazione la Corte – diventa, difatti, rilevante «qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale), purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di “intesa” rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente “unilaterali”. Da ciò consegue che, allorché l’articolo in questione stabilisce la nullità delle “intese”, non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza».
E’ evidente pertanto, riprende la Corte, che – in tal modo – la pronuncia in esame si pone nell’ottica della nullità complessiva e totale, sia della intesa a monte (peraltro dichiarata dall’Autorità Garante), sia della successiva fideiussione a valle.
La sentenza afferma, infine, che l’accertamento di condotte anticoncorrenziali ai sensi dell’art. 2 della I. n. 287 del 1990, si applica a tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato.
2018
*Il 22 giugno esce l’ordinanza della sezione VI della Cassazione n.16501, onde il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la pertinente nullità solo parziale.
E tuttavia, precisa la Corte, qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di accertamento in tal senso, il giudice ridetto deve rigettare l’originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo Cass., 18/06/2018, n. 16501).
2019
Il 26 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24044 che, abbracciando una impostazione parzialmente diversa rispetto ad altro filone giurisprudenziale, afferma come le fideiussioni riproduttive di clausole frutto di una intesa anticoncorrenziale, siccome sanzionata dalla Banca d’Italia, vadano assunte nulle, e tuttavia non integralmente, bensì limitatamente a siffatte clausole; si tratta dunque di nullità parziale del contratto di fideiussione a valle dell’intesa vietata.
In una fattispecie nella quale, nel contratto di fideiussione stipulato tra la banca ed il cliente, erano presenti le clausole nn. 2, 6 e 8, riproducenti il contenuto delle clausole ABI dichiarate illegittime dall’Autorità Garante, la Corte osserva significativamente che, «avendo l’Autorità amministrativa circoscritto l’accertamento della illiceità ad alcune specifiche clausole trasfuse nelle dichiarazioni unilaterali rese in attuazione di dette intese […], ciò non esclude, ne è incompatibile, con il fatto che in concreto la nullità del contratto a valle debba essere valutata dal giudice adito alla stregua degli artt. 1418 e ss. cod. civ. e che possa trovare applicazione l’art.1419 cod. civ., come avvenuto nel presente caso, laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalle intese illecite» (Cass., 26/09/2019, n. 24044).
2020
Il 13 febbraio esce l’ordinanza della sezione III della Cassazione n.3556, che si occupa ancora della fattispecie dell’inserimento nel contratto di fideiussione a valle di clausole dichiarate nulle dall’autorità di vigilanza, in quanto frutto di intese anticoncorrenziali.
La Corte rileva in proposito che i ricorrenti “danno implicitamente per scontato che la (pretesa) nullità di quelle specifiche clausole comporterebbe la nullità integrale del contratto di fideiussione”, circostanza che tuttavia non è affatto vera e ciò in quanto, ai sensi dell’art. 1419 c.c., la nullità integrale del contratto in conseguenza della nullità di singole clausole si determina solo se risulta che i contraenti non avrebbero stipulato il contratto in mancanza di quelle clausole; il che non è né specificamente dedotto né dimostrato e, anzi, è da escludere, sul piano logico, trattandosi di clausole a favore della banca.
La Corte si colloca dunque in una prospettiva di nullità “parziale” delle fideiussioni stipulate dagli istituti bancari a valle di intese o pratiche accertate come anticoncorrenziali dalla competente Autorità di vigilanza.
2021
Il 10 marzo esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.6523 che si pone nella prospettiva della nullità totale della fideiussione conclusa a valle di una intesa restrittiva della concorrenza.
Il Collegio, affrontando la questione relativa alla competenza della sezione specializzata per le imprese, afferma infatti che tale competenza «attrae anche la controversia riguardante la nullità della fideiussione riproduttiva dello schema contrattuale predisposto dall’ABI, contenente disposizioni contrastanti con l’art. 2, comma 2, lett. a), della legge n. 287 del 1990, in quanto l’azione diretta a dichiarare l’invalidità del contratto a valle implica l’accertamento della nullità dell’intesa vietata» (Cass., 10/03/2021, n. 6523).
* * *
Il 30 aprile esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.11486 che rileva come sulla questione relativa alla tutela riconoscibile al soggetto che abbia stipulato un contratto di fideiussione a valle, in caso di nullità delle condizioni stabilite nelle intese tra imprese a monte, per violazione dell’art. 2, comma, 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990, non vi sia accordo in dottrina ed in giurisprudenza, essendosi – in sostanza – delineate tre soluzioni:
- a) nullità totale del contratto a valle;
- b) nullità parziale di tale contratto, ossia limitatamente alle clausole che riproducono le condizioni dell’intesa nulla a monte;
- c) (sola) tutela risarcitoria.
La sezione – ritenendo che la questione che ne costituisce oggetto sia di particolare valore nomofilattico, e rappresenti, quindi, una questione di massima di peculiare importanza, anche in considerazione della frequente ricorrenza della pertinente fattispecie – la rimette alle Sezioni Unite, affinchè venga autorevolmente stabilito:
1) se la coincidenza totale o parziale con le condizioni dell’intesa a monte – dichiarata nulla dall’organo di vigilanza di settore – giustifichi la dichiarazione di nullità delle clausole accettate dal fideiussore, nel contratto a valle, o legittimi esclusivamente l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno;
2) nel primo caso, quale sia il regime applicabile all’azione di nullità, sotto il profilo della tipologia del vizio e della legittimazione a farlo valere;
3) se sia ammissibile una dichiarazione di nullità parziale della fideiussione;
4) se l’indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre alla predetta coincidenza, la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia, ovvero l’esclusione di un mutamento dell’assetto d’interessi derivante dal contratto.
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Il 30 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.41994 alla cui stregua i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge succitata e dell’art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti.
Va anzitutto rilevato per la Corte che, a norma dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990: «1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari. 2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; […]. 3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto».
Ebbene, rammenta il Collegio, nell’ottobre del 2002, l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) ebbe a predisporre uno schema negoziale tipo per la fideiussione a garanzia di operazioni bancarie, che – prima della diffusione tra gli istituti di credito – fu comunicato alla Banca d’Italia, all’epoca Autorità Garante della Concorrenza tra gli Istituti di Credito, la quale, nel novembre 2003, avviò un’istruttoria finalizzata a verificare la compatibilità dello schema contrattuale di «fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie», predisposto dall’ABI, con la disciplina dettata in materia di intese restrittive della concorrenza.
A tal fine, la Banca d’Italia interpellò – in via consultiva – l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale – nel parere n. 14251 – ebbe ad evidenziare come la disciplina della «fideiussione omnibus», di cui allo schema predisposto dall’ABI, presentava clausole idonee a restringere la concorrenza, poiché suscettibili – in linea generale – «di determinare un aggravio economico indiretto, in termini di minore facilità di accesso al credito», nonché, nei casi di fideiussioni a pagamento, «di accrescere il costo complessivo del finanziamento per il debitore, che dovrebbe anche remunerare il maggior rischio assunto dal fideiussore».
I rilievi critici dell’Autorità Garante riguardarono, in particolare, le clausole nn. 2, 6 e 8 del citato schema contrattuale, e precisamente:
- a) la cd. «clausola di reviviscenza», secondo la quale il fideiussore è tenuto «a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo» (art. 2);
- b) la cd. «clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 cod. civ.», in forza della quale «i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 cod. civ., che si intende derogato» (art. 6);
- c) la cd. «clausola di sopravvivenza», a termini della quale «qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate».
Sulla scorta di tale parere, riprendono le SSUU, e rilevato che dall’istruttoria espletata era emerso che diverse banche avevano ormai adottato lo schema predisposto dall’ABI, e che dai dati raccolti era altresì risultato che la maggior parte delle clausole esaminate fosse stata ritenuta dalle banche applicabile anche ai contratti stipulati da soggetti privati, in qualità di fideiussori, la Banca d’Italia ha emesso il menzionato provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005.
Nel provvedimento l’Autorità Garante ha anzitutto osservato che le condizioni generali di contratto comunicate dall’ABI relativamente alla “fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie“, in quanto deliberazioni di un’associazione di imprese, rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 2, comma 1, della legge n. 287/90, laddove recita: “Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari“».
L’Autorità ha, quindi, rilevato che le determinazioni di un’associazione di imprese, costituendo elemento di valutazione e di riferimento per le scelte delle singole associate, possono contribuire a coordinare il comportamento di imprese concorrenti.
«Relativamente a quest’ultimo profilo, la restrizione della concorrenza derivante da una siffatta intesa risulterebbe significativa nel mercato rilevante, atteso l’elevato numero di banche associate all’ABI».
Il provvedimento ha posto, infine, l’accento sul fatto che – mentre altre clausole contenute nello schema esaminato non comportano un ingiustificato aggravio della posizione del fideiussore, in quanto funzionali a garantire l’accesso al credito bancario – «per la clausola relativa alla rinuncia del fideiussore ai termini di cui all’art. 1957 cod. civ. e per le c.d. clausole di “sopravvivenza” della fideiussione non sono emersi elementi che dimostrino l’esistenza di un legame di funzionalità altrettanto stretto. Tali clausole, infatti, hanno lo scopo precipuo di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa».
Il provvedimento ha disposto, in conclusione: «a) gli articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a), della legge n. 287/90; b) le altre disposizioni dello schema contrattuale non risultano lesive della concorrenza».
A seguito di tali fatti, riprende il Collegio, si è pertanto posta la questione, rimessa al vaglio delle Sezioni Unite, degli effetti che, sulle fideiussioni stipulate a valle tra la Banca e X, abbia prodotto l’illecito antitrust rilevato, a monte, dal provvedimento della Banca d’Italia, ovvero se, nel caso di fideiussioni rilasciate dal cliente della banca, nelle quali siano state inserite le predette clausole, la cui natura anticoncorrenziale è stata accertata dall’Autorità competente, al garante spetti una tutela «reale», ossia a carattere «demolitorio», oppure una tutela esclusivamente risarcitoria.
Ebbene, occorre per la Corte significativamente muovere in proposito dal rilievo che, se in forza dell’art. 41, primo comma, Cost., «l’iniziativa economica privata è libera», tuttavia la stessa norma si preoccupa di precisare, al secondo comma, che l’iniziativa economica «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale», mentre al terzo comma soggiunge che «la legge determina i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
In forza della previsione costituzionale, pertanto, la «concorrenza» tra imprese si connota come una situazione di mercato che postula una grande libertà di accesso all’attività economica da parte degli imprenditori, ma altresì una altrettanto ampia possibilità di libera scelta per gli acquirenti e, in generale, la possibilità per ciascuno di cogliere le migliori opportunità disponibili sul mercato, o proporre nuove opportunità, senza imposizioni da parte dello Stato o vincoli predeterminati da coalizioni d’imprese.
Di qui l’introduzione, in pressochè tutti i Paesi occidentali, della disciplina antitrust, che regola i rapporti tra imprenditori e consente un corretto svolgimento dei rapporti concorrenziali.
Al bilanciamento tra le giustapposte esigenze di garanzia della libera esplicazione della iniziativa economica privata e della tutela dei consumatori – quali soggetti del mercato al pari degli imprenditori – ha provveduto, quindi, in Italia, la legge antitrust n. 287 del 1990, il cui art. 2 considera – come si è visto, ribadisce sul punto il Collegio – vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare – in qualsiasi forma e in maniera sostanziale – il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.
Nello stesso senso, l’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (originario art. 81 del Trattato CE e, ancor prima, art. 85 del Trattato di Roma) – in applicazione dell’art. 3, secondo cui «L’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori»: […] b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; […]» – dispone: «1. Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno ed in particolare quelli consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione; […]. 2. «Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto».
Tale essendo il quadro normativo – interno ed europeo – di riferimento, va, tuttavia, osservato per le SSUU che il formante giurisprudenziale in materia è quanto mai variegato ed articolato, e non offre soluzioni univoche.
Una prima decisione sul tema ha, nondimeno, effettuato talune importanti precisazioni, sulle quali dovrà ritornarsi in prosieguo. Si è, per vero, affermato che l’art. 2 della legge n. 287 del 1990 (cosiddetta legge “antitrust“), allorché dispone che siano nulle ad ogni effetto le «intese» fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, non ha inteso riferirsi solo alle «intese» in quanto contratti in senso tecnico, ovvero negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà tendenti a realizzare una funzione specifica attraverso un particolare «voluto».
Il legislatore infatti, chiosa ancora il Collegio, con la suddetta disposizione normativa ha inteso, in realtà ed in senso più ampio, proibire il fatto della distorsione della concorrenza, in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche. Tale distorsione ben può essere il frutto anche di comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali». Si rendono – così – rilevanti qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale), purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di «intesa» rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici [n.d.r. come nel caso oggetto del presente giudizio] meramente «unilaterali». (Cass., 01/02/1999, n. 827).
Una successiva decisione in materia ha affrontato lo specifico tema delle tutele azionabili dal privato, cliente della banca, che abbia stipulato un contratto di fideiussione che riproduca, in tutto o in parte il contenuto di un’intesa conclusa in violazione della succitata normativa antitrust, escludendo in radice la legittimazione del consumatore a proporre una qualsiasi forma di azione.
Nella decisione in parola, precisa il Collegio, la Corte ha, infatti, affermato che, in tema di normativa per la tutela della concorrenza e del mercato apprestata dalla legge n. 287 del 1990, ed alla luce di quella che è la caratterizzazione tecnica degli istituti in essa delineati, lo strumento risarcitorio – connesso alla violazione dei divieti di intese restrittive della libertà della concorrenza, e di abuso di posizione dominante, in essa normativa fissati rispettivamente agli artt. 2 e 3, contemplato dall’art. 33 ed in quella sede rimesso, per la relativa cognizione (nel testo applicabile ratione temporis), alla competenza esclusiva della Corte di Appello in un unico grado di giudizio di merito – non è aperto – in quanto tale – alla legittimazione attiva dei singoli c.d. «consumatori finali» (Cass., 09/12/2002, n. 17475).
Un’altra pronuncia invece, quasi coeva alla precedente, pur estendendo la legittimazione a far valere la nullità dell’intesa anche ai privati, non imprenditori, che abbiano stipulato contratti a valle, ha, tuttavia, ristretto la tutela alla proponibilità della sola azione risarcitoria, escludendo in radice la tutela reale. Al riguardo, si è statuito, infatti, che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990, non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa, i quali mantengono la loro validità e possono dar luogo solo ad azione di risarcimento danni nei confronti delle imprese da parte dei clienti (Cass., 11/06/2003, n. 9384).
La svolta decisiva è segnata in materia – in termini di maggiore tutela dei privati – da una sentenza delle medesime Sezioni Unite, secondo la quale la legge antitrust n. 287 del 1990 detta norme – segnatamente l’art. 2 – a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata.
Al riguardo va tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto «a valle» costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti.
Ne discende che, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione «a monte», ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990, azione la cui cognizione è rimessa da quest’ultima norma – nel testo vigente al tempo della pronuncia – alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d’appello.
Va rilevato, al riguardo, che la Corte – pur non affrontandola in maniera specifica – ha, tuttavia, operato un importante riferimento, in motivazione, alla problematica concernente il contratto stipulato a valle dell’intesa vietata. Ed invero, rammentano ancora le SSUU, la decisione in esame ha affermato che «il consumatore, che è l’acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito. A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anti-competitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile».
In altri termini – stante il «collegamento funzionale» con la volontà anti-competitiva a monte – ai contratti a valle non può attribuirsi un rilievo giuridico diverso rispetto all’intesa che li precede: nulla essendo quest’ultima, la nullità non può che inficiare anche l’atto conseguenziale.
Nel caso (allora) sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, dopo l’irrogazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato a numerose compagnie di assicurazione di una sanzione per la partecipazione a un’intesa restrittiva della concorrenza, il consumatore finale aveva convenuto in giudizio, dinanzi al giudice di pace, la propria compagnia di assicurazioni, chiedendo il rimborso di una parte – il 20% – del premio corrisposto per una polizza di RC auto, assumendo che l’ammontare del premio era stato abusivamente influenzato dalla partecipazione dell’impresa assicuratrice all’intesa vietata (Cass. Sez. U, 04/02/2005, n. 2207).
Una problematica particolare, riprende a questo punto la Corte, non affrontata dalle Sezioni Unite del 2005, atteso che la fattispecie che le investiva era relativa ad un contratto stipulato da un’assicurazione che aveva partecipato all’intesa vietata, concerne, peraltro, il caso – oggetto, invece, del presente giudizio – in cui, sebbene l’impresa (assicurativa o bancaria), che ha stipulato un contratto a valle con il consumatore, non abbia partecipato all’intesa a monte, dichiarata nulla dall’autorità di vigilanza, tuttavia detto contratto recepisce, in tutto o in parte, il contenuto dell’intesa vietata.
Al problema la più recente giurisprudenza di legittimità – successiva all’arresto nomofilattico delle Sezioni Unite – non ha dato risposte uniformi ed univoche, come bene evidenziato dall’ordinanza di rimessione, sebbene l’indirizzo prevalente sia senz’altro orientato – ormai – ad ammettere la «tutela reale», a fianco di quella risarcitoria.
Particolare importanza riveste nel presente giudizio giacché attiene alla medesima vicenda che ne costituisce oggetto, benché concernente il rapporto di fideiussione intercorso tra il B. ed una banca diversa dalla X – una decisione con la quale la Corte ha richiamato, e fatto proprio, il menzionato precedente di cui a Cass. n. 827/1999, laddove ha affermato che la distorsione della concorrenza ben può essere posta in essere anche mediante comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali».
In tal modo – osserva in motivazione la Corte – diventa, difatti, rilevante «qualsiasi condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale), purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di “intesa” rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente “unilaterali”. Da ciò consegue che, allorché l’articolo in questione stabilisce la nullità delle “intese”, non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza».
E’ evidente pertanto, riprende la Corte, che – in tal modo – la pronuncia in esame si pone nell’ottica della nullità complessiva e totale, sia della intesa a monte (peraltro dichiarata dall’Autorità Garante), sia della successiva fideiussione a valle.
La sentenza afferma, infine, che l’accertamento di condotte anticoncorrenziali ai sensi dell’art. 2 della I. n. 287 del 1990, si applica a tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato (Cass., 12/12/2017, n. 29810).
Nella medesima prospettiva, quella della nullità totale della fideiussione a valle, si pone anche una successiva pronuncia che, affrontando la questione relativa alla competenza della sezione specializzata per le imprese, ha affermato che tale competenza «attrae anche la controversia riguardante la nullità della fideiussione riproduttiva dello schema contrattuale predisposto dall’ABI, contenente disposizioni contrastanti con l’art. 2, comma 2, lett. a), della legge n. 287 del 1990, in quanto l’azione diretta a dichiarare l’invalidità del contratto a valle implica l’accertamento della nullità dell’intesa vietata» (Cass., 10/03/2021, n. 6523).
Secondo un’impostazione parzialmente diversa invece, chiosano ancora le SSUU, le fideiussioni riproduttive di clausole frutto di intesa anticoncorrenziale, sanzionata dalla Banca d’Italia, sarebbero nulle, ma non integralmente, bensì limitatamente a siffatte clausole.
Si tratta della tesi, menzionata anche dall’ordinanza di rimessione, della nullità parziale del contratto di fideiussione a valle dell’intesa vietata, richiesta nel primo grado presente giudizio – in via subordinata, alla domanda di nullità totale – dall’odierno resistente.
Sempre con riferimento ad una fattispecie nella quale nel contratto di fideiussione stipulato tra la banca ed il cliente erano presenti le clausole nn. 2, 6 e 8 sopra riportate, riproducenti il contenuto delle clausole ABI dichiarate illegittime dall’Autorità Garante, la Corte ha osservato che, «avendo l’Autorità amministrativa circoscritto l’accertamento della illiceità ad alcune specifiche clausole trasfuse nelle dichiarazioni unilaterali rese in attuazione di dette intese […], ciò non esclude, ne è incompatibile, con il fatto che in concreto la nullità del contratto a valle debba essere valutata dal giudice adito alla stregua degli artt. 1418 e ss. cod. civ. e che possa trovare applicazione l’art.1419 cod. civ., come avvenuto nel presente caso, laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalle intese illecite» (Cass., 26/09/2019, n. 24044).
In senso conforme, del pari con riferimento alla fattispecie dell’inserimento nel contratto di fideiussione a valle di clausole dichiarate nulle dall’autorità di vigilanza, in quanto frutto di intese anticoncorrenziali, la Corte ha rilevato che «i ricorrenti danno implicitamente per scontato che la (pretesa) nullità di quelle specifiche clausole comporterebbe la nullità integrale del contratto di fideiussione, ma non è affatto così, in quanto, ai sensi dell’art. 1419 c.c., la nullità integrale del contratto in conseguenza della nullità di singole clausole si determina solo se risulta che i contraenti non avrebbero stipulato il contratto in mancanza di quelle clausole; il che non è né specificamente dedotto né dimostrato e, anzi, è da escludere, sul piano logico, trattandosi di clausole a favore della banca» (Cass., 13/02/2020, n. 3556).
Tale essendo il variegato quadro giurisprudenziale di riferimento, va osservato ormai per le SSUU che la questione della sorte del contratto a valle non trova una soluzione uniforme neanche in dottrina.
Una prima tesi, rammenta il Collegio, è nel senso che la nullità delle intese anticoncorrenziali, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett a) e comma 3 della legge n. 287 del 1990, comporta che le fideiussioni, riproducenti le clausole nn. 2, 6 e 8 del suddetto schema predisposto dall’ABI, siano da considerarsi integralmente nulle per «nullità derivata» e conseguente al rapporto strumentale esistente tra la garanzia a valle e l’intesa a monte.
In tal senso si rileva che il collegamento funzionale in parola si tradurrebbe in un vero e proprio «collegamento negoziale» tra l’intesa a monte e la fideiussione a valle, che comporterebbe l’esigenza di una considerazione unitaria della fattispecie e l’applicazione del principio simul stabunt simul cadent. I due accordi sarebbero, in altri termini, parte di una pratica «complessivamente illecita», sicché la nullità prevista per l’intesa si trasmetterebbe tout court anche ai contratti che a questa danno attuazione.
Altri autori – sempre nell’ambito dello stesso indirizzo – hanno ritenuto invece, riprende il Collegio, che la nullità della fideiussione a valle deriverebbe dalla illiceità della causa della stessa fideiussione, ai sensi dell’art. 1418, secondo comma, cod. civ., giacché tale negozio realizzerebbe una funzione illecita, siccome contrario alle norme imperative sulle intese anticoncorrenziali.
Secondo una terza impostazione, invece, il contratto a valle – nella misura in cui assorbe nella relativa interezza, o anche all’interno di singole clausole, le statuizioni della concertazione a monte, sarebbe integralmente nullo in quanto l’oggetto si rivelerebbe funzionale al perseguimento del risultato vietato cui l’intesa è finalizzata, con conseguente nullità del negozio fideiussorio, ai sensi degli artt. 1418, secondo comma, e 1346 cod. civ.
L’oggetto illecito che dà corso all’intesa, in altri termini, tale rimarrebbe «lungo l’intera catena negoziale», determinando la nullità radicale della contrattazione a valle.
Altri autori ancora – sempre nell’ambito della tesi della nullità assoluta – ritengono che la nullità in questione sarebbe non testuale, ma virtuale, derivando dalla violazione diretta delle norme imperative anticoncorrenziali. Si afferma, al riguardo, che le previsioni degli artt. 1941, 1939 e 1957 cod. civ. sarebbero singolarmente derogabili, nondimeno la loro deroga cumulativa – in quanto si tradurrebbe in un effetto distorsivo della competizione di mercato – verrebbe a collidere con la norma imperativa di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), dando luogo all’integrale nullità del contratto.
Altra dottrina ritiene, per contro, che nel caso in esame si versi in un’ipotesi di nullità parziale, ossia delle singole clausole contenute nei contratti bancari a valle dell’intesa vietata, in quanto trasposizione delle clausole dichiarate nulle dall’Autorità Garante. Una «nullità derivata» che conseguirebbe, dunque, a siffatta trasposizione, nella contrattazione standardizzata, di quelle clausole (nn. 2, 6 e 8) illecite contenute nel modello ABI.
Si osserva, al riguardo, che le deroghe all’archetipo codicistico sarebbero state lecite, se le condizioni contrattuali censurate non fossero state reiteratamente proposte dalle banche, destinandole ad una pluralità di singoli operatori. In tal modo, la vista connotazione del mercato come mercato libero, non solo per chi svolge l’attività imprenditoriale, ma anche per i consumatori, verrebbe ad essere alterata significativamente.
E’ intuitivo, infatti, che proprio la costante reiterazione della deroga al modello codicistico, con l’inserimento di clausole pregiudizievoli per il fideiussore, determina un abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili, erodendo la libera scelta del clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato.
Si aggiunge, poi, che – nel sistema del codice civile – la «conservazione» del negozio giuridico costituisce la regola, sicché la deroga a tale principio non può che essere relegata a quelle ipotesi sporadiche, nelle quali – secondo un giudizio di «volontà ipotetica» – risulti che le parti con avrebbero avuto interesse alla conclusione del contratto senza le clausole nulle.
Un terzo filone interpretativo infine, riprendono le SSUU, ritiene che l’unico rimedio esperibile dal garante – coinvolto, suo malgrado, nell’attuazione dell’intesa anticoncorrenziale – sia esclusivamente quello risarcitorio. Si osserva, al riguardo, che ciò che emergerebbe, nel rapporto tra intesa a monte e fideiussione a valle, sarebbe la mancanza di una vera libertà di determinazione e scelta da parte del contraente-cliente della banca, il quale – a fronte della predisposizione di un modello contrattuale che non gli consente possibilità alternative, neppure rivolgendosi ad altri imprenditori bancari, stante il generalizzato recepimento dello schema ABI – non avrebbe altra scelta, essendo la fideiussione perfettamente valida, che quella di proporre l’azione per il risarcimento dei danni.
Il modello di tutela sarebbe, pertanto, quello del dolo incidente ex art. 1440 cod. civ., che consente di reagire a comportamenti di mala fede del contraente forte, che abusi della propria posizione in presenza di un’anomalia di mercato, nel quale la relazione contrattuale di garanzia matura, e che egli stesso ha concorso a ingenerare e perpetuare.
Tutto ciò premesso – pur nella consapevolezza dell’estrema problematicità della scelta tra le diverse forme di tutela riconoscibili al cliente-fideiussore – deve ritenersi per le SSUU che, tra le tre diverse soluzioni individuate da dottrina e giurisprudenza, quella che perviene a risultati più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust sia la tesi che ravvisa nella fattispecie in esame un’ipotesi di «nullità parziale».
Al riguardo, chiosa il Collegio, va anzitutto osservato che non può reputarsi convincente il riferimento – operato dal Procuratore Generale – al fatto che i contratti tra l’impresa bancaria ed il cliente costituirebbero esercizio dell’autonomia privata dei contraenti, ex art. 1322 cod. civ., sicché «l’avere inserito all’interno del contratto alcune clausole estratte dal programma anticoncorrenziale non appare circostanza sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragion di essere e della sua validità». Né sembra in linea con la ratio della normativa antitrust, oltre che con la lettera dell’art. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990, l’ulteriore assunto del Procuratore Generale secondo cui l’impostazione ampliativa delle tutele finirebbe con l’introdurre «tutele reali atipiche con il fine esclusivo di garantire l’astratta correttezza dei contratti […] per affiancare al rimedio tipico (nullità dell’intesa) forme di nullità derivata atte a travolgere (in parte o per intero) i contratti a valle».
E’ del tutto evidente infatti per il Collegio che – se le parti ben possono determinare il «contenuto del contratto», ai sensi dell’art. 1322, primo comma, cod. civ. – esse sono, tuttavia, pur sempre tenute a farlo «nei limiti imposti dalla legge», da intendersi come l’ordinamento giuridico nel relativo complesso, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale (Cass. Sez. U., 24/09/2018, n. 22437).
Ebbene – prosegue la Corte – l’art. 41 Cost. prevede espressamente che l’iniziativa economica privata non debba svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana», e che essa debba essere comunque sottoposta a «programmi e controlli opportuni» che la indirizzino e la coordino a «fini sociali».
In tal senso si pone, del resto, la stessa norma antitrust succitata, la cui ratio è diretta per la Corte a realizzare un bilanciamento tra libertà di concorrenza e tutela delle situazioni giuridiche dei soggetti diversi dagli imprenditori.
Lo evidenzia, con estrema chiarezza, la sentenza delle stesse Sezioni Unite n. 2207/2005, nella parte in cui precisa che la legge antitrust «detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari, non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato», in particolare i consumatori, tenuto conto che il «contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale e realizzarne e ad attuarne gli effetti».
In tale prospettiva – come si è detto – la pronuncia legittima il destinatario ad esperire sia la tutela reale che quella risarcitoria.
Se tale è la ratio della predetta normativa, il tenore letterale dell’art. 2, comma 3, della legge n. 287 del 1990, poi, è a propria volta inequivoco nello stabilire che «le intese vietate sono nulle ad ogni effetto».
E’ del tutto evidente infatti per le SSUU che siffatta previsione – ed in particolare la locuzione «ad ogni effetto», riproduttiva, nella specifica materia, del principio generale secondo cui quod nullum est nullum producit effectum – legittima, come affermato da molti interpreti, la conclusione dell’invalidità anche dei contratti che realizzano l’intesa vietata, come – sia pure incidentalmente – affermano le stesse Sezioni Unite nella pronuncia summenzionata.
A fronte di tale inequivoca previsione di legge, pertanto, il riferimento del Procuratore Generale a «tutele reali atipiche» non può, pertanto, ritenersi convincente. Non a caso, chiosano ancora le SSUU, la totalità delle sentenze più recenti della Corte si è espressa – prendendo come riferimento proprio siffatto dato testuale – nel senso della nullità del contratto di fideiussione a valle, differenziandosi tali pronunce soltanto sulle conseguenze di detta nullità, ovverosia se essa debba essere totale o parziale.
Ma – in verità, rammenta la Corte – nel senso della invalidità di tale contratto si è posta, oltre alla giurisprudenza più recente, anche parte di quella meno recente, trovandosi affermato che la legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di nullità e di risarcimento del danno prevista dall’art. 33 della legge n. 287 del 1990, spetta non solo agli imprenditori, ma anche agli altri soggetti del mercato che abbiano interesse alla conservazione del relativo carattere competitivo e, quindi, anche al consumatore finale che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione tra gli imprenditori del settore, ancorché egli non sia partecipe del rapporto di concorrenza con gli autori della collusione.
E ciò tanto ove sia spiegata un’azione risarcitoria, quanto se sia promossa un’azione restitutoria ex art. 2033 cod. civ., poiché il soggetto che chiede la restituzione di ciò che ritiene di aver pagato per effetto di un’intesa nulla allega pur sempre quest’ultima, nonché l’impossibilità giuridica che essa produca effetti successivi (Cass., 13/07/2005, n. 14716; Cass., 21/01/2010, n. 993).
Se ne deve inferire per il Collegio che, anche per le decisioni citate, la nullità dell’intesa a monte si riverbera sul contratto stipulato a valle, che ne costituisce un conseguenziale effetto, tanto da legittimare anche un’azione di ripetizione di indebito fondata sulla nullità del contratto medesimo.
Sotto tutti i profili suesposti, pertanto, l’assunto secondo cui la sola tutela risarcitoria sarebbe ammissibile nella fattispecie oggetto di esame, con esclusione della «tutela reale», non può per le SSUU essere condiviso.
Va rilevato, invero, che la tesi secondo cui al consumatore sarebbe consentita la sola azione risarcitoria non convince, sia perché contraria a pressoché tutti i precedenti della Corte successivi alle Sezioni Unite n. 2207/2005, sia – e soprattutto – per ragioni inerenti alle specifiche finalità della normativa antitrust. Tuttavia, tale affermazione si riferisce – è bene ribadirlo – alla tesi più radicale, che esclude del tutto la tutela reale, ammettendo in via esclusiva quella risarcitoria, non potendo revocarsi in dubbio che – come, nella specie, ha correttamente ritenuto la Corte d’appello – tale forma di tutela è certamente ammissibile – come ha affermato la giurisprudenza unanime sul punto – ma non in via esclusiva, sebbene in uno all’azione di nullità.
Deve – per vero – osservarsi al riguardo, prosegue il Collegio, che l’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest’ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto.
Ed invero – come rilevato da autorevole dottrina – l’obbligo del risarcimento compensativo dei danni del singolo contraente non ha una efficacia dissuasiva significativa per le imprese che hanno aderito all’intesa, o che ne hanno – come nella specie – recepito le clausole illecite nello schema negoziale, dal momento che non tutti i danneggiati agiscono in giudizio, e non tutti riescono ad ottenere il risarcimento del danno.
Per converso, è evidente che il riconoscimento, alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale, oltre alla tutela risarcitoria, del diritto a far valere la nullità del contratto si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele, non nell’interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e della correttezza del mercato, posto a fondamento della normativa antitrust.
Né a diversa conclusione induce per la Corte l’esame del diritto eurounitario. Va osservato, infatti, che la decisione della Commissione CE n. 93/50 del 23 novembre 1992, al par. 33, ha previsto – con riferimento ad un’impresa comune ritenuta restrittiva della concorrenza – che «lo scioglimento del contratto di impresa comune garantirà l’autonomia commerciale delle parti. Tuttavia, i contratti con i clienti stipulati da BT nel quadro degli accordi di impresa comune continuano ad essere validi senza alcuna modificazione».
La stessa decisione subito precisa, però, che «ciò non significa che i contratti con i clienti rientrano anch’essi nel campo di applicazione dell’articolo 81, paragrafo 1, unicamente a causa dei loro collegamenti con gli accordi orizzontali restrittivi. Tuttavia, gli effetti restrittivi che questi contratti perpetuano potranno essere eliminati solo quando i clienti avranno acquisito il diritto di revisione. Di conseguenza, essi dovranno avere la facoltà di restare legati ai contratti conclusi con BT, di recedere da tali contratti o di rinegoziarne i termini».
Dal che si evince, del tutto chiaramente, che la nullità dell’intesa a monte (nella specie nella forma di un’impresa comune) non produce automaticamente la nullità dei contratti a valle, per violazione dell’art. 81 del Trattato, in quanto collegati all’accordo restrittivo della concorrenza. Ma ciò non implica che da tali contratti il consumatore non possa comunque sciogliersi, secondo le modalità previste dagli ordinamenti nazionali.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia è – a propria volta – inequivoca per il Collegio nel senso che la portata e le conseguenze della nullità delle intese, per violazione dell’art.101 (ex 81 Trattato CE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, non dipendono direttamente dal diritto unionale, ma devono essere individuate dai giudici nazionali in base al diritto di ciascuno Stato membro.
Si è, invero, statuito che – fermo restando il diritto al risarcimento del danno – la sorte dei contratti a valle di intese antitrust – che non vengono automaticamente travolti, in forza del diritto europeo, dalla nullità dell’intesa a monte – è riservata ai diritti nazionali (Corte Giustizia, 14/12/1983, C- 319/82, Societè de Vente de Cimentes; Trib., 21/01/1999, T- 190/96, Chrístophe Palma).
Se ne deve inferire per le SSUU che – fermo restando l’essenzialità, sul piano del diritto comunitario, del diritto del consumatore di far valere la nullità dell’intesa a monte e di chiedere il risarcimento dei danni subiti, come minimo comune denominatore in materia di tutela – la maggiore tutela del medesimo consumatore, in guisa da garantire la piena attuazione del diritto comunitario, è affidata ai giudice dello Stato di appartenenza.
In maniera ancora più puntuale, altre decisioni – dopo avere stabilito il diritto al risarcimento del danno derivante alla propria sfera giuridica da un’intesa anticoncorrenziale – ha stabilito che «l’art. 85 del Trattato di Roma costituisce, ai sensi dell’art. 3, lett. g), del Trattato CE […], una disposizione fondamentale indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per il funzionamento del mercato interno […] Del resto, l’importanza di una disposizione siffatta ha indotto gli autori del Trattato a prevedere espressamente, all’art. 85, n. 2, che gli accordi e le decisioni vietati in virtù di tale articolo sono nulli di pieno diritto».
Contestualmente si afferma che «tale nullità, che può essere fatta valere da chiunque, s’impone al giudice quando ricorrono i presupposti per l’applicazione dell’art. 85, n. 1, e l’accordo di cui trattasi non può giustificare la concessione di un’esenzione ai sensi dell’art. 85, n. 3, del Trattato […]. Posto che la nullità di cui all’art. 85, n. 2, è assoluta, l’accordo che ricada sotto questa disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e non può essere opposto ai terzi».
Ed inoltre, su di un piano più generale, si afferma, «spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza dell’effetto diretto del diritto comunitario, purché dette modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (cd principio di equivalenza) né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (cd. principio di effettività)» (cfr. Corte Giustizia. 10/07/1997, C-261/95, Palmisani; Corte Giustizia, 20/09/2001, C453/99, Courage Ltd v. Crehan; Corte Giustizia, 13/07/2006, da C295/04 a C- 298/04, Manfredi; Corte Giustizia, 14/06/2011, C360/09, Pfeiderer v. Bundemskartellant; Corte Giustizia 06/06/2013, C- 536/11 Donau Chemie, con riferimento al diritto di accesso agli atti ai fini della tutela piena del consumatore leso dalla violazione dell’art. 101 del Trattato UE).
Le succitate decisioni – riprendono le SSUU – confermano, in tal modo, che – fermo restando il principio cardine del diritto al risarcimento del danno subito per effetto della condotta anticoncorrenziale – la sede naturale per la regolamentazione della sorte dei contratti a valle è quella dell’ordinamento interno degli Stati membri, non essendovi nessuna lettura obbligata dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento della UE, che consenta di far rientrare – automaticamente – nella nozione di intesa vietata la contrattazione a valle.
E tuttavia, le medesime decisioni hanno cura di precisare – punto fondamentale, ai fini della problematica oggetto di giudizio – che la nullità di tale intesa è assoluta e che, pertanto, la stessa non può essere opposta ai terzi, tra essi ricomprese, quindi, le parti – estranee all’intesa – della contrattazione a valle della stessa.
Infine, la Direttiva Enforcement n. 104/2014/UE stabilisce che «a norma del principio di efficacia, gli Stati membri provvedono affinché tutte le norme e procedure nazionali relative all’esercizio del diritto di chiedere il risarcimento del danno siano concepite e applicate in modo da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto, conferito dall’Unione, al pieno risarcimento per il danno causato da una violazione del diritto della concorrenza. A norma del principio di equivalenza le norme e procedure nazionali relative alle azioni per il risarcimento del danno a seguito di violazioni dell’articolo 101 o 102 TFUE non devono essere meno favorevoli, per i presunti soggetti danneggiati, di quelle che disciplinano azioni simili per danni derivanti da violazioni del diritto nazionale» (art. 4).
Ed inoltre, la stessa Direttiva prevede che «gli Stati membri provvedono affinché, in conformità delle norme stabilite nel presente capo, il risarcimento del danno possa essere chiesto da chiunque lo abbia subito, indipendentemente dal fatto che si tratti di acquirenti diretti o indiretti dell’autore della violazione» (art. 12).
Se ne deve inferire che, sul piano del diritto unionale, il diritto al risarcimento del danno derivante dalla contrattazione a valle dell’intesa vietata a monte, costituisce il comune denominatore – per l’intero spazio europeo – e la forma di tutela di base da assicurare ai consumatori, ferma restando la competenza interna degli Stati nell’assicurare le misure per la più completa tutela delle situazioni soggettive garantite dal diritto comunitario.
Una volta esclusa la idoneità della sola tutela risarcitoria, disgiunta dalla tutela reale, a garantire la realizzazione delle finalità perseguite dalla normativa antitrust, deve ritenersi per il Collegio che la forma di tutela più adeguata allo scopo, ma che consente di assicurare anche il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda, segnatamente quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, espunte le clausole contrattuali illecite, sia la nullità parziale, limitata – appunto – a tali clausole.
Né va tralasciato il rilevo che la nullità parziale è idonea a salvaguardare il menzionato principio generale di «conservazione» del negozio.
Va osservato al riguardo, chiosa ancora significativamente il Collegio, che la regola dell’art. 1419, primo comma, c.c. – ignota al codice del 1865, come pure al code civil, provenendo dall’esperienza tedesca – insieme agli analoghi principi rinvenibili negli artt. 1420 e 1424 c.c., enuncia il concetto di nullità parziale ed esprime il generale favore dell’ordinamento per la «conservazione», in quanto possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorchè difformi dallo schema legale.
Da ciò si fa derivare – prosegue il Collegio – il carattere eccezionale dell’estensione della nullità che colpisce la parte o la clausola all’intero contratto, con la conseguenza che è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto.
La giurisprudenza ha osservato – in proposito – che la nullità della singola clausola contrattuale – o di alcune soltanto delle clausole del negozio – comporta la nullità dell’intero contratto ovvero all’opposto, per il principio «utile per inutile non vitiatur», la conservazione dello stesso in dipendenza della scindibilità del contenuto negoziale, il cui accertamento richiede, essenzialmente, la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all’eventualità del mancato inserimento di tale clausola, e, dunque, in funzione dell’interesse in concreto dalle stesse perseguito (Cass., 10/11/2014, n. 23950).
La nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende, pertanto, all’intero contratto, o a tutta la clausola, solo ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità (Cass., 05/02/2016, n. 2314).
Agli effetti dell’interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 1419 c.c., vige, infatti, la regola secondo cui la nullità parziale non si estende all’intero contenuto della disciplina negoziale, se permane l’utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto accertato dal giudice. Per converso, l’estensione all’intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce eccezione che deve essere provata dalla parte interessata (Cass. 21/05/2007, n. 11673).
E tuttavia, tale ultima evenienza è per la Corte di ben difficile riscontro nel caso all’esame. Invero, avuto riguardo alla posizione del garante, la riproduzione nelle fideiussioni delle clausole nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI ha certamente prodotto l’effetto di rendere la disciplina più gravosa per il medesimo, imponendogli maggiori obblighi senza riconoscergli alcun corrispondente diritto; sicché la loro eliminazione ne alleggerirebbe la posizione.
D’altro canto, però, il fideiussore (nel caso di specie socio della società debitrice principale) – salvo la rigorosa allegazione e prova del contrario – avrebbe in ogni caso prestato la garanzia, anche senza le clausole predette, essendo una persona legata al debitore principale e, quindi, portatrice di un interesse economico al finanziamento bancario.
Osserva – al riguardo – il provvedimento n. 55/2005 che il fideiussore è normalmente cointeressato, in qualità di socio d’affari o di parente del debitore, alla concessione del finanziamento a favore di quest’ultimo e, quindi, ha un interesse concreto e diretto alla prestazione della garanzia. Al contempo, è del tutto evidente che anche l’imprenditore bancario ha interesse al mantenimento della garanzia, anche espunte le suddette clausole a lui favorevoli, attesa che l’alternativa sarebbe quella dell’assenza completa della fideiussione, con minore garanzia dei propri crediti.
La nullità dell’intesa a monte determina, dunque, la «nullità derivata» del contratto di fideiussione a valle, ma limitatamente alle clausole che costituiscono pedissequa applicazione degli articoli dello schema ABI, dichiarati nulli dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 (nn. 2, 6 e 8) che, peraltro, ha espressamente fatto salve le altre clausole.
Occorre muovere per la Corte – in tale prospettiva – dal rilievo che la disciplina dettata dall’art. 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 ha per oggetto la protezione, in via immediata, dell’interesse generale alla libertà della concorrenza sancito – come si è detto – dall’art. 41 Cost., nonché, in ambito comunitario, dal Trattato di Maastricht del 1992 e – attualmente – dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (artt. 3 e 101).
Ai sensi di tale normativa antitrust, qualsiasi fattispecie distorsiva della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, anche – come nel caso di specie – mediante una combinazione di atti di natura diversa, costituisce comportamento rilevante ai fini del riscontro della violazione della normativa in parola. In altri termini, il legislatore sia comunitario che nazionale – quest’ultimo adeguatosi al primo, in forza del disposto dell’art. 117, primo comma, Cost. – ha inteso impedire un «risultato economico», ossia l’alterazione del libero gioco della concorrenza, a favore di tutti i soggetti del mercato ed in qualsiasi forma l’intesa anticoncorrenziale venga posta in essere.
Per tale ragione, i contratti a valle di accordi contrari alla normativa antitrust – in quanto costituenti «lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti» (Cass. Sez. U., n. 2207/2005) – partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell’atto a monte, e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi.
Il legislatore nazionale ed europeo – infatti – intendendo sanzionare con la nullità un «risultato economico», ossia il fatto stesso della distorsione della concorrenza, ha dato rilievo per il Collegio anche a comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali». In tale prospettiva, si rende perciò rilevante qualsiasi forma di condotta di mercato, anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale, ed anche laddove il meccanismo di «intesa» rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente «unilaterali».
Da ciò consegue – come ha rilevato da tempo la giurisprudenza della Corte – che, allorché l’articolo 2 della legge n. 287 del 1990 stabilisce la nullità delle «intese», «non ha inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza» (Cass., n. 827/1999).
Il che equivale a dire per il Collegio che anche la combinazione di più atti, sia pure di natura diversa, può dare luogo, in tutto o in parte, ad una violazione della normativa antitrust, qualora tra gli atti stessi sussista un «collegamento funzionale» – non certo un «collegamento negoziale», come opina parte della dottrina, attesa la vista possibilità che l’«intesa» a monte possa essere posta in essere, come nella specie, anche mediante atti che non rivestono siffatta natura – tale da concretare un meccanismo di violazione della normativa nazionale ed eurounitaria antitrust.
In altri termini, detta violazione è riscontrabile in ogni caso in cui tra atto a monte e contratto a valle sussista un nesso che faccia apparire la connessione tra i due atti «funzionale» a produrre un effetto anticoncorrenziale.
La funzionalità in parola si riscontra con evidenza per il Collegio quando il contratto a valle (nella specie una fideiussione) sia interamente o parzialmente riproduttivo dell’«intesa» a monte, dichiarata nulla dall’autorità amministrativa di vigilanza, ossia quando l’atto negoziale sia di per sé stesso un mezzo per violare la normativa antitrust, ovvero quando riproduca – come nel caso concreto – solo una parte del contenuto dell’atto anticoncorrenziale che lo precede, in tal modo venendo a costituire lo strumento di attuazione dell’intesa anticoncorrenziale.
Non è certo la deroga isolata – nei singoli contratti tra una banca ed un cliente – all’archetipo codicistico della fideiussione, ed in particolare agli artt. 1939, 1941 e 1957 cod. civ., a poter, invero, determinare problemi di sorta, come è ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, in termini di effetto anticoncorrenziale.
E’, invece, il predetto «nesso funzionale» tra l’«intesa» a monte ed il contratto a valle, emergente dal contenuto di tale ultimo atto che – in violazione dell’art. 1322 cod. civ. – riproduca quello del primo, dichiarato nullo dall’autorità di vigilanza, a creare il meccanismo distorsivo della concorrenza vietato dall’ordinamento.
In siffatta ipotesi, chiosa ancora la Corte, la nullità dell’atto a monte è – per vero – veicolata nell’atto a valle per effetto della riproduzione in esso del contenuto del primo atto. E ciò è tanto più evidente quando – come nella specie, rammenta la Corte – le menzionate deroghe all’archetipo codicistico vengano reiteratamente proposte in più contratti, così determinando un potenziale abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili sul mercato. La serialità della riproduzione dello schema adottato a monte – nel caso concreto dall’ABI – viene, difatti, a connotare negativamente la condotta degli istituti di credito, erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato.
Sotto tale profilo, prosegue la Corte, è del tutto palese che la previsione di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 287 del 1990, laddove stabilisce che «le intese vietate sono nulle ad ogni effetto», costituisce una chiara applicazione del diritto eurounitario, il quale – come statuito dalla citata giurisprudenza europea – afferma che la nullità (sancita, dapprima dall’art. 85, n. 2 del Trattato di Roma, dipoi dall’art. 81 del Trattato CE, infine dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) è assoluta, e che l’accordo che ricada sotto questa disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e «non può essere opposto ai terzi». Si tratta, invero, proprio di quella nullità «ad ogni effetto» che sancisce la norma nazionale succitata, e che si riverbera sui contratti stipulati a valle dell’intesa vietata anche con soggetti terzi, estranei all’atto a monte, ma ai quali tale atto non è comunque opponibile.
Si è, pertanto evidentemente in presenza – chiosano ancora le SSUU – di una «nullità speciale», posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 – a presidio di un interesse pubblico e, in specie, dell’«ordine pubblico economico»; dunque «nullità ulteriore a quelle che il sistema già conosceva» (Cass., n. 827/1999).
In tal senso depone la considerazione che siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 cod. civ.) e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento – come la «nullità di protezione» nei contratti del consumatore (cd. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (cd. terzo contratto) – in quanto colpisce anche atti, o combinazioni di atti avvinti da un «nesso funzionale», non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale.
La ratio di tale speciale regime – come detto – è da ravvisarsi nell’esigenza di salvaguardia dell’«ordine pubblico economico», a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed europee antitrust.
Lo stretto collegamento tra normativa anticoncorrenziale ed ordine pubblico economico, anche nelle ipotesi in cui – come nell’ordinamento italiano – l’istituto in parola non trovi una specifica previsione di diritto positivo, è – del resto – ben noto al diritto comunitario.
Al riguardo, rammenta la Corte, si è – per vero – statuito che, nei limiti in cui un giudice nazionale deve, in base alle proprie norme di diritto processuale nazionale, accogliere un’impugnazione giurisdizionale (nella specie per nullità di un lodo arbitrale), che sia fondata sulla violazione delle norme nazionali di ordine pubblico, esso deve ugualmente accogliere una domanda siffatta se ritiene – a prescindere dalla normativa nazionale che non contempli l’istituto dell’ordine pubblico economico – che tale lodo sia contrario all’art. 85 del Trattato (divenuto art. 81 CE).
Si afferma infatti, al riguardo, che, da un lato, questo articolo costituisce una disposizione fondamentale indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per il funzionamento del mercato interno e, dall’altro, che il diritto comunitario esige che questioni relative all’interpretazione del divieto sancito da tale articolo (poi trasfuso nell’attuale art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) possano essere esaminate dai giudici nazionali chiamati a pronunciarsi su di una qualsiasi impugnazione – anche se proposta in relazione alla validità di un lodo arbitrale – e possano essere oggetto, all’occorrenza, di un rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte (Corte Giustizia, 01/06/1999, C- 126/97, Eco Swiss China Time Ltd).
D’altro canto, riprendono le SSUU, anche la giurisprudenza nazionale ha applicato – sia pure con riferimento a materie diverse da quella in esame – l’istituto dell’«ordine pubblico economico», astraendo da disposizioni imperative dettate a tutela della correttezza e della trasparenza del mercato, con particolare riferimento a fattispecie negoziali poste in essere da un’impresa in stato di conclamato dissesto, aggravato da operazioni dilatorie dirette esclusivamente a ritardare la dichiarazione di fallimento, con grave pregiudizio per altre imprese operanti nel mercato nello stesso settore o in settori contigui (cfr. Cass., 05/08/2020, n. 16706).
E tuttavia, precisa ancora la Corte, nei casi – come quello oggetto del presente giudizio – in cui dello schema dichiarato nullo dalla Banca d’Italia, vengano riprodotte solo le tre clausole succitate, il menzionato «principio di conservazione» degli atti negoziali, costituente nell’ordinamento la «regola», impone di considerare nulli i contratti di fideiussione a valle solo limitatamente alle clausole riproduttive dello schema illecito a monte, poiché adottato in violazione della normativa – nazionale ed eurounitaria – antitrust, a meno che non risulti comprovata agli atti una diversa volontà delle partì, nel senso dell’essenzialità – per l’assetto di interessi divisato – della parte del contratto colpita da nullità.
Va, per contro, esclusa – per diversi ordini di ragioni, precisano le SSUU – la nullità totale del contratto a valle, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio.
Ed invero, anche a prescindere dalle critiche mosse a siffatta impostazione – sotto i diversi profili della inconfigurabilità di un collegamento negoziale tra intesa e fideiussione, della non ravvisabilità di un vizio della causa o dell’oggetto, ecc.) -, è proprio la finalità perseguita dalla normativa antitrust di cui alla legge n. 287 del 1990 e dall’art. 101 del Trattato succitato ad escludere l’adeguatezza del rimedio in questione.
E’ di tutta evidenza, infatti, che – stante la finalizzazione di tale normativa ad elidere attività e comportamenti restrittivi della libera concorrenza – i contratti a valle sono integralmente nulli – come rilevato da autorevole dottrina – esclusivamente quando la loro stessa conclusione restringe la concorrenza, come nel caso di una intesa di spartizione, riprodotta integralmente nel contratto a valle.
Quest’ultimo è, invece, nullo solo in parte qua, laddove esso riproduca le clausole dell’intesa a monte dichiarate nulle dall’organo di vigilanza, e che sono le sole ad avere – in concreto – una valenza restrittiva della concorrenza, come nel caso dello schema ABI per cui è causa. Tutte le altre clausole, coerenti con lo schema tipico del contratto di fideiussione, restano invece – come nel caso concreto ha affermato il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005 – pienamente valide.
Le clausole del contratto di fideiussione a valle che riproducano quelle nulle dell’intesa a monte (nn. 2, 6 e 8) vengono, invero, a recepire – nel contenuto del negozio – le determinazioni di un’associazione di imprese, l’ABI, che – in quanto costituiscono elemento di valutazione e di riferimento per le scelte delle singole associate – possono contribuire a coordinare il comportamento di imprese concorrenti, falsando – il tal guisa – il gioco della libera concorrenza.
Ed è per questo, chiosa ancora la Corte che, esclusivamente sotto tale profilo, la Banca d’Italia ha osservato che «la restrizione della concorrenza derivante da una siffatta intesa risulterebbe significativa nel mercato rilevante, atteso l’elevato numero di banche associate all’ABI», e, di conseguenza, ha dichiarato la nullità dei soli articoli nn. 2, 6 e 8 dell’intesa a monte.
Per converso, tutte le altre clausole del contratto di fideiussione – in quanto finalizzate, attraverso l’obbligazione di garanzia assunta dal fideiussore, ad agevolare l’accesso al credito bancario – sono immuni da rilievi di invalidità, come ha stabilito la Banca d’Italia nel citato provvedimento, nel quale ha espressamente fatte salve tutte le altre clausole dell’intesa ABI.
La conclusione cui è pervenuto, nel caso di specie, l’organo di vigilanza, è – del resto – pienamente conforme per le SSUU a quanto la Corte di Giustizia ha da tempo affermato in materia. Fin da tempi non recenti, infatti, la ridetta Corte ha stabilito che la sanzione della nullità si applica alle sole clausole dell’accordo o della decisione colpite dal divieto, a meno che dette clausole risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione stessi, nel qual caso soltanto essi saranno travolti integralmente (Corte Giustizia, 30/06/1966, C- 56/65, LTM; Corte Giustizia, 01/09/2008, C- 279/06, CEPSA).
Di conseguenza, alla nullità parziale dell’accordo o della deliberazione a monte corrisponde – per le ragioni suesposte – la nullità parziale del contratto di fideiussione a valle che ne riproduca le previsioni colpite da tale forma di invalidità, e limitatamente alle clausole riproduttive di dette previsioni, salvo che la parte affetta da nullità risulti essenziale per i contraenti, che non avrebbero concluso il contratto «senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità», secondo quanto prevede – in piena conformità con le affermazioni della giurisprudenza europea, riferite alla normativa comunitaria – il diritto nazionale (art. 1419, primo comma, cod. civ.).
E sempre che di tale essenzialità la parte interessata all’estensione della nullità fornisca adeguata dimostrazione. Evenienza questa, rammenta la Corte, di ben difficile riscontro nel caso di specie, per le ragioni in precedenza esposte.
Orbene, nella fattispecie in esame, chiosano le SSUU, la Corte d’appello ha accertato – con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità – che le clausole contenute nelle fideiussioni in questione erano del tutto coincidenti con le clausole nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI, facendo applicazione del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui la produzione del provvedimento dell’Autorità Garante costituisce prova privilegiata della condotta anticoncorrenziale, a prescindere dal fatto che siano state irrogate, o meno, sanzioni pecuniarie agli autori della violazione.
Si è, invero, affermato – al riguardo – che in tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2 della I. n. 287 del 1990, e con particolare riguardo alle clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento della Banca d’Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche apportate dall’art. 19, comma 11, della I. n. 262 del 2005, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale, indipendentemente dalle misure sanzionatorie che siano – eventualmente – in esso pronunciate.
Il giudice del merito è. quindi. tenuto, per un verso, ad apprezzarne il contenuto complessivo, senza poter limitare il proprio esame a parti isolate di esso, e, per altro verso, a valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva, non potendo attribuire rilievo decisivo all’attuazione o meno della prescrizione contenuta nel menzionato provvedimento, con cui è stato imposto all’ABI di estromettere le clausole vietate dallo schema contrattuale diffuso presso il sistema bancario (Cass., 22/05/2019, n. 13846).
La Corte territoriale ha, quindi, correttamente dichiarato la «nullità, per violazione dell’art. 2, comma 1, lett. a) I. 287/1990 degli articoli 2, 6 e 8 dei contrati di fideiussione per cui è causa», lasciando in vita tutte le altre clausole negoziali.
Dalla ritenuta nullità parziale del contratto di fideiussione a valle dell’intesa vietata – nella specie diretta a falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, mediante un’attività consistente nel fissare direttamente talune «condizioni contrattuali» – discende per le SSUU una serie di conseguenze sul piano sostanziale e processuale.
Da siffatta opzione interpretativa deriva, anzitutto, che le fideiussioni per cui è causa restano pienamente valide ed efficaci, sebbene depurate dalle sole clausole riproduttive di quelle dichiarate nulle dalla Banca d’Italia, poiché anticoncorrenziali, in conformità a quanto stabilito dall’art. 1419 cod. civ., nonché dalle affermazioni della giurisprudenza europea succitate.
Ne discende poi, chiosa ancora la Corte, la rilevabilità d’ufficio di tale nullità da parte del giudice, nei limiti stabiliti dalla giurisprudenza della Corte medesima a presidio del principio processuale della domanda (artt. 99 e 112 cod. proc. civ.).
Si è – per vero – stabilito, al riguardo, che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la pertinente nullità solo parziale. E tuttavia, qualora le parti, all’esito di tale indicazione officiosa, omettano un’espressa istanza di accertamento in tal senso, deve rigettare l’originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo (Cass. Sez. U., 12/12/2014, nn. 26242 e 26243; Cass., 18/06/2018, n. 16501).
La fattispecie oggetto del presente giudizio è, peraltro, del tutto conforme a tali principi, avendo il B. proposto domanda subordinata di nullità parziale delle fideiussioni per cui è causa.
Alla qualificazione di nullità parziale della fideiussione consegue, inoltre, l’imprescrittibilità dell’azione di nullità (Cass. 15/11/2010, n. 23057) e la proponibilità della domanda di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ., ricorrendone i relativi presupposti (Cass. 08/11/2005, n. 21647), nonché dell’azione di risarcimento dei danni.
Da tutto quanto suesposto discende dunque per la Corte, con riferimento al caso concreto, la nullità parziale delle fideiussioni stipulate dal B. con la banca, ossia limitatamente alle clausole nn. 2, 6 e 8, come correttamente ritenuto dalla Corte d’appello, con conseguente rigetto del primo e secondo motivo di ricorso, restando assorbite le questioni – contenute nei motivi terzo e quarto – concernenti la natura delle fideiussioni a valle e la derogabilità della norma di cui all’art. 1957 cod. civ.
E’ del tutto evidente, infatti, che la nullità speciale delle clausole in questione discende dalla loro natura – in quanto attuative dell’intesa a monte vietata – di disposizioni restrittive, in concreto, della libera concorrenza, e non certo dalla effettuata deroga alle norme codicistiche in tema di fideiussione.
Le SSUU concludono dunque affermando il principio di diritto onde i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge succitata e dell’art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti.
2022
Il 31 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.2855 alla cui stregua il piano di rientro concordato tra la banca ed il cliente (su iniziativa di quest’ultimo), avente natura meramente ricognitiva del debito, non preclude la contestazione da parte del cliente medesimo alla banca della nullità (eventualmente anche parziale) delle clausole negoziali preesistenti e non esonera pertanto la banca, attrice in giudizio per il pagamento del saldo, dal documentare le condizioni convenute nel contratto di conto corrente, che è soggetto alla forma scritta ad substantiam a norma dell’art. 117 t.u.b.
Il Collegio rammenta in proposito come secondo la propria giurisprudenza, in tema di conto corrente bancario, il piano di rientro concordato tra la banca ed il cliente, ove abbia natura meramente ricognitiva del debito (da parte del cliente medesimo), non ne determina l’estinzione, né lo sostituisce con nuove obbligazioni, sicché resta valida ed efficace la successiva contestazione – sempre da parte del cliente – della nullità delle clausole negoziali preesistenti (Cass. 19 settembre 2014, n. 19792).
Consistendo in una dichiarazione unilaterale recettizia che non integra una fonte autonoma di obbligazione, avendo piuttosto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, la ricognizione di debito non può poi supplire alla mancata documentazione della pattuizione, soggetta alla forma scritta ad substantiam, da cui tragga origine il detto rapporto.
Il principio – rammenta il Collegio – è stato affermato in più occasioni con riguardo al tema degli interessi ultralegali: si è detto, al riguardo, che per la costituzione dell’obbligo di pagare interessi in misura superiore a quella legale è necessaria la forma scritta ad substantiam e che perciò è a tal fine inidonea una ricognizione del debito, atto successivo alla costituzione di detto obbligo (Cass. 20 ottobre 2003, n. 15643; Cass. 14 gennaio 1997, n. 280; Cass. 16 marzo 1987, n. 2690).
Alla stessa conclusione, chiosa a questo punto la Corte, deve pervenirsi con riguardo alle altre pattuizioni, regolanti le condizioni praticate al cliente, contenute nei contratti bancari: i quali, a norma dell’art. 117 t.u.b., devono essere redatti per iscritto (comma 1), a pena di nullità (comma 3).
La Corte di merito non avrebbe potuto conseguentemente accogliere, nel caso di specie, la domanda riconvenzionale della banca sulla scorta del nominato piano di rientro: a fronte della deduzione attorea, da essa stessa richiamata, secondo cui ricorreva «l’inesistenza del contratto scritto» e a fronte, altresì, della contestazione, da parte della correntista e dei garanti, dell’ «applicazione di condizioni non contrattualizzate», essa avrebbe dovuto piuttosto per il Collegio verificare se nella fattispecie si ravvisasse o meno una nullità del contratto per vizio di forma (per una fattispecie analoga, in materia peraltro diversa, cfr. Cass. 13 giugno 2014, n. 13506).
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Il 13 gennaio esce la sentenza del Tribunale di Bologna, sezione impresa, n.64 alla cui stregua le clausole di reviviscenza, di rinuncia ai termini e di sopravvivenza, se inserite in fideiussioni specifiche, sono di per sé legittime e non appaiono lesive della libertà contrattuale del fideiussore.
Il Collegio, che ha deliberato prima delle SSUU del 2021, non ne contraddice le tesi, con particolare riferimento alla nullità parziale dei contratti di fideiussione omnibus conformi allo schema ABI del 2003 , escludendone nondimeno l’applicazione nella diversa ipotesi di fideiussione “specifica”, in quanto posta a garanzia di una determinata operazione bancaria, come si desume nel caso di specie dal contenuto del contratto ove si legge che gli attori intendono costituirsi fideiussori “a garanzia dell’adempimento di tutte le obbligazioni assunte, nei confronti di codesta banca, in dipendenza del seguente rapporto …”.
Per il Tribunale, in particolare, la fideiussione omnibus ha una funzione ben diversa da quella della fideiussione prestata a garanzia di uno specifico credito (c.d. fideiussione civile), palesandosi rivolta a tutelare il credito bancario come attività di concessione di finanziamenti in via professionale e sistematica agli operatori commerciali.
Proprio tenendo conto di questa peculiare funzione di garanzia del credito bancario tipica della fideiussione “omnibus”, la Banca d’Italia, nel provvedimento n. 55/2005, ha assunto come le clausole di reviviscenza, di rinuncia ai termini e di sopravvivenza (rispettivamente di cui agli artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI) – pur di per sé lecite – possono determinare effetti anticoncorrenziali con conseguenze sfavorevoli nei confronti della clientela laddove inserite sistematicamente nei contratti di fideiussione (appunto) omnibus, effetti (anticoncorrenziali) da cui discende la dichiarazione di nullità delle relative clausole.
Tale nullità è stata dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 41994/2021 definitivamente estesa anche ai contratti di fideiussione a valle stipulati tra la banca ed i singoli clienti, con ricostruzione che nondimeno, secondo il Collegio non è applicabile tout court alle fideiussioni “specifiche”, non essendo sufficiente ai fini della dichiarazione di nullità delle singole clausole la mera corrispondenza allo schema ABI ed essendo in conseguenza onere dell’attore provare che lo schema utilizzato per il contratto di fideiussione specifica, da lui sottoscritta, corrisponde ad una pratica uniforme frutto anch’essa di intese anticoncorrenziali.
Questioni intriganti
Cosa si intende per nullità parziale “oggettiva” e che problemi pone?
- il concetto di nullità “parziale”, normalmente riferito ad un contratto ma estendibile agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale in forza dell’art.1324 c.c., presenta una prima declinazione tipicamente oggettiva;
- in sostanza, affiora come nulla una parte soltanto del contenuto negoziale, ponendo la questione se tale nullità solo “parziale”, per l’appunto, affetti l’intero negozio;
- ciò accade solo, ex art.1419 c.c. (comma 1), laddove risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte “essenziale” del contenuto colpita dalla ridetta nullità;
- si tratta di una manifestazione del più generale principio di conservazione degli atti giuridici che, a propria volta, finisce col palesare una particolare inclinazione del Legislatore del codice per l’autonomia negoziale privata; non a caso, la giurisprudenza tende ad applicare analogicamente la medesima disciplina, oltre che ai contratti nulli, anche a quelli meramente annullabili;
- la regola generale è dunque quella della conservazione degli effetti del negozio coinvolto da una nullità pro quota, che di massima impone la perdurante e diuturna efficacia per la pertinente porzione valida (vitiatur, sed non vitiat);
- solo in via eccezionale, all’opposto, la patologia negoziale produce ricadute tali da travolgere, sul crinale effettuale, l’intero negozio; ciò accade – sulla scorta di un dato oggettivo, ma con radici, almeno prima facie, in qualche modo “psicologiche” – se risulta che i contraenti (e dunque i protagonisti del negozio considerato) non lo avrebbero concluso senza quella parte del relativo contenuto che è rimasta colpita da nullità; in altri termini, la clausola nulla travolge l’intero negozio (vitiatur et vitiat) quando per i contraenti può assumersi appunto “essenziale”, di talché un negozio non vi sarebbe neppure stato senza di essa;
- la dottrina propone a questo proposito due distinte tesi: g.1) tutto va rapportato alla volontà dei contraenti ed al pertinente, ipotetico (ma concreto) intento al momento in cui hanno concluso il contratto; ex ante dunque, e non già ex post, anche al fine di scoraggiare possibili strumentalizzazioni di una parte a danno dell’altra laddove solo una di esse si palesi alfine interessata a lasciare in piedi, mutandone parzialmente i contenuti, il vincolo negoziale (tesi “soggettiva”, ormai recessiva); 2) occorre scongiurare di dover ricorrere a complesse ricerche di tipo psicologico, l’indagine sulla essenzialità della clausola dovendo piuttosto incentrarsi – attraverso lo strumento della buona fede – sulla verifica di compatibilità tra l’(eventuale) efficacia della parte valida di restante disciplina e l’assetto sostanziale dei rispettivi interessi delle parti siccome ab origine divisato; ciò in quanto la “contrazione” del regolamento negoziale rispetto alle primigenie intenzioni delle parti, queste ultime siccome parametrate agli interessi di ciascuna di esse, potrebbe recare seco uno squilibrio tale da danneggiare una ed avvantaggiare l’altra, unica circostanza che si profilerebbe realmente da scongiurare (tesi “oggettiva”, ormai prevalente);
- da ricordare come anche in caso di collegamento negoziale, secondo parte della giurisprudenza, è possibile che il vizio che affetta un negozio trasferisca i propri effetti vizianti sull’altro ad esso collegato, con il conseguente travolgimento dell’intera operazione negoziale, ovvero di una porzione di essa; è quanto avvenuto a partire da una sentenza delle SSUU del 2005 nelle fattispecie di intesa restrittiva della concorrenza (contratto “a monte”) e di successivi contratti stipulati (“a valle”) tra le imprese partecipanti al cartello (nel caso di specie, una compagnia di assicurazione) ed i relativi clienti “consumatori” (che, nel caso di specie, abbiano denunciato il pagamento di un premio eccessivo rispetto a quello che avrebbero pagato se il cartello non vi fosse stato); le SSUU del 2021 riscontrano poi una violazione della normativa interna e sovranazionale antitrust in ogni caso in cui tra atto a monte (intercorrente tra soggetti imprenditoriali) e contratto a valle (intercorrente tra imprenditori e consumatori) sussista un nesso che faccia apparire la connessione tra i due atti siccome «funzionale» a produrre un effetto anticoncorrenziale, circostanza che si presenta massime in caso di serialità della riproduzione dello schema – illecito dal punto di vista concorrenziale – adottato a monte, che finisce col connotare negativamente la condotta degli imprenditori coinvolti (ad esempio, gli istituti di credito con riguardo ai “modelli antitrust” di fideiussione), così erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e incidendo negativamente, con effetti palmarmente distorsivi, sul mercato di riferimento; si tratta di uno speciale regime di nullità la cui ratio va ravvisata nell’esigenza di salvaguardia dell’«ordine pubblico economico», a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed europee antitrust.
Cosa occorre rammentare, in particolare, del meccanismo di “sostituzione automatica” delle clausole nulle?
- allorché singole clausole siano nulle, la nullità dell’intero contratto, ai sensi dell’art.1419, comma 2, è esclusa anche quando talune norme imperative le “sostituiscono di diritto”;
- in questo caso, il mantenimento dell’assetto di interessi siccome originariamente (e concretamente) divisato dalle parti – seppure “riveduto e corretto” ex lege – viene imposto in via autoritativa dal Legislatore, con evidente compressione dell’autonomia privata, nessuna delle parti potendo ottenere dunque il travolgimento dell’intero negozio sul crinale effettuale;
- l’art.1419, comma 2, c.c. compendia una disposizione che va coordinata con il precedente art.1339 c.c., alla cui stregua determinate clausole (in particolare quelle che prevedono i prezzi di determinati beni o servizi), essendo “imposte” dalla legge, si inseriscono automaticamente nel contratto, il cui contenuto viene dunque modificato e/o integrato in via del pari eteronoma; si tratta – secondo l’opzione ermeneutica più accreditata – di due norme complementari, che dunque non si pongono tra loro in antitesi né si sovrappongono l’una all’altra, onde: c.1) l’art.1339 c.c. svolge la funzione di norma generale che indica quando si verifica la sostituzione automatica; c.2) l’art.1419 c.c., presupponendo l’art.1339 c.c., disciplina la nullità parziale, in qualche modo “recependo” il meccanismo di inserzione automatica “sostitutiva” e disciplinandone gli effetti allorché, per l’appunto, si sia al cospetto di una nullità parziale che coinvolge clausole “sostituibili”;
- la sostituzione automatica, secondo la costante giurisprudenza, scatta anche in presenza di nullità “virtuali” (e non già letterali), laddove il negozio concluso dalle parti risulti violativo di norme imperative e sia previsto da altra disposizione di legge (per l’appunto, imperativa) il regime applicabile in via sostitutiva: è il caso dell’art.18 della legge 765.67 in materia di aree di parcheggio e di impossibilità per l’alienante o per il locatore di escluderne il trasferimento, rispettivamente, all’acquirente o al conduttore all’atto della stipula dei rispettivi contratti;
- la problematica della nullità parziale oggettiva, siccome avvinta alla “sostituzione automatica di clausole” interessa anche il diritto amministrativo e, in particolare, il settore delle gare pubbliche, sul crinale specifico della eventuale nullità (se del caso, per contraddizione con lo stesso diritto europeo) di talune clausole previste all’interno di bandi e capitolati, e della possibile eterointegrazione di questi; una eterointegrazione di norma ammessa dalla giurisprudenza (a partire dal 2003) solo in caso di “lacune” presenti nel pertinente atto generale, e non anche di frizioni con la legge le quali ultime – implicando una annullabilità del bando in parte qua – impongono a rigore un tempestivo ricorso demolitorio innanzi al GA.
Cosa si intende per nullità parziale “soggettiva” e che problemi pone?
- si è al cospetto della declinazione soggettiva, ratione materiae, epifanica di un più generale principio siccome supra rammentato, ovvero quello di conservazione degli atti giuridici;
- la norma di riferimento è l’art.1420 c.c., che afferisce ai contratti plurilaterali, e dunque con più di 2 parti (almeno 3), in cui le prestazioni di ciascuna delle ridette parti sono dirette al conseguimento di uno scopo comune; già sul concetto di contratto plurilaterale, nondimeno, la dottrina è divisa: b.1) secondo una prima tesi, è plurilaterale il contratto con pluralità di parti e con perseguimento di uno scopo comune, onde possono essere plurilaterali i soli contratti associativi (ai quali si applica certamente l’art.1420 c.c.); b.2) stando ad una seconda opzione ermeneutica, per aversi contratto plurilaterale è sufficiente la mera pluralità di parti, onde possono aversi tanto contratti plurilaterali associativi (ai quali si applica certamente l’art.1420 c.c.) quanto contratti plurilaterali (reciprocamente) commutativi o comunque non associativi, come nel caso della cessione del contratto o della divisione (ai quali potrebbe dunque non applicarsi l’art.1420 c.c.);
- nelle fattispecie di contratto plurilaterale associativo, la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle ridette parti non importa la nullità dell’intero contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale;
- quando dunque si applica l’art.1420 c.c., in caso di parte contraente c.d. “inessenziale”, il contratto stesso può continuare a produrre i propri effetti anche in assenza del vincolo (e della connessa prestazione) coinvolgente tale parte, onde è da assumersi che le altre parti contraenti avrebbero comunque concluso il ridetto contratto; in questa fattispecie, la nullità soggettiva afferente al solo vincolo che astringe la parte inessenziale non travolge l’intero contratto (vitiatur se non vitiat);
- proprio per questo motivo la giurisprudenza dominante tende ad affermare l’applicabilità dell’art.1420 c.c. ai soli contratti con comunione di scopo, laddove il venir meno di uno dei contraenti (“associati, “soci”) può non rilevare ai fini della persistente validità ed operatività del contratto associativo sottostante, siccome coinvolgente molteplici altre parti la cui partecipazione si riveli pienamente valida.
Quali problemi pone la c.d. nullità parziale sopravvenuta?
- occorre muovere da un contratto che non abbia ancora esaurito i propri effetti e, dunque, ad esecuzione continuata, periodica o comunque differita, con esclusione di tutte quelle figure contrattuali che abbiano già esaurito i propri effetti, senza possibilità di essere incise da sopravvenienze (spiccano all’uopo, massime, i contratti ad effetti istantanei);
- durante il corso di operatività effettuale di un contratto “diacronicamente connotato”, può intervenire una nuova legge a dettarne, in senso modificativo, il regime; ne consegue la necessità di capire in che termini possa operare tale eventuale ius superveniens;
- secondo l’impostazione dottrinale più aderente alla tradizione giuridica, occorre muovere dalla natura originaria del vizio (strutturale) dal quale discende la nullità del negozio che ne sia affetto; in forza di tale postulato, ne discende che l’autonomia privata dispiegatasi validamente al momento in cui il negozio de quo è stato posto in essere, non può trovare una successiva incisione ex lege in termini di pertinente invalidità “a posteriori”; se dunque potrebbe parlarsi di inefficacia (ex nunc), non potrebbe al contrario discorrersi di nullità sopravvenuta con effetti retroattivi (ex tunc);
- negli ultimi lustri, la questione si è posta in particolare: d.1) per le ipotesi di mutuo valido ab origine, ma affetto da usura sopravvenuta; se in un primo momento la giurisprudenza si è orientata nel senso della nullità della clausola prevedente interessi “sopravvenuti usurari”, in seguito essa ha mutato orientamento escludendo la nullità sopravvenuta ridetta e parlando, piuttosto, di inefficacia sopravvenuta; d.2) per le fattispecie di fideiussione omnibus futura priva di importo massimo garantito, valida ab origine ma poi affetta da potenziale invalidità sopravvenuta a seguito dell’introduzione ex lege dell’obbligatorietà di tale “massimo garantito”; se in un primo momento la giurisprudenza si è orientata nel senso della mera inefficacia sopravvenuta (ferma dunque la validità dell’originario contratto), ha poi cambiato idea orientandosi nel senso della nullità sopravvenuta, massime in caso di violazione “parziale” dell’ordine economico con effetti anticoncorrenziali, da contemperarsi con il più generale principio di conservazione del negozio e con la necessità di scongiurare il travolgimento dell’intera fideiussione parzialmente nulla (SSUU del 2021).
Cosa si intende per nullità “di protezione” e dove essa interseca la nullità “parziale”?
- la nullità ha una propria foggia tradizionale, fatta di “assolutezza” e “generalità”, potendo essere fatta valere tendenzialmente da tutti e in ogni tempo, sì da privare di effetti un atto che si presenta gravemente viziato sul crinale strutturale o (meno sovente) funzionale, al cospetto di un pertinente interesse generale;
- l’interazione con il diritto europeo ha tuttavia contribuito, negli ultimi decenni, a ridimensionare tali caratteristiche tradizionali della nullità; non è mancato chi ha financo denunciato come sia ormai più corretto discorrere non già “della” nullità quanto piuttosto, e al plurale, “delle” nullità, la cui struttura e la cui disciplina tenderebbe dunque in qualche modo a frantumarsi in molteplici e variegate epifanie;
- ciò ha comportato delle deroghe frequenti e a tratti assai significative rispetto all’impianto tradizionale dell’invalidità negoziale, orientato a distinguere nettamente la nullità dall’annullabilità, attraverso un progressivo avvicinamento di talune forme della prima (nullità) alla seconda (annullabilità); proprio dietro a queste deroghe si nasconde un nuovo modo, “processualmente” orientato, di considerare il carattere “parziale” di una nullità;
- osservando un negozio e i pertinenti protagonisti, salta all’occhio a questo proposito – in ottica “qualitativa” – il diverso atteggiarsi dei rispettivi interessi, siccome tutelati dal sistema: massime in presenza di c.d. “asimmetrie contrattuali”, e dunque di difetto di equiordinazione degli interessi coinvolti nel negozio considerato, il Legislatore è andato vieppiù orientandosi nel senso di prevedere fattispecie di nullità al cospetto della lesione di interessi della “parte debole”, e dunque individuali e particolari, tali da ricondurre normalmente – e secondo gli schemi tradizionali – piuttosto all’annullabilità;
- proprio l’utilizzo del meccanismo tipico dell’annullabilità, chiamando in causa l’indefettibile (e non sostituibile) iniziativa della stessa parte debole, come tale normalmente incapace – nelle ridette fattispecie asimmetriche – di provvedere autonomamente alla soddisfacente cura dei propri interessi, ha fatto via via assumere inopportuno fondare la tutela di tali situazioni giuridiche sulla forza e sulla capacità dello stesso soggetto “debole”, evitando di chiamarlo alla necessaria attivazione di un’azione demolitoria a carattere costitutivo, per giunta entro un breve termine prescrizionale;
- di qui l’idea, poi messa a sistema, di individuare una figura di nullità “intermedia”, e dunque collocantesi a metà strada tra la nullità tradizionale e l’annullabilità, in guisa da rendere talune fattispecie normalmente riconducibili all’annullabilità quali fattispecie, piuttosto ed in qualche modo, di “semi-nullità” (dal punto di vista del regime, anche processuale, che le assiste);
- ha preso così progressiva consistenza (a partire dalla riforma dei contratti agrari in avanti: 1982) un prototipo di nullità “relativa”, che è nullità, ma che può essere fatta valere, in termini di legittimazione, dal solo soggetto debole (normalmente, ma non necessariamente, un “consumatore”), in palmare deroga al normale regime della nullità assoluta (denunciabile da chiunque vi abbia interesse) ai sensi dell’art.1421 c.c.; ciò tenuto conto del fatto: g.1) che l’interesse che si intende proteggere è solo quello della parte negoziale “debole”; un interesse dunque “particolare”, e non generale; g.2) che solo il soggetto “debole” è legittimato a porre nel nulla, ex tunc, gli effetti del negozio, privandolo in modo radicale di tutti i pertinenti effetti tipici, dovendo pertanto quegli stesso attivarsi in sede processuale – con l’azione appunto di nullità “relativa” – per far accertare la non operatività nei propri confronti del negozio siccome ab origine divisato con la controparte “forte” (e che quegli, il soggetto “debole”, potrebbe anche preferire, a rigore, ancora produttivo di effetti);
- è da dire che, non a caso, la nullità “relativa” risulta strettamente avvinta, anche già sul crinale concettuale, alla nullità “di protezione”, sol che si consideri come proteggere un soggetto debole significa, in sostanza, anche solo lasciare a lui (e solo a lui) la scelta se far scattare o meno l’inoperatività effettuale del pertinente negozio nei propri confronti, stante l’intervenuta inosservanza ex adverso di norme poste dal Legislatore a presidio della propria “debolezza”, ed atteso come in determinate ipotesi la stessa pronuncia di nullità (magari sollecitata dalla controparte “forte” in modo strumentale) potrebbe in concreto pregiudicarlo; ecco allora che: h.1) la parte negoziale “debole” e come tale “protetta” è l’unica che può valutare, nel merito dei propri interessi, l’opportunità o meno di porre nel nulla il negozio e, con esso, il regolamento che ne discende in termini di autonomia privata; h.2) la parte negoziale “forte” e come tale “non protetta” non è, all’opposto, nelle condizioni di poter impedire gli effetti dell’azione di nullità spiccata ex adverso, né di opporsi all’esecuzione della sentenza che ne sia discesa;
- discorrendo di nullità “di protezione” a favore di una parte “debole” in un contesto di asimmetrie contrattuali affiora, in guisa pressoché automatica, la rilevanza di simili fattispecie in tutti quei negozi (massimamente, contratti) nei quali una delle parti sia un consumatore, un risparmiatore, ovvero un piccolo imprenditore (si pensi, con riguardo specifico a quest’ultimo caso, alla subfornitura);
- occorre, sul altro crinale, considerare come la natura tendenzialmente “assoluta” della nullità ne consenta la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice, circostanza che a taluni è parsa contraddire la rinnovata “legittimazione ristretta” che assiste le nuove figure di nullità “relativa” o “di protezione”;
- più nel dettaglio: k.1) da un lato, al cospetto di un contratto (o comunque di un negozio) nullo, esso potrebbe suscitare – in ipotesi di ammessa rilevabilità d’ufficio – affidamenti precari nei soggetti terzi (stante la generale necessità che tutti, giudice compreso, cooperino a scongiurare la formazione di giudicati sulla validità di negozi, per l’appunto, nulli); ne discende la sostanziale irragionevolezza del rilievo d’ufficio nelle ipotesi, per l’appunto, di nullità “relativa”, dacché il negare ai terzi la facoltà (normalmente loro accordata dalla legge) di far affiorare la nullità implica il formarsi di un indice di affidabilità del negozio tale da rendere ingiustificata, collateralmente, la stessa rilevabilità d’ufficio della nullità ridetta; k.2) dall’altro, si fa notare come la nullità tout court venga comminata al cospetto della perpetrata lesione di un interesse “generale” (ancorché riconducibile ad una parte negoziale “debole”), circostanza che imporrebbe dunque di poter in ogni caso affermare la rilevabilità d’ufficio della pertinente nullità (quand’anche “relativa” rispetto alle parti e ai terzi), dovendosi garantire in ogni caso il pedissequo rispetto di una norma imperativa;
- proprio il fatto che la nullità relativa o di protezione resta “nullità” consente appunto di predicarne la ratio in termini di perseguimento di obiettivi che trascendono la tutela della parte debole del negozio, sol che si consideri come – per vero – ad essere tutelato è (assieme a quello particolare del contraente debole) l’interesse generale alla creazione e allo sviluppo del mercato; ciò fa propendere per la rilevabilità di ufficio anche delle nullità di protezione alle quali è sotteso (anche) dunque un interesse pubblico o comunque “generale”; del resto, concentrando il fuoco dell’attenzione sul modo in cui la nullità opera già in orbita sostanziale, la pertinente causa (di nullità) spiega effetti ipso iure ed in modo automatico, il negozio (ancorché “relativamente”) nullo dovendosi assumere già ex se carente di effetti, con conseguente non necessità di iniziative processuali specifiche per farla valere; in sostanza, la nullità non cessa – perché “relativa” o “di protezione” – di atteggiarsi già sostanzialmente a nullità, operando in via automatica ed ipso iure con conseguente, processuale rilevabilità d’ufficio della stessa ope iudicis;
- non è mancato tuttavia in dottrina e in giurisprudenza chi ha denunciato il sostanziale svuotamento di contenuto dello stesso concetto di nullità “relativa”, giusta ammesso rilievo d’ufficio della medesima; essendo il giudice tenuto a farla affiorare, potrebbe all’uopo artatamente sospingervelo la parte “forte” a rigore non legittimata che, allegandone gli elementi costitutivi, costringerebbe per l’appunto il giudice stesso al rilievo d’ufficio, divenendo “indirettamente” essa stessa legittimata a farla valere, così vanificando la natura (a parole) ristretta della pertinente legittimazione (riservata alla sola parte “debole” del rapporto negoziale), con sostanziale svuotamento dell’incipit dell’art.1421 c.c., laddove precisa che il rilievo della nullità è generalizzato ed anche d’ufficio “salvo diverse disposizioni di legge”, come appunto accade nei casi di nullità relativa (significative in proposito le SSUU già nel 1974);
- il punto di equilibrio si è allora rinvenuto nel consentire al giudice di procedere d’ufficio al rilievo della nullità relativa soltanto nell’ipotesi in cui tale rilievo corrisponda ad un vantaggio (in sostanza, all’interesse) della parte “debole” da presidiare, nell’ottica di una declaratoria di nullità che tenga conto globalmente dell’intera attività processuale siccome da quegli svolta nel caso di specie, potendosi dunque ammettere il ridetto rilievo d’ufficio della nullità, senza eccezione alcuna, ogni qual volta il contraente che vi sarebbe (esclusivamente) legittimato non palesi una volontà propria in senso contrario; il giudice, in un simile spettro ermeneutico, potrebbe dunque sempre rilevare d’ufficio la nullità del negozio salvo il caso in cui il contraente legittimato a farla rilevare esprima un interesse all’efficacia dell’intero contratto ovvero della singola clausola affetta da nullità, interesse espresso ovvero implicito, siccome evincibile da un contegno processuale incompatibile con la volontà contraria (come nel caso in cui si invochino gli effetti del negozio della cui nullità si tratta, o in cui – attraverso un comportamento positivo – si accettino in ogni caso i ridetti effetti);
- trattasi di questione significativa anche a livello sovranazionale, stante la disciplina europea in materia di contratti che coinvolgano consumatori; ciò a partire dalla Direttiva 93.13.CEE e della interpretazione che di essa è stata data dalla Corte di Giustizia europea, intesa proprio ad autorizzare – seppure con dei temperamenti ed in via di eccezione rispetto alla disponibilità del processo in capo alle parti – il rilievo officioso ope iudicis delle nullità (e, più in generale, dei rimedi) c.d. “di protezione”, con esclusione dei casi di palesato interesse contrario ad opera della parte “debole”.