Corte Costituzionale, sentenza 04 marzo 2022 n. 54
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», nella formulazione antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 4, della legge 23 dicembre 2021, n. 238 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2019-2020), nella parte in cui esclude dalla concessione dell’assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi;
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nel testo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 3, lettera a), della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui esclude dalla concessione dell’assegno di maternità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002;
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 1, comma 248, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), dell’art. 23-quater, comma 1, del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, dell’art. 1, comma 340, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), e dell’art. 1, comma 362, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023), nella formulazione antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui escludono dalla concessione dell’assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
4.– La Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione (sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/2021, O. D. e altri), ha risposto affermativamente ai quesiti pregiudiziali formulati da questa Corte e ha riconosciuto che entrambe le provvidenze rientrano nell’ambito di applicazione del diritto alla parità di trattamento, in base all’art. 12 della direttiva 2011/98 UE, che concretizza l’art. 34 CDFUE, specificamente invocato come parametro dal giudice a quo.
Nell’odierno giudizio questa Corte è chiamata a trarre le necessarie conclusioni dalle risposte fornite in sede di rinvio pregiudiziale e a scrutinare anche in tale più ampia prospettiva la conformità a Costituzione del bilanciamento attuato dal legislatore.
5.– Si deve esaminare, in primo luogo, l’evoluzione del quadro normativo, per valutarne l’incidenza sulle questioni sottoposte al vaglio di questa Corte.
Dopo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, la disciplina censurata ha registrato un profondo mutamento, che si sviluppa in una duplice direzione, riguardante, per un verso, la normativa sulle provvidenze a favore dei figli e, per altro verso, quella in tema di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale.
5.1.– Sul primo versante, si deve segnalare che la legge 1° aprile 2021, n. 46 (Delega al Governo per riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale), «[a]l fine di favorire la natalità», ha delegato il Governo all’adozione di «uno o più decreti legislativi volti a riordinare, semplificare e potenziare, anche in via progressiva, le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale», improntato a un «principio universalistico» e modulato – secondo un criterio di progressività – in rapporto alle condizioni economiche del nucleo familiare (art. 1).
L’art. 3, comma 1, lettera a), numero 2), della legge n. 46 del 2021 prefigura il superamento o la graduale soppressione dell’assegno di natalità, sottoposto all’odierno scrutinio.
La delega è stata attuata con il decreto legislativo 29 dicembre 2021, n. 230 (Istituzione dell’assegno unico e universale per i figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della legge 1° aprile 2021, n. 46), che, a decorrere dal 1° marzo 2022, ha istituito «l’assegno unico e universale per i figli a carico, che costituisce un beneficio economico attribuito, su base mensile, per il periodo compreso tra marzo di ciascun anno e febbraio dell’anno successivo, ai nuclei familiari sulla base della condizione economica del nucleo» (art. 1).
5.1.1.– Le novità in tema di assegno unico universale, prestazione erogata a decorrere dal 1° marzo 2022, non incidono sui giudizi a quibus, concernenti fattispecie che si sono perfezionate nella vigenza della disciplina anteriore e che – al metro di tale disciplina – devono essere valutate.
Non è necessario, pertanto, che questa Corte restituisca gli atti al rimettente, allo scopo di consentirgli di rinnovare la valutazione in punto di rilevanza.
5.2.– Per le medesime ragioni tale necessità non si ravvisa neppure con riguardo alle modificazioni introdotte dall’art. 3 della legge 23 dicembre 2021, n. 238 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2019-2020), che ha ridefinito le condizioni di accesso dei cittadini dei Paesi terzi alle prestazioni sociali in termini generali e con specifico riguardo all’assegno di natalità e all’assegno di maternità.
5.2.1.– Nella formulazione originaria, considerata anche dalla Corte rimettente, l’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, con riguardo all’accesso alle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, equiparava ai cittadini italiani «[g]li stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno».
In virtù delle modificazioni introdotte dall’art. 3, comma 1, lettera a), della legge n. 238 del 2021, l’equiparazione oggi concerne «[g]li stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, i titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno diversi da quelli di cui ai commi 1-bis e 1-ter del presente articolo e i minori stranieri titolari di uno dei permessi di soggiorno di cui all’articolo 31».
5.2.2.– Quanto al richiamato art. 41, comma 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, inserito dall’art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 238 del 2021, esso regola la «fruizione delle prestazioni costituenti diritti alle quali si applica il regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale» e, in tale ambito, equipara ai cittadini italiani «[g]li stranieri titolari di permesso unico di lavoro e i titolari di permesso di soggiorno per motivi di studio, che svolgono un’attività lavorativa o che l’hanno svolta per un periodo non inferiore a sei mesi e hanno dichiarato la loro immediata disponibilità allo svolgimento della stessa ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, nonché gli stranieri titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca».
5.2.3.– L’art. 41, comma 1-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, inserito dal già citato art. 3, comma 1, lettera b), della legge n. 238 del 2021, reca una deroga alla previsione generale del comma precedente, con specifico riguardo alle «prestazioni familiari di cui all’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004».
Quanto a tali prestazioni, beneficiano dell’equiparazione ai cittadini italiani i soli «stranieri titolari di permesso unico di lavoro autorizzati a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, nonché gli stranieri titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare in Italia per un periodo superiore a sei mesi».
5.2.4.– L’art. 3, comma 3, lettera a), della legge n. 238 del 2021 modifica le disposizioni in tema di assegno di maternità, oggi erogato «alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o familiari titolari della carta di soggiorno di cui agli articoli 10 e 17 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, o titolari di permesso di soggiorno ed equiparate alle cittadine italiane ai sensi dell’articolo 41, comma 1-ter, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ovvero titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».
L’assegno di maternità non è più concesso, dunque, alle sole madri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, secondo la limitazione censurata nell’odierno giudizio, ma anche alle madri titolari di permesso unico di lavoro autorizzate a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi e a quelle titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca autorizzate a soggiornare in Italia per un periodo superiore a sei mesi.
5.2.5.– La medesima estensione dei requisiti soggettivi concerne anche l’assegno di natalità, in base alle novità introdotte dall’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021.
5.3.– Le richieste di assegno di natalità e di assegno di maternità devono essere valutate alla luce della disciplina vigente al tempo della loro presentazione. Non viene in rilievo, pertanto, la normativa sopravvenuta, che, secondo i principi generali (art. 11 delle preleggi), dispone soltanto per l’avvenire, in mancanza di univoche indicazioni di segno contrario.
6.– Esclusa la necessità di restituire gli atti ai giudici a quibus, si devono vagliare le eccezioni di inammissibilità formulate dalla difesa dello Stato.
6.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, in tutti i giudizi, imputa alla Corte rimettente di aver prefigurato una pronuncia additiva, che esula, tuttavia, dalle soluzioni costituzionalmente obbligate. L’introduzione del requisito del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, in sostituzione del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, rappresenterebbe il frutto di una discrezionalità del legislatore non vincolata dalla Costituzione.
6.1.1.– L’eccezione non è fondata.
6.1.2.– Il giudice a quo richiama la norma di chiusura dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998 sulla equiparazione degli stranieri ai cittadini italiani, allo scopo di suffragare l’irragionevolezza della deroga ai principi generali in tema di accesso alle prestazioni di assistenza sociale.
La Corte rimettente, lungi dall’indicare una soluzione eccentrica, fa leva su una disposizione che costituisce il necessario paradigma del sindacato di ragionevolezza delle scelte del legislatore e impone una «specifica, trasparente e razionale» giustificazione delle eventuali deroghe (sentenza n. 432 del 2005, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Anche l’evoluzione normativa conferma la rilevanza sistematica dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998. Il legislatore, con la citata legge n. 238 del 2021, ha scelto di ridefinire in una prospettiva più ampia le condizioni di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale e, in armonia con tali previsioni, ha innovato anche la disciplina in tema di assegno di natalità e di assegno di maternità.
6.1.3.– La discrezionalità che compete al legislatore nel definire le condizioni di accesso alle misure di assistenza sociale non esime questa Corte dal compito di vagliare la conformità a Costituzione delle scelte di volta in volta compiute.
6.2.– In secondo luogo, la difesa dello Stato ha eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni proposte, per la carente motivazione in ordine al presupposto della rilevanza.
Il giudice a quo non avrebbe svolto alcuna indagine sui requisiti di reddito che le disposizioni censurate prescrivono per la concessione dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità.
6.2.1.– Neppure tale eccezione è fondata.
La Corte di cassazione ha offerto una motivazione sufficiente circa la necessità di applicare le disposizioni censurate e ha argomentato che esse precluderebbero l’accoglimento della domanda, in virtù del tenore letterale inequivocabile che le contraddistingue.
Il giudice a quo ha osservato che sussistono gli ulteriori presupposti richiesti per il conseguimento delle provvidenze in esame. Né, in difetto di specifici motivi di ricorso, spettava alla Corte di cassazione rivalutare nel merito tali presupposti. Con argomentazione che non si può reputare implausibile, la Corte rimettente soggiunge che soltanto la mancanza del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, previsto dalle disposizioni impugnate, si frappone all’accoglimento delle richieste.
Trova così conferma la rilevanza dei dubbi di costituzionalità.
6.3.– Le questioni, infine, sarebbero inammissibili, in quanto il rimettente non avrebbe tenuto conto dell’art. 30, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, che esclude chi sia titolare del permesso di soggiorno per motivi familiari dalle prestazioni di assistenza sociale, quale è l’assegno di natalità.
6.3.1.– Anche questa eccezione deve essere disattesa.
Le censure non si incentrano sulle peculiarità del soggiorno per motivi familiari, ma sul diverso profilo della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. A tale riguardo, la Corte rimettente ha illustrato in maniera esaustiva il quadro normativo di riferimento. Non si riscontrano, pertanto, le lacune eccepite dall’interveniente.
6.3.2.– La Corte di cassazione ha ponderato il quadro normativo, anche alla luce delle implicazioni del diritto dell’Unione europea, e ha dedotto il contrasto della disciplina nazionale sia con i parametri costituzionali sia con le previsioni della CDFUE.
7.– Spetta dunque a questa Corte accertare se le disposizioni censurate infrangano, in pari tempo, i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla CDFUE, nel loro vicendevole integrarsi, in un arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali (ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.1. del Considerato in diritto).
Le questioni, pertanto, sono ammissibili e devono essere a questo punto scrutinate nel merito.
8.– Alla soluzione dei dubbi di costituzionalità giova premettere l’inquadramento delle caratteristiche salienti dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità.
8.1.– Introdotto allo scopo di «incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno», l’assegno di natalità è stato riconosciuto inizialmente «per ogni figlio nato o adottato tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017» ai genitori appartenenti a un nucleo familiare che si trovi «in una condizione economica corrispondente a un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) […] non superiore a 25.000 euro annui» (art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014).
L’importo, erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione «fino al compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione», è pari a 960 euro annui, importo raddoppiato quando il nucleo familiare del genitore che lo richieda si trovi in una condizione economica corrispondente a un valore dell’ISEE non superiore a 7.000 euro annui.
L’INPS provvede al controllo degli oneri che derivano dall’attuazione delle previsioni della legge n. 190 del 2014 (art. 1, comma 127, della medesima legge). Ove si verifichino o stiano per verificarsi scostamenti rispetto alla previsione di spesa, un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro della salute, dovrà rideterminare l’importo annuo dell’assegno e i valori dell’ISEE stabiliti per accedere alla provvidenza (il citato art. 1, comma 127, della legge n. 190 del 2014).
8.1.1.– L’art. 1, comma 248, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) ha accordato il beneficio anche a «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2018», pur limitandone l’erogazione, dapprima di durata triennale, fino al compimento del primo anno di età o del primo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione.
8.1.2.– L’assegno di natalità è stato poi riconosciuto – sempre fino al compimento del primo anno di età o del primo anno di ingresso nella famiglia adottiva – a «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2019» (art. 23-quater, comma 1, del decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, recante «Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria», convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136). L’importo dell’assegno è aumentato del venti per cento per ogni figlio successivo al primo, nato o adottato dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2019.
8.1.3.– L’assegno di natalità è stato quindi riconosciuto a beneficio di «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2020 al 31 dicembre 2020», sempre per il periodo di un anno a far data dalla nascita o dall’ingresso nella famiglia di adozione (art. 1, comma 340, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022»).
La prestazione, ispirata a un principio universalistico, corrisponde a un ammontare graduato in proporzione al reddito della famiglia e accresciuto, secondo una previsione già introdotta dal d.l. n. 119 del 2018, per ogni figlio successivo al primo.
8.1.4.– La disciplina dettata dalla legge n. 160 del 2019 è stata estesa, infine, a «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2021 al 31 dicembre 2021» (art. 1, comma 362, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023»).
8.1.5.– Le censure vertono sulla titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, rilasciato allo straniero che documenti il «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell’articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo» (art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998). È richiesto, inoltre, il superamento di una prova di conoscenza della lingua italiana (art. 9, comma 2-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998).
8.2.– Alla titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo è condizionato anche il riconoscimento dell’assegno di maternità, nella formulazione dell’art. 74 del d.lgs. n. 151 del 2001 applicabile ratione temporis alla fattispecie controversa.
L’assegno di maternità spetta alle donne che non godono dell’indennità di maternità prevista per le lavoratrici dipendenti di amministrazioni pubbliche o di privati datori di lavoro o socie lavoratrici di cooperative (art. 22 del d.lgs. n. 151 del 2001), per le lavoratrici autonome e per le imprenditrici agricole (art. 66 del d.lgs. n. 151 del 2001), oltre che per le libere professioniste (art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001).
La prestazione in esame, legata al reddito del nucleo familiare di appartenenza della donna (art. 74, comma 4, del d.lgs. n. 151 del 2001), è concessa dai Comuni e corrisposta dall’INPS (art. 74, comma 8, del d.lgs. n. 151 del 2001).
9.– Le questioni sollevate investono anche il tema della parità di trattamento per i cittadini dei Paesi terzi, definita dalla richiamata direttiva 2011/98/UE, a sua volta strettamente connessa con l’art. 34 CDFUE.
Sui profili rilevanti per la soluzione dei dubbi di legittimità costituzionale, questa Corte ha interpellato la Corte di giustizia dell’Unione europea, in uno spirito di leale collaborazione, volto a salvaguardare «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (art. 19 del Trattato sull’Unione europea, nella versione consolidata successiva al Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009).
Nell’interpretare l’effettività della tutela giurisdizionale in uno spirito di cooperazione, la Corte di Lussemburgo ha puntualizzato che le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione europea «godono di una presunzione di rilevanza» (citata sentenza 2 settembre 2021, causa C-350/20, O. D. e altri, punto 39). Una tale presunzione si rafforza quando «il giudice del rinvio non è il giudice chiamato a pronunciarsi direttamente sulle controversie principali, bensì un giudice costituzionale a cui è stata rimessa una questione di puro diritto».
E questa Corte, nell’affrontare le questioni che le sono sottoposte valutando sia le norme di diritto nazionale sia le norme del diritto dell’Unione, nel caso di specie connesse con le disposizioni della CDFUE, deve poi «fornire non solo al proprio giudice del rinvio, ma anche all’insieme dei giudici italiani, una pronuncia dotata di effetti erga omnes, vincolante tali giudici in ogni controversia pertinente di cui potranno essere investiti» (punto 40).
9.1.– Nella ricostruzione del quadro normativo, la citata direttiva 2011/98/UE riveste un ruolo cruciale. Essa persegue l’obiettivo di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di «una politica di integrazione più incisiva» (considerando n. 2), e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n. 19).
Ai cittadini di Paesi terzi che già «contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte» (considerando n. 19), la direttiva attribuisce «un insieme di diritti» e impone agli Stati membri di salvaguardarli, nell’organizzare i rispettivi sistemi di sicurezza sociale (considerando n. 26) nella maniera che essi reputano più appropriata (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 25 novembre 2020, nella causa C-302/19, punto 23).
9.2.– In coerenza con tali finalità si devono interpretare le prescrizioni che l’art. 12 della direttiva detta per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale» (art. 3, paragrafo 1, lettera c).
A questi lavoratori l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva riconosce «lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano» per quel che concerne «i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004».
La parità di trattamento non è dunque circoscritta ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma è riconosciuta anche in favore dei titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività lavorativa che siano autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/20, punto 49).
Il diritto alla parità di trattamento è riconosciuto nei settori disciplinati dal regolamento (CE) n. 883/2004. Tale fonte si applica – per quel che in questa sede rileva – alle «prestazioni di maternità e di paternità assimilate» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e alle «prestazioni familiari» (art. 3, paragrafo 1, lettera j), che l’art. 1, lettera z), identifica in «tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell’allegato I».
9.3.– Alla luce di tali premesse, la Corte di giustizia ha esaminato l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, per accertare se rientrino nell’ambito applicativo del regolamento (CE) n. 883/2004 e del diritto alla parità di trattamento.
9.3.1.– Con riferimento all’assegno di natalità, essa ha osservato, in primo luogo, che rappresenta una prestazione previdenziale. La provvidenza in esame, difatti, è attribuita in base a criteri obiettivi, attinenti al reddito e alla composizione del nucleo familiare e svincolati da una valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali dei beneficiari (citata sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/20, punti 54, 55 e 56).
L’assegno di natalità, inoltre, deve essere qualificato come prestazione familiare, nei termini tratteggiati dal regolamento (CE) n. 883/2004. Pur nelle diverse configurazioni che ha assunto nel volgere degli anni, la prestazione si atteggia come un contributo pubblico al bilancio familiare, preordinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli appena nati o adottati (punti 57 e 58), e non rientra nelle tassative esclusioni menzionate nella parte II dell’allegato I al regolamento (CE) n. 883/2004, riguardanti gli assegni speciali di nascita e di adozione (punto 59).
Né tali caratteristiche sono contraddette dalla concorrente natura premiale di incentivo alla natalità (punto 60).
9.3.2.– Anche l’assegno di maternità, concesso alle madri che soddisfino taluni criteri definiti ex lege, a prescindere da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze dell’interessata, costituisce una prestazione previdenziale e attiene al settore della sicurezza sociale e, in particolare, alle prestazioni di maternità di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (CE) n. 883/2004.
9.4.– L’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/98/UE consente agli Stati membri di limitare la parità di trattamento nei settori della sicurezza sociale, salvo che «per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati».
Quanto ai sussidi familiari, gli Stati membri possono negare la parità di trattamento ai «cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto».
9.4.1.– Nel sistema delineato dalla direttiva 2011/98/UE, il diritto alla parità di trattamento rappresenta la regola generale, cui gli Stati membri possono apportare deroghe solo entro limiti rigorosi. All’interpretazione restrittiva delle possibili deroghe fa riscontro la necessità che gli Stati membri manifestino in modo inequivocabile la volontà di limitare l’applicazione della parità di trattamento (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenze 25 novembre 2020, nella causa C-302/19, Istituto nazionale della previdenza sociale, punto 27, e 21 giugno 2017, nella causa C-449/16, Kerly Del Rosario Martinez Silva, punto 29).
L’onere di dichiarazione espressa di eventuali deroghe, nel corso dell’attività di trasposizione, emerge dal sistema normativo, considerato nel suo insieme e nelle finalità che lo ispirano. Esso si correla non soltanto alla salvaguardia dell’effetto utile della direttiva, ma anche a una fruttuosa e trasparente fase di recepimento, che lo stesso legislatore dell’Unione europea vuole contraddistinta dall’impegno degli Stati membri a una costante interlocuzione con la Commissione e alla «notifica delle loro misure di recepimento con uno o più documenti intesi a chiarire il rapporto tra gli elementi di una direttiva e le parti corrispondenti degli strumenti nazionali di recepimento» (considerando n. 32 della direttiva 2011/98/UE).
La Corte di giustizia dell’Unione europea, nella più volte richiamata sentenza del 2 settembre 2021, ha ricordato che la Repubblica italiana non si è avvalsa in alcun modo della facoltà di limitare la parità di trattamento (punto 64).
10.– Questo è, nelle sue coordinate nazionali ed europee, il quadro normativo in cui si collocano le questioni poste dal rimettente.
Esse devono essere scrutinate alla luce della «connessione inscindibile tra i princìpi e i diritti costituzionali evocati dalla Corte di cassazione e quelli riconosciuti dalla CDFUE, arricchiti dal diritto secondario, tra loro complementari e armonici» (ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.2. del Considerato in diritto).
Fra il divieto di discriminazioni arbitrarie e la tutela della maternità e dell’infanzia (artt. 3 e 31 Cost.), da un lato, e le indicazioni vincolanti del diritto dell’Unione europea in merito alla parità di trattamento dei cittadini dei Paesi terzi, dall’altro, intercorre «un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione» (ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.2. del Considerato in diritto).
Tale rapporto emerge in maniera nitida dagli stessi parametri richiamati dalla Corte rimettente.
Nell’enunciare il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, l’art. 34 CDFUE fa espresso richiamo alle «legislazioni e prassi nazionali»; in questa prospettiva, non può non tenere anche conto delle garanzie sancite dalle Costituzioni. D’altro canto, al «costante evolvere dei precetti costituzionali» che si ricavano dagli artt. 3 e 31 Cost., il diritto dell’Unione europea offre un apporto che non può essere trascurato (ordinanza n. 182 del 2020, il citato punto 3.2. del Considerato in diritto), allo scopo di inverare – in contesti mutevoli e spesso inediti – il principio di eguaglianza e la più ampia tutela della maternità e dell’infanzia.
In un quadro che vede interagire molteplici fonti, è affidato a questa Corte il compito di assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie.
11.– Le questioni sollevate dalla Corte di cassazione sono fondate, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE, così come concretizzato dal diritto europeo secondario.
12.– La sentenza della grande sezione del 2 settembre 2021 ha accertato che non è compatibile con il diritto dell’Unione europea e, in particolare, con il diritto alla parità di trattamento enunciato dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, una normativa nazionale che conceda l’assegno di natalità e l’assegno di maternità ai soli titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Con riguardo alla fruizione delle prestazioni citate, il diritto dell’Unione europea impone di riconoscere la parità di trattamento ai cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e ai cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi.
12.1.– La restrizione dei benefici prevista dalle disposizioni censurate contrasta dunque con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto europeo secondario e all’art. 34 CDFUE.
Tale ultima previsione, nel sancire il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa, mira a «garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 24 aprile 2012, nella causa C-571/10, Kamberaj).
Secondo l’art. 34, paragrafo 1, CDFUE, l’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e dalle prassi nazionali.
L’art. 34, paragrafo 2, CDFUE riconosce a ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, in conformità al diritto dell’Unione e alle legislazioni e alle prassi nazionali.
La Corte di giustizia dell’Unione europea ha esaminato sia l’assegno di natalità sia l’assegno di maternità in una prospettiva unitaria, per ricondurli entrambi dentro la sfera di protezione assicurata dall’art. 34 CDFUE.
Essa ha affermato che il diritto alla parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale, definito nei suoi contenuti essenziali dalla direttiva 2011/98/UE, «dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’articolo 34, paragrafi 1 e 2, della Carta» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 2 settembre 2021, punto 46).
13.– Il principio di parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale, nei termini delineati dalla CDFUE e dal diritto derivato e poi ribaditi dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, si raccorda ai principi consacrati dagli artt. 3 e 31 Cost. e ne avvalora e illumina il contenuto assiologico, allo scopo di promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi.
13.1.– La tutela dei valori primari della maternità e dell’infanzia, tra loro inscindibilmente connessi (art. 31 Cost.), non tollera distinzioni arbitrarie e irragionevoli.
Questa Corte è costante nell’affermare che spetta alla discrezionalità del legislatore il compito di individuare i beneficiari delle prestazioni sociali, tenendo conto del limite delle risorse disponibili. Tale individuazione, nondimeno, è vincolata al rispetto del canone di ragionevolezza. È dunque consentita l’introduzione di requisiti selettivi, a patto che obbediscano a una causa normativa adeguata e siano sorretti da una giustificazione razionale e trasparente (sentenza n. 222 del 2013, punto 7 del Considerato in diritto).
Questa giustificazione deve essere indagata alla luce delle caratteristiche della singola provvidenza e delle finalità che ne condizionano il riconoscimento e ne delimitano la ratio (sentenza n. 172 del 2013, punto 3 del Considerato in diritto; di recente, in tema di edilizia residenziale pubblica, sentenza n. 112 del 2021, punto 6 del Considerato in diritto).
13.2.– L’assegno di natalità e l’assegno di maternità sovvengono a una peculiare situazione di bisogno, che si riconnette alla nascita di un bambino o al suo ingresso in una famiglia adottiva.
La prima prestazione, originariamente concessa alle famiglie meno abbienti, è graduata e varia notevolmente in proporzione al reddito familiare anche nella modulazione universale introdotta dalla legge n. 160 del 2019 e confermata dalla legge n. 178 del 2020.
Quanto all’assegno di maternità, esso rappresenta una tutela residuale, che opera nei soli casi in cui il nucleo familiare versi in condizioni economiche precarie e la madre non possa reclamare l’indennità di maternità in forza di uno specifico rapporto di lavoro.
Entrambe le provvidenze si prefiggono di concorrere a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.), e, in particolare, rappresentano attuazione dell’art. 31 Cost., che impegna la Repubblica ad agevolare con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose, e a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo. Le prestazioni citate assicurano un nucleo di garanzie e non possono essere equiparate alle provvidenze aggiuntive che occasionalmente – e con diversi presupposti – sono state attribuite dalla legislazione regionale già scrutinata da questa Corte (sentenza n. 141 del 2014).
Si deve inoltre rimarcare che le odierne misure di sostegno al nucleo familiare e alla madre, indirizzate anche alla famiglia adottiva, assolvono una finalità preminente di tutela del minore, che si affianca alla tutela della madre, in armonia con il disegno costituzionale che colloca in un orizzonte comune di speciale adeguata protezione, sia la madre, sia il bambino (sentenza n. 205 del 2015, punto 4 del Considerato in diritto).
13.3.– Nel condizionare il riconoscimento dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla titolarità di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, al possesso di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e alla disponibilità di un alloggio idoneo, il legislatore ha fissato requisiti privi di ogni attinenza con lo stato di bisogno che le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare.
Nell’introdurre presupposti reddituali stringenti per il riconoscimento di misure di sostegno alle famiglie più bisognose, le disposizioni censurate istituiscono per i soli cittadini di Paesi terzi un sistema irragionevolmente più gravoso, che travalica la pur legittima finalità di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione.
Un siffatto criterio selettivo nega adeguata tutela a coloro che siano legittimamente presenti sul territorio nazionale e siano tuttavia sprovvisti dei requisiti di reddito prescritti per il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Un sistema così congegnato pregiudica proprio i lavoratori che versano in condizioni di bisogno più pressante.
13.4.– Né sono proponibili nel caso di specie le considerazioni svolte da questa Corte nella sentenza n. 50 del 2019 con riguardo all’assegno sociale, peraltro escluso dall’ambito di applicazione della direttiva 2011/98/UE e del correlato principio della parità di trattamento. L’assegno sociale si colloca all’epilogo della carriera lavorativa e rappresenta il corrispettivo per il contributo offerto al progresso della comunità.
Tale caratteristica non si ravvisa nelle provvidenze oggi all’esame di questa Corte. Esse presuppongono l’insorgere di una situazione di bisogno, in una stagione della vita – quella della nascita di un bambino o della sua accoglienza nella famiglia adottiva – che prescinde dal contributo fornito al progresso della comunità.
13.5.– Gli elementi indicati confermano che un criterio di attribuzione incentrato sulla titolarità del permesso per soggiornanti UE di lungo periodo discrimina arbitrariamente sia le madri sia i nuovi nati e non presenta alcuna ragionevole correlazione con la finalità che permea le prestazioni in oggetto.
14.– Alla luce delle considerazioni svolte, si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014, nella formulazione antecedente alle modificazioni introdotte dall’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021, e dell’art. 74 del d.lgs. n. 151 del 2001, nel testo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 3, lettera a), della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui escludono dalla concessione – rispettivamente – dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002.
15.– Restano assorbite le ulteriori censure formulate dalla Corte rimettente, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ad altre norme della CDFUE (artt. 20, 21, 24 e 33).
16.– Lo scrutinio di questa Corte – come si è già rilevato nell’ordinanza n. 182 del 2020 – verte anche sulle proroghe dell’assegno di natalità, da ultimo disposte fino al 31 dicembre 2021.
Difatti, anche le previsioni sopravvenute, pur nella diversa modulazione del beneficio, lo subordinano alla titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, che è all’origine delle censure prospettate dalla Corte rimettente.
In applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, delle previsioni che hanno prorogato fino al 31 dicembre 2021 l’assegno di natalità, condizionandone l’erogazione al censurato requisito della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Tale declaratoria di illegittimità costituzionale in via consequenziale investe, in particolare, l’art. 1, comma 248, della legge n. 205 del 2017, l’art. 23-quater, comma 1, del d.l. n. 119 del 2018, come convertito, l’art. 1, comma 340, della legge n. 160 del 2019 e, infine, l’art. 1, comma 362, della legge n. 178 del 2020, nella formulazione antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021.
17.– Non è fondata la richiesta che, in via gradata, ha formulato la difesa statale, allo scopo di limitare pro futuro gli effetti temporali della declaratoria di illegittimità costituzionale.
L’interveniente ha allegato in modo generico il paventato pregiudizio agli equilibri di bilancio e non ha contestato gli argomenti delle parti private in merito alla limitata incidenza della pronuncia di accoglimento, che concerne una normativa superata dal richiamato ius superveniens e un contenzioso in larga parte esaurito con l’immediato riconoscimento delle prestazioni di sicurezza sociale agli stranieri.