Massima
Normalmente, ad un debitore (giustapposto ad uno o più creditori) corrisponde una responsabilità patrimoniale coinvolgente tutti i relativi beni presenti e futuri; non mancano tuttavia fattispecie, in aumento negli ultimi decenni, in cui i creditori non possono contare – in termini di garanzia – su tutti i beni intestati ai propri debitori, alcuni di tali beni palesandosi funzionali (“destinati”) ad uno scopo precipuo al cui perseguimento non possono essere sottratti; con quanto può immaginevolmente derivarne in termini di potenziale malizia debitoria e di conseguente necessità di apprestare strumenti che consentano, da un lato, di assicurare chiarezza nei rapporti giuridici e, dall’altro, di soccorrere il creditore in caso di perdita ingiustificata di parte della propria garanzia patrimoniale a cagione del contegno (magari fraudolento) del proprio debitore.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Nella codificazione liberale Codacci Pisanelli, pur non essendo ancora presente al legislatore del codice civile, sul crinale sistematico, il concetto di patrimonio destinato, non mancano esempi di (pur) latente consapevolezza della pertinente figura, come palesano dal un lato – sul versante “positivo” ed in termini di configurabilità – gli articoli 980 e seguenti in materia di eredità giacente; e dall’altro – sul crinale “negativo” in termini di potenziale sottrazione di beni alla garanzia dei creditori – gli articoli 1948, alla cui stregua chiunque sia obbligato personalmente è tenuto ad adempiere le contratte obbligazioni con tutti i suoi beni mobili ed immobili, presenti e futuri (senza poter dunque sottrarre taluni di tali beni alla ridetta destinazione di garanzia), 1949, onde i beni del debitore costituiscono appunto la “garantia” comune dei relativi creditori e questi vi hanno tutti un eguale diritto quando fra essi non vi sono cause legittime di prelazione, e 1950, alla cui stregua le cause legittime di prelazione (per i creditori) sono i privilegi e le ipoteche (essendo il pegno ancora annoverato tra i contratti), senza che possa ammettersi quale causa legittima di prelazione la “separazione” di una parte del patrimonio del debitore per destinarlo alla esclusiva soddisfazione di uno o più creditori, e non anche degli altri.
1939
Il 23 novembre viene varata la legge n.1966 recante disciplina delle società fiduciarie e di revisione, secondo il cui articolo 1, comma 1, sono società fiduciarie e di revisione quelle che, comunque denominate, si propongono, sotto forma di impresa, di assumere l’amministrazione dei beni per conto di terzi, l’organizzazione e la revisione contabile di aziende e la rappresentanza dei portatori di azioni e di obbligazioni; si tratta di una ipotesi eccezionale di fiducia “germanistica” che viene introdotta nel sistema ordinamentale italiano, in quanto la società fiduciaria non diviene proprietaria dei beni che amministra, ma ne riceve appunto la sola legittimazione ad amministrarli, onde il proprietario sostanziale resta il dominus originario, mentre la società fiduciaria ha i beni intestati e ne è il mero proprietario “formale”, legittimato ad amministrarli nell’interesse del fiduciante.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.267, c.d. legge fallimentare, che disciplina diverse fattispecie di patrimonio separato perché destinato al soddisfacimento dei creditori di un debitore in difficoltà, come nel caso paradigmatico del fallimento e delle figure ad esso affini.
Il codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), disciplina diverse figure di patrimoni separati perché destinati al perseguimento di uno specifico scopo, come le fondazioni (articoli 12 e seguenti), il fondo patrimoniale (art.167 e seguenti: se per bisogni estranei a quelli della famiglia nascono obbligazioni, i creditori non possono soddisfarsi sui beni del fondo patrimoniale, sul quale possono invece soddisfarsi i creditori di rapporti obbligatori sorti per soddisfare appunto i bisogni della famiglia), l’eredità giacente (art.528 c.c., onde quando il chiamato non ha accettato l’eredità e non è nel possesso di beni ereditari, il tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, su istanza delle persone interessate o anche d’ufficio, nomina un curatore dell’eredità che per l’appunto viene detta “giacente”), la cessione di beni ai creditori (art.1977 c.c., ovvero il contratto col quale il debitore incarica i propri creditori, o taluni, di essi di liquidare tutte o alcune sue attività e di ripartirne tra loro il ricavato in soddisfacimento dei loro crediti). Interessanti anche gli articoli sulla fondazione fiduciaria (art.32) e sui premi di nuzialità, opere di assistenza e simili (art.699), in cui parte della dottrina intravedrà due figure di c.d. proprietà fiduciaria “germanistica”, in cui la fondazione nel primo caso ed il destinatario della disposizione testamentaria nel secondo si atteggiano a meri “amministratori” intestatari di beni e di somme delle quali sono e restano proprietari i rispettivi soggetti fiducianti, nell’ottica del perseguimento di fini di pubblica utilità o comunque di scopi peculiarmente meritevoli di tutela. Sempre in materia successoria, rilevante l’art.627 c.c., che prevede la c.d. fiducia testamentaria e l’’obbligo – peraltro meramente morale – dell’istituito fiduciario di trasferire i beni ad un terzo; da rammentare anche la c.d. sostituzione fedecommissaria ex art.692 c.c., laddove – con finalità assistenziali di protezione degli incapaci – si prevede la possibilità che il testamento prefiguri una doppia chiamata: primo chiamato istituito erede è l’incapace (minore o interdetto), mentre secondo chiamato (futuro erede) è la persona o l’ente di assistenza che si prende cura in vita dell’incapace, e che entra in gioco (appunto come secondo chiamato del testatore) quando l’incapace muore a propria volta, palesandosi latamente assimilabile dunque al c.d. beneficiary nella figura di diritto anglosassone del trust; peraltro, ai sensi dell’art.695 c.c., i creditori personali dell’istituito (minore o interdetto) possono agire soltanto sui frutti dei beni che formano oggetto della sostituzione, e dunque non anche sui beni medesimi. Di rilievo la figura dell’usufrutto, che richiama ancora una volta quella del trust, laddove il trustee è latamente assimilabile all’usufruttuario mentre il beneficiary è latamente assimilabile ad un nudo proprietario. Importante anche la figura del mandato senza rappresentanza, dacché ex art. 1707 c.c. i creditori del mandatario (senza rappresentanza, appunto) non possono far valere le loro ragioni sui beni che, in esecuzione del mandato, il mandatario ha acquistati in nome proprio (purché, trattandosi di beni mobili o di crediti, il mandato risulti da scrittura avente data certa anteriore al pignoramento, ovvero trattandosi di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri, sia anteriore al pignoramento la trascrizione dell’atto di ritrasferimento o della domanda giudiziale diretta a conseguirlo). Importante anche l’art.2643 in tema di atti (tassativamente) soggetti a trascrizione, ed il successivo art.2645, che invece in modo più “aperto” parla di “altri atti soggetti a trascrizione”.
Il 29 marzo viene varato il Regio Decreto n.239, secondo il cui articolo 1, ultimo comma, le società fiduciarie che abbiano intestato al proprio nome titoli azionari appartenenti a terzi sono tenute a dichiarare le generalità degli effettivi titolari dei titoli stessi: viene confermato dunque che nel caso delle società fiduciarie il proprietario sostanziale dei beni (titoli) è e resta il fiduciante, mentre la società fiduciaria se li vede solo intestati al fine di esercitare (legittimazione) i pertinenti diritti.
1948
La Costituzione prevede all’art.41, comma 1, la libertà della iniziativa economica privata (entro i limiti del successivo comma 2) e, con essa, la garanzia dell’autonomia negoziale, che si sostanzia nella libertà riconosciuta alle parti, nel perseguimento dei rispettivi interessi, di stipulare contratti, massime se tipici; laddove atipici, tale libertà fa i conti in misura maggiore, per l’appunto, con i limiti previsti al comma 2 dell’art.41 e segnatamente con l’utilità sociale e con la sicurezza, la libertà e la dignità umana, costituendo tali limiti il primo e fondamentale parametro di meritevolezza (in termini di tutela giuridica) degli interessi perseguiti dalle parti.
1968
Il 30 gennaio esce la sentenza della Cassazione n.296 che – con particolare riguardo ai negozi fiduciari – abbraccia la tesi della c.d. doppia causa, onde il negozio di trasferimento (tra patrimoni) ha una propria causa idonea, appunto, a trasferire la proprietà dei beni (dal patrimonio X a quello separato Y), con effetti reali (ad esempio, vendita o donazione), mentre il negozio di destinazione – che è previsto dalla legge, che ha natura unilaterale o bilaterale e che è meramente eventuale – ha una propria e peculiare causa (di destinazione appunto dei beni al raggiungimento del divisato scopo), e dunque è un negozio distinto da quello di trasferimento, con effetti obbligatori (il fiduciario si obbliga all’uso convenuto con il fiduciante, ovvero al ritrasferimento al fiduciante stesso), facendosi luogo tra i due ad un collegamento negoziale.
1975
Il 21 novembre esce la sentenza della Cassazione n.3911 che, accanto alla tradizionale fiducia “dinamica” – laddove il fiduciario diviene proprietario dei beni da gestire nell’interesse del fiduciante in forza di cessione della proprietà dei beni in parola da parte del fiduciante medesimo – assume configurabile una fiducia “statica” al cui cospetto il fiduciario è già proprietario dei beni pertinenti e tuttavia, attraverso il pactum fiduciae, a partire da un dato momento inizia a far uso dei beni medesimi nell’interesse non più proprio ma del fiduciante (o di un terzo beneficiario).
1980
*Il 3 aprile esce la sentenza della Cassazione n.2159 che – con particolare riguardo ai negozi fiduciari – abbraccia la tesi della c.d. doppia causa, onde il negozio di trasferimento (tra patrimoni) ha una propria causa idonea, appunto, a trasferire la proprietà dei beni (dal patrimonio X a quello separato Y), con effetti reali (ad esempio, vendita o donazione), mentre il negozio di destinazione – che è previsto dalla legge, che ha natura unilaterale o bilaterale e che è meramente eventuale – ha una propria e peculiare causa (di destinazione appunto dei beni al raggiungimento del divisato scopo), e dunque è un negozio distinto da quello di trasferimento, con effetti obbligatori (il fiduciario si obbliga all’uso convenuto con il fiduciante, ovvero al ritrasferimento al fiduciante stesso), facendosi luogo tra i due ad un collegamento negoziale.
1985
Il 01 luglio viene firmata a l’Aja la Convenzione sul trust, che disciplina il c.d. trust “amorfo”, ovvero il trust nei relativi requisiti minimi, siccome ritratti dall’ordinamento anglosassone di derivazione. Vi si forgia un trust originato dal un negozio unilaterale, che dunque non necessita di accettazione da parte di chi riceve i beni in trust (trustee) da parte del disponente (settlor), che può liberamente scegliere la legge regolatrice del trust che istituisce (art.6). Quando poi (art.13) gli “elementi importanti” di un trust sono strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust stesso, ovvero la specifica categoria di trust pertinente, tali Stati non sono tenuti a riconoscere il detto trust, salvi soltanto i casi in cui tali elementi importanti si compendino nella scelta della legge da applicare, nel luogo di amministrazione o nella residenza abituale del trustee: secondo parte della dottrina italiana, proprio tale disposizione consentirebbe al nostro ordinamento di non riconoscere il trust c.d. interno, vale a dire il trust il cui unico elemento di internazionalità è la legge (straniera) scelta dal disponente italiano, mentre tutti gli altri “elementi importanti” (ed in particolare gli effetti di segregazione patrimoniale) sono invece interni.
1988
*Il 18 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5663 che, accanto alla tradizionale fiducia “dinamica” – laddove il fiduciario diviene proprietario dei beni da gestire nell’interesse del fiduciante in forza di cessione della proprietà dei beni in parola da parte del fiduciante medesimo – ribadisce la configurabilità di una fiducia “statica” al cui cospetto il fiduciario è già proprietario dei beni pertinenti e tuttavia, attraverso il pactum fiduciae, a partire da un dato momento inizia a far uso dei beni medesimi nell’interesse non più proprio ma del fiduciante (o di un terzo beneficiario).
1989
Il 16 ottobre viene varata la legge n.364, recante ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985.
1990
Il 15 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.107 onde – ai fini dell’azione revocatoria – la costituzione del fondo patrimoniale giusta conferimento dei beni va considerato atto a titolo gratuito, tanto che il conferimento provenga da uno solo dei coniugi o da un terzo, quanto che provenga da entrambi i coniugi, e ciò anche nell’ipotesi in cui i coniugi conferiscano beni già di proprietà comune (perché in comunione legale), dacché al vincolo di indisponibilità impresso sui propri beni non corrisponde alcun corrispettivo per i soggetti che costituiscono il fondo patrimoniale medesimo.
1992
*Il 7 agosto esce la sentenza della Cassazione n.4438 che con particolare riguardo ai negozi fiduciari – abbraccia la tesi della c.d. doppia causa, onde il negozio di trasferimento (tra patrimoni) ha una propria causa idonea, appunto, a trasferire la proprietà dei beni (dal patrimonio X a quello separato Y), con effetti reali (ad esempio, vendita o donazione), mentre il negozio di destinazione – che è previsto dalla legge, che ha natura unilaterale o bilaterale e che è meramente eventuale – ha una propria e peculiare causa (di destinazione appunto dei beni al raggiungimento del divisato scopo), e dunque è un negozio distinto da quello di trasferimento, con effetti obbligatori (il fiduciario si obbliga all’uso convenuto con il fiduciante, ovvero al ritrasferimento al fiduciante stesso), facendosi luogo tra i due ad un collegamento negoziale. Per la Corte poi, su altro versante, va ribadita la configurabilità, accanto alla tradizionale fiducia “dinamica” – laddove il fiduciario diviene proprietario dei beni da gestire nell’interesse del fiduciante in forza di cessione della proprietà dei beni in parola da parte del fiduciante medesimo – di una fiducia “statica” al cui cospetto il fiduciario è già proprietario dei beni pertinenti e tuttavia, attraverso il pactum fiduciae, a partire da un dato momento inizia a far uso dei beni medesimi nell’interesse non più proprio ma del fiduciante (o di un terzo beneficiario).
1993
*Il 29 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.6024 che – con particolare riguardo ai negozi fiduciari – abbraccia la tesi della c.d. doppia causa, onde il negozio di trasferimento (tra patrimoni) ha una propria causa idonea, appunto, a trasferire la proprietà dei beni (dal patrimonio X a quello separato Y), con effetti reali (ad esempio, vendita o donazione), mentre il negozio di destinazione – che è previsto dalla legge, che ha natura unilaterale o bilaterale e che è meramente eventuale – ha una propria e peculiare causa (di destinazione appunto dei beni al raggiungimento del divisato scopo), e dunque è un negozio distinto da quello di trasferimento, con effetti obbligatori (il fiduciario si obbliga all’uso convenuto con il fiduciante, ovvero al ritrasferimento al fiduciante stesso), facendosi luogo tra i due ad un collegamento negoziale.
1994
Il 18 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2604 alla cui stregua tanto l’atto costitutivo di un fondo patrimoniale quanto i successivi atti di conferimento di beni (quand’anche si tratti di beni già in comunione tra coniugi) devono assumersi avere natura di atti dispositivi e, pur non spiegando una efficacia traslativa (i beni restano in proprietà dei coniugi che li conferiscono), sono comunque idonei a pregiudicare le ragioni dei creditori, potendo i pertinenti beni essere aggrediti dai creditori solo alle condizioni dettate dall’art.170 c.c.; i beni del fondo patrimoniale, più in specie, non sono aggredibili da parte dei creditori che sono a conoscenza della estraneità dell’obbligazione assunta al soddisfacimento di bisogni della famiglia, con conseguente, sensibile riduzione della garanzia generale della quale beneficiano i creditori sul patrimonio di chi costituisce il fondo (o, in seguito, vi conferisce beni).
1998
Il 24 febbraio viene varato il decreto legislativo n.58, recante testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), che disciplina tra gli altri le società di gestione dei fondi comuni di investimento mobiliare: si tratta di una nuova (eccezionale) forma di fiducia di tipo germanistico, in quanto la “proprietà” del risparmio resta in capo al fiduciante, mentre la società di gestione si limita ad amministrare il ridetto risparmio, essendo dunque legittimata all’esercizio all’uopo di tutti i pertinenti diritti.
1999
Il 22 gennaio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.591 che ribadisce autorevolmente come tanto l’atto costitutivo di un fondo patrimoniale quanto i successivi atti di conferimento di beni (quand’anche si tratti di beni già in comunione tra coniugi) debbano assumersi avere natura di atti dispositivi e, pur non spiegando una efficacia traslativa (i beni restano in proprietà dei coniugi che li conferiscono), sono comunque idonei a pregiudicare le ragioni dei creditori, potendo i pertinenti beni essere aggrediti dai creditori solo alle condizioni dettate dall’art.170 c.c.; i beni del fondo patrimoniale, più in specie, non sono aggredibili da parte dei creditori che sono a conoscenza della estraneità dell’obbligazione assunta al soddisfacimento di bisogni della famiglia, con conseguente, sensibile riduzione della garanzia generale della quale beneficiano i creditori sul patrimonio di chi costituisce il fondo (o, in seguito, vi conferisce beni). Per le SSUU – ai fini dell’azione revocatoria – la costituzione del fondo patrimoniale giusta conferimento dei beni va considerato atto a titolo gratuito, tanto che il conferimento provenga da uno solo dei coniugi o da un terzo, quanto che provenga da entrambi i coniugi, e ciò anche nell’ipotesi in cui i coniugi conferiscano beni già di proprietà comune (perché in comunione legale), dacché al vincolo di indisponibilità impresso sui propri beni non corrisponde alcun corrispettivo per i soggetti che costituiscono il fondo patrimoniale medesimo. La Corte ribadisce poi che laddove un terzo fideiussore paghi il debito del debitore poi fallito, tale atto può essere fatto oggetto di revocatoria fallimentare solo laddove ciò si sia risolto in una lesione della par condicio creditorum, circostanza predicabile quando il terzo abbia eseguito tale pagamento avvalendosi, direttamente o indirettamente, di denaro del fallito, ovvero quando abbia pagato con denaro proprio ed abbia esercitato, prima del fallimento, l’azione di rivalsa nei confronti del debitore poi fallito. In tutti gli altri casi non si verifica, per la Corte, un depauperamento del patrimonio del debitore poi insolvente, né una modifica dell’ammontare dei crediti concorrenti nella ripartizione dell’attivo fallimentare, se si tiene conto che anche se il terzo fideiussore adempiente proponesse istanza di ammissione al passivo, egli si insinuerebbe al posto dell’originario creditore soddisfatto e per un medesimo importo, venendosi a trovare – rispetto alla massa – nella medesima condizione in cui sarebbe trovato l’accipiens cui ha pagato (in luogo del debitore poi fallito).
2001
Il 3 ottobre viene varata la legge n. 366 che delega il Governo ad emanare norme per riformare la disciplina delle società di capitali e delle società cooperative.
2002
*Il 2 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.11537 onde – ai fini dell’azione revocatoria – la costituzione del fondo patrimoniale giusta conferimento dei beni va considerato atto a titolo gratuito, tanto che il conferimento provenga da uno solo dei coniugi o da un terzo, quanto che provenga da entrambi i coniugi, e ciò anche nell’ipotesi in cui i coniugi conferiscano beni già di proprietà comune (perché in comunione legale), dacché al vincolo di indisponibilità impresso sui propri beni non corrisponde alcun corrispettivo per i soggetti che costituiscono il fondo patrimoniale medesimo.
Il 25 settembre esce il provvedimento del Tribunale di Belluno che dichiara inammissibile in Italia il c.d. trust interno, o trust italiano: per il Tribunale laddove gli elementi significativi del trust, indipendentemente dalla volontà del relativo disponente, siano tutti localizzati in uno Stato che non conosce il trust (c.d. trust interno), come accade appunto in Italia, esso non può essere riconosciuto, e ciò in quanto la Convenzione de l’Aja del 1985, ratificata in Italia dalla legge 364.89, non assume il carattere di convenzione di diritto sostanziale uniforme (quanto piuttosto di diritto internazionale privato), dovendosi tener conto del fatto che il trust (istituto di diritto sostanziale) non è compatibile con i principi del nostro ordinamento interno.
2003
Il 17 gennaio viene varato il decreto legislativo n.6 che, nell’attuare la delega di cui alla legge 366.01, procede alla riforma organica della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative. In particolare, vengono inseriti nel codice civile gli articoli 2447.bis e seguenti che disciplinano – attraverso una nuova sezione XI – i patrimoni destinati ad uno specifico affare, quali porzioni patrimoniali con destinazione, per l’appunto, specifica nell’ambito delle società per azioni. Rilevante in particolare l’art.2447.quinquies alla cui stregua, decorso il termine di cui al secondo comma del precedente articolo 2447.quater – e che disciplina la pubblicità della costituzione del patrimonio destinato – ovvero dopo l’iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento del tribunale ivi previsto, i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare né, salvo che per la parte spettante alla società, sui frutti o proventi da esso derivanti; qualora peraltro nel patrimonio siano compresi immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, tale disposizione non si applica fin quando la destinazione allo specifico affare non sia trascritta nei rispettivi registri. Qualora la deliberazione prevista dall’articolo 2447.ter (quella costitutiva del patrimonio destinato) non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato, e non anche dunque con gli altri beni del proprio patrimonio, ma resta salva la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito. Infine, gli atti compiuti in relazione allo specifico affare debbono recare espressa menzione del vincolo di destinazione; in difetto, ne risponde la società con il relativo patrimonio residuo.
Il 13 ottobre esce il provvedimento del Tribunale di Parma che riconosce ammissibile il trust interno, non potendosi opporre la intrascrivibilità dell’atto pertinente stante l’operatività dell’art.12 della legge 364.89, che consente al trustee di chiedere l’iscrizione nei registri immobiliari con riguardo ai beni coagulati in trust facendo constare della relativa qualità.
2004
Il 01 luglio esce il provvedimento del Tribunale di Napoli che assume ammissibile il trust c.d. “interno” in Italia: a seguito della ratifica della Convenzione dell’Aja in forza della legge 364.89, deve ammettersi ormai configurabile una deroga al principio della generale responsabilità patrimoniale del debitore consacrato nell’art.2740 c.c., e ciò in quanto la legge di ratifica ridetta si applica a tutti i trust, anche interni, il cui unico elemento di internazionalità sia la legge applicabile (e dunque anche ad un trust istituito in Italia e come tale ammissibile, dovendosi solo isolare quale sia la legislazione applicabile tra quelle possibili, ivi compresa la legge italiana)
2005
Il 23 settembre esce il decreto del Tribunale di Trieste che ammette la configurabilità in Italia di un trust c.d. interno, e ciò sulla base della Convenzione dell’Aja del 1985, ratificata in Italia nel 1989: è vero che l’art.13 di tale Convenzione consente agli Stati contraenti di non riconoscere determinati trust, tra i quali appunto quello interno, ma all’uopo occorrerebbe una norma di legge apposita (nel senso della non riconoscibilità), in difetto della quale il trust interno deve appunto assumersi ammissibile.
Il 30 dicembre viene varato il decreto legge n.273 che, con l’art.39 novies, inserisce nel codice civile un nuovo art.2645.ter, rubricato significativamente “trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”, secondo il cui disposto gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a 90 anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, c.c. possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione (salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, c.c.: anteriorità della trascrizione del pignoramento da parte dei creditori che agiscono in executivis rispetto alla trascrizione dell’atto di destinazione) solo per debiti contratti per tale scopo. La norma viene inserita nel capo del codice civile che disciplina gli “atti trascrivibili”, ed ha dunque certamente una valenza di tipo pubblicitario, ma palesa anche profili più puramente sostanziali, lasciando affiorare un (non meglio specificato) negozio di destinazione orientato a perseguire interessi meritevoli di tutela in capo a determinati soggetti, corredato da una certa forma e caratterizzato da una specifica durata; si discuterà se si tratta allora di norma su “nuovi” atti di destinazione (dalla medesima autorizzati), ovvero di norma sulla disciplina degli effetti di atti di destinazione già previsti dal sistema.
2005
*Il 7 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4933 onde – ai fini dell’azione revocatoria – la costituzione del fondo patrimoniale giusta conferimento dei beni va considerato atto a titolo gratuito, tanto che il conferimento provenga da uno solo dei coniugi o da un terzo, quanto che provenga da entrambi i coniugi, e ciò anche nell’ipotesi in cui i coniugi conferiscano beni già di proprietà comune (perché in comunione legale), dacché al vincolo di indisponibilità impresso sui propri beni non corrisponde alcun corrispettivo per i soggetti che costituiscono il fondo patrimoniale medesimo.
Il 26 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15603 alla cui stregua, poiché sia l’atto costitutivo di un fondo patrimoniale sia ogni successivo atto di conferimento in esso di beni costituiscono atti dispositivi, essi debbono assumersi soggetti all’azione revocatoria.
2006
Il 23 febbraio viene varata la legge n.51, che converte in legge il decreto legge n.273.05 in tema di atti di destinazione e di relativa trascrizione ai sensi del nuovo art.2645.ter c.c.
*Il 15 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5684 onde – ai fini dell’azione revocatoria – la costituzione del fondo patrimoniale giusta conferimento dei beni va considerato atto a titolo gratuito, tanto che il conferimento provenga da uno solo dei coniugi o da un terzo, quanto che provenga da entrambi i coniugi, e ciò anche nell’ipotesi in cui i coniugi conferiscano beni già di proprietà comune (perché in comunione legale), dacché al vincolo di indisponibilità impresso sui propri beni non corrisponde alcun corrispettivo per i soggetti che costituiscono il fondo patrimoniale medesimo.
2007
*Il 17 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11830 onde – ai fini dell’azione revocatoria – la costituzione del fondo patrimoniale giusta conferimento dei beni va considerato atto a titolo gratuito, tanto che il conferimento provenga da uno solo dei coniugi o da un terzo, quanto che provenga da entrambi i coniugi, e ciò anche nell’ipotesi in cui i coniugi conferiscano beni già di proprietà comune (perché in comunione legale), dacché al vincolo di indisponibilità impresso sui propri beni non corrisponde alcun corrispettivo per i soggetti che costituiscono il fondo patrimoniale medesimo.
2008
*Il 7 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.24757 alla cui stregua, poiché sia l’atto costitutivo di un fondo patrimoniale sia ogni successivo atto di conferimento in esso di beni costituiscono atti dispositivi, essi debbono assumersi soggetti all’azione revocatoria. Si tratta di disciplina applicabile anche allorché il fondo patrimoniale sia stato costituito in data anteriore alla nascita del credito per il quale si agisce in revocatoria, purché in questo caso sussista tuttavia la dolosa preordinazione dell’atto, da parte del debitore, alla finalità di pregiudicare il futuro credito.
2013
L’11 aprile esce la sentenza del Tribunale di Firenze che dichiara legittimo il trust interno auto-dichiarato, quello cioè nel quale disponente e trustee coincidono, il quale non può assumersi viziato da invalidità per la divergenza della relativa disciplina dalle previsioni dell’art. 2645 ter c.c. sussistendo appunto una notevole divergenza tra la ratio dei due istituti, seppur entrambi producano la segregazione del patrimonio del disponente nell’interesse di un beneficiario o di un determinato programma. In sostanza, trust autodichiarato e patrimonio destinato ex art.2645 ter c.c. sono due fattispecie diverse che convivono nell’ordinamento italiano.
2014
Il 9 maggio esce la sentenza della della I sezione della Cassazione n.10105 onde, al fine di evitare che il trust, in considerazione dei più svariati motivi per cui può essere costituito, possa diventare un facile strumento di elusione di norme imperative, il programma di segregazione deve corrispondere solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione de L’Aja, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi attuato, rappresentando esso la causa concreta del negozio, secondo la nozione da tempo recepita, nell’ambito del diritto dei contratti, dalla giurisprudenza di legittimità. Invero, quale strumento negoziale astratto, il trust può essere piegato al raggiungimento dei più vari scopi pratici; occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione: indagine questa particolarmente rilevante nei riguardi di uno strumento giuridico estraneo alla nostra tradizione civilistica e che si affianca, in modo particolarmente efficace, ad altri esempi di intestazione fiduciaria volti, con finalità frequentemente frodatorie, all’elusione di norme imperative.
2015
Il 27 giugno viene varato il decreto legge n.83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria, il cui art.12 aggiunge al codice civile un nuovo art.2929.bis rubricato “espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito”. Secondo tale disposizione, il creditore che sia pregiudicato da un atto del debitore, di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione, che abbia per oggetto beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, compiuto a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito può procedere, munito di titolo esecutivo, a esecuzione forzata, ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia, se trascrive il pignoramento nel termine di 1 anno dalla data in cui l’atto e’ stato trascritto. Tale disposizione si applica anche al creditore anteriore che, entro 1 anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole, interviene nell’esecuzione da altri promossa. La norma precisa che quando il pregiudizio deriva da un atto di alienazione, il creditore promuove l’azione esecutiva nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario. Il debitore, il terzo assoggettato a espropriazione e ogni altro interessato alla conservazione del vincolo possono proporre le opposizioni all’esecuzione di cui al titolo V del libro III del codice di procedura civile quando contestano la sussistenza dei presupposti di cui al primo comma della norma, nonché la conoscenza da parte del debitore del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore. Si tratta dunque di una forma semplificata di tutela esecutiva, laddove gli atti pregiudizievoli siano stati a titolo gratuito (e non anche a titolo oneroso): non occorre il previo giudizio di cognizione potendo il creditore procedere direttamente all’atto di pignoramento dei beni oggetto di disposizione pregiudizievole, senza dover passare preventivamente per l’azione revocatoria e senza doverne attendere il passaggio in giudicato; non occorre in particolare provare i requisiti tipici dell’azione revocatoria, ed in particolare il dolo del debitore, mentre saranno i soggetti esecutati a poter introdurre un giudizio di cognizione in opposizione al fine di dimostrare il difetto dei requisiti per poter procedere in modo siffattamente semplificato, ovvero comunque la loro buona fede. Il creditore ha bisogno dunque solo di un titolo esecutivo e, senza dover attendere l’esito di un’azione revocatoria ed il passaggio in giudicato della pertinente sentenza, al cospetto di atti gratuiti pregiudizievoli successivi a quando è sorto il proprio credito, può agire direttamente in via esecutiva. Non è possibile agire in tal modo al cospetto di ogni atto gratuito, ma solo laddove si tratti di alienazione gratuita di immobili o mobili registrati, ovvero di costituzione a titolo gratuito di un vincolo di indisponibilità sui ridetti beni. Dal punto di vista cronologico, rispetto alla trascrizione dell’atto pregiudizievole (che riguarda sempre beni immobili o mobili registrati) non deve essere trascorso 1 anno, potendo in tale torno temporale il creditore procedente trascrivere direttamente il pignoramento; partita la procedura esecutiva, possono intervenire altri creditori anteriori, sempre tuttavia entro 1 anno dalla trascrizione dell’atto (anche per loro) pregiudizievole. Quanto alle opposizioni all’esecuzione, vi sono legittimati tanto il debitore (ex art.615 c.p.c.) quanto il terzo proprietario (ex art.619 c.p.c.) quanto, ancora, ogni altro interessato al mantenimento del vincolo sul bene, siccome disposto dal debitore, sulla scorta della mancanza di presupposti per agire ex art.2929.bis, ovvero sulla scorta della propria buona fede in termini di mancata consapevolezza del pregiudizio che l’atto ha arrecato al creditore.
Il 6 agosto viene varata la legge n.132 che converte in legge con modificazioni il decreto legge n.83.
Il 12 agosto esce la sentenza del Tribunale di Prato onde l’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c. posto in essere da una srl ed avente ad oggetto taluni beni immobili di sua proprietà in favore di un’altra srl, allo scopo di agevolare l’omologazione della proposta di concordato preventivo avanzata da quest’ultima (omologazione poi effettivamente ottenuta), persegue interessi meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c., essendo appunto pienamente meritevole ai sensi del predetto articolo l’interesse al soddisfacimento dei creditori sociali sotteso al suddetto atto di destinazione e dovendosi l’atto di destinazione ex art. 2645 ter ritenere efficace qualora il patrimonio sia vincolato a garanzia dei creditori di una società in crisi e, in particolare, ove tale società intenda instaurare una procedura di concordato preventivo; trattasi dunque di atto non revocabile ex art. 2901 c.c., atteso peraltro come nel caso di specie l’attore non abbia fornito alcuna prova relativamente ai requisiti oggettivo e soggettivo previsti dalla legge per spiccare appunto azione revocatoria.
Il 23 settembre esce la sentenza della V sezione Penale della Cassazione n. 42605 alla cui stregua in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la costituzione su un bene immobile di un vincolo di destinazione, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., non incide sulla disponibilità del bene stesso in capo al proposto (ove accertata ai sensi dell’art. 2 ter l. n. 575 del 1968), né, quindi, sulla relativa confiscabilità, in quanto il predetto vincolo non comprime i diritti del proprietario sul bene, se non nei limiti della destinazione impressa; per la Corte è dunque legittima la confisca di un bene immobile acquistato con denaro proveniente dal proposto, fittiziamente intestato alla convivente e successivamente vincolato nella destinazione all’esigenza abitativa della loro figlia minore, con contestuale attribuzione a quest’ultima dei frutti dello stesso.
Il 27 ottobre esce la sentenza del Tribunale di Novara secondo la quale è da escludere che l’imposizione di un vincolo di destinazione ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. si sostanzi in una nuova tipologia negoziale traslativa, caratterizzata da una causa esclusivamente destinatoria, dovendosi piuttosto assumere che la nuova norma introduca nell’ordinamento solo un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione, accessorio rispetto agli altri effetti di un negozio tipico o atipico cui si accompagna (e del quale mutua la causa, aggiungendovi appunto una componente causale destinatoria che non può tuttavia sussistere in modo autonomo ed indipendente).
Il 4 novembre esce la sentenza del Tribunale di Bergamo che afferma come l’atto istitutivo di un trust autodichiarato (ex se non ammissibile nel sistema italiano) può valere quale atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c., di cui deve essere vagliata la meritevolezza, la quale implica l’altruità dell’interesse perseguito; la ridetta meritevolezza, per il Tribunale, deve escludersi allorché i beneficiari del trust, la cui nomina è rimessa al disponente, non siano ancora stati nominati ad oltre un anno dall’istituzione del trust e le finalità indicate nell’atto istitutivo siano connotate da estrema genericità.
2016
Il 25 agosto esce la sentenza del Tribunale di Milano che dichiara nullo un trust laddove indichi quale beneficiaria una associazione che assiste soggetti disabili se appare evidente che tale indicazione – della quale l’associazione non aveva conoscenza e che ha casualmente scoperto – mirava soltanto a facilitare la trascrizione del vincolo sui beni ex art. 2645 ter c.c., finalità effettiva del trust palesandosi piuttosto quella di escludere o limitare la responsabilità patrimoniale del disponente.
2017
Il 27 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione onde – muovendo dal presupposto che legittimamente il giudice dell’esecuzione verifica, anche d’ufficio, la reale esistenza del soggetto nei cui confronti è intentata la procedura esecutiva – va disposta la chiusura anticipata di una procedura che ha fatto perno sul pignoramento di beni immobili eseguito nei confronti (direttamente) di un trust (in persona del trustee), piuttosto che nei confronti del trustee; il trust non è infatti, per la Corte, un ente dotato di personalità giuridica, né di soggettività, per quanto limitata od ai soli fini della trascrizione, configurando piuttosto un mero compendio di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, il quale resta l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, e non già in veste di legale rappresentante, quanto piuttosto come colui che dispone del pertinente diritto. Neppure osta a tale conclusione, per la Corte, la nota di trascrizione del negozio di dotazione del trust, che non può fondare una valida continuità di trascrizioni con un soggetto inesistente o, detto altrimenti, non può “creare” dal nulla un soggetto inesistente. La Corte inizia dunque con l’affermare che il giudice dell’esecuzione ha il potere di risolvere d’ufficio la questione dell’esistenza giuridica del soggetto esecutato per alfine statuire, laddove ne abbia acclarato l’inesistenza, il precipitato della non proseguibilità del processo esecutivo nei confronti appunto di un soggetto inesistente; rientra dunque nei poteri ufficiosi del giudice dell’esecuzione il riscontro delle imprescindibili condizioni dell’azione esecutiva ed i (conseguenti) presupposti del processo esecutivo, onde l’ufficiosità del rilievo di tali condizioni e presupposti va per la Corte ribadita in generale, in funzione della particolare struttura del processo esecutivo, in cui l’istituzionale carenza di contraddittorio in senso tecnico per l’assenza di controversie in punto di diritto (salvi gli incidenti – o parentesi – cognitivi costituiti soprattutto dalle opposizioni), unita alla altrettanto istituzionale soggezione processuale di uno dei due soggetti necessari – il debitore – all’altro cui è riconosciuto il potere di impulso del processo esecutivo medesimo – il creditore – devono allora essere compensate da una più intensa potestà di verifica anche formale della sussistenza di condizioni e presupposti per la corrispondenza del processo stesso alla sua funzione. Scendendo dal generale al particolare, nel caso di specie per la Corte la vendita in executivis sarebbe ab origine caduca, e dunque tale da riversare sul potenziale incolpevole aggiudicatario un’interminabile serie di problemi particolarmente complessi, per fare fronte ai quali è obiettivamente aleatoria la garanzia per evizione, onde si vanificherebbe l’esigenza di tutela dell’affidamento sulla ritualità del trasferimento, che una vendita comunque proposta e gestita da un ufficio pubblico particolarmente qualificato, quale il giudice delle esecuzioni, normalmente susciterebbe. Fatte queste premesse di ordine processuale (esecutivo), la Corte si occupa poi – sul crinale sostanziale – delle modalità del pignoramento di beni conferiti in trust, richiamando in via confermativa la pertinente giurisprudenza maggioritaria onde il trust è da assumersi non già quale ente dotato di personalità giuridica, quanto piuttosto quale semplice insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno o più beneficiari; beni e rapporti formalmente intestati al trustee, il quale è dunque l’unico soggetto legittimato nei rapporti con i terzi, in quanto dispone in esclusiva del patrimonio vincolato alla predeterminata destinazione impressagli dal disponente (lessor). La conseguenza che imprescindibilmente deriva da tale premessa è che il trust non può essere titolare di diritti, né tampoco fatto destinatario di un pignoramento che abbia ad oggetto i beni medesimi, i beni conferiti in trust dovendo dunque essere pignorati (soggettivamente) al trustee, perfino a prescindere dall’espressa spendita di tale qualità, essendo dunque il solo trustee (e non già il trust) l’unico soggetto aggredibile. Per la Corte un pignoramento che colpisca beni che si prospettano nella – formale e separata – titolarità di un trust fa luogo ad una fattispecie giuridicamente impossibile secondo il vigente ordinamento interno e, quindi, insanabilmente nulla per impossibilità di identificare un soggetto esecutato giuridicamente possibile, siccome inesistente e quindi insuscettibile tanto di essere titolare di diritti quanto – soprattutto e per quanto rileva ai fini della proseguibilità del relativo processo esecutivo – di subire espropriazioni (cioè coattivi trasferimenti) dei medesimi, con l’ulteriore precipitato onde correttamente nel caso di specie la gravata sentenza di merito ha escluso la validità del pignoramento eseguito nei confronti del trust anzichè del trustee (e dunque da intendersi nullo).
Il 25 luglio esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n.36801 onde, nel caso di specie, la Corte di appello con la gravata sentenza è pervenuta alla conclusione di considerare la natura fraudolenta del trust (c.d. ‘sham trust’, ossia di un trust simulato con un’intestazione fittizia al trustee di beni, dove il trustee sarebbe in realtà una mera ‘testa di legno’ del ‘settlor/disponente’) in presenza di dati oggettivi ritenuti sufficienti per connotare il carattere fraudolento dell’operazione, massime al fine di sottrarre beni al prelievo tributario. In proposito la Corte rammenta come la propria giurisprudenza (vengono richiamate Sez. 3, n. 9229 del 30/06/2015, dep. 2016, Carmine; Sez. 5, n. 46137 del 24/06/2014, Greci) abbia chiarito che il trust si sostanzia nell’affidamento ad un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale ‘proprietario’ (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente. Presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto – rammenta la Corte – è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio; in tali ipotesi, prosegue la Corte, è ovvio che l’onere probatorio gravante sul PM è quello proprio dei negozi simulati, potendo la prova essere offerta con qualsiasi idoneo mezzo e quindi anche mediante indizi gravi, precisi e concordanti (articolo 192, comma 2, c.p.p.), fermo restando che essa non può rimanere circoscritta ad elementi di rilevanza meramente oggettiva, ma deve necessariamente proiettarsi, soprattutto nei casi, come nella specie, in cui la fattispecie incriminatrice è integrata dalla presenza del dolo specifico, anche su dati idonei a disvelare convincentemente i profili di carattere soggettivo. La Corte rammenta a tal proposito come sia stato precisato che, al fine di evitare che il trust, in considerazione dei più svariati motivi per cui può essere costituito, possa diventare un facile strumento di elusione di norme imperative, il programma di segregazione deve corrispondere solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione de L’Aja, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi attuato, rappresentando esso la causa concreta del negozio, secondo la nozione da tempo recepita, nell’ambito del diritto dei contratti, dalla giurisprudenza di legittimità. Invero, quale strumento negoziale astratto, il trust può essere piegato al raggiungimento dei più vari scopi pratici; occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione: indagine questa particolarmente rilevante nei riguardi di uno strumento giuridico estraneo alla nostra tradizione civilistica e che si affianca, in modo particolarmente efficace, ad altri esempi di intestazione fiduciaria volti, con finalità frequentemente frodatorie, all’elusione di norme imperative (viene richiamata in termini Cass. civile, Sez. I, n. 10105 del 9 maggio 2014).
Il 4 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione penale n.54521, alla cui stregua laddove difetti uno specifico vincolo di destinazione della res oggetto della condotta penalmente sanzionata, non si configura l’appropriazione indebita. Per la Corte, ove l’agente dia alla cosa della quale ha la disponibilità una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede (ovvero a richiesta o alla scadenza non restituisca la cosa o il denaro del quale ha appunto la disponibilità), commette il reato di appropriazione indebita, giacché la res entra ab extrinseco a far parte del relativo patrimonio ma con questo non si confonde proprio perché connotata da un vincolo specifico di destinazione che il soggetto agente sovverte con una condotta che è penalmente sanzionata; laddove tale vincolo specifico di destinazione non si riscontri, per la Corte si fa luogo invece ad un mero inadempimento civilistico, non rilevante penalmente. In sostanza, il vincolo di destinazione della res è qualcosa che contribuisce a delineare la fattispecie penalistica dell’appropriazione indebita, laddove non vi sia appunto – fisiologicamente – confusione patrimoniale e tale vincolo venga tuttavia violato dal possessore che – patologicamente – imprime alla res una destinazione diversa rispetto a quella coerente con tale vincolo.
2018
Il 17 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 975 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui il trasferimento del bene dal settlor al trustee è assoggettabile a tassazione in misura fissa (e non proporzionale) in quanto avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso, che è tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del suo ritrasferimento ai beneficiari del trust.
Il 6 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 2820 che ribadisce la natura di atto a titolo gratuito del fondo patrimoniale che, in quanto tale, è suscettibile di essere dichiarato inefficace ai sensi dell’art. 64 l. fall.. Tuttavia, ricorda la Corte, non è possibile la dichiarazione di tale inefficacia nel caso in cui sia dimostrata l’esistenza di una situazione oggettiva che integri gli estremi del dovere morale e il proposito del solvens di adempiere unicamente a detto dovere mediante l’atto in questione.
Il 14 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 3641 che ribadisce la possibilità per il creditore di esperire, ai sensi dell’art. 2901, comma 1, c.c., l’azione revocatoria nei confronti del fondo patrimoniale costituito dal coniuge ed avente ad oggetto un immobile di sua proprietà.
Lo stesso giorno esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 3656 onde l’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie integra gli estremi dell’interposizione reale di persona per effetto della quale l’interposto ne acquista la titolarità, pur essendo obbligato ad attenersi alle indicazioni dell’interponente nonché a ritrasferirle a quest’ultimo, ad una scadenza convenuta o al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario, con la conseguenza che legittimato all’esercizio della prelazione prevista da clausola statutaria è l’interposto e non l’interponente. Il fiduciante, non essendo intestatario reale delle partecipazioni sociali, non può considerarsi socio della società; pertanto, qualora il medesimo fosse direttamente danneggiato dall’atto illecito imputato all’organo amministrativo, sarebbe legittimato ad agire contro quest’ultimo esclusivamente nella sua veste di terzo
L’11 aprile esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 8881 che riconosce aggredibili da parte del Fisco i beni presenti in un fondo patrimoniale qualora l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia.
Il 19 aprile esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 9637 secondo cui l’interesse alla corretta amministrazione del patrimonio in trust non integra una posizione di diritto soggettivo attuale in favore dei beneficiari ai quali siano attribuite dall’atto istitutivo soltanto facoltà, non connotate da realità, assoggettate a valutazioni discrezionali del trustee. Conseguentemente, rileva la Corte, deve escludersi che i beneficiari non titolari di diritti attuali sui beni siano legittimati passivi e litisconsorti necessari nell’azione revocatoria avente ad oggetto i beni in trust, spettando invece la legittimazione, oltre al debitore, al trustee, in quanto unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi.
Il 25 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13141 che, in tema di imposta di registro sul trust, ribadisce l’orientamento secondo cui sono tassabili nella misura proporzionale del 3% solo gli atti che comportano l’assunzione di una obbligazione o la modificazione di un rapporto obbligatorio. In caso di atto dispositivo nell’ambito di un trust, il giudice di merito deve accertare se l’atto in questione sia annoverabile o meno tra gli atti onerosi o tra gli atti gratuiti, da doversi tassare, nel primo caso, in misura proporzionale, ovvero, nel secondo, in misura fissa.
Il 29 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 13388 onde nell’azione revocatoria ordinaria avente ad oggetto un bene in trust, lo stato soggettivo del terzo rilevante nel caso di un atto di disposizione patrimoniale a titolo oneroso è quello del beneficiario e non quello del trustee; il beneficiario è litisconsorte necessario esclusivamente nel caso dell’atto di disposizione patrimoniale a titolo oneroso.
Il 13 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 15460 che ribadisce il costante orientamento secondo cui è da escludere che il conferimento dei beni in trust dia luogo ad un reale trasferimento imponibile, perché contrario al programma negoziale di donazione indiretta per cui è stato predisposto e che prevede la temporanea preservazione del patrimonio a mezzo della sua segregazione fino al trasferimento vero e proprio a favore dei beneficiari. Sotto altro profilo, la Corte osserva che un trust ove non sia previsto alcun corrispettivo a carico del trustee non può definirsi “operazione a carattere patrimoniale” ai fini della tassazione in misura proporzionale in quanto, in simili circostanze, il concetto di patrimonialità non può essere inteso in senso civilistico (quale mera suscettibilità di valutazione economica della prestazione) ma richiede necessariamente la previsione di un corrispettivo in danaro.
Il 29 agosto esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 21366 onde, nel valutare la capacità economica di un soggetto ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento del figlio, il giudice deve tenere conto anche dei beni facenti parte del trust costituito dal medesimo soggetto.
Il 30 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 21385 in tema di effetti della trascrizione della vendita di un bene appartenente a fondo patrimoniale. La Corte ricorda che gli effetti dell’atto dispositivo non sono opponibili al terzo, se per lui pregiudizievoli, fintantoché l’atto non risulti dai pubblici registri immobiliari; tuttavia, il terzo può avvalersi di quegli effetti, se per lui favorevoli.
Il 26 settembre esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 41704 che conferma l’orientamento secondo cui il fondo patrimoniale può integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Richiamando i propri precedenti la Corte afferma che l’art. 11 d.lgs. 74/2000, nel punire il compimento di atti fraudolenti, fa riferimento a qualsiasi atto che, non diversamente dall’alienazione simulata, sia idoneo a presentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio o comunque rendendo più difficoltosa l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario.
Il 28 novembre esce la sentenza della II sezione penale della Cassazione n. 53373 che spiega come il negozio fiduciario si realizzi mediante il collegamento di due negozi: l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure esso effettivamente voluto – ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio, ed in virtù del quale il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo. Pertanto, la intestazione fiduciaria di titoli, integra gli estremi della interposizione reale di persona, per effetto della quale l’interposto acquista – a differenza che nel caso di interposizione fittizia o simulata – la titolarità delle azioni o delle quote, pur essendo, in virtù del rapporto interno con l’interponente di natura obbligatoria, tenuto ad osservare un certo comportamento, convenuto in precedenza con il fiduciante, nonché a ritrasferire i titoli a quest’ultimo ad una scadenza convenuta, ovvero al verificarsi di una situazione che determini il venir meno del rapporto fiduciario. Pertanto, non integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell’intestatario fiduciario che non risponda all’obbligo di ritrasferire i beni immateriali intestati al fiduciante alla data di scadenza stabilita, dato che il fiduciario stesso ha la titolarità reale dei beni.
2019
Il 17 gennaio esce l’ordinanza della V sezione della Cassazione n. 1131 che, con riferimento alla tassazione dei vincoli di destinazione e segnatamente dei trust, la reintrodotta disciplina della imposta sulle successioni e donazioni pone una serie di problemi interpretativi poiché, a differenza di quanto originariamente previsto dal citato decreto, il quale si riferiva unicamente alle successioni e donazioni, la novella legislativa ha esteso il presupposto impositivo, sottoponendoli a tassazione, ai trasferimenti a titolo gratuito, nonché alla costituzione dei vincoli di destinazione.
L’imposizione si riferisce quindi agli atti “a titolo gratuito”, e non più solo alle “liberalità” di cui all’art. 1, d.lgs. n. 346 del 1990, cosa che consente di argomentare che il presupposto del tributo vada ravvisato, più che nell’animus donandi, nell’accrescimento patrimoniale (effettivo) del beneficiario, ottenuto senza alcuna contropartita.
Dunque, accanto ai trasferimenti a causa di morte o per donazione (già presenti nell’art. 1 del d.lgs. n. 346 del 1990 e della cui idoneità a procurare un incremento del patrimonio dell’erede o del donatario non si è mai dubitato), l’imposta comprende il trasferimento di beni e diritti a titolo gratuito, nonché la costituzione di vincoli di destinazione, fattispecie queste ultime senz’altro distinte, la prima delle quali individua comunque attribuzioni patrimoniali, che si risolvono cioè in un incremento della sfera economica del soggetto che acquista il bene o diritto, ancorché non accompagnate da un intento liberale, mentre la seconda, che qui interessa più da presso, ad avviso dell’Agenzia delle Entrate, integrerebbe immediatamente il presupposto impositivo, in quanto l’effetto segregativo, tipico degli atti costitutivi di vincoli di destinazione e funzionale al (successivo) trasferimento dei beni vincolati a favore di soggetti diversi dal disponente, sarebbe di per sé espressione di capacità contributiva, “ancorché non determini (o non determini ancora) alcun vantaggio economico diretto per qualcuno”, ed a maggior ragione alcun trasferimento.
Invero, nell’ambito concettuale dei “vincoli di destinazione” devono essere ricondotti non solo gli “atti di destinazione” di cui all’art. 2645-ter c.c., ma qualunque fattispecie prevista dall’ordinamento tesa alla costituzione di patrimoni vincolati ad uno scopo, ed in tal senso si è espressa anche l’Amministrazione finanziaria, secondo la quale per vincoli di destinazione si intendono “i negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, con effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi”.
Ritiene quindi il collegio che il conferimento di beni e diritti in trust non integra di per sé un trasferimento imponibile e, quindi, rappresenta un atto generalmente neutro, che non dà luogo ad un trapasso di ricchezza suscettibile di imposizione indiretta, per cui si deve fare riferimento non già alla – indeterminata nozione di utilità economica, della quale il costituente, destinando, dispone, ma a quella di effettivo incremento patrimoniale del beneficiario.
Infatti, la novellata struttura del tributo de quo mantiene intatta una disciplina unitaria delle pur distinte ipotesi impositive, le quali ruotano tutte intorno all’unico indice di capacità contributiva dato dall’attualità ed effettività dell’incremento patrimoniale, da valutarsi sempre nella prospettiva causale unitaria dell’istituto civilistico del trust, mediante la individuazione puntuale del momento e del soggetto che manifesta la capacità contributiva, perché l’arricchimento non può dirsi attuale sino a quando il programma del trust non abbia avuto esecuzione.
Del resto, la possibilità di costituzione di vincoli di destinazione con, e senza, effetto traslativo, è generalmente ammessa sia in dottrina, che in giurisprudenza, ed anche nella situazione presa in considerazione dall’art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006, come presupposto dell’imposta, se pur in senso oggettivo, rivela necessariamente la capacità contributiva del soggetto passivo, cioè la sua possibilità economica di contribuire alla spesa pubblica, perché se è vero che l’art. 53 Cost. non contiene un elenco degli indici di capacità contributiva, esso comunque richiede l’esistenza di un collegamento del presupposto d’imposta con fatti e situazioni espressivi di potenzialità economica.
Alla luce delle considerazioni che precedono, un’indiscriminata imponibilità degli atti costitutivi di vincoli di destinazione non appare espressione di una ragionevole discrezionalità, non arbitrio, del legislatore, per cui la interpretazione normativa sollecitata dalla odierna ricorrente risulta non percorribile, perché se per ritenere integrato il presupposto d’imposta occorre riferirsi soltanto al perfezionamento del negozio costitutivo del vincolo, non è comprensibile la collocazione sistematica della “nuova” imposta accanto alle imposte sui trasferimenti di beni e diritti mortis causa o con animus donandi ed ora anche a titolo gratuito, e perché, se è vero che il diritto tributario è qualificante, in quanto adegua alle proprie esigenze le fattispecie normative appartenenti ad altro ramo dell’ordinamento giuridico, tuttavia, il principio dell’unità del diritto impone comunque la non alterazione della struttura sostanziale delle fattispecie normative considerate.
In conclusione, la consapevolezza del legislatore delle problematicità insite nel sottoporre a tassazione uno strumento negoziale tipologicamente assai variegato, quale appunto è il trust, segna inevitabilmente i limiti dell’intervento novellatore, che non si confronta con la complessità del fenomeno governato, per cui non si può trarre dallo scarno disposto dell’art. 2, comma 47, d.l. n. 262 del 2006, il fondamento normativo di un’autonoma imposta, intesa a colpire ex se la costituzione dei vincoli di destinazione, indipendentemente da qualsivoglia evento traslativo – in senso proprio – di beni e diritti, pena il già segnalato deficit di costituzionalità della novella così letta.
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Il 18 gennaio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 1260 onde qualora il vincolo di destinazione è stato costituito a favore di tutti i creditori del concordato non è possibile ipotizzare la lesione della par condicio nei confronti di alcuno dei creditori. I creditori del concordato sono tutti i creditori della società, compresi quelli prededucibili e non è dato ipotizzare, ai sensi dell’art. 167 I. fall.,che, una volta proposto il concordato di una società, possano sorgere nuovi crediti verso l’ente assoggettato alla procedura che non siano “creditori del concordato preventivo”.
Peraltro, deve ritenersi certamente meritevole di tutela il fine perseguito dall’impresa che, anteriormente al deposito del ricorso per concordato preventivo, costituisca sul patrimonio un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. al fine di consentire la soddisfazione proporzionale dei creditori non muniti di cause di prelazione. Detta iniziativa consente, infatti, la conoscibilità dello stato di crisi e preserva il patrimonio da eventuali atti di distrazione o da iniziative destinate ad avvantaggiare solo alcuni creditori in pregiudizio degli altri.
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Il 21 gennaio esce la sentenza della III sezione penale della Cassazione n. 2569 onde commette il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte il contribuente che costituisce il trust dopo la notifica di alcune cartelle di pagamento, essendo in tal caso palese l’intento fraudolento del comportamento del privato che, nonostante la conoscenza del debito, cerca di limitare la propria garanzia patrimoniale.
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Il 18 marzo esce l’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 7621 che, preliminarmente, riepiloga gli elementi costitutivi del trust: il quale (tra le ultime, in tali espressi termini, Cass. 29/05/2018, n. 13388, ove più ampi riferimenti), istituto di diritto straniero che può dirsi recepito nell’ordinamento italiano in forza e nei limiti della L. 16 ottobre 1989, n. 364 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 10 luglio 1985”), resta regolato dalla legge scelta dal costituente (art. 6, o da quella che con esso ha più stretti legami – art. 7), secondo i requisiti contemplati dalla stessa legge di ratifica, imperniandosi sul rapporto costituito dal disponente (o settlor), in base al quale i beni vengono posti sotto il controllo – attraverso la formale titolarità dei medesimi – di un trustee nell’interesse del beneficiario o per un fine specifico; con la peculiarità che i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee, pur essendo a lui intestati, mentre il trustee deve amministrarli e disporne secondo il programma del trust (art. 2).
Dal punto di vista processuale, il trust – di cui è costantemente esclusa qualsiasi entificazione, risolvendosi in un insieme di rapporti giuridici facenti capo al trustee (o, più compiutamente, un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato e formalmente intestati al trustee, che è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi non quale legale rappresentante, ma come colui che dispone del diritto: Cass. 09/05/2014, n. 10105) – è stato preso in considerazione – tra l’altro – ai fini dell’individuazione delle parti necessarie nelle azioni revocatorie che quello hanno ad oggetto. Al riguardo, da un lato la definizione recepita – e sopra sommariamente ricordata – dell’istituto ha consentito di escludere sempre e comunque il beneficiario dal novero dei litisconsorti necessari, identificando quale unico convenuto necessario il trustee (Cass. 03/08/2017, n. 19376, secondo la quale l’interesse alla corretta amministrazione del patrimonio in trust non integra una posizione di diritto soggettivo attuale in favore dei beneficiari ai quali siano attribuite dall’atto istitutivo soltanto facoltà, non connotate da realità, assoggettate a valutazioni discrezionali del trustee, restando quest’ultimo l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi); dall’altro lato, però, si è esteso il litisconsorzio al beneficiario, talvolta – sia pure con più sobria affermazione – sic et simpliciter, talaltra, con più estesa analisi dei presupposti, almeno ove si tratti di trust a titolo oneroso o gratuito ed a seconda dell’interesse del beneficiario e del disponente, in base alla corretta premessa che l’estensione del litisconsorzio necessario è proiezione degli elementi costitutivi della fattispecie e con articolata disamina dell’istituto.
Non risulta esaminata, almeno ex professo o con particolare approfondimento, la questione della legittimazione, oltretutto se necessaria o meno, del beneficiario nei casi di azione di nullità del trust: la quale va allora affrontata in questa sede, ma al limitato fine di valutare i presupposti per applicare alla fattispecie la deroga prevista dall’art. 6, n. 1, della Convenzione di Lugano del 2007 alla regola generale di devoluzione della giurisdizione al giudice del domicilio del convenuto, essendo pacifico che il trustee convenuto ha domicilio nella Confederazione elvetica; in particolare, a tal fine va premesso che, nell’interpretazione ed applicazione di tutte le disposizioni della Convenzione, i giudici dei Paesi aderenti (e quindi anche quelli italiani e la Corte) devono, ai sensi dell’art. 1 del Protocollo 2 allegato a detta Convenzione, tenere “debitamente conto dei principi definiti dalle pertinenti decisioni dei giudici degli Stati vincolati dalla Convenzione e della Corte di giustizia delle Comunità Europee in relazione a dette disposizioni o a disposizioni analoghe della convenzione di Lugano del 1988 o degli atti normativi di cui all’art. 64, paragrafo 1, della presente convenzione” (cioè il Regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, e successive modifiche, la Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, firmata a Bruxelles il 27 settembre 1968, il Protocollo relativo all’interpretazione di detta Convenzione da parte della Corte di giustizia delle Comunità Europee, firmato a Lussemburgo il 3 giugno 1971, modificati dalle Convenzioni di adesione a detta Convenzione e a detto Protocollo da parte degli Stati aderenti alle Comunità Europee, nonché l’accordo tra la Comunità Europea e il Regno di Danimarca concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, firmato a Bruxelles il 19 ottobre 2005). Ne consegue che i principi di elaborazione Eurounitaria sulla corretta interpretazione ed applicazione dell’art. 6 della Convenzione di Lugano sono gli stessi elaborati quanto all’art. 6 del Regolamento 44/2001.
La regola generale posta dalla Convenzione di Lugano (del 1988 come del 2007), sul punto di tenore identico a quella corrispondente del Regolamento Bruxelles I (cioè il 44/01) ed a quella del successivo Regolamento Bruxelles I-bis (cioè il 1215/12), è la determinazione della giurisdizione in base al luogo del domicilio del convenuto: sicché costituisce un’eccezione o deroga, da interpretare in modo rigoroso, la successiva previsione dell’art. 6. In particolare, affinché due decisioni possano essere considerate incompatibili, ai sensi dell’art. 6, punto 1, del regolamento n. 44/2001, non è sufficiente che sussista una divergenza nella soluzione della controversia, essendo inoltre necessario che tale divergenza si collochi nel contesto di una stessa fattispecie di fatto e di diritto; sicché solo nell’ipotesi di due ricorsi proposti contro una pluralità di convenuti, aventi oggetto e titolo diversi e tra i quali non intercorra una relazione di subordinazione o d’incompatibilità, non è sufficiente che l’eventuale accoglimento di uno di essi sia potenzialmente idoneo a riflettersi sull’entità dell’interesse a tutela del quale l’altra domanda è stata proposta affinché vi sia un rischio di decisioni incompatibili ai sensi di tale disposizione. Infatti, la regola dell’art. 6, paragrafo 1, n. 1, del Regolamento (e quindi, per quanto ricordato al precedente punto 32, della Convenzione di Lugano) dev’essere interpretata “nel senso che la circostanza che domande proposte nei confronti di una pluralità di convenuti abbiano fondamenti normativi diversi non osta all’applicazione di tale disposizione” e comunque “si applica qualora le domande promosse nei confronti di più convenuti siano connesse al momento del loro esperimento, vale a dire qualora sussista un interesse ad un’istruttoria e ad una pronuncia uniche per evitare il rischio di soluzioni eventualmente incompatibili se le cause fossero decise separatamente, senza che sia inoltre necessario verificare ulteriormente che dette domande non siano state presentate esclusivamente allo scopo di sottrarre uno di tali convenuti ai giudici dello Stato membro in cui egli ha il suo domicilio”. Ma neppure (p. 66 delle conclusioni dell’Avvocato Generale nel medesimo caso Freeport cit.) la prova dell’intento fraudolento o abusivo dell’attore potrebbe però trarsi dal semplice fatto che l’azione diretta nei confronti del convenuto domiciliato nello Stato membro del giudice adito appaia infondata, dovendo invece quest’ultima apparire, al momento della relativa introduzione, manifestamente priva di ogni fondamento al punto da risultare artificiosa ovvero sprovvista di ogni interesse reale per l’attore: la giurisprudenza della Corte di Giustizia è stata applicata dalla Cassazione italiana con rigore, essendo stata esclusa la deroga di cui all’art. 6, comma 1, n. 1 del Regolamento quando la prospettazione stessa della domanda fosse artificiosamente finalizzata a sottrarre la controversia al giudice precostituito per legge. In definitiva, tema di giurisdizione, l’art. 6, n. 1, del regolamento comunitario n. 44/2001 (oggi sostituito dall’art. 8, n. 1, di quello n. 1215/2012) va interpretato restrittivamente, integrando una regola speciale in deroga a quella generale di cui al suo precedente art. 2, per cui non può essere esteso oltre le ipotesi previste: sicché una persona domiciliata in uno Stato membro non può essere evocata in giudizio in altro Stato membro, ove è domiciliato uno degli altri convenuti, qualora le domande abbiano oggetto e titolo diversi, siano tra loro compatibili, e non una subordinata all’altra, e non sussista il rischio di decisioni incompatibili, ma solo la possibilità di una divergenza nella loro soluzione o la potenziale idoneità dell’accoglimento di una di esse a riflettersi indirettamente sull’entità dell’interesse sotteso all’altra.
Inoltre, il coinvolgimento di un convenuto ulteriore vale senz’altro a radicare la giurisdizione del giudice italiano quando sia unitaria l’azione intrapresa (come nell’evenienza della revocatoria ordinaria di cui agli artt. 2901 c.c. e ss.: Cass. Sez. U. ord. 03/11/2017, n. 26145), ma non anche quando sia chiaro il suo carattere pretestuoso, cioè la sua esclusiva finalizzazione allo spostamento della competenza giurisdizionale per ragioni di connessione.
Lo stato della giurisprudenza nazionale non consente di qualificare come pacifica l’esclusione della legittimazione passiva del beneficiario nelle azioni di nullità del trust, visto che quella è sì negata, ma soltanto secondo un’impostazione interpretativa maggioritaria e comunque sostanzialmente nei rapporti coi terzi, impostazione che, nella relativa assolutezza, altre pronunce iniziano a mettere in dubbio per la configurabilità di una posizione lato sensu creditoria in capo al beneficiario o per la necessità almeno di approfondire e verificare la natura del trust ed in particolar modo se esso sia stato istituito a titolo oneroso. Al contrario, nella presente fattispecie si tratta, con tutta evidenza, di domande rivolte contro più soggetti comunque tutti – e solo – parti dell’unitario complesso rapporto di trust, le cui posizioni giuridiche soggettive (nonostante la qualificazione di quello come trust discrezionale, oltre che irrevocabile, per l’ampiezza sostanzialmente priva di qualunque vincolo dei poteri loro riconosciuti ai punti 1, 8, 9 e 11 dell’atto costitutivo ed all’art. 1 del relativo allegato 1) sono quindi indissolubilmente avvinte e condizionate dalla contestazione della validità genetica della stessa costituzione del rapporto, anziché di quella della sua opponibilità ai terzi; il titolo è, pertanto, unitario e sussiste un’evidente vincolo di interdipendenza tra la declaratoria di nullità e quella di restituzione dei beni ai quali, se non altro in base al complesso meccanismo di operatività del trust da verificare nel suo concreto atteggiarsi nella fattispecie ad opera del giudice munito di giurisdizione, la beneficiaria potrebbe avere un’aspettativa giuridicamente tutelabile; infatti, nel caso fosse accolta la domanda che mira a travolgere in radice il trust verrebbe meno qualunque posizione giuridica soggettiva, di qualsivoglia specie, anche in capo a quella. Ed atterrà allora al merito – senza potere influenzare la giurisdizione, visto che si tratta di indagine a compiersi e di possibilità non escludibile a priori – tanto la verifica o l’accertamento della sussistenza o meno di un diritto della beneficiaria, quanto la valutazione della dichiarazione od ammissione di questa di insussistenza di pretese comunque in base al trust di cui si mette qui in discussione la stessa validità: come pure al merito atterrà la valutazione della legge in concreto applicabile in forza, nel caso di specie, dell’art. 10.1 dell’atto istitutivo del trust, nonché degli effetti delle relative previsioni.
Nel caso di specie, va dichiarata la giurisdizione del giudice italiano, in applicazione dei seguenti principi di diritto: in caso di trust (nella specie, discrezionale ed irrevocabile), costituito in Stato estero (quale le Isole Cayman) ove non trovano applicazione nè la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, nè i Regolamenti (CE) 44/01 o (UE) 1215/12, nè le Convenzioni di Lugano del 16 settembre 1988 o del 30 ottobre 2007, da una cittadina italiana con individuazione del trustee in una società con domicilio in quello Stato e dei beneficiari in persone fisiche o giuridiche con domicilio in Italia, la clausola negoziale di proroga della giurisdizione in favore dei giudici dello Stato medesimo per le controversie in materia di administration del trust non si estende a quella in tema di validità del rapporto nel suo complesso considerato; ai sensi dell’art. 6, n. 1, della Convenzione di Lugano del 2007, di tenore identico all’art. 6, n. 1, del Regolamento (CE) n. 44/01 (ora trasfuso nell’art. 8, n. 1, del Regolamento UE 1215/12 e che, in caso di pluralità di convenuti, fonda la giurisdizione del giudice del luogo di domicilio di uno di questi, alla condizione che tra le domande esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione unica e una decisione unica onde evitare il rischio di giungere a decisioni incompatibili in caso di trattazione separata), sussiste la giurisdizione del giudice italiano sulla domanda proposta dalla disponente o settlor nei confronti del trustee successivo di un trust costituito all’estero, persona giuridica avente domicilio nella Confederazione elvetica, e della beneficiaria avente domicilio in Italia, non potendo definirsi artificiosa, nè volta in modo pretestuoso al solo fine di provocare lo spostamento della giurisdizione, l’instaurazione di un unitario giudizio per fare valere l’invalidità della costituzione del rapporto tra le parti del trust, questo integrando un titolo unitario e sussistendo un’evidente vincolo di interdipendenza tra la declaratoria di nullità e la domanda di restituzione dei beni ai quali la beneficiaria potrebbe avere un’aspettativa giuridicamente tutelabile.
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Il 7 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 15459 secondo cui l’art.170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell’esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all’iscrizione di ipoteca non volontaria di cui all’art.77 d.P.R. n.602 del 1973, sicché tale iscrizione ipotecaria sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale è legittima solo se l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa.
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Il 4 settembre esce l’ordinanza sentenza della I sezione della Cassazione n. 22069 onde la costituzione del fondo patrimoniale (art. 167 cod. civ.) è funzionale a far fronte ai bisogni della famiglia, intesi come esigenze di vita dei suoi componenti considerate anche con una certa ampiezza, ricomprendendo in esso, oltre alle esigenze primarie attinenti alla vita della famiglia (mantenimento, abitazione, educazione della prole e dei componenti il nucleo, cure mediche, ecc.), in conformità con il potere di indirizzo della vita familiare in capo ai coniugi, anche i bisogni relativi allo sviluppo stesso della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa.
La norma non si riferisce alla così detta famiglia parentale bensì alla famiglia nucleare; in essa sono compresi i figli legittimi, naturali ed adottivi dei coniugi, minori e maggiorenni non autonomi patrimonialmente, nonché, secondo la dottrina, gli affiliati ed i minori in affidamento temporaneo; in quest’ultimo caso in considerazione del fatto che i coniugi sono tenuti al mantenimento di tali soggetti.
Al riguardo occorre quindi considerare che la disciplina del fondo patrimoniale, istituto introdotto dalla legge di Riforma del diritto di famiglia in sostituzione del preesistente patrimonio familiare, non risulta esaustiva, avendo il legislatore ad essa dedicato soltanto cinque articoli, all’interno dei quali non sono puntualmente delineate e distinte le diverse fasi della costituzione, della gestione, della modificazione e dell’estinzione del fondo.
Non solo, ma nella disciplina adottata sono ravvisabili profili di dubbia coerenza fra i quali, per la parte di interesse, va evidenziato quello individuabile nella disposta attenuazione dei vincoli di inalienabilità ed inespropriabilità dei beni, rispetto alla precedente disciplina dettata in tema di patrimonio familiare (art. 167 c.c., comma 2 nella pre vigente formulazione).
Tale attenuazione non risulta infatti in totale e assoluta sintonia con la funzione che il fondo è destinato a svolgere, incontestabilmente consistente nella istituzione di un patrimonio a sè (prescindendo in questa sede da ogni considerazione in ordine alla sua qualificazione come autonomo o separato), con vincolo di destinazione dei beni a far fronte ai bisogni della famiglia e ad adempiere alle eventuali obbligazioni sorte per il soddisfacimento della detta esigenza. Più precisamente i vincoli in questione sono individuabili rispettivamente nelle limitazioni nell’amministrazione e nell’alienazione dei beni del fondo indicate dall’art. 169 c. c. (in deroga alla regola generale dettata dall’art. 1379 c.c..), nonché in quella consistente nella previsione di inespropriabilita per alcuni crediti contemplata dall’art. 170 c. c. (in deroga all’art. 2740 c.c.) e costituiscono lo strumento attraverso il quale l’istituto realizza nel concreto la funzione economico – sociale che il legislatore ha inteso attribuirgli.
Invero, la ragione ispiratrice dell’istituto è individuabile nell’obiettivo di assicurare un sostegno patrimoniale alla famiglia e di realizzare una situazione di vantaggio per tutti i suoi diversi componenti: quanto alla posizione dei figli, due sono le disposizioni che, nel pur scarno apparato normativo dedicato all’istituto, vi fanno esplicito riferimento: l’art.169, primo comma, cod. civ., in tema di atti
di straordinaria amministrazione, secondo il quale, se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente». e l’art. 171 cod. civ., in tema di cessazione ex lege del fondo, secondo il quale la destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Se vi sono figli minori il fondo dura fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. In tale caso il giudice può dettare, su istanza di chi vi abbia interesse, norme per l’amministrazione del fondo. Considerate le condizioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza, il giudice può altresì attribuire ai figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo.
Alla luce di tali disposizioni, se è vero che la costituzione del fondo non determina per ciò solo la perdita della proprietà dei singoli beni da parte dei coniugi che ne sono titolari e che gli stessi possono riservarsi nell’atto di costituzione la facoltà di alienazione, è pur vero che la detta istituzione (peraltro concretizzata per effetto di una libera scelta dalle parti) determina un vincolo di destinazione per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia (e quindi di tutti i suoi componenti, in essi compresi i figli), che il legislatore ha inteso assicurare proprio con la previsione di una serie di misure di sostegno in favore dei componenti più deboli, fra le quali particolarmente significativa risulta quella sopra citata per la quale, ricorrendone le prescritte condizioni, il giudice può attribuire in proprietà ai figli una quota dei beni (art. 171, terzo comma, cod. civ.), così legittimando, sostanzialmente, una espropriazione per tale causa.
Orbene la previsione di dette misure di protezione, anche ove ne sia prevista la derogabilità (art.169, primo comma, cod. civ.) è sintomatica del riconoscimento da parte del legislatore di un interesse qualificato in capo ai figli che risulta inconciliabile, perché intimamente in conflitto con la ratio normativa, con l’esclusione della legittimazione ad agire per far valere in giudizio il proprio interesse nella qualità di beneficiario del fondo nelle forme ordinarie e ad interloquire sulle opzioni operative eccedenti l’ordinaria amministrazione effettuate dai titolari del diritto di proprietà dei beni facenti parte del fondo, atteso che per i componenti del nucleo familiare non è certamente irrilevante la consistenza del patrimonio istituzionalmente destinato all’esclusivo soddisfacimento dei relativi bisogni.
Si deve quindi affermare che le disposizioni codicistiche a tutela del figlio, quali beneficiario del fondo, sono strumenti di protezione che non escludono, e quindi consentono, che il figlio sia anche legittimato ad agire in giudizio per far valere un proprio interesse in relazione agli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
Ciò vale anche per il figlio maggiorenne, ovvero divenuto maggiorenne nel corso del giudizio, come nel presente caso, non potendosi ritenere solo perciò che non abbia più interesse ad agire, in assenza di elementi da cui desumere che il figlio è uscito dalla famiglia ove il fondo patrimoniale non sia cessato ed egli ne continui a beneficiare.
Inoltre, la norma che autorizza la costituzione del fondo patrimoniale non pone alcuna limitazione in relazione all’età dei figli (art.167 cod. civ.): ciò si evince dal dato letterale e trova riscontro in una lettura sistematica delle norme che regolano la responsabilità genitoriale ed i diritti e doveri del figlio (art. 315 e ss., cod. civ.), la disciplina degli alimenti (art.433 cod. civ.).
Nell’ambito delle disposizioni che genitoriale il legislatore utilizza, di regola, il termine “figlio”, salvo a precisare – laddove necessario – che la disposizione si riferisce al “figlio minore”, ovvero ad indicare gli effetti del raggiungimento della maggiore età. In proposito va osservato che il diritto al mantenimento è previsto a favore del “figlio”, senza alcuna limitazione, (art.315 bis cod. civ., 316 bis cod. civ.), anche se alla luce della elaborazione giurisprudenziale maturata soprattutto in caso di separazione e divorzio, il diritto del maggiorenne è circoscritto al caso in cui non abbia raggiunto l’autonomia economica: invero l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, sia tuttavia ancora dipendente dai genitori; per altro verso è previsto, per il figlio minore, il divieto di abbandonare la casa di genitori (art.318 cod. civ.), anche se – significativamente – non si riscontra alcuna disposizione che limiti la convivenza del figlio maggiorenne presso la casa dei genitori.
Anche la disciplina del diritto agli alimenti, che riguarda i componenti della famiglia nucleare (ma non solo, ex art.433 cc), attribuisce la facoltà di richiedere gli alimenti, non in ragione dell’età, ma della ricorrenza dello stato di bisogno e della incapacità del richiedente a provvedere al proprio mantenimento (art.438 cc).
La previsione dello strumento di protezione per il minore, riconosciuto dell’artt. 169, primo comma, cod. civ., alla luce di questo quadro normativo, non osta a che un figlio che abbia raggiunto la maggiore età possa continuare ad essere beneficiato dal fondo patrimoniale ancora in essere, a maggior ragione se non sia emerso alcun elemento da cui desumere che lo stesso sia “economicamente autosufficiente” ed autonomo rispetto alla famiglia di origine, e che possa far valere il proprio interesse in via giudiziaria.
Anche la previsione dell’art.171 cod. civ. non può condurre a diversa conclusione. Il riconoscimento dell’efficacia ultrattiva del fondo, qualora vi siano figli minori, fino al raggiungimento della maggiore età di questi, nel caso in cui la destinazione sarebbe dovuta terminare ex lege/ a seguito dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, costituisce un’altra fattispecie di tutela rafforzata a favore del soggetto debole che, per la sua specificità, non consente affatto di dedurre, al contrario che il raggiungimento della maggiore età del figlio determini, nel diverso ed ordinario caso in cui il fondo patrimoniale sia in essere, la sua sostanziale estromissione, di guisa che permane inalterato l’interesse a che i beni restino vincolati ai bisogni della famiglia.
Arriva pertanto la Corte ad affermare il seguente principio di diritto: i figli, quali beneficiari del fondo patrimoniale, sono legittimati ad agire in giudizio in relazione agli atti dispositivi eccedenti l’ordinaria amministrazione che incidano sulla destinazione dei beni del fondo.
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Il 17 settembre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 23093 onde il negozio fiduciario rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta.
Il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso; che, pertanto, l’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae.
Ne consegue come necessario corollario che se il pactum fiduciae riguarda beni immobili, occorre che esso risulti da un atto in forma scritta ad substantiam, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare per il quale l’art. 1351 cod. civ. impone la stessa forma del contratto definitivo e per tale motivo l’esistenza del patto scritto non può semplicemente desumersi da altri documenti scritti che, sia pure implicitamente, ne lasciano solo presumere l’esistenza.
Invero il pactum fiduciae con il quale il fiduciario si obbliga a modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da costui designato, richiede, qualora riguardi beni immobili, la forma scritta ad substantiam e la prova per testimoni di tale patto è sottratta alle preclusioni stabilite dagli artt. 2721 e segg. cod. civ. – sempre che non comporti, il trasferimento, sia pure indiretto, di beni immobili – soltanto nel caso in cui detto patto sia volto a creare obblighi connessi e collaterali rispetto al regolamento contrattuale, al fine di realizzare uno scopo ulteriore rispetto a quello naturalmente inerente al tipo di accordo, senza direttamente contraddire il contenuto espresso di tale regolamento.
Qualora, invece, il patto si ponga in antitesi con quanto risulta altrimenti dal contratto, la mera qualificazione dello stesso come fiduciario non è sufficiente ad impedire l’applicabilità delle disposizioni che vietano la prova testimoniale dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.
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Il 10 ottobre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 25423 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, anche se compiuto da entrambi i coniugi, è un atto a titolo gratuito e come tale soggetto ad azione revocatoria ordinaria ai sensi dell’articolo 2901 c.c., a condizione che sussista la mera conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori.
In particolare, la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti. Esso, pertanto, è suscettibile di revocatoria, a norma dell’art. 64 I.fall., salvo che si dimostri l’esistenza, in concreto, di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale ed il proposito del solvens di adempiere unicamente a quel dovere mediante l’atto in questione.
Negli stessi termini è stato precisato che l’istituzione di trust familiare (nella specie, per fare fronte alle esigenze di vita e di studio della prole) non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura – ai fini della revocatoria ordinaria – un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti.
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Il 15 ottobre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 25926 onde oggetto dell’azione revocatoria non può essere l’atto istitutivo del trust, che di per sé stesso non ha effetti dispositivi, ma il conseguente atto di disposizione con cui i beni sono trasferiti al fiduciario (trustee) o posto sotto il controllo dello stesso, oppure segregati nel patrimonio del disponente, nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico, come precisa l’art. 2, comma 2, Convenzione de L’Aja.
L’atto istitutivo di trust è l’atto con il quale il disponente esprime la volontà di costituire un trust; l’atto dispositivo, invece, è l’atto con il quale il disponente trasferisce, a titolo gratuito, i beni in trust al trustee.
Appare condivisibile l’impostazione di fondo della sentenza che supera la tesi che ricava la soluzione della non revocabilità dell’atto istitutivo del trust in via diretta – ovvero automatica – dalla affermazione che trattasi di atto sprovvisto di carattere traslativo, rilevando che, invece, tale funzione è svolta, nel contesto della complessiva operazione di trust, da atto successivo e conseguente.
In effetti, la constatazione che, nel trust, dispositivo è l’atto col quale viene intestato al trustee il bene conferito in trust non comporta che la relativa domanda revocatoria debba essere necessariamente indirizzata negli immediati confronti di quest’atto; e non possa, per ciò stesso, essere utilmente proposta pure nei confronti dell’atto istitutivo del trust. In realtà, nel caso in cui all’istituzione del trust abbia fatto poi seguito l’effettiva intestazione del bene conferito al trustee, la domanda di revocatoria, che assume ad oggetto l’atto istitutivo, appare comunque idonea a produrre l’esito di inefficacia (dell’atto dispositivo) a cui propriamente tende la predetta azione (ove la dichiarazione di inefficacia potesse essere emessa anche in assenza dell’effettiva esistenza di un atto dispositivo, per contro, si fuoriuscirebbe senz’altro dalla funzione di conservazione patrimoniale che risulta specificamente connotare, nel sistema del codice civile, come ripreso anche nella sede della normativa fallimentare, lo strumento dell’azione revocatoria).
Per constatare l’indicata idoneità, è sufficiente considerare che l’atto di trasferimento e intestazione del bene conferito al trustee non risulta essere atto isolato e autoreferente. Nella complessa dinamica di un’operazione di trust, lo stesso si pone, per contro, non solo come atto conseguente, ma prima ancora come atto dipendente dall’atto istitutivo. E’ in quest’ultimo atto, cioè, che l’atto dispositivo recupera la sua ragion d’essere e causa (in ipotesi) giustificatrice.
È del resto corrente osservazione in letteratura che il trustee risulta titolare di un «ufficio», o di una «funzione»; e che, quindi, è proprietario non già nell’interesse proprio, bensì nell’interesse altrui: secondo i termini e i modi volta a volta appunto consegnatigli dell’atto istitutivo. La peculiare proprietà del trustee non potrebbe perciò «sopravvivere» all’inesistenza, o al caducarsi, dell’atto che viene nel concreto a conformare tale diritto. L’inefficacia dell’atto istitutivo, come prodotta dall’esito vittorioso di un’azione revocatoria, reca con sé, dunque, pure l’inefficacia dell’atto dispositivo. La domanda di revoca dell’atto istitutivo viene, in altri termini, a colpire il fenomeno del trust sin dalla sua radice.
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Il 29 novembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 31227 che ribadisce il principio di diritto secondo cui ella fideiussione per obbligazione futura l’onere del creditore, previsto dall’art. 1956 cod. civ., di richiedere l’autorizzazione del fideiussore prima di far credito al terzo, le cui condizioni patrimoniali siano peggiorate dopo la stipulazione del contratto di garanzia, assolve alla finalità di consentire al fideiussore di sottrarsi, negando l’autorizzazione, all’adempimento di un’obbligazione divenuta, senza sua colpa, più gravosa.
I presupposti di applicabilità dell’art. 1956 cod. civ. non ricorrono allorché nella stessa persona coesistano le qualità di fideiussore e di legale rappresentante della società debitrice principale, giacché in tale ipotesi la richiesta di credito da parte della persona obbligatasi a garantirlo comporta di per sé la preventiva autorizzazione del fideiussore alla concessione del credito.
2020
Il 30 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 2077 che si allinea al recente indirizzo interpretativo secondo cui la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti. Esso, pertanto, è suscettibile di revocatoria, a norma dell’art. 64 l. fall., salvo che si dimostri l’esistenza, in concreto, di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale ed il proposito del “solvens” di adempiere unicamente a quel dovere mediante l’atto in questione.
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Il 7 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 2897 alla cui stregua, poiché l’imposta sulle successioni e donazioni ha come presupposto l’arricchimento patrimoniale a titolo di liberalità, ai fini della sua applicazione in misura proporzionale occorre valutare se sin dall’istituzione del “trust” si sia realizzato un trasferimento definitivo di beni e diritti dal “trustee” al beneficiario: in mancanza di tale condizione, l’atto dovrà essere assoggettato alla sola imposta fissa di registro.
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Il 25 febbraio esce l’ordinanza della V sezione della Cassazione n. 5017 secondo la quale l’iscrizione ipotecaria di cui all’art. 77, d.P.R. n. 602 del 1973, è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c.c. Tale iscrizione è dunque legittima solo se l’obbligazione sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa.
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Il 6 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6459 relativa alla forma del patto fiduciario con oggetto immobiliare. Premesso che il patto fiduciario dà luogo ad un assetto di rapporti sul piano obbligatorio in forza del quale il fiduciario è tenuto verso il fiduciante a tenere una certa condotta nell’esercizio del diritto fiduciariamente acquistato, ivi compreso il ritrasferimento del diritto al fiduciante o a un terzo da lui designato, l’interrogativo sollevato dall’ordinanza interlocutoria è se possa ritenersi rispettato il requisito della forma scritta del patto fiduciario coinvolgente diritti reali immobiliari in caso di dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario che risulti espressione della causa fiduciaria esistente in concreto, pur se espressa verbalmente tra fiduciante e fiduciario; più in particolare, se valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire sia soltanto un atto bilaterale e scritto, coevo all’acquisto del fiduciario, o se sia sufficiente un atto unilaterale, ricognitivo, posteriore e scritto del fiduciario, a monte del quale vi sia un impegno espresso oralmente dalle parti.
Il fenomeno fiduciario consiste in una operazione negoziale che consente ad una parte (il fiduciante) di far amministrare o gestire per finalità particolari un bene da parte di un’altra (il fiduciario), trasferendo direttamente al fiduciario la proprietà del bene o fornendogli i mezzi per l’acquisto in nome proprio da un terzo, con il vincolo che il fiduciario rispetti un complesso di obblighi volti a soddisfare le esigenze del fiduciante e ritrasferisca il bene al fiduciante o a un terzo da lui designato. Attraverso il negozio fiduciario la proprietà del bene viene trasferita da un soggetto a un altro con l’intesa che il secondo, dopo essersene servito per un determinato scopo, lo ritrasferisca al fiduciante, oppure il bene viene acquistato dal fiduciario con denaro fornito dal fiduciante, al quale, secondo l’accordo, il bene stesso dovrà essere, in un tempo successivo, ritrasferito.
Il negozio fiduciario si presenta non come una fattispecie, ma come una casistica: all’unicità del nome corrispondono operazioni diverse per struttura, per funzione e per pratici effetti. Innanzitutto perché l’investitura del fiduciario nella titolarità del diritto può realizzarsi secondo distinti moduli procedimentali: le parti possono dare origine alla situazione di titolarità fiduciaria sia attraverso un atto di alienazione dal fiduciante al fiduciario, sia mediante un acquisto compiuto dal fiduciario in nome proprio da un terzo con denaro fornito dal fiduciante. In secondo luogo perché l’effetto traslativo non è essenziale per la configurabilità di un accordo fiduciario. Accanto alla fiducia dinamica, caratterizzata dall’effetto traslativo strumentale, un modo di costituzione della titolarità fiduciaria è rappresentato dalla fiducia statica, che si ha quando manca del tutto un atto di trasferimento, perché il soggetto è già investito ad altro titolo di un determinato diritto, e il relativo titolare, che sino a un dato momento esercitava il diritto nel proprio esclusivo interesse, si impegna a esercitare le proprie prerogative nell’interesse altrui, in conformità a quanto previsto dal pactum fiduciae.
Nello schema del negozio fiduciario rientra, oltre quello di tipo traslativo, anche la fiducia statica, i cui estremi sono rappresentati dalla preesistenza di una situazione giuridica attiva facente capo ad un soggetto che venga poi assunto come fiduciario e si dichiari disposto ad attuare un certo disegno del fiduciante mediante l’utilizzazione non già di una situazione giuridica all’uopo creata (come nel negozio fiduciario di tipo traslativo), ma di quella preesistente, che viene così dirottata dal suo naturale esito, a ciò potendosi determinare proprio perché a lui fa capo la situazione giuridica di cui si tratta.
In terzo luogo perché il negozio fiduciario risponde ad una molteplicità di funzioni, di pratici intenti, essendo diversi i tipi di interessi che possono sorreggere l’operazione. Nella fiducia cum amico la creazione della titolarità è funzionale alla realizzazione di una detenzione e gestione del bene nell’interesse del fiduciante ed in vista di un successivo ulteriore trasferimento della titolarità, allo stesso fiduciante o a un terzo. Nella fiducia cum creditore, invece, il contratto fiduciario intercorre tra debitore e creditore: l’interesse del fiduciante è trasferire la proprietà di un suo bene al fiduciario, suo creditore, a garanzia del diritto di credito, con l’impegno del fiduciario a ritrasferire il bene al fiduciante, se questi adempie regolarmente al proprio debito.
Questa seconda tipologia – la fiducia cum creditore – esige una attenta valutazione nel caso concreto, onde accertare che non integri un contratto in frode alla legge e precisamente in violazione del divieto di patto commissorio.
La dottrina ha a lungo dibattuto alla ricerca di una sistemazione appagante del fenomeno fiduciario sotto il profilo del suo fondamento causale. Vi è chi, riducendo il negozio fiduciario ad un tipo negoziale, seppure innominato, lo costruisce come un contratto unitario, avente una propria causa interna, la causa fiduciae, consistente in un trasferimento di proprietà, da un lato, e nell’assunzione di un obbligo, dall’altro. In questa prospettiva, l’effetto obbligatorio non costituisce un limite dell’effetto reale, ma si trova con esso in un rapporto di interdipendenza, non già nel senso di corrispettività economica, ma nel senso che l’attribuzione patrimoniale è il mezzo per rendere possibile al fiduciario quel suo comportamento in ordine al diritto trasferitogli: l’effetto obbligatorio rappresenta dunque la causa giustificatrice dell’effetto reale.
Da parte di altri si ritiene che nell’operazione de qua siano destinati a venire in rilievo singoli negozi tipici, con causa diversa da quella fiduciae, relativamente ai quali la fiducia non opera o non è in grado di operare sul terreno della causa in senso oggettivo, ma su quello dei motivi o su quello delle determinazioni accessorie di volontà.
Altri ancora – dopo avere qualificato il contratto fiduciario come il negozio mediante il quale si persegue uno scopo diverso dalla causa del contratto prescelto, avendo il pactum fiduciae la funzione di piegare il contratto prescelto alla realizzazione dello scopo perseguito, ritengono impossibile ricondurre il fenomeno pratico ad una unitaria categoria giuridica e considerano il contratto traslativo e il patto fiduciario come contratti separati, tra loro collegati, nei quali la causa fiduciae esprime il collegamento fra i due contratti. Tale orientamento costruisce il fenomeno in forma pluralistica, vedendovi un collegamento funzionale tra trasferimenti e obblighi, in attuazione del programma fiduciario: di talché l’interno vincolo obbligatorio (con il quale il fiduciario si obbliga, nel rispetto della fiducia, al compimento del negozio che ne costituisce adempimento), non autonomamente isolabile, interagisce con l’effetto reale esterno.
Anche in giurisprudenza non mancano prese di posizione sulla natura giuridica del negozio fiduciario. Così, alcune pronunce vedono nel contratto fiduciario un caso di negozio indiretto: un negozio, cioè, con cui le parti perseguono risultati diversi da quelli tipicamente propri del negozio impiegato, e corrispondenti a quelli di un negozio diverso. Il negozio fiduciario – si afferma – rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta: il negozio, che è realmente voluto dalle parti, viene infatti posto in essere in vista di un fine pratico diverso da quello suo tipico, e corrispondente in sostanza alla funzione di un negozio diverso.
L’intestazione fiduciaria di un bene comporta un vero e proprio trasferimento in favore del fiduciario, limitato però dagli obblighi stabiliti inter partes, compreso quello del trasferimento al fiduciante, in cui si ravvisa il contenuto del pactum fiduciae.
Altre volte si opta per un inquadramento in termini di pluralità di negozi connessi da una comune congruenza funzionale ovvero da un’unica finalità economica: nel rapporto fiduciario si ha il concorso di due negozi, l’uno di disposizione e l’altro che è anche causa del primo, di obbligazione, i quali sono distinti, pur se collegati, e non fusi unitariamente; il negozio fiduciario si realizza mediante il collegamento di due negozi, parimenti voluti, l’uno di carattere esterno, efficace verso i terzi, e l’altro, inter partes ed obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo, per cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o al terzo.
Una terza impostazione si distacca dalle ricostruzioni che descrivono il negozio fiduciario come articolato in due negozi (uno esterno e con effetti reali, l’altro interno e obbligatorio), per sostenere che qualora tra due parti intercorra un accordo fiduciario, esso comprende l’intera operazione e la connota di una causa unitaria, quella di realizzare il programma fiduciario, mentre per la sua realizzazione possono essere posti in essere diversi negozi giuridici, che a seconda dei casi e degli obiettivi che con l’accordo fiduciario ci si propone di realizzare possono essere diversi sia nel numero che nella tipologia.
Poste tali premesse, la Corte passa in rassegna gli indirizzi giurisprudenziali che si sono manifestati sulla questione oggetto di scrutinio.
Quando l’impegno all’ulteriore trasferimento ad opera del fiduciario riguardi un bene immobile, l’orientamento dominante condiziona la rilevanza del patto fiduciario alla circostanza che i soggetti abbiano consegnato in un atto scritto il pactum. Tale indirizzo, infatti, assimila, quoad effectum, il patto fiduciario, sotto il profilo dell’assunzione dell’obbligo a ritrasferire da parte del fiduciario, al contratto preliminare, con la conseguente necessità di osservare la forma vincolata per relationem prevista dall’art. 1351 cod. civ. In base a tale orientamento, il negozio fiduciario, nel quale sia previsto l’obbligo di una parte di modificare la situazione giuridica a lui facente capo a favore del fiduciante o di altro soggetto da quest’ultimo designato, richiede la forma scritta ad substantiam qualora riguardi beni immobili, atteso che esso è sostanzialmente equiparabile al contratto preliminare – per il quale l’art. 1351 cod. civ. prescrive la stessa forma del contratto definitivo – in relazione all’obbligo assunto dal fiduciario di emettere la dichiarazione di volontà diretta alla conclusione del contratto voluto dal fiduciante.
In questa prospettiva, la valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire del fiduciario può essere solo un atto negoziale avente struttura bilaterale e dispositiva. Onere del fiduciante è quello di dimostrare l’esistenza dell’accordo scritto fiduciario, che ha preceduto o accompagnato la stipula del contratto di acquisto, con l’assunzione, da parte del fiduciario, dell’obbligo di retrocessione del bene immobile. La dichiarazione unilaterale del fiduciario non è ritenuta sufficiente allo scopo, giacché una ricognizione ex post di un atto solenne ab origine perfezionato informalmente non vale a supplire al difetto della forma richiesta dalla legge ai fini della validità dell’atto: ai fini del trasferimento della proprietà immobiliare (e relativi preliminari), il requisito della forma scritta prevista ad substantiam non può essere sostituito da una dichiarazione confessoria dell’altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto né – quando anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto – come prova del medesimo; pertanto, il requisito di forma può ritenersi soddisfatto solo se il documento costituisca l’estrinsecazione formale diretta della volontà negoziale delle parti e non anche quando esso si limiti a richiamare un accordo altrimenti concluso, essendo in tal caso necessario che anche tale accordo rivesta la forma scritta e contenga tutti gli elementi essenziali del contratto non risultanti dall’altro documento, senza alcuna possibilità di integrazione attraverso il ricorso a prove storiche, non consentite dall’art. 2725 cod. civ..
Nel ribadire la necessità dell’atto bilaterale scritto, talvolta la giurisprudenza ne mitiga le conseguenze applicando il principio secondo cui la produzione in giudizio di una scrittura, contro la parte dalla quale proviene, equivale a perfezionamento dell’accordo bilaterale. E’ ben vero che l’unilateralità della dichiarazione resa dal fiduciario contrasta con la necessaria bilateralità del negozio fiduciario, ma, poiché ad avvalersene in giudizio è il contraente del quale manca la sottoscrizione, trova applicazione il consolidato principio per cui quando la parte che non abbia sottoscritto l’atto a forma vincolata la produca in giudizio, invocandone a proprio favore gli effetti e così dando la propria adesione, se l’altra parte non abbia nel frattempo revocato il consenso prima manifestato, il requisito della necessaria consensualità deve ritenersi validamente esistente.
Un indirizzo minoritario ritiene invece che l’accordo fiduciario non necessiti indefettibilmente della forma scritta a fini di validità, ben potendo la prescrizione di forma venire soddisfatta dalla dichiarazione unilaterale redatta per iscritto e sottoscritta con cui il fiduciario si impegni a trasferire determinati beni al fiduciante, in attuazione esplicita (ossia con expressio causae) del medesimo pactum fiduciae.
Secondo questo orientamento, a monte della dichiarazione unilaterale con cui il soggetto, riconoscendo il carattere fiduciario dell’intestazione, promette il trasferimento del bene al fiduciante, può stare anche un impegno orale delle parti, e la dichiarazione unilaterale, in quanto volta ad attuare il pactum preesistente, ha una propria “dignità”, che la rende idonea a costituire autonoma fonte dell’obbligazione del promittente, purché contenga la chiara enunciazione dell’impegno e del contenuto della prestazione.
Il nuovo indirizzo muove dalla constatazione della prassi, nella quale non è infrequente che l’accordo fiduciario non sia scritto, ma che il soggetto in quel momento beneficiario della intestazione si impegni unilateralmente a modificare in un futuro la situazione secondo gli accordi presi con l’altro soggetto; e dalla considerazione che una dichiarazione unilaterale non costituisce necessariamente ed esclusivamente una semplice promessa di pagamento, di valore meramente ricognitivo rispetto ad un impegno ad essa esterno.
Più precisamente, anche un impegno che nasce come unilaterale ha una propria dignità atta a costituire fonte di obbligazioni in quanto è volto ad attuare l’accordo fiduciario preesistente: la fiducia è la causa dell’intera operazione economica posta in essere, che si articola in diversi negozi giuridici e che colora di liceità e di meritevolezza l’impegno di ritrasferimento assunto dal fiduciario con la sottoscrizione del suo impegno unilaterale. La pronuncia che ha innovato l’orientamento tradizionale richiama, intravedendovi profili di affinità, la svolta di giurisprudenza realizzatasi in relazione al mandato senza rappresentanza all’acquisto di beni immobili, per il quale la Cassazione ha escluso la necessità della forma scritta e ha affermato che si può fare ricorso al rimedio dell’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto nei casi in cui ci sia una dichiarazione unilaterale scritta del mandatario, anche successiva all’acquisto, che contenga un preciso impegno e una sufficiente indicazione degli immobili da trasferire.
Nel complessivo panorama giurisprudenziale non possono essere tralasciati altri due indirizzi.
Dal primo si ricava il principio secondo cui deve rivestire ad substantiam forma scritta il negozio traslativo di beni immobili dal fiduciario al fiduciante in esecuzione del pactum fiduciae, ma non anche quest’ultimo.
Il secondo si preoccupa di dare indicazioni sulla forma, nei seguenti termini: la fattispecie del negozio fiduciario si sostanzia in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l’obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento coerente e congruo. Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà della forma.
L’indirizzo dominante, nel richiedere la forma scritta ad validitatem del patto fiduciario con oggetto immobiliare, muove da un’equiparazione del patto al contratto preliminare: sia per la somiglianza strutturale (obbligatorietà del futuro contrahere) tra l’uno e l’altro negozio, sia per la similitudine effettuale, che si risolverebbe nell’eadem ratio del requisito di forma imposto dall’art. 1351 cod. civ. In sostanza, si riconosce l’esistenza di un collegamento tra l’art. 1351 e l’art. 2392 cod. civ., nel senso che, riferendosi l’art. 2392 cod. civ. a tutti i contratti produttivi di un obbligo a contrarre, anche l’art. 1351 cod. civ. dovrebbe estendersi a tutti i contratti che obblighino i contraenti a stipulare un ulteriore negozio formale, con la conseguenza che la norma non riguarderebbe soltanto il contratto preliminare, ma ogni negozio fonte di successivi obblighi a contrarre, e tra questi il patto fiduciario.
La Corte, tuttavia, ritiene di non condividere tale orientamento.
Nel rapporto che si realizza per mezzo di un acquisto compiuto dal fiduciario, per conto del fiduciante, direttamente da un terzo, il pactum fiduciae è assimilabile, ad avviso del Collegio, al mandato senza rappresentanza, non al contratto preliminare.
In questo senso convergono le indicazioni della giurisprudenza e le analisi della dottrina. Quando pone l’accento sulla struttura e sulla funzione del pactum fiduciae, la giurisprudenza non esita a ricondurre al mandato senza rappresentanza (in particolare, ai rapporti interni tra mandante e mandatario) il patto di ritrasferire al fiduciante il diritto acquistato dal fiduciario. L’eventualità che la fiducia si estrinsechi attraverso il patto di ritrasferire al fiduciante il diritto acquisito dal fiduciario e che, quindi, venga ad atteggiarsi come un mandato senza rappresentanza è da ritenere perfettamente conforme alla potenziale estensione ed articolabilità del patto relativo: il mandato senza rappresentanza, infatti, costituendo lo strumento tipico dell’agire per conto (ma non nel nome) altrui, non solo può piegarsi alle esigenze di un pactum fiduciae che contempli l’obbligo del fiduciario di ritrasferire al fiduciante un diritto, ma si pone anzi come la figura negoziale praticamente meglio idonea ad assorbire, senza residui e senza necessità di ulteriori combinazioni, quel determinato intento.
La dottrina, dal canto suo, evidenzia come mandato (in nome proprio) e negozio fiduciario si presentino entrambi come espressioni della interposizione reale di persona: in particolare, con specifico riguardo all’ipotesi, che qui viene in rilievo, del soggetto che abbia acquistato un bene utilizzando la provvista di altri e per seguire le istruzioni ricevute, essa perviene alla conclusione che tale posizione può essere qualificata come mandato o come fiducia, ma che le norme applicabili sono comunque le stesse.
Sul versante del rapporto tra preliminare e patto fiduciario – al di là della affinità legata al fatto che anche nel pactum fiduciae, come nell’obbligo nascente dal contratto preliminare, è ravvisabile un momento iniziale con funzione strumentale rispetto ad un momento finale – la riflessione in sede scientifica mette in luce la diversità degli assetti d’interessi perseguiti dall’una e dall’altra figura. Nel preliminare, infatti, l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale, e lo precede; nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima, e su di esso s’innesta l’effetto obbligatorio, la cui funzione non è propiziare un effetto reale già prodotto, ma conformarlo in coerenza con l’interesse delle parti. Ne consegue che, mentre l’obbligo di trasferire inerente al preliminare di vendita immobiliare è destinato a realizzare la consueta funzione commutativa, la prestazione traslativa stabilita nell’accordo fiduciario serve, invece, essenzialmente per neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione patrimoniale vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante.
Inoltre, l’obbligo nascente dal contratto preliminare si riferisce alla prestazione del consenso relativo alla conclusione di un contratto causale tipico (quale la vendita), con la conseguenza che il successivo atto traslativo è qualificato da una causa propria ed è perciò improntato ad una funzione negoziale tipica; diversamente, nell’atto di trasferimento del fiduciario – analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza (art. 1706, secondo comma, cod. civ.) – si ha un’ipotesi di pagamento traslativo, perché l’atto di trasferimento si identifica in un negozio traslativo di esecuzione, il quale trova il proprio fondamento causale nell’accordo fiduciario e nella obbligazione di dare che da esso origina. Le differenze esistenti tra il contratto preliminare e il pactum fiduciae escludono, dunque, la possibilità di equiparare le due figure ai fini di un eguale trattamento del regime formale.
Quanto, poi, al collegamento tra la natura immobiliare del bene acquistato dal fiduciario e l’esecuzione specifica dell’obbligo di trasferimento rimasto inadempiuto, si è chiarito che il rimedio dell’esecuzione in forma specifica non è legato alla forma del negozio da cui deriva l’obbligo di contrattare, potendo l’art. 2932 cod. civ. trovare applicazione anche là dove l’obbligo di concludere un contratto riguardi cose mobili e si trovi pertanto contenuto in un contratto non formale, perché volto, appunto, al trasferimento di beni mobili.
La riconduzione allo schema del mandato senza rappresentanza del pactum fiduciae che s’innesta sull’intestazione in capo al fiduciario di un bene da questo acquistato utilizzando la provvista fornita dal fiduciante, orienta la soluzione del problema della forma dell’impegno dell’accordo fiduciario con oggetto immobiliare. Invero, al fine di stabilire se un contratto atipico sia o meno soggetto al vincolo di forma, occorre procedere – secondo l’insegnamento di autorevole dottrina – con il metodo dell’analogia, ed accertare se il rapporto di somiglianza intercorra con un contratto tipico a struttura debole (tale essendo quello strutturato dal legislatore sui tre elementi dell’accordo, della causa e dell’oggetto, senza alcun requisito di forma) o con un contratto tipico a struttura forte (nel quale invece il requisito della forma concorre ad integrare la fattispecie), perché soltanto nel secondo caso anche per il negozio atipico è configurabile il requisito di forma.
Ora, il mandato senza rappresentanza che abbia per oggetto l’acquisto di beni immobili per conto del mandante e in nome del mandatario, è un contratto a struttura debole. Superando l’orientamento, che risaliva a una pronuncia delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1954, n. 3861), che, considerato l’esito reale mediato, garantito da un meccanismo legale munito di forte effettività, estendeva al mandato il vincolo di forma prescritto per il contratto traslativo immobiliare, la giurisprudenza di questa Corte ha infatti statuito che, in ossequio al principio di libertà della forma, il mandato senza rappresentanza per l’acquisto di beni immobili non necessita della forma scritta e che il rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di trasferire al mandante l’immobile acquistato dal mandatario è esperibile anche quando il contratto di mandato senza rappresentanza sia privo di forma scritta.
A tale approdo la giurisprudenza di legittimità è pervenuta rilevando che: – tra il mandante e il mandatario senza rappresentanza trova applicazione il solo rapporto interno, laddove la necessità della forma scritta si impone per gli atti che costituiscono titolo per la realizzazione dell’effetto reale in capo alla parte del negozio; – le esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, sottese all’imposizione della forma scritta quale requisito di validità del contratto traslativo del diritto reale sul bene immobile, non si pongono con riferimento al mandato ad acquistare senza rappresentanza, dal quale non sorgono effetti reali, ma meramente obbligatori; – i requisiti di forma scritta concernono esclusivamente l’acquisto che il mandatario effettua dal terzo (rapporto esterno) e per quello di successivo trasferimento in capo al mandante del diritto reale sul bene immobile a tale stregua acquistato; l’art. 1351 cod. civ. è norma eccezionale, come tale non suscettibile di applicazione analogica, e neppure di applicazione estensiva, attesa l’autonomia e la netta distinzione sussistente tra mandato e contratto preliminare.
Analogamente a quando avviene nel mandato senza rappresentanza, dunque, anche per la validità dal pactum fiduciae prevedente l’obbligo di ritrasferire al fiduciante il bene immobile intestato al fiduciario per averlo questi acquistato da un terzo, non è richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario che dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio. L’accordo concluso verbalmente è fonte dell’obbligo del fiduciario di procedere al successivo trasferimento al fiduciante anche quando il diritto acquistato dal fiduciario per conto del fiduciante abbia natura immobiliare. Se le parti non hanno formalizzato il loro accordo fiduciario in una scrittura, ma lo hanno concluso verbalmente, potrà porsi un problema di prova, non di validità del pactum.
L’osservanza del requisito della forma scritta è invece imposta, in base all’art. 1350 cod. civ., per gli atti traslativi: per il contratto, iniziale, di acquisto dell’immobile da parte del fiduciario e per il successivo atto di ritrasferimento ad opera del medesimo.
L’esclusione della necessità della forma scritta per il pactum fiduciae con oggetto immobiliare riconcilia la soluzione giurisprudenziale con la storia e con l’esperienza pratica del negozio fiduciario. La dottrina italiana sulla teoria generale del negozio giuridico ha infatti consegnato alla comunità degli interpreti l’affermazione che non è necessario che l’intesa fiduciaria, rivolta a limitare i poteri del fiduciario, risulti dal tenore documentale del negozio. Questo insegnamento – che corrisponde ad un’idea risalente, ossia al rilievo che il pactum fiduciae è soggetto ad una intesa segreta – non è rimasto privo di riscontro negli svolgimenti giurisprudenziali. Si è infatti statuito che il contratto fiduciario è perfettamente configurabile nel diritto vigente, in quanto con esso si ponga in essere, effettivamente, il contratto che appare dallo scritto, ma con un vincolo o con una limitazione o condizione non espressa ed affidata alla fiducia dell’altro contraente.
In questa stessa prospettiva, si è ribadito che si ha negozio fiduciario quando, oltre ai patti risultanti dallo scritto, si ponga in essere un patto non espresso affidato alla fiducia di uno dei contraenti. D’altra parte, la dimensione pratica del fenomeno fiduciario, quale emerge dal contesto complessivo delle controversie venute all’esame dei giudici, offre un quadro variegato di accordi fiduciari verbali tra coniugi, conviventi e familiari relativi alla intestazione di immobili acquistati in tutto o in parte con denaro di uno solo di essi, nel quale le parti, per motivi di opportunità, di lealtà e di fiducia reciproca, sono restie a consegnare in un atto scritto il pactum tra di esse intervenuto. Proprio rivolgendo l’analisi all’esperienza e ai modi di attuazione dei comportamenti, un’autorevole dottrina è giunta alla conclusione che condizionare all’osservanza della forma scritta la validità del patto fiduciario significherebbe praticamente escludere la rilevanza pratica della fiducia in molte ipotesi di fiducia cum amico, dato che la formalità del patto finirebbe quasi sempre per incidere sulla dimensione pratica del comportamento, escludendone la fiduciarietà dal punto di vista della morfologia del fenomeno empirico.
Fissato il principio secondo cui non è richiesta la forma scritta per la validità del patto fiduciario avente ad oggetto l’obbligazione del fiduciario di ritrasferire al fiduciante l’immobile dal primo acquistato da un terzo in nome proprio, si tratta di stabilire la rilevanza della posteriore dichiarazione scritta con cui l’interposto, riconosciuta l’intestazione fiduciaria, si impegna ad effettuare, in favore del fiduciante o di un terzo da lui indicato, il ritrasferimento finale.
Le Sezioni Unite ritengono che la dichiarazione ricognitiva dell’interposizione reale e promissiva del ritrasferimento non rappresenta il vestimentum per mezzo del quale dare vigore giuridico, con la forma richiesta dalla natura del bene, a quello che, altrimenti, sarebbe un nudo patto. Infatti, una volta ammessa la validità del patto fiduciario immobiliare anche se stipulato verbis, il fiduciario dichiarante è già destinatario di una obbligazione di ritrasferimento, e tale patto non scritto è il titolo che giustifica l’accoglimento della domanda giudiziale di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento su di lui gravante.
D’altra parte, non sussistono ostacoli ad ammettere, a tutela del fiduciante deluso, il particolare rimedio di cui all’art. 2932 cod. civ.: avendo questa Corte chiarito che l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto è applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad altro negozio, sia in relazione ad un atto o fatto dai quali detto obbligo possa discendere ex lege; ed avendo la dottrina riconosciuto la possibilità di ricorrere al meccanismo che l’art. 2932 cod. civ. tipicamente configura per ottenere in forma specifica l’esecuzione dell’obbligo, che il fiduciario si è assunto con la stipulazione del pactum, di ritrasferire al fiduciante – o a un terzo da lui designato – il bene o la posizione di titolarità.
Il fiduciante deluso che si affidi ad un patto stipulato verbis, tuttavia, potrebbe avere difficoltà di dimostrare in giudizio l’intervenuta stipulazione dell’accordo e di ottenere la sentenza costitutiva nei confronti del fiduciario infedele.
Si spiegano, allora, il ruolo e il significato della dichiarazione scritta del fiduciario. La dichiarazione ricognitiva dell’intestazione fiduciaria e promissiva del ritrasferimento è infatti un atto unilaterale riconducibile alla figura della promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., la cui funzione è quella di dispensare colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, l’esistenza di questo presumendosi fino a prova contraria. Da tale dichiarazione non dipende la nascita dell’obbligo del fiduciario di ritrasferire l’immobile al fiduciante: essa non costituisce fonte autonoma di tale obbligo, che deriva dal pactum, anche se stipulato soltanto verbalmente, ma è produttiva dell’effetto di determinare la relevatio ab onere probandi e di rafforzare così la posizione del fiduciante destinatario della dichiarazione stessa, il quale, in virtù di questa, è esonerato dall’onere di dimostrare il rapporto fondamentale.
Si è dunque in presenza di una astrazione processuale, perché il rapporto fondamentale deve bensì sempre esistere (in tal senso non vi è astrazione sostanziale o materiale), ma la sua esistenza, a seguito della dichiarazione ricognitiva e promissiva del fiduciario, è presunta iuris tantum, risolvendosi così la vicenda in un’inversione dell’onere della prova. In altri termini, rendendo la dichiarazione, il fiduciario non assume l’obbligazione di ritrasferimento, essendo egli già obbligato in forza del pactum fiduciae, ancorché stipulato verbalmente; assume, piuttosto, l’onere di dare l’eventuale prova contraria dell’esistenza, validità, efficacia, esigibilità o non avvenuta estinzione del pactum, così come dei suoi limiti e contenuto, ove difformi da quanto promesso o riconosciuto.
Tale soluzione si pone in linea con l’insegnamento della Corte, secondo cui la promessa di pagamento non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, determinando, ex art. 1988 cod. civ., un’astrazione meramente processuale della causa debendi, da cui deriva una semplice relevatio ab onere probandi che dispensa il destinatario della dichiarazione dall’onere di provare quel rapporto, che si presume fino a prova contraria, ma dalla cui esistenza o validità non può prescindersi sotto il profilo sostanziale, venendo, così, meno ogni effetto vincolante ove rimanga giudizialmente provato che il rapporto suddetto non è mai sorto, o è invalido, o si è estinto, ovvero che esista una condizione o un altro elemento ad esso attinente che possa comunque incidere sull’obbligazione derivante dal riconoscimento o dalla promessa.
Occorre evidenziare che dall’art. 1988 cod. civ. non è richiesto che promessa di pagamento e ricognizione di debito contengano un riferimento al titolo dell’obbligazione, e che le dichiarazioni titolate sono tuttavia ammissibili e riconducibili alla disciplina dettata da tale disposizione. Si è infatti affermato che la ricognizione di debito titolata, che comporta la presunzione fino a prova contraria del rapporto fondamentale, si differenzia dalla confessione, che ha per oggetto l’ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte: ne consegue che la promessa di pagamento, ancorché titolata, non ha natura confessoria, sicché il promittente può dimostrare l’inesistenza della causa e la nullità della promessa.
Conclusivamente, vengono enunciati i seguenti principi di diritto: «Per il patto fiduciario con oggetto immobiliare che s’innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta ad substantiam; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario»; «La dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile e promissiva del suo ritrasferimento al fiduciante, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma, rappresentando una promessa di pagamento, ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, realizzando, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., un’astrazione processuale della causa, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della contra se pronuntiatio, dell’onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria».
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Il 27 aprile esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 8201 alla cui stregua se il credito per cui si procede è anche solo indirettamente destinato alla soddisfazione di esigenze familiari del debitore, rientrando nell’attività professionale da cui quest’ultimo ricava il reddito occorrente per il mantenimento della famiglia, non è consentita, ai sensi dell’art. 170 c.c., la sua soddisfazione sui beni costituiti in fondo patrimoniale.
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Il 6 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 13883 che stabilisce che nel caso in cui all’istituzione del trust abbia fatto seguito l’effettiva intestazione del bene conferito al trustee, la domanda di revocatoria, che assume ad oggetto l’atto istitutivo, appare idonea a produrre l’esito di inefficacia dell’atto dispositivo a cui tende la predetta azione. Secondo la Suprema corte, l’atto di trasferimento e intestazione del bene conferito al trustee non risulta essere atto isolato e autoreferente, visto che nella complessa dinamica di un’operazione di trust, lo stesso si pone, non solo come atto conseguente, ma prima ancora come atto dipendente dall’atto istitutivo, essendo dunque in quest’ultimo atto che l’atto dispositivo recupera la sua ragion d’essere e causa giustificatrice. L’inefficacia dell’atto istitutivo, come prodotta dall’esito vittorioso di un’azione revocatoria, reca con sé, dunque, pure l’inefficacia dell’atto dispositivo.
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Il 15 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 14978 che stabilisce la sussistenza della responsabilità solidale, ai sensi dell’art. 14, comma 4, D. Lgs. n. 472/1997, nei confronti del trust al quale siano stati conferiti beni sociali nel contesto di atti di straordinaria amministrazione (cessione e affitto di azienda), compiuti dalla disponente società obbligata principale poi fallita, aventi la sola finalità di sottrarre al Fisco l’originaria garanzia patrimoniale del credito tributario nei confronti del cedente.
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Il 20 luglio esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 15385 secondo la quale per il patto fiduciario avente ad oggetto un bene immobile, acquistato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, trattandosi di atto meramente interno che dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio. Tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario.
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Il 14 ottobre esce l’ordinanza della sez. Trib. della Cassazione n. 22176 alla cui stregua, la costituzione del vincolo di destinazione di cui al D.L. n. 262 del 2006, art. 2, comma 47, conv. in L. n. 286 del 2006, non integra autonomo e sufficiente presupposto di una nuova imposta, in aggiunta a quella di successione e di donazione. Ai fini dell’applicazione dell’imposta di donazione, così come di quella proporzionale di registro ed ipocatastale, infatti, è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale. Secondo la Suprema Corte nel trust di cui alla L. n. 364 del 1989, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja 1 luglio 1985, un trasferimento così imponibile non è riscontrabile né nell’atto istitutivo né nell’atto di dotazione patrimoniale tra disponente e trustee, in quanto meramente strumentali ed attuativi degli scopi di segregazione e di apposizione del vincolo di destinazione, ma soltanto in quello di eventuale attribuzione finale del bene al beneficiario, a compimento e realizzazione del trust medesimo.
Il 23 ottobre esce l’ordinanza della sez. Trib. della Cassazione n. 23253 che conferma il costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’iscrizione ipotecaria di cui all’articolo 77 del d.P.R. n. 602 del 1973 è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’articolo 170 c.c., sicché è legittima solo se l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa, e che il detto creditore fosse a conoscenza di tale circostanza.
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Il 9 novembre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 24986 secondo la quale nel trust costituito in favore dei creditori la segregazione del patrimonio del debitore e la costituzione di un vincolo di destinazione su un patrimonio che si rende autonomo rispetto a quello del debitore non risultano atti confacenti all’obbligo di mantenimento della garanzia patrimoniale generica che grava sul debitore ex art. 2740 cod. civ.. Pertanto, la lesione della garanzia patrimoniale dei creditori – id est: l’eventus damni – risulta evidente sin dalla costituzione del Trust, non rendendo percorribile per i creditori l’esecuzione sui beni del debitore ex art. 2910, comma 1, cod. civ. Secondo la Suprema Corte, inoltre, l’atto istitutivo del trust in parola non può essere valutato alla stregua dei motivi soggettivi dichiarati da chi lo pone in essere, dovendosi considerare la posizione soggettiva del disponente rispetto all’effetto del negozio sull’aspettativa dei creditori di confidare sul patrimonio del debitore. Sicché, ove l’atto sia successivo al sorgere del credito, quel che rileva, ai fini dell’azione revocatoria di atti a titolo gratuito, qual è la costituzione di un trust e il conseguente conferimento di beni in questo, è la mera conoscenza dell’oggettivo pregiudizio che tale atto può arrecare al ceto creditorio ex art. 2901, comma 1, n. 1), prima parte, cod. civ.
2021
Il 4 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 13 che richiama il proprio consolidato orientamento secondo cui il trasferimento dal “settlor” al “trustee” di immobili e partecipazioni sociali per una durata predeterminata o fino alla morte del disponente, i cui beneficiari siano i discendenti di quest’ultimo, avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso trustee, che è tenuto solo ad amministrarlo ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del suo ritrasferimento ai beneficiari del “trust”. Detto atto, pertanto, è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale.
Il 26 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 1604 alla cui stregua, per il patto fiduciario con oggetto immobiliare che s’innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta ad substantiam; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di trasferimento gravante sul fiduciario. La dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile e promissiva del suo trasferimento al fiduciante, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma, rappresentando una promessa di pagamento, ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, realizzando, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ., un’astrazione processuale della causa, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della contra se pronunciatio, dell’onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria.
L’8 febbraio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 2904 che chiarisce cosa debba intendersi per fondo patrimoniale e quando i beni in esso vincolati possano essere aggrediti dai creditori, evidenziando a tal fine la giusta interpretazione da dare ai “bisogni della famiglia”. In particolare, la Suprema Corte afferma che il fondo patrimoniale indica la costituzione su determinati beni (immobili o mobili registrati o titoli di credito) da parte di uno o di entrambi i coniugi (o anche di un terzo), con convenzione matrimoniale assoggettata ad oneri formali e pubblicitari, di un vincolo di destinazione al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Esso indica altresì il relativo regime di cogestione da parte dei coniugi. Il vincolo di destinazione impresso ai beni comporta che essi non siano aggredibili per debiti che i creditori conoscevano essere stati contratti per bisogni estranei alla famiglia. A tale stregua, il detto vincolo limita l’aggredibilità dei beni conferiti solamente alla ricorrenza di determinate condizioni, rendendo più incerta o difficile la soddisfazione del credito, conseguentemente riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti in violazione dell’art. 2740 c.c., che impone al debitore di rispondere con tutti i suoi beni dell’adempimento delle obbligazioni, a prescindere dalla relativa fonte. La costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., mezzo di tutela del creditore rispetto agli atti del debitore di disposizione del proprio patrimonio, poiché con l’azione revocatoria ordinaria viene rimossa, a vantaggio dei creditori, la limitazione alle azioni esecutive che l’art. 170 c.c. circoscrive ai debiti contratti per i bisogni della famiglia sempre che ricorrano le condizioni di cui all’art. 2901, 1° co. n. 1, c.c., senza alcun discrimine circa lo scopo ulteriore da quest’ultimo avuto di mira nel compimento dell’atto dispositivo (a tale stregua considerandosi soggetti all’azione revocatoria anche gli atti aventi un profondo valore etico e morale, come ad es. il trasferimento della proprietà di un bene effettuato a seguito della separazione personale per adempiere al proprio obbligo di mantenimento nei confronti dei figli e del coniuge, in favore di quest’ultimo), per la sussistenza del consilium fraudis, essendo in particolare sufficiente, nel caso in cui la costituzione sia avvenuta anteriormente al sorgere del debito, la consapevolezza da parte dei debitori del pregiudizio che mediante l’atto di disposizione venga in concreto arrecato alle ragioni del creditore. Atteso che l’art. 170 c.c. disciplina l’efficacia sui beni del fondo patrimoniale di titoli che possono giustificare l’esecuzione su di essi, il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo patrimoniale va ricercato non già nella natura “ex contractu” o “ex delicto” delle obbligazioni, ma nella relazione esistente tra gli scopi per cui i debiti sono stati contratti e i bisogni della famiglia, con la conseguenza che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia. A tale stregua, delle obbligazioni assunte, anche anteriormente alla costituzione del fondo, per bisogni estranei alla famiglia, i beni vincolati in fondo patrimoniale non rispondono. Secondo la Suprema Corte, i bisogni della famiglia sono da intendersi non in senso restrittivo, come riferentesi cioè alla necessità di soddisfare l’indispensabile per l’esistenza della famiglia, bensì nel senso di ricomprendere in detti bisogni anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento e all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi. In altri termini, i bisogni della famiglia debbono essere intesi in senso lato, non limitatamente cioè alle necessità c.d. essenziali o indispensabili della famiglia ma avendo più ampiamente riguardo a quanto necessario e funzionale allo svolgimento e allo sviluppo della vita familiare secondo il relativo indirizzo, e al miglioramento del benessere (anche) economico della famiglia, concordato ed attuato dai coniugi. Con particolare riferimento ai debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, anche se la circostanza che il debito sia sorto nell’ambito dell’impresa o dell’attività professionale non è di per sé idonea ad escludere in termini assoluti che esso sia stato contratto per soddisfare i bisogni della famiglia, risponde invero a nozione di comune esperienza che le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività d’impresa o professionale abbiano uno scopo normalmente estraneo ai bisogni della famiglia. E’ pertanto necessario l’accertamento da parte del giudice di merito della relazione sussistente tra il fatto generatore del debito e i bisogni della famiglia in senso ampio intesi, avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto. Nella pronuncia in parola viene sottolineato, altresì, che il vincolo di inespropriabilità ex art. 170 c.c. deve essere contemperato con l’esigenza di tutela dell’affidamento dei creditori. Atteso che la prova dei presupposti di applicabilità dell’art. 170 c.c. grava su chi intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale, ove venga proposta opposizione ex art. 615 c.p.c. per contestare il diritto del creditore di agire esecutivamente, il debitore opponente deve dimostrare non soltanto la regolare costituzione del fondo e la sua opponibilità al creditore procedente ma anche che il suo debito verso quest’ultimo è stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Poiché il vincolo de quo opera esclusivamente nei confronti dei creditori consapevoli che l’obbligazione è stata contratta non già per far fronte ai bisogni della famiglia ma per altra e diversa finalità alla famiglia estranea, si è sottolineato come tale consapevolezza debba sussistere al momento del perfezionamento dell’atto da cui deriva l’obbligazione. La prova dell’estraneità e della consapevolezza in argomento può essere peraltro fornita anche per presunzioni semplici. E’ pertanto sufficiente provare che lo scopo dell’obbligazione apparisse al momento della relativa assunzione come estraneo ai bisogni della famiglia.
Questioni intriganti
In cosa consistono e quali problemi pongono i c.d. patrimoni “separati” o destinati?
- nella forma uni-soggettiva, si tratta di un patrimonio “destinato” ad un dato scopo, e come tale “separato” rispetto al patrimonio generale del soggetto che ha la disponibilità, e la formale titolarità, di entrambi i compendi patrimoniali, vale a dire tanto di quello generale che di quello separato;
- la sfera giuridica di riferimento è dunque soggettivamente imputabile ad un medesimo soggetto;
- all’interno di tale sfera giuridica “soggettiva” unitaria, piuttosto che isolarsi un solo patrimonio, se ne possono isolare almeno due, ferma appunto la medesima identità del soggetto (giuridico considerato), vale a dire un patrimonio generale ed uno separato (e destinato ad uno scopo);
- si tratta di una fattispecie che viene eccezionalmente autorizzata dalla legge, che ritiene il raggiungimento di determinati fini o scopi particolarmente meritevole di tutela;
- la caratteristica del patrimonio “separato” – rispetto a quello “generale” di un unico soggetto – è allora quella onde i beni che lo compongono sono destinati a realizzare uno specifico scopo, in funzione del quale la legge autorizza per l’appunto la ridetta separazione;
- il patrimonio è “separato” perché le vicende personali del relativo titolare formale non possono incidere su di esso, o possono incidervi limitatamente; ciò dacché si tratta di un patrimonio “separato” in quanto “destinato” al raggiungimento di un dato scopo, e i cui beni costituiscono dunque la garanzia patrimoniale per le sole obbligazioni contratte in vista di tale scopo, e non anche per le obbligazioni che al ridetto scopo siano estranee;
- se dunque viene contratta dal soggetto titolare del patrimonio separato una obbligazione funzionale al raggiungimento dello scopo divisato (giusta appunto destinazione patrimoniale), in caso di inadempimento di tale obbligazione i creditori possono aggredire i beni del ridetto patrimonio separato (e destinato); laddove invece l’obbligazione contratta dal soggetto sia estranea allo scopo divisato giusta separazione patrimoniale, i creditori potranno aggredire la sola massa dei beni del patrimonio “generale” di tale soggetto (debitore), ma non anche quelli facenti appunto parte del patrimonio separato (e destinato allo scopo protetto dalla legge);
- si configurano tuttavia anche ipotesi “pluri-soggettive”, in cui alla separazione dei patrimoni corrisponde anche una duplicità di soggetti, uno dei quali trasferisce i beni destinati allo scopo nel patrimonio dell’altro, che si obbliga a raggiungere con essi lo scopo divisato, come si verifica nel caso del negozio fiduciario (con rapporti tra fiduciante e fiduciario) e nella fondazione (con rapporti tra chi istituisce la fondazione e la dispone di beni e la fondazione stessa);
- in tema di causa si fronteggiano 2 possibili alternative: i.1) la causa – tanto per il trasferimento dei beni quanto per la destinazione degli stessi allo scopo – è unica, onde il trasferimento dei beni (tra patrimoni) ha causa proprio (e solo) nella contestuale destinazione ad uno scopo (tesi dottrinale); i.2) il trasferimento (tra patrimoni) – massime in tema di fiducia – ha una propria causa idonea, appunto, a trasferire la proprietà dei beni (dal patrimonio generale a quello separato), ed è propria di un negozio ad effetti reali, mentre il negozio di destinazione – che è previsto dalla legge, che ha natura unilaterale o bilaterale e che è meramente eventuale – ha una propria e peculiare causa (di destinazione appunto dei beni al raggiungimento del divisato scopo), e dunque è un negozio distinto da quello di trasferimento, atteggiandosi a negozio ad effetti obbligatori che vincola il fiduciario al raggiungimento dello scopo medesimo, ovvero alla restituzione dei beni al fiduciante, facendosi dunque luogo ad un collegamento negoziale non necessario (tesi giurisprudenziale);
Quali sono le fattispecie di patrimonio separato (perché destinato) previste dalla legge o forgiate dalla giurisprudenza?
- la fondazione;
- il negozio fiduciario;
- il fondo patrimoniale;
- l’eredità giacente;
- la cessione di beni ai creditori;
- i patrimoni destinati nelle società per azioni;
- le esecuzioni collettive di tipo concorsuale, come nel caso del fallimento e delle figure similari;
- il trust;
- le norme, contenute in leggi speciali, in materia di cartolarizzazione dei crediti e degli immobili.
Cosa occorre ricordare in particolare della fiducia?
- il concetto di proprietà fiduciaria, onde un soggetto ha diritto – in quanto proprietario “fiduciario” – di godere e disporre di determinati beni, non già tuttavia per la soddisfazione di un interesse proprio, quanto piuttosto per soddisfare l’interesse di un terzo, il “fiduciante” che gli ha trasferito all’uopo tali beni; si distingue da un primo punto di vista: a.1.1) una proprietà fiduciaria dinamica, nella quale il fiduciario diviene proprietario in forza di una cessione dei pertinenti beni da parte del fiduciante, accompagnata dal pactum fiduciae; a.1.2) una fiducia statica, in cui il fiduciario è invece già proprietario dei beni pertinenti e, giusta pactum fiduciae, si obbliga da un certo momento in poi a farne un determinato uso nell’interesse del fiduciante; su un altro crinale va poi distinta: a.2.1) proprietà fiduciaria “romanistica”, comunemente accolta in Italia, in cui il fiduciario diviene proprietario dei beni da gestire nell’interesse del fiduciante (nella duplice veste di semplice fiducia “cum amico”, in cui si trasferisce ad un terzo del quale ci si fida un compendio di beni da gestire nel proprio interesse e quindi restituire a sé o ad un terzo; ovvero di fiducia “cum creditore”, in cui il fiduciante è debitore, il fiduciario è creditore ed il trasferimento dei beni avviene a scopo di garanzia dell’obbligazione che li avvince, di dubbia validità perché in frizione col divieto del patto commissorio); a.2.2.) la proprietà fiduciaria “germanistica”, laddove il proprietario dei beni resta – staticamente – il fiduciante, mentre il fiduciario è solo legittimato ad esercitare – dinamicamente – i diritti connessi alla proprietà dei beni pertinenti, onde si ha un proprietario sostanziale (il fiduciante) ed un proprietario formale (il fiduciario), al quale ultimo i beni sono solo intestati conferendogli appunto la legittimazione ad esercitare i diritti ad essi connessi (classico esempio ne sono le società fiduciarie);
- il concetto di negozio fiduciario, che è il negozio che avvince appunto il fiduciante e il fiduciario e dal quale discende la proprietà fiduciaria: il fiduciario acquisisce la proprietà di determinati beni dal fiduciante per perseguire uno scopo indicatogli dal fiduciante medesimo e che ne soddisfa un interesse; il fiduciario – attraverso il pactum fiduciae intercorso con il fiduciante – si obbliga a perseguire con i beni ricevuti il ridetto scopo, e a trasferire infine i beni medesimi nuovamente al fiduciante medesimo, ovvero ad un terzo; il fiduciario è interposto “reale” tra fiduciante in sede di trasferimento iniziale e (fiduciante medesimo o più spesso) terzo in sede di ritrasferimento finale, onde non si ha interposizione fittizia e si ha piuttosto rappresentanza indiretta che è – laddove i beni vengano ritrasferiti ad un terzo (e non già al medesimo fiduciante) – a carattere strutturalmente trilaterale dal punto di vista dei soggetti, venendo i beni realmente trasferiti, al fine di perseguire il divisato scopo, da A (fiduciante) a B (fiduciario) ed alfine da quest’ultimo a C (terzo beneficiario); con la dizione “negozio fiduciario” può intendersi: b.1) un’operazione complessa che in realtà ricomprende due negozi collegati tra loro, uno ad effetti reali di trasferimento dei beni dal fiduciante al fiduciario (con propria causa ed efficace anche per i terzi), e un altro ad effetti obbligatori (connesso al pactum fiduciae e con effetti solo tra fiduciante e fiduciario); b.2) un solo negozio astratto di trasferimento della proprietà nel cui contesto il pactum fiduciae è la clausola che in qualche modo ab externo, giustifica il trasferimento della proprietà medesima, e che ne esplicita dunque la causa (donazione fiduciaria, adempimento fiduciario, vendita fiduciaria);
- i rapporti con altre figure: c.1) simulazione: le parti vogliono effetti diversi da quelli che appaiono, al contrario di quanto accade nel negozio fiduciario, in cui le parti vogliono invece gli effetti in esso previsti; c.2) negozio indiretto: le parti perseguono effetti ulteriori rispetto a quelli propri del negozio prescelto, giusta eccedenza della forma giuridica prescelta rispetto allo scopo divisato; è quanto accade anche nel negozio fiduciario, dove tuttavia è presente anche il pactum fiduciae in veste di patto separato, mentre nel negozio indiretto tradizionale è sufficiente il solo contratto divisato che persegue appunto, di per sé solo, effetti indiretti ed ulteriori rispetto a quelli che gli sono tipici;
- gli strumenti di tutela delle parti direttamente o indirettamente coinvolte nell’operazione fiduciaria: d.1) nei rapporti tra fiduciante e fiduciario infedele, laddove appunto il fiduciario si renda inadempiente rispetto al pactum fiduciae, è possibile per il fiduciante attivare in via generale l’art.1218 c.c. ed in via speciale l’art.2932 c.c. laddove il fiduciario proprietario si sia obbligato a ritrasferire la proprietà al fiduciante senza poi provvedervi; d.2) nei rapporti tra creditori del fiduciante e fiduciario infedele, i primi – in caso di inerzia del fiduciante – possono agire in via surrogatoria ex art.2900 c.c.; c.3) nei rapporti tra fiduciante (o relativi creditori) e creditori del fiduciario infedele che agiscano sui beni oggetto del trasferimento fiduciario, laddove si tratti di beni mobili e il trasferimento fiduciario risulti da data certa, se questa è anteriore al pignoramento da parte del creditori del fiduciario infedele, prevale il fiduciante (o relativi creditori); laddove invece si tratti di beni immobili o di beni mobili registrati, si ha prevalenza del fiduciante (o relativi creditori) solo laddove la domanda giudiziale di ritrasferimento sia trascritta anteriormente al pignoramento operato dai creditori del fiduciario infedele.
Che cosa è il trust e che problemi pone?
- è un istituto di origine anglosassone che, a seconda della relativa fonte, può essere legale (se vi è una legge che lo prevede e disciplina), giudiziale (se nasce da un provvedimento giudiziario) ovvero convenzionale, se si applica la disciplina “minimal” prevista dalla Convenzione de L’Aja del 1985;
- vi si contempla – in una prima versione – una traslazione patrimoniale, onde uno o più beni passano da un soggetto ad un altro;
- il soggetto trasferente si chiama disponente, o settlor;
- il soggetto destinatario del trasferimento dei beni, che è sostanzialmente un fiduciario del disponente, si chiama trustee;
- il trustee si obbliga a gestire i beni che ha ricevuto dal settlor nell’interesse di un terzo, detto beneficiary (c.d. trust con beneficiari);
- il beneficiary può anche non esserci, onde il trustee si obbliga a gestire i beni trasferitigli dal settlor per uno scopo determinato, e dunque sulla scorta di una causa destinatoria (c.d. trust di scopo);
- anche il trustee può non esserci, in quando la gestione “orientata” dei beni nell’intereresse del beneficiary, o comunque finalizzata al raggiungimento di un determinato scopo, può – in una seconda versione del trust – coinvolgere taluni beni appartenenti ad una porzione patrimoniale (destinata e) separata da tutti gli altri beni appartenenti al settlor stesso;
- tra i soggetti meramente eventuali della operazione negoziale che va sotto il nome di trust va rammentato anche il protector, che si obbliga a controllare che la gestione del trustee sia sempre realmente orientata al perseguimento dei fini per i quali il trust è stato istituito;
- il trust, in Italia, non è un soggetto, ma un compendio patrimoniale e dunque un insieme di beni e rapporti destinati ad uno specifico scopo: la giurisprudenza ne ha ritratto la conclusione che il pignoramento di beni fatto direttamente al trust in persona del trustee, e non già nei confronti del trustee quale soggetto titolare del potere di disporre dei beni raccolti in trust, è nullo per inesistenza del soggetto esecutato;
- caratteristica del trust è la segregazione patrimoniale: i beni del trust sono separati dagli altri beni del trustee (ovvero dagli altri beni del settlor, laddove il trustee non vi sia); si tratta di un compendio autonomo di beni separato e destinato ad uno scopo, nell’interesse (laddove presente) del beneficiary; solo i creditori del trust possono aggredire i beni (“segregati”) che lo compendiano, mentre la relativa garanzia patrimoniale non spiega effetti né nei confronti dei creditori del settlor, né nei confronti dei creditori del trustee per obblighi non avvinti al trust; altra conseguenza importante della “segregazione” riguarda – sul crinale collettivo – l’eventuale fallimento del trustee, fattispecie nella quale nella massa attiva destinata a soddisfare i relativi creditori non rientrano appunto i beni (“segregati” e) raccolti in trust;
- laddove vi sia trustee, egli è obbligato ad amministrare i beni trasferitigli dal settlor (che se ne è spogliato) e a disporne a favore del beneficiary (laddove presente);
- le modalità di gestione dei beni coagulati in trust e di trasferimento (eventuale) al beneficiary sono previste nell’atto costitutivo del trust stesso e nella legge che lo disciplina (laddove varata dallo Stato membro aderente alla Convenzione de L’Aja);
- l’Italia non ha varato una legge specifica sul trust, e si pone dunque il problema della ammissibilità del c.d. trust “interno”, e dunque italiano (perché istituito in Italia); si fronteggiano in proposito due posizioni contrapposte: l.1) per la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza minoritaria, il trust interno non è ammissibile, e dunque non si può istituire un trust in Italia (ma solo eventualmente riconoscere un trust straniero in forza della Convenzione de L’Aja del 1985); in primis, nel nostro sistema la proprietà è perpetua e non sono ammessi diritti reali atipici, mentre il trust configura proprio un (inammissibile) diritto reale atipico (scaturente da un negozio astratto – sine causa – di attribuzione dal settlor al trustee, difficilmente compatibile con il principio causalistico vigente in Italia) e per giunta corrispondente ad una (ancora una volta, inammissibile) forma di proprietà temporanea in capo al trustee, funzionale al soddisfacimento di interessi del beneficiary; in secondo luogo, in forza del principio di responsabilità patrimoniale ex art.2740 c.c. il debitore risponde delle obbligazioni che lo vedono tale con tutto il proprio patrimonio presente e futuro, salvi i casi previsti dalla legge, e poiché nessuna legge prevede in Italia il trust, ammetterlo significherebbe sottrarre ai creditori del trustee taluni beni senza che via appunto una legge che autorizzi tale sottrazione; né potrebbe invocarsi la Convenzione de l’Aja del 1985, poiché essa raccoglie norme di diritto internazionale privato capaci solo di individuare quale ordinamento si applichi in presenza di un trust “straniero”, ma non ha in pari tempo la capacità, sul crinale sostanziale, di far ritenere ammissibile un trust italiano che la legge in Italia non prevede (per giunta, l’art.13 della Convenzione sembra proprio escludere il riconoscimento di trust “interni” negli ordinamenti che non li ammettono); peraltro, il negozio istitutivo del trust (e della segregazione patrimoniale che ne consegue) non rientra tra gli atti che, tassativamente, sono soggetti a trascrizione (né potrebbe assumersi indirettamente ammissibile la trascrizione del negozio istitutivo del trust utilizzando il c.d. “quadro D” della nota di trascrizione, che ha funzioni meramente esplicative con riguardo all’atto trascritto (come tale rientrante tra quelli trascrivibili) e non già autorizzative della trascrizione di atti non previsti espressamente come trascrivibili dalla legge italiana, tenuto anche conto del fatto che normalmente trascrive il “proprietario”, e tuttavia il trustee non è “proprietario” secondo il diritto italiano, stante la atipicità, la temporaneità e la funzionalizzazione del diritto reale che esso compendia); l.2) per la dottrina minoritaria e la giurisprudenza maggioritaria, il trust interno è invece ammissibile, e dunque si può istituire un trust in Italia: fondamentale punto di svolta in senso affermativo va considerata la ratifica della Convenzione dell’Aja del 1985 con legge n.364.89, che da un lato “tipizza” il trust come diritto reale nato “atipico” e, per l’appunto, ormai “tipizzato”; dall’altra consente una deroga alla responsabilità patrimoniale “globale” del debitore di cui all’art.2740 c.c., e dunque si applica a tutti i trust, anche interni, in cui unico elemento di internazionalità sia la legge applicabile, tenendosi anche conto che riconoscere per legge (di ratifica) il trust internazionale e non quello interno significherebbe infliggere un pesante vulnus al principio di eguaglianza; peraltro, si fa osservare come l’art.13 della Convenzione de l’Aja consente agli Stati contraenti di escludere il riconoscimento dei trust interni, ma con norma che espressamente escluda tale riconoscimento, onde fino a che non interviene tale legge italiana esplicita, la Convenzione in parola autorizza automaticamente il trust interno; il problema della trascrizione è risolvibile utilizzando il quadro D della nota di trascrizione, che consente indicazioni integrative (normalmente una condizione o un termine che corredano gli effetti di un contratto, ma per la tesi in parola anche appunto la segregazione patrimoniale tipica del trust) o, alternativamente, l’art.12 della legge 364.89 che consente al trustee di chiedere l’iscrizione nei registri immobiliari dei beni coagulati in trust facendo constare della propria qualità; non manca in dottrina chi (in modo decisamente elastico) assume la tassatività degli atti trascrivibili ex art.2643 c.c. come riferita, più specificamente, agli effetti di tali atti (e non già agli atti stessi in sé considerati), onde essendo possibile in Italia il trasferimento della proprietà con condizioni e termini, deve assumersi trascrivibile anche il trust, che produce effetti analoghi, come evincibile dalla dizione “aperta” di cui all’art.2645 c.c., che parla di “altri atti soggetti a trascrizione”;
- importante segnare le differenze con altri istituti ed altre figure giuridiche: m.1) il negozio fiduciario: mentre il trust è nella maggior parte dei casi trilaterale, coinvolgendo anche il c.d. beneficiary, il negozio fiduciario ha di norma struttura bilaterale, coinvolgendo solo fiduciante e fiduciario; nella c.d. fiducia dinamica (la più frequente) si ha un duplice trasferimento, dapprima dal fiduciante al fiduciario, e dipoi dal fiduciario al fiduciante medesimo (o eventualmente ad un terzo), mentre nel trust il duplice trasferimento può difettare laddove settlor e trustee coincidano, con una porzione separata del patrimonio del primo destinata al beneficiary (fattispecie che può tuttavia essere strutturalmente replicata in ipotesi di fiducia statica, laddove il fiduciario è in realtà già proprietario dei beni oggetto della c.d. causa fiduciaria); a differenza dei beni trasferiti al trustee, quelli trasferiti al fiduciario possono essere aggrediti dai creditori di quest’ultimo, onde non si realizza segregazione patrimoniale; il fiduciante non ha diritto di sequela sui beni attribuiti al fiduciario e che vorrebbe gli fossero ritrasferiti, potendo chiedere la risoluzione del pactum fiduciae per inadempimento del fiduciario, corredata da istanza risarcitoria, ovvero spiccare azione ex art.2932 c.c., ma soltanto nei confronti del fiduciario, e non già dei relativi aventi causa, mentre il beneficiary, che è il proprietario “sostanziale” dei beni “formalmente intestati” al trustee, ha diritto di sequela sui ridetti beni, potendo inseguirli anche presso i terzi aventi causa dal trustee medesimo e, come extrema ratio, potendo soddisfarsi sul ricavato della vendita introitato dal trustee infedele; m.2) la fondazione: nel diritto anglosassone i fini (specie caritatevoli) che negli ordinamenti di common law si perseguono giusta erezione di una fondazione vengono perseguiti proprio attraverso un “charitable trust”; sotto altro profilo, la fondazione fino al 1997 è stata assoggettata a controllo governativo, a differenza del trust, mentre oggi essa non è più soggetta a tale controllo (essendo peraltro da taluni ammessa financo la c.d. fondazione non riconosciuta); anche se le due figure si sono dunque molto avvicinate, resta tuttavia una importante differenza, dacché mente il patrimonio raccolto in trust è “segregato” e come tale non è aggredibile da creditori diversi dai creditori del trust stesso, nel caso della fondazione i relativi beni sono sì destinati al perseguimento di determinati fini, e tuttavia possono essere aggrediti anche da creditori per obbligazioni diverse da quelle specificamente contratte per il perseguimento dei ridetti fini; m.3) la fiducia testamentaria ex art.627 c.c.: nel trust il trustee è obbligato a ritrasferire i beni al beneficiary, mentre nella fiducia testamentaria il fiduciario ha solo un obbligo morale di ritrasferire i beni ricevuti dal testatore ad un terzo, il quale ultimo non ha dunque a disposizione alcuna azione per accertare giudizialmente che i beni oggetto del testamento sono in realtà a lui destinati; m.4) sostituzione fedecommissaria ex art.692 e seguenti c.c.: nel trust si fa luogo ad una vera e propria segregazione patrimoniale, mentre nel caso della sostituzione fedecommissaria essa non si configura in modo assoluto, dal momento che i creditori personali dell’istituito (incapace, primo chiamato)– pur non potendo agire sui relativi beni, possono tuttavia aggredirne i frutti; m.5) l’usufrutto: il trustee è il pieno proprietario dei beni che amministra a vantaggio del beneficiary, mentre l’usufruttuario è titolare di un mero diritto reale di godimento (parziario); per conseguenza, non si verifica nessuno sdoppiamento della piena proprietà in nuda proprietà e diritto reale di godimento (con consolidazione in caso di morte dell’usufruttuario), assistendosi piuttosto ad un fenomeno di successione di piene proprietà dei beni raccolti in trust dapprima dal settlor al trustee e, infine, dal trustee al beneficiary; d’altra parte, mentre il beneficiary non ha oneri, il nudo proprietario è tenuto alle riparazioni straordinarie sulla cosa goduta dall’usufruttuario (ex art.1005 c.c.); m.6) contratto a favore di terzo ex art.1411 c.c.: il settlor non può revocare l’attribuzione dei beni al trustee operata a favore del beneficiary, mentre lo stipulante – fino a che il terzo non dichiara di volerne profittare – può revocare la propria disposizione a relativo favore (che passa attraverso il promittente); d’altra parte, non occorre la volontà del beneficiary, che è del tutto ininfluente, mentre nel contratto a favore di terzo il terzo può esprimere il proprio gradimento dichiarando di voler profittare della prestazione a relativo favore, con specifici effetti giuridici; il trustee amministra beni destinati al beneficiary, mentre il promittente e obbligato ad una prestazione a favore del terzo, senza amministrare beni a favore di lui; m.7) il mandato senza rappresentanza: quando, in particolare, esso è conferito in modo irrevocabile e senza obbligo di rendiconto (verso il mandante) in capo al mandatario, esso somiglia ad un trust, considerata anche l’impossibilità per i creditori del mandatario senza rappresentanza di soddisfarsi sui beni acquistati in esecuzione del mandato ex art.1707 c.c.; il trustee non deve tuttavia seguire istruzioni nell’amministrazione dei beni trasferitigli dal settlor, mentre il mandatario senza rappresentanza (anche irrevocabile e senza obbligo di rendiconto) è comunque tenuto a seguire le istruzioni impartitegli dal mandante, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.1711 c.c.; inoltre, mentre il trustee è proprietario pleno iure dei beni trasferitigli dal settlor, il mandatario senza rappresentanza è proprietario solo apparentemente pieno, ma in qualche modo “dimidiato” dal momento che il mandante (a differenza appunto del settlor) può sempre rivendicare – pur non essendone formalmente proprietario – i beni mobili acquistati per proprio conto (ma non in proprio nome) dal mandatario senza rappresentanza, mentre per quanto riguarda i beni immobili che il mandatario (che li ha del pari acquistati) deve ritrasferirgli, il mandante (ancora una volta a differenza del settlor) può sempre agire ex art.2932 c.c.;
Che problemi pone il nuovo art.2645.ter c.c., introdotto a cavallo tra il 2005 e il 2006?
- più in generale, quanto al rapporto tra atti ed effetti: a.1) secondo una prima opzione minoritaria in dottrina, la norma non autorizza nuovi atti di destinazione patrimoniale, ma si occupa piuttosto degli effetti di atti già riconosciuti nel sistema e dunque già “tipizzati” (anche se dalla giurisprudenza, come nel caso classico della fiducia), massime dal punto di vista della relativa pubblicità e dunque della relativa opponibilità ai terzi (con particolare riguardo ai creditori); in sostanza, per atti di destinazione già previsti dal sistema, ad un effetto traslativo e ad un effetto obbligatorio si va ad aggiungere un nuovo effetto “pubblicitario” che, attraverso la trascrizione (prima non prevista), o l’intavolazione laddove operativa, consente l’opponibilità dell’atto (già previsto dal sistema) ai terzi con interessi confliggenti, come si evince sia dal silenzio della norma sulla struttura del presunto nuovo atto di destinazione patrimoniale, onde non si sa se esso è unilaterale o bilaterale, sulla relativa efficacia, onde non si sa se produce effetti reali od effetti obbligatori, sulla relativa natura onerosa o gratuita; sia, a livello di tassonomia codicistica, dal relativo innesto tra le disposizioni in tema di trascrizione e pubblicità (di atti, per l’appunto, già previsti dal sistema); a.2) stando ad una seconda ed opposta tesi, maggioritaria in dottrina, si tratta di una norma sostanziale pura che, come tale, consente di far luogo ad una nuova categoria di negozi atipici di destinazione patrimoniale ad effetti reali, che essa stessa disciplina; in sostanza, il legislatore ha forgiato in via generale un negozio atipico di destinazione patrimoniale ad effetti reali, provvedendo peraltro a darne una specifica disciplina, dovendosi ormai per conseguenza intendersi limitatamente ammesso in Italia il c.d. trust interno;
- più nello specifico, con riguardo all’efficacia degli atti: b.1) per la tesi meno accreditata, si è al cospetto di un negozio “propter rem” con effetti meramente obbligatori, sicché vi è l’obbligo di mantenere una certa destinazione per i beni coinvolti nella destinazione da parte di chiunque giunga ad averne la disponibilità, ma non si verifica alcun trasferimento della proprietà dei medesimi (in capo al beneficiario): laddove il legislatore avesse voluto forgiare un (nuovo) negozio ad effetti reali, avrebbe integrato l’elenco di tali atti previsto all’art.2643 c.c., mentre ha invece collocato la norma all’art.2645.ter, dopo l’art.2645.bis che – nel prevedere la trascrivibilità del contratto preliminare – prevede appunto la trascrizione di un negozio pacificamente ad efficacia obbligatoria; peraltro, sempre laddove il legislatore avesse inteso fare riferimento ad un nuovo negozio ad effetti reali, esso si sarebbe impegnato a forgiare una norma inutile, in quanto gli atti trascrivibili sono sì tipici e tassativi, ma tali predicati vanno ormai assunti modernamente in senso “elastico”, come riferiti agli effetti più che agli atti ad efficacia reale, e dunque anche un atto ad effetti reali non tipizzato avrebbe potuto ormai assumersi trascrivibile senza esplicita presa di posizione del legislatore che, se si è pronunciato, ha voluto senz’altro fare piuttosto riferimento ad atti ad efficacia obbligatoria (come è appunto accaduto anche per il contratto preliminare); b.2) per la tesi prevalente, si è invece al cospetto di una nuova categoria di atti ad efficacia reale, che dunque producono il trasferimento della proprietà dei beni (in capo al beneficiario) e la contestuale separazione patrimoniale funzionalizzata alla tutela di interessi peculiarmente meritevoli; lo si evince da un lato proprio dalla tassonomia codicistica: avendo il legislatore collocato la norma tra quelle in tema di trascrizione, ed afferendo di regola tali norme ad atti ad efficacia reale, è normale assumere che anche i nuovi atti di destinazione patrimoniale abbiano una efficacia reale (e non già meramente obbligatoria); inoltre è possibile per il beneficiario seguire il bene anche laddove giunga a terzi, configurando un diritto di seguito che ha forti connotazioni di realità (si pensi ai c.d. diritti reali di garanzia), in modo analogo a quanto fa l’art.11 della Convenzione de l’Aja in materia di trust; del pari, evidenti connotati di realità affiorano dalle limitazioni al potere di gestione e di disposizione dei beni destinati e dall’effetto di segregazione che ne consegue, confermando ancora una volta che i relativi atti istitutivi della “destinazione” hanno effetti reali, e non già meramente obbligatori;
- ancora, nello specifico, il problema della meritevolezza di tutela degli interessi per perseguire i quali si procede all’atto di destinazione, e dunque il problema “causale”: si ritiene generalmente che – dovendosi derogare a principi generali del sistema quali quello di responsabilità patrimoniale di cui all’art.2740 c.c., posto a tutela dei creditori, e quello di libera ed incondizionata disponibilità delle cose proprie di cui all’art.832 c.c., posto a presidio della sicurezza dei traffici giuridici e dunque, in sostanza, di tutti i consociati – l’atto di destinazione patrimoniale (qualunque ne sia in concreto la struttura) debba essere avvolto da una causa, perseguendo interessi (peculiarmente) meritevoli di tutela, come peraltro prescrive esplicitamente lo stesso art. 2645.ter c.c.; in difetto di tale causa, si profila non già la sola inopponibilità dell’atto ai creditori ma anche, più in radice, la invalidità dell’atto di destinazione medesimo;
- la questione degli strumenti di tutela a disposizione del beneficiario dell’atto di destinazione: d.1) per chi ritiene che l’atto di destinazione abbia natura meramente obbligatoria, al beneficiario residua la sola tutela contrattuale demolitoria e la connessa tutela per equivalente, potendo egli chiedere soltanto la risoluzione dell’atto medesimo ed il risarcimento dei danni; d.2) per chi invece ritiene che l’atto (dispositivo) di destinazione abbia efficacia reale, il beneficiario è assistito anche da diritto di sequela (o di seguito), potendo dunque recuperare il compendio patrimoniale oggetto di destinazione “separata” a proprio favore presso l’autore del negozio di destinazione o presso i relativi terzi;
- la questione degli strumenti di tutela a disposizione dei creditori del disponente, e dunque dell’autore dell’atto di destinazione; si ritiene in genere che: in generale e.1) allorché lo scopo della destinazione sia stato ormai raggiunto, ovvero non sia più perseguibile, ovvero ancora nelle ipotesi in cui i beni divisati non siano stati destinati al ridetto scopo, i creditori possano chiedere la cancellazione della trascrizione dell’atto di destinazione; più in specie e.2) allorché l’atto di destinazione sia stato compiuto in relativa frode, i creditori possano spiccare azione revocatoria per veder dichiarare l’atto relativamente inefficace nei rispettivi confronti; e.3) allorché il vincolo di destinazione impresso al compendio dei beni divisati sia meramente fittizio e funzionale al solo scopo di sottrarre beni alla pertinente garanzia, i creditori possano agire in simulazione; e.4) allorché, ancora più in radice, l’atto di destinazione non persegua interessi meritevoli di tutela, e sia piuttosto funzionale – sine causa – alla mera sottrazione dei beni coinvoltivi alla garanzia patrimoniale del soggetto che pone in essere l’atto medesimo, i creditori possano spiccare azione di nullità del negozio in parola.