Massima
In un contesto giuridico nel quale campeggia, con crisma costituzionale (art.29 Cost.), la “famiglia” tradizionale fondata sul matrimonio, si assiste alla progressiva disciplina e sistematizzazione di unioni “senza nozze” – tanto eterosessuali quanto omosessuali – nella cui economia (“domestica”) si inseriscono forme e strumenti di tutela tali da consentire di additarne l’effettiva consistenza sempre meno in termini di mero “fatto” ed in misura sempre maggiore secondo coordinate di più autentico “diritto”, con importanti ricadute anche in ambito penalistico.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1547
Viene pubblicata a Lione l’opera più famosa del civilista e canonista Filippo Decio, De regulis iuris, un commento al Digesto, il cui frammento 251 (In Primam Secundamque Digesti Veteris. Item in Primam ac Secundam Codicis Partem Commentaria) viene dedicato ai diritti ereditari della “concubina”.
Essa non è chiamata per successione legittima, essendo per quest’ultima indefettibile un iustum matrimonium; può tuttavia acquisire diritti per mezzo di un legato e, dunque, sulla base di un testamento (Concubina non succedit ab intestato ejus concubinario, nec e contra, quia in ista successione requiritur justum matrimonium et hoc non verificatur in concubina; legatum tamen concubinae fieri potest a privato).
1865
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia (c.d. codice Pisanelli), di stampo liberale, che agli articoli 131 e seguenti disciplina il matrimonio additando il marito come capo della “famiglia”. La moglie segue la condizione civile di lui, assumendone il cognome ed essendo obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare residenza.
Qualunque rapporto di natura diversa rispetto a quello fondato sul matrimonio si colloca sul piano del “fatto” senza – almeno all’apparenza – specifici effetti giuridici.
1918
Il 27 ottobre viene varato il decreto luogotenenziale n.1726, recante norme per la concessione delle pensioni privilegiate di guerra.
Secondo il relativo art.12, la dichiarazione di voler contrarre matrimonio fatta dal militare mentre si trova in grave pericolo di vita per ferita o per altra infermità è equiparata al mandato di procura agli effetti della pensione di guerra, purché risulti diretta a riconoscere “uno stato preesistente di convivenza” (con la donna che egli vorrebbe sposare, e che rischia di non vedere più).
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), che disciplina il matrimonio agli articoli 79 e seguenti (Libro I, Titolo VI), ancora una volta senza occuparsi specificamente della convivenza, che dunque resta giuridicamente “sotto traccia”, con effetti confinati ad ipotesi specifiche extracodicistiche (come appunto nel caso della possibilità per la “promessa sposa” di fruire della pensione privilegiata di guerra in caso di decesso in contesto bellico del “promesso marito”).
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, il cui art.29 dichiara solennemente che la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (comma 1); il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare (comma 2).
Stando al successivo art.30, è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio (comma 1); nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti (comma 2). Sempre la legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima (comma 3), dettando le norme e i limiti per la ricerca della paternità (comma 4).
Sono norme che prendono atto della possibilità di convivenze al di fuori del matrimonio, dalle quali può anche nascere prole che va tutelata.
Di rilievo anche l’art.31 alla cui stregua la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose (comma 1), proteggendo la maternità (anche non in ambito familiare), l’infanzia e la gioventù, nonché favorendo gli istituti necessari a tale scopo.
Secondo poi l’art.37, comma 1, la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore; le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della relativa, essenziale funzione “familiare” e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Su di un piano più generale, assai significativo il principio fondamentale scolpito all’art.2, onde la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle “formazioni sociali” ove si svolge la relativa personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; si tratta di un canone che sembra consentire già, almeno teoricamente, meritevole di un qualche riconoscimento giuridico (e di una qualche tutela) anche la convivenza more uxorio, tanto eterosessuale quanto, in prospettiva, omosessuale.
1950
Il 4 novembre viene firmata a Roma la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
Di particolare rilievo ratione materiae gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione).
Più in specie, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».
1955
Il 4 agosto viene varata la legge n.848, con la quale l’Italia ratifica la CEDU.
1957
Il 25 marzo viene sottoscritto a Roma il Trattato istitutivo della CEE, Comunità Economica Europea.
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Il 14 ottobre viene varata la legge n.1203 che ratifica, tra gli altri, anche il Trattato CEE.
1958
Il 31 gennaio viene varato il D.p.R. n.136, recante regolamento di esecuzione della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, sull’ordinamento delle anagrafi della popolazione residente.
Secondo il relativo art.2, agli effetti anagrafici, per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, affiliazione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune, che normalmente provvedono al soddisfacimento del loro bisogno mediante la messa in comune di tutto o parte del reddito di lavoro o patrimoniale da esse percepito (comma 1).
Una famiglia può essere costituita anche di una sola persona la quale provvede in tutto o in parte con i propri mezzi di sussistenza al soddisfacimento dei bisogni individuali (comma 2); i domestici e simili, nonché i precettori e simili, se abitualmente conviventi con la famiglia, sono poi considerati membri aggregati di essa (comma 3).
Ne affiora – seppure ai limitati fini anagrafici – un concetto decisamente più “allargato” di famiglia che ricalca, in qualche modo, quella “comunione di affetti in coabitazione” di ascendenza tipicamente romanistica.
1968
Il 18 marzo viene varata la legge n.313, recante riordinamento della legislazione pensionistica di guerra.
Il relativo art.42 – rubricato significativamente “Diritto a pensione della vedova e della donna che non abbia potuto contrarre matrimonio a causa della guerra” – ribadisce al comma 4 che, anche in mancanza di procura, le pertinenti disposizioni sono applicabili quando il militare durante lo stato di guerra abbia dichiarato di voler contrarre matrimonio, purché risulti da apposito atto stragiudiziale o da altro documento certo uno “stato preesistente di convivenza” da almeno un anno e purché le circostanze che impedirono la celebrazione del matrimonio non risultino imputabili a volontà delle parti.
1975
Il 26 luglio viene varata la legge n.354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, secondo il cui art.30 nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un “convivente”, ai condannati e agli internati può essere concesso il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo; agli imputati il permesso viene concesso dall’autorità giudiziaria (comma 1).
Analoghi permessi possono poi essere concessi per gravi ed accertati motivi (comma 2).
* * *
Il 29 luglio viene varata la legge n.405, recante istituzione dei consultori familiari, secondo il cui art.1 il pertinente servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità coinvolge anche le “coppie” non meglio specificate, e dunque le convivenze more uxorio.
1977
Il 12 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.6 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, ultimo comma, del codice penale e 350 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal pretore di Cagliari.
Nonostante la questione formalmente risulti sollevata secondo determinati parametri, la Corte si avvede come le vanga sostanzialmente chiesto di dire se sia o meno conforme all’art. 3 della Costituzione la norma dell’art. 350 del codice di procedura penale nella parte in cui non consente che possa astenersi dal deporre, in aggiunta ai prossimi congiunti di cui all’art. 307, ultimo comma, del codice penale, chi, nei confronti dell’imputato o di uno dei coimputati del medesimo reato, si trovi in una situazione affettiva di natura familiare, basata sulla convivenza e animata da intenti di reciproca assistenza e da propositi educativi della prole comune, di fatto ed oggettivamente identica a quelle disciplinate nel citato articolo del codice penale.
All’individuazione in tal senso della questione si perviene infatti per la Corte solo che si tengano presenti la portata ampia del disposto dell’ultimo comma dell’art. 307 del codice penale per cui “agli effetti della legge penale, si intendono per prossimi congiunti” determinati soggetti e il richiamo che ne viene fatto nell’art. 350 del codice di procedura penale, da un canto, e dall’altro si consideri che il giudice a quo si limita a mettere in evidenza la ratio dell’art. 350 del codice di procedura penale e non fa riferimento agli interessi e alle esigenze che il legislatore ha inteso tutelare in altre norme in cui, in vario modo, rileva la qualità di prossimo congiunto (e così negli artt. 307, 384, 386, 390, 391, 399, 418, 551, 578, 592 e 597 del codice penale e negli artt. 64, nn. 3, 4 e 5, 450, 556 e 564 del codice di procedura penale).
La situazione che, si assume, sarebbe stata omessa nella previsione di cui alla normativa denunciata, sarebbe propria di chi (come l’imputata nel processo a quo, di falsa testimonianza) sia legato ad altro soggetto di sesso diverso da una relazione sentimentale e da rapporti sessuali (con la nascita di un figlio dall’unione), ed essa sarebbe identica, di fatto ed oggettivamente, a quella che caratterizza il rapporto coniugale.
La relazione é instaurata, quindi, tra il coniuge e l’unione di fatto tra le dette persone. Ed infatti solo codesta situazione é descritta. Ed il riferimento che viene operato in narrativa, alla esistenza di un figlio nato dall’unione tra i due conviventi e nella motivazione, ai loro propositi educativi della prole comune, non tende a cogliere e mettere in rilievo un rapporto genitore-figlio suscettibile d’essere accostato alla parentela discendente ma giova unicamente a colorare sul piano soggettivo e psicologico l’unica soluzione come sopra rappresentata.
Ad avviso della Corte tuttavia le due situazione poste a raffronto, come é evidente, sono nettamente diverse.
Manca pertanto il necessario presupposto perché di fronte ad un trattamento differenziato (quale é quello che risulta dal contenuto positivo e negativo dell’art. 350 del codice di procedura penale, in relazione all’art. 307, ultimo comma, del codice penale) possa utilmente prospettarsi e quindi dirsi fondato il denunciato contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
D’altra parte – prosegue il Collegio – non si può ritenere, facendo riferimento alla ratio dell’art. 350 del codice di procedura penale, che gli interessi, i quali stanno a base delle situazioni ivi previste, siano ricorrenti anche in quelle omesse, con la conseguenza che codesto elemento o profilo comune possa bastare perché tutte le anzidette situazioni (previste e omesse) debbano essere considerate identiche o perché le situazioni omesse siano assimilate a quelle previste.
Giova, a tal riguardo, tener preliminarmente presente per la Corte che il legislatore ha accordato ai prossimi congiunti la facoltà di astenersi dal deporre nel processo penale, perché ha ritenuto meritevole di tutela il sentimento familiare (latamente inteso) e, nel possibile contrasto tra l’interesse pubblico, della giustizia, che su tutti gravi il dovere di deporre, e l’interesse privato, ancorato al detto sentimento, che i prossimi congiunti dell’imputato non siano travagliati dal conflitto psicologico tra il dover deporre e dire la verità ed il desiderio o la volontà di non deporre per non danneggiare l’imputato, ha altresì ritenuto prevalente l’interesse privato, e non in generale ed in modo assoluto ma se ed in quanto l’interessato (e cioè il teste) reputi di non dovere o potere superare quel conflitto, ed a tale fine non ha imposto un divieto di testimoniare (come invece disponeva l’art. 147 del codice di procedura civile prima della pronuncia di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 248 del 1974), ma solo una facoltà di astenersi dal deporre.
Ciò posto, va considerato che per i prossimi congiunti di cui all’ultimo comma dell’art. 307 del codice penale, nell’articolo 350 del codice di procedura penale si ha una tutela per categorie di soggetti, individuate sulla base di tipici rapporti giuridici (coniugio, parentela e affinità), presupponendosi che – secondo l’id quod plerumque accidit – tali soggetti sono portatori dei detti interessi e perseguono quei determinati scopi; e che a proposito delle situazioni che sarebbero state omesse, l’esistenza degli stessi interessi e il perseguimento degli stessi scopi si presentano come dati del tutto eventuali e comunque non necessari ed in ogni caso da dimostrare.
Che in concreto nelle situazioni previste ed in quelle omesse possano anche ricorrere eguali interessi, in sé e finalisticamente considerati, per la Corte non rileva. Nei due casi, la loro presenza é rispettivamente presunta o da dimostrare. Ciò comporta che, nel processo, solo nel primo di detti casi il giudice possa con immediatezza e sicurezza accertare se il soggetto chiamato a deporre debba essere avvertito, a sensi del terzo comma dell’art. 350 del codice di procedura penale, della facoltà di astenersi dal deporre.
Per accertare, nel secondo dei due casi, se la situazione (ivi considerata) presenti i caratteri per cui in fatto possa essere accostata al rapporto di coniugio, e se in essa in concreto ricorra il sopraddetto interesse privato, con il relativo sentimento familiare, occorre, invece, una indagine che può anche non essere breve né facile. Ed allora per tale caso affiora in modo prevalente l’esigenza pubblicistica che il corso del processo non subisca ingiustificate remore in contrasto con il carattere inquisitorio e con i principi della oralità e della concentrazione.
De iure condendo, prosegue significativamente la Corte, la normale presenza di quegli interessi, però, non dovrebbe rimanere senza una tutela per le dette situazioni omesse ed in particolare per quella che ricorre nella specie. E sarebbe, quindi, compito del legislatore di valutare, per detti interessi, l’importanza e la diffusione.
1978
Il 22 maggio viene varata la legge n.194, recante norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza.
Secondo il relativo art.5 il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il “padre del concepito” (dunque, quand’anche mero “convivente”), ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come “padre del concepito”, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione di gravidanza, di metterla in grado di far valere i propri diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza che dopo il parto.
1980
Il 14 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.45 che dichiara non fondate tanto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 bis, comma primo, parte prima, legge 12 agosto 1974, n. 351 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 giugno 1974, n. 236, recante provvedimenti urgenti sulla proroga dei contratti di locazione degli immobili urbani) proposta dal Pretore di Genova in riferimento all’art. 3 della Costituzione; quanto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma quarto, parte prima, legge 23 maggio 1950, n. 253 (disposizioni per le locazioni e sublocazioni di immobili urbani) proposta dal Tribunale di Milano in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
L’art. 2 bis, comma primo, parte prima, legge 12 agosto 1974, n. 351 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 giugno 1974, n. 236, recante provvedimenti urgenti sulla proroga dei contratti di locazione e sublocazione degli immobili urbani) – rammenta la Corte – prescrive: < In caso di morte del conduttore, se trattasi di immobile adibito ad uso di abitazione, la proroga di cui all’art. 1 opera soltanto a favore del coniuge, dei figli, dei genitori o dei parenti entro il secondo grado del defunto con lui anagraficamente conviventi >.
Questa norma, secondo il Pretore di Genova, sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza in quanto porrebbe il convivente more uxorio con il conduttore defunto in posizione deteriore non solo rispetto al coniuge ed ai parenti legittimi, ma anche rispetto ai figli naturali, conviventi, che hanno diritto, alla proroga legale della locazione e possono, quindi, allontanare, ad libitum dall’abitazione il loro genitore naturale superstite.
L’art. 1, comma quarto, parte prima, legge 23 maggio 1950, n. 253 (disposizioni per le locazioni e sublocazioni di immobili urbani) – rammenta ancora la Corte – prescrive: < In caso di morte del conduttore, se trattasi di immobile adibito ad uso di abitazione, la proroga opera soltanto a favore del coniuge, degli eredi, dei parenti e degli affini del defunto con lui abitualmente conviventi >.
Secondo il Tribunale di Milano, tale norma violerebbe l’art. 3 della Costituzione, perché tratterebbe in modo diverso, senza ragionevole motivo, persone che, tutte già conviventi abitualmente con il conduttore defunto, si troverebbero in condizioni sostanzialmente eguali: coniuge, figli legittimi, figli naturali, eredi testamentari, che hanno diritto alla proroga; convivente more uxorio, che non vi ha diritto e dovrebbe essere maggiormente tutelato.
In particolare come è stato già messo in evidenza dal Pretore di Genova, in riferimento alla legge n. 351 del 1974, con ordinanza 16 luglio 1977 il trattamento deteriore, non giustificato, del convivente more uxorio sarebbe rilevabile rispetto alla posizione dei figli naturali dei conviventi, che non sono esclusi dalla disposizione in esame e, quali unici beneficiari della proroga legale, nel caso di morte del conduttore, possono allontanare dalla abitazione il genitore naturale superstite.
Le questioni tuttavia per la Corte non sono fondate.
La denunciata violazione del principio di eguaglianza non sussiste, perché la situazione del convivente more uxorio con il conduttore defunto è nettamente diversa da quella del coniuge e degli altri soggetti indicati, in modo tassativo, dalle norme impugnate.
Invero, la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri, previsti dagli artt. 143, 144, 145, 146, 147, 148 cod. civ., che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima. La coabitazione infatti del convivente more uxorio può cessare per volontà di uno dei conviventi in qualsiasi momento anche mediante azione giudiziaria.
In ordine, poi, alla disparità di trattamento tra convivente superstite, che non ha diritto alla proroga, e figlio naturale dei conviventi, che vi ha diritto ravvisata sia dal Pretore di Genova, sia dal Tribunale di Milano è sufficiente rilevare per il Collegio che l’attribuzione ai figli naturali del diritto alla proroga legale realizza la tutela giuridica dei figli nati fuori del matrimonio espressamente prescritta dall’art. 30, comma terzo, della Costituzione, laddove il precedente art. 29, nel riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, considera il matrimonio elemento che distingue la famiglia legittima e ne giustifica la particolare rilevanza giuridica.
Le caratteristiche del rapporto tra i conviventi more uxorio, sopra indicate, escludono pure che la situazione dei conviventi possa essere considerata assimilabile a quella degli altri soggetti, ai quali, insieme al coniuge ed ai figli, le norme impugnate attribuiscono il diritto alla proroga legale del contratto di locazione. Questi soggetti – chiosa ancora al Corte – sono legati al conduttore da rapporti giuridici di parentela o di affinità o sono eredi dello stesso; proprio per questi precisi legami giuridici il legislatore ha voluto loro attribuire il diritto di permanenza nell’abitazione, nella quale hanno convissuto con il conduttore medesimo.
1986
Il 17 settembre esce la sentenza del Pretore di Roma alla cui stregua – muovendo dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 ed in specie dall’introduzione dell’art. 230 bis c.c. in tema di impresa “familiare” – alle convivenze di fatto va esclusa la operatività della presunzione di gratuità dell’opera di un partner a vantaggio dell’altro nei casi di «semplice rapporto affettivo e sessuale», potendo invece affermare la ridetta presunzione di gratuità nei casi di «stabile e duratura comunione di vita, economica e spirituale, analoga a quella propria del rapporto coniugale».
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Il 18 novembre esce a sentenza della Corte costituzionale n.237 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, comma quarto, e 384 del codice penale, in relazione all’art. 29 Cost., sollevata con ordinanze n. 751/80, n. 193/85, n. 573/85, rispettivamente dal Tribunale di Novara, dal Giudice istruttore del Tribunale di Camerino, dalla Corte d’assise di Rovigo; dichiara altresì inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, comma quarto, e 384 codice penale, in relazione all’art. 3 Cost., sollevata dal Tribunale di Torino, nonché dal Tribunale di Novara, dal Giudice istruttore del Tribunale di Camerino e dalla Corte d’assise di Rovigo.
La Corte rammenta in primis come agli effetti della legge penale, l’art. 307, comma quarto, del relativo codice fornisca l’elencazione tassativa dei “prossimi congiunti” e vi ricomprenda il coniuge. Questi, pertanto, non é punibile, giusta il successivo art. 384, allorché costretto a salvare da grave ed inevitabile nocumento l’altro coniuge, così incorrendo con la propria condotta, tra le altre ipotesi contemplate, nel reato di favoreggiamento personale.
Ma – rammenta la Corte – il Tribunale di Novara, il Giudice istruttore del Tribunale di Camerino, la Corte di assise di Rovigo sospettano di illegittimità costituzionale le richiamate disposizioni, assumendone contrasto con l’art. 29, primo comma, della Costituzione: l’omesso inserimento nella elencazione dei prossimi congiunti del convivente more uxorio alla pari del coniuge mostrerebbe – ad avviso dei remittenti – il non volersi tener conto, nella realtà sociale e nell’ordinamento, dei vincoli di solidarietà pur insiti nella famiglia di fatto.
Per contro, la relativa tutela – tanto più opportuna e ravvivata quando esiste prole – troverebbe presupposto di applicazione analogica, così testualmente il Giudice istruttore di Camerino, proprio nel dettato dell’art. 29 Cost.
Prospettata in tali precisi termini di riferimento, la questione é tuttavia per la Corte priva di fondatezza.
L’art. 29 riguarda, infatti, la famiglia fondata sul matrimonio (sent. n. 30 del 1983): come del resto fu pressoché univocamente palesato in sede di Assemblea Costituente la compagine familiare risulta, nel precetto, strettamente coordinata con l’ordinamento giuridico, sì che rimane estraneo al contenuto delle garanzie ivi offerte ogni altro aggregato pur socialmente apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica nel rapporto coniugale.
E che gli stessi Costituenti così divisassero doversi intendere la ripetuta norma, fornisce una obiettiva riprova la votazione per divisione, che ne seguì in aula. Fu esplicitamente rifiutato, infatti, un voto inteso a disgiungere, nell’art. 29, primo comma, la locuzione “diritti della famiglia come società naturale” dall’altra “fondata sul matrimonio“; si procedette – all’incontro – dapprima al voto sul riconoscimento dei diritti familiari, accorpandosi, in successiva votazione, la frase “come società naturale fondata sul matrimonio“, rimasta avvinta in inscindibile endiadi.
Senonché, prosegue la Corte, i giudici a quibus cui si aggiunge il Tribunale di Torino deducono ancora l’illegittimità della normativa penale di cui innanzi, in relazione all’art. 3 Cost.
La convivenza di fatto, si assume, rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle scaturenti dal vincolo matrimoniale: e dunque una diversità di garanzie – o addirittura l’assenza di queste – verrebbe a vulnerare il principio di uguaglianza.
Orbene, la Corte – sia pure per oggetti specifici insorti da diversa fattispecie – rammenta di avere già avuto modo di pronunciarsi, in passato, sul merito della situazione di convivenza more uxorio anche nei termini del confronto sopra descritti. E, in punto specifico, ebbe già a rilevarsi la inapprezzabilità del rapporto di fatto poiché privo esso delle caratteristiche di certezza e di stabilità, proprie della famiglia legittima, osservandosi – tra l’altro – che la coabitazione può venire a cessare unilateralmente e in qualsivoglia momento (sentenza n. 45 del 1980).
Va poi ricordato, per completezza, come non avesse mancato la Corte medesima, peraltro, di porre l’accento (sentenza n. 6 del 1977) sulla opportunità di una valutazione legislativa degli interessi dedotti, carenti, allo stato, di tutela positiva.
In effetti, un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto più – in ciò concordando con i giudici remittenti – allorché la presenza di prole comporto il coinvolgimento attuativo d’altri principi, pur costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione.
In altre parole, si é in presenza di interessi suscettibili di tutela, in parte positivamente definiti (si vedano ad es. gli artt. 250 e 252 del codice civile nel testo novellato con la legge 19 maggio 1975 n. 151), in parte da definire nei possibili contenuti.
Comunque, per le basi di fondata affezione che li saldano e gli aspetti di solidarietà che ne conseguono, siffatti interessi appaiono meritevoli indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione.
Nella fattispecie tuttavia, prosegue il Collegio, l’adeguatezza in concreto di misure protettive d’ordine positivo scaturenti dalla valorizzazione di legami affettivi esistenti di fatto (cfr. sentenza n. 198 del 1986) trascende – e proprio per l’esigenza di una complessa chiarezza normativa – i ristretti termini del caso, rivolto al mero intento di parificare il binomio coniuge/convivente in presenza dei reati richiamati dall’art. 384 c.p., tra cui il 378.
Più incisivamente, va osservato che l’impugnato art. 307, comma quarto racchiude la nozione positiva di prossimo congiunto con una portata di integrazione generale nel sistema legislativo penale: la prospettata parificazione della convivenza e del coniugio varrebbe adunque, per la Corte, a coinvolgere automaticamente non solo le altre ipotesi di reato contenute nell’art. 384 pure impugnato, ma – ben più ampiamente – altri istituti di ordine processuale penale, quali la ricusazione del giudice (art. 64, nn. 3 e 4 cod. proc. pen.); la facoltà di astensione dal deporre (art. 350) già esaminata dalla Corte nella ricordata sentenza n. 6 del 1977; la titolarità nella richiesta di revisione delle sentenze di condanna e di connesso esercizio dei relativi diritti (artt. 556,564) ovvero nella presentazione di domanda di grazia (art. 595).
D’altronde, una volta parificato, in ipotesi, il rapporto di fatto a quello del coniugio, non sarebbe dato sottrarsi, contestualmente, alla necessità di regolare la posizione dell’eventuale coniuge separato, sia per il caso di coerenza d’intenti che di conflittualità con il convivente.
Ma su di una regolamentazione esaustiva di tal sorta, necessariamente involgente, senz’altro, scelte e soluzioni di natura discrezionale, la Corte assume di non avere facoltà di pronunciarsi senza invadere quelle competenze che spettano al Parlamento, nel razionale esercizio di un potere che il solo legislatore é chiamato ad esercitare; per il che la Corte rinnova la sollecitazione contenuta nella sentenza n. 6 del 1977, conseguendone l’inammissibilità dell’odierna dedotta questione.
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Il 29 novembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.7064 onde, in punto di recesso di un partner dalla convivenza more uxorio, si pone il problema della configurabilità di una eventuale responsabilità in capo al medesimo proprio per la scelta di porre fine alla convivenza.
Per la Corte, nell’ambito della responsabilità civile, va assunto in proposito come non sussista alcun obbligo risarcitorio, giacché il fondamento primo della convivenza deve essere ricercato nella libera volontà delle parti, dai cui comportamenti spontanei non può sorgere alcun tipo di vincolo o dovere, la convivenza connotandosi per l’assoluta mancanza di ogni impegno in ordine alla relativa continuità.
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Il 13 dicembre esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n.7486 onde – al fine di individuare un presupposto certo cui saldare la gratuità della prestazione lavorativa di un partner nei confronti dell’altro convivente di fatto – va valorizzato il profilo della partecipazione del convivente lavoratore ai proventi dell’azienda comune.
Si viene dunque a configurare per la Corte un rapporto di lavoro gratuito qualora si raggiunga la dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi, che – come tale – non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto.
1988
Il 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.404 che dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (<Disciplina delle locazioni di immobili urbani>), nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio; dichiara altresì la illegittimità costituzionale dell’art. 6, terzo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede che il coniuge separato di fatto succeda al conduttore, se tra i due si sia così convenuto; dichiara, infine, la illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza, a favore del già convivente quando vi sia prole naturale.
Per la Corte le questioni nel caso di specie sottopostele sono tutte fondate, il profilo che tutte le accomuna consistendo nel chiedersi se la mancata previsione della successione nella titolarità del contratto di locazione, fino alla normale consumazione della durata quadriennale del rapporto, come stabilita ex lege, non contrasti con valori presenti in Costituzione.
Non viene qui in evidenza per la Corte, come ritengono i giudici a quibus, un trattamento discriminatorio a sfavore della convivenza more uxorio, che violerebbe il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. E neppure un contrasto con la spontaneità delle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’uomo, di cui all’art. 2 della Costituzione, o, nel particolare caso di specie sub d), un ostacolo all’esercizio e all’adempimento dei diritti e doveri dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del matrimonio, di cui all’art. 30, primo comma, della Costituzione.
Come affermato dalla Consulta in una recente sentenza (n. 217 del 1988): <il “diritto all’abitazione” rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione… In breve, creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso>. Altra sentenza, rammenta ancora la Corte (sent. n. 49 del 1987), aveva già riconosciuto <indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione>.
Tali statuizioni, pur espresse in ordine allo specifico favor, di cui all’art. 47 , secondo comma, della Costituzione, per l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, hanno una portata più generale ricollegandosi al fondamentale diritto umano all’abitazione riscontrabile nell’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (New York, 10 dicembre 1948) e nell’art. 11 del Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali (approvato il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea generale della Nazioni Unite é ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978, in seguito ad autorizzazione disposta con legge 25 ottobre 1977, n. 881).
Quando – prosegue la Corte – il legislatore, nel contesto della legge n. 392 del 1978, detta l’art. 6, rubricandolo <Successione nel contratto>, esprime il dovere collettivo di <impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione>, dovere che connota da un canto la forma costituzionale di Stato sociale, e dall’altro riconosce un diritto sociale all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione.
Ciò conduce ad ulteriore sviluppo le considerazioni svolte nella sentenza della Corte n. 252 del 1983.
All’inizio degli anni Ottanta un indirizzo dottrinale e giurisprudenziale tendeva a costruire il diritto all’abitazione come un diritto soggettivo perfetto, destinato a rendere sempre poziore la posizione del locatario su quella del locatore, suggerendo come modello la disciplina francese e tedesca della locazione abitativa a tempo indeterminato con recesso del locatore solo per giusta causa.
La Corte dovette allora obbiettare che la <stabilità della situazione abitativa> non costituisce autonomo e indefettibile presupposto per l’esercizio dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione.
La Corte invece affermava in proposito che <indubbiamente l’abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell’individuo, un bene primario il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge>.
La giurisprudenza precedente della Corte (sent. n. 45 del 1980; ord. n. 128 del 1980) non aveva dato il dovuto rilievo all’abitazione come bene primario, valutando su un piano prospettico di maggiore rilevanza l’estraneità del convivente more uxorio dagli elenchi tassativi degli aventi diritto alla proroga dei contratti di locazione di immobili adibiti ad uso di abitazione, in caso di morte del conduttore, sia in base all’art. 2 bis, comma primo, parte prima, della legge 12 agosto 1974, n. 351, sia in base all’art. 1, comma quarto, parte prima, della legge 23 maggio 1950, n. 253.
Ritiene oggi la Corte che la nuova normativa sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso di abitazione, introdotta dalla legge 27 luglio 1978, n. 392, realizzando con il regime dell’equo canone un superamento di quella previgente, fondata sul meccanismo della proroga, determini una minore compressione del diritto del proprietario-locatore e consenta pertanto una più penetrante indagine sui fini che il legislatore ha inteso perseguire nel sostituire la fattispecie <successione nel contratto> a quella della operatività della proroga.
Il legislatore del 1950 ha usato la formula <la proroga opera soltanto a favore del coniuge, degli eredi, dei parenti e degli affini del defunto con lui abitualmente conviventi> (art. 1, comma 4, parte I, l. n. 253/1950); quello del 1974 la variante: <del coniuge, dei figli, dei genitori o dei parenti entro il secondo grado del defunto con lui anagraficamente conviventi> (art. 2-bis, comma 1, parte I, l. n. 351/1974).
La volontà di escludere qualunque soggetto diverso da quelli elencati e fatta palese, per la Corte, dall’avverbio <soltanto>.
Diversa formulazione è quella dell’art. 6, primo comma, della vigente legge n. 392 del 1978: <in caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi>.
Le species <figli, genitori, parenti entro il secondo grado, con lui anagraficamente conviventi>, della corrispondente norma del 1974, si espandono nei genera <eredi, parenti, affini con lui abitualmente conviventi>.
Il legislatore del 1978, cioé, ha voluto tutelare non la famiglia nucleare, nè quella parentale, ma la convivenza di un aggregato esteso fino a comprendervi estranei -potendo tra gli eredi esservi estranei-, i parenti senza limiti di grado e finanche gli affini.
E’ evidente – prosegue la Corte – la volontà legislativa di farsi interprete di quel dovere di solidarietà sociale, che ha per contenuto l’impedire che taluno resti privo di abitazione, e che qui si specifica in un regime di successione nel contratto di locazione, destinato a non privare del tetto, immediatamente dopo la morte del conduttore, il più esteso numero di figure soggettive, anche al di fuori della cerchia della famiglia legittima, purché con quello abitualmente conviventi.
Se tale é la ratio legis, é irragionevole che nell’elencazione dei successori nel contratto di locazione non compaia chi al titolare originario del contratto era nella stabile convivenza legato more uxorio.
L’art. 3 della Costituzione va qui invocato dunque non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente more uxorio, ma per la contraddittorietà logica della esclusione di un convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare l’abituale convivenza.
Se l’art. 3 della Costituzione é violato per la non ragionevolezza della norma impugnata, l’art. 2 lo é quanto al diritto fondamentale che nella privazione del tetto é direttamente leso.
La questione sub b), sollevata dal Pretore di Cecina – possibilità di succedere nel contratto di locazione al coniuge del conduttore defunto, a lui unito da matrimonio religioso non trascritto – e quella sub c) sollevata dal Pretore di Sestri Ponente – successione anche questa mortis causa nel contratto del convivente more uxorio– sono assolutamente identiche dato che la convivenza con il conduttore defunto non riceve diversa qualificazione dalla circostanza che nell’un caso essa sia stata suggellata dal matrimonio religioso non trascritto e nell’altro sia rimasta affidata all’affectio quotidiana.
Nella questione sub d), sollevata dal Tribunale di Firenze, essendo la separazione tra i conviventi more uxorio soltanto una espressione metaforica che indica in realtà la estinzione del rapporto more uxorio, l’esistenza di prole naturale valorizza ulteriormente la ratio decidendi per la conservazione dell’abitazione alla residua comunità familiare.
Nella questione sub a) sollevata dal Pretore di Rodi Garganico, prosegue il Collegio, la separazione di fatto tra coniugi non dovrebbe avere alcuna rilevanza esterna, restando quella locata la casa coniugale. Ma essendosi convenuta tra i coniugi la conservazione dell’abitazione per uno solo di essi, la fattispecie, in base al principio di razionalità di cui all’art. 3 della Costituzione non può ricevere trattamento diverso da quello disposto per le ipotesi previste dal terzo comma dell’art. 6 della legge 392 del 1978 che recita: <In caso di separazione consensuale o di nullità matrimoniale al conduttore succede l’altro coniuge se tra i due si sia così convenuto>.
Rispetto al bene primario dell’abitazione che la ratio legis salvaguarda, il titolo della separazione, di fatto o consensuale, non può avere effetto discriminatorio senza vulnerare ancora una volta il combinato disposto degli artt. 2 e 3 della Costituzione nella configurazione su richiamata.
Che la separazione di fatto non comporti l’evidenza documentale di quanto convenuto tra i coniugi, come nella separazione consensuale, provveduta di verbale e di decreto di omologazione, non é ragione sufficiente per giustificarne l’assenza dalla previsione legale. L’accordo o l’atto concludente tra i separati di fatto sarà oggetto di prova e il relativo accertamento ristabilirà la parità con l’accordo convenuto nel verbale tra i separati con separazione consensuale omologata.
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Quel medesimo 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.423 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649, n. 1, del codice penale, sollevata dal Pretore di Pinerolo con ordinanza del 2 maggio 1987, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Per la Corte la non punibilità, prevista dalla norma impugnata si fonda sulla presunzione che, ove i coniugi non siano legalmente separati, sussista una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso. Tant’é che nella ipotesi di separazione legale la punibilità ricorre, sia pure a querela della persona offesa.
Siffatto regime palesa che il legislatore rimette alla volontà del coniuge legalmente separato l’applicazione della legge penale, laddove esclude che questa possa intervenire in costanza della convivenza coniugale.
Fattispecie tutt’affatto diversa e quella della convivenza more uxorio, per propria natura fondata sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti.
Nel caso che ha dato origine alla questione di costituzionalità di cui al caso di specie, la denuncia-querela della persona offesa, nonché la sottrazione di mobili suppellettili ed elettrodomestici dall’abitazione comune ad opera della convivente, che li ha trasportati in altro alloggio ove si é stabilita con il figlio nato dal rapporto con il querelante, sono atti concludenti che attestano la revocazione dell’affectio e dunque il venir meno della convivenza more uxorio.
Non sembrano pertanto ravvisabili per la Corte, nella norma impugnata, in occasione del giudizio di cui all’ordinanza del Pretore di Pinerolo, profili di contrasto con i valori costituzionali contenuti negli artt. 2 e 3 della Costituzione.
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Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, secondo il cui art.199, rubricato “facoltà di astensione per i prossimi congiunti”, i prossimi congiunti dell’imputato non sono obbligati a deporre; devono tuttavia deporre quando hanno presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi o un loro prossimo congiunto siano offesi dal reato (comma 1); il giudice, a pena di nullità, avvisa le persone predette della facoltà di astenersi chiedendo loro se intendono avvalersene (comma 2).
Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche a chi è legato all’imputato da vincolo di adozione; si applicano inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale: a) a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso; b) al coniuge separato dell’imputato; c) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’imputato (comma 3).
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Il 20 dicembre esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.1122 che dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice penale, sollevata, in relazione agli artt. 3 e 31 della Costituzione, dal Pretore di Bologna.
La Corte rammenta che, con la sentenza n. 423 del 24 marzo 1988, ha già dichiarato la non fondatezza di analoga questione, osservando, in particolare, come la convivenza more uxorio sia per propria natura fondata sulla affectio quotidiana liberamente ed in ogni istante revocabile di ciascuna delle parti.
Il richiamo, operato dal giudice a quo nel caso di specie, all’art. 31 della Costituzione, non concreta per la Corte un argomento nuovo rispetto a quelli a suo tempo esaminati onde vale, a riguardo, il medesimo ordine di considerazioni circa l’intrinseca aleatorietà di tale rapporto e la conseguente razionalità del collegamento operato dall’art. 649, primo comma, del codice penale tra l’esclusione della punibilità e i dati incontrovertibili ed agevolmente riscontrabili, quali i vincoli di parentela, affinità, adozione ed, appunto, coniugio.
Del pari non appare appropriato al Collegio il riferimento all’art. 572 del codice penale, posto che l’estensione del concetto di famiglia operata dalla giurisprudenza da un lato, e dall’altro l’esclusione della necessita della coabitazione si collegano necessariamente all’esigenza di tutelare un soggetto passivo in posizione di intrinseca, peculiare debolezza a fronte dell’ampia accezione dell’elemento materiale proprio di una fattispecie criminosa la quale, anche per la particolarità della relativa struttura (reato abituale e condotta plurima), non può sicuramente proporsi quale tertium comparationis.
1989
Il 20 gennaio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n. 285 che si occupa della fattispecie del convivente more uxorio che versi in precarie condizioni economiche: laddove il partner gli somministri denaro, egli adempie ad una obbligazione naturale, con effetto di soluti retentio in capo al convivente che le riceve; né il solvens può dedurre in compensazione quanto pagato (che non può appunto ripetere, e che non costituisce dunque un credito) rispetto ad altri debiti che eventualmente vanti nei confronti del partner accipiens.
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Il 30 maggio viene varato il D.p.R. n.223, che approva il nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente e contestualmente abroga il D.p.R. 136.58
Stando al pertinente art.4, agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso Comune (comma 1), una famiglia anagrafica potendo essere costituita anche da una sola persona (comma 2).
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Il 20 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.559 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 (Disciplina delle assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai sensi dell’art. 2, comma secondo, della legge 5 agosto 1978, n. 457, in attuazione della deliberazione C.I.P.E. pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 348 in data 19 dicembre 1981), nella parte in cui non prevede la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nell’assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole.
Per la Corte la questione sottopostale é fondata, nei limiti di cui appresso, occorrendo preliminarmente negare l’utilizzabilità del tertium comparationis, prospettato dal giudice a quo, e che consisterebbe nell’art. 6 della legge n. 392 del 27 luglio 1978, nel testo risultante dalla sentenza interpretativa di accoglimento della Corte medesima n. 404 del 7 aprile 1988, vale a dire <nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza, a favore del già convivente quando vi sia prole naturale>. La ipotesi di cui alla sentenza citata si inserisce nel contesto privatistico del rapporto contrattuale di locazione, laddove la questione sollevata nel caso di specie è caratterizzata in termini pubblicistici, e per la natura amministrativa del procedimento di assegnazione d’alloggio in regime di edilizia residenziale pubblica, e per la qualità degli Enti Comune, I.A.C.P. e loro fini e funzioni.
Inoltre la successione al conduttore è là prevista quale esigenza di conservare il tetto nei limiti della consumazione della durata residua del contratto, mentre nel caso in questione si tratterebbe di successione nell’assegnazione dell’alloggio senza limiti temporali.
Ha invece – prosegue la Corte – particolare considerazione ai fini del rinvenimento della ratio decidendi il duplice dato che il convivente dell’assegnataria, dichiarata decaduta per abbandono dell’alloggio, risulti rivestire la qualifica anagrafica di capofamiglia ed essere padre naturale nonché affidatario del minore, figlio riconosciuto della donna.
Trattasi di un nucleo familiare che la legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 prevede all’art. 2, comma terzo, per l’esplicita menzione della prole naturale riconosciuta e del convivente more uxorio.
E’ contrario al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, che il legislatore regionale nel contesto della stessa legge non abbia esteso integralmente la previsione di cui all’art. 2, comma terzo, anche all’art. 18, commi primo e secondo, riconoscendo accanto alle ivi elencate cause di successione nella domanda e nella convenzione di assegnazione decesso, separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili del matrimonio anche la cessazione della convivenza.
In tal caso l’abbandono dell’alloggio da parte del convivente non potrebbe valere come causa di decadenza dell’assegnazione perché non l’animus derelinquendi rispetto alla res ne qualificherebbe l’elemento soggettivo ma la cessazione della mutua affectio, che tocca l’abitazione solo strumentalmente come segno esteriore della conclusione della convivenza.
Pertanto, chiosa il Collegio, resta esclusa dalla questione di costituzionalità la disciplina della decadenza di cui all’impugnato art. 21, primo comma, lett. b). La ratio decidendi, alla luce dell’altro parametro invocato, l’art. 2 della Costituzione, si manifesta anche come esigenza di <garantire […] un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione (sentenza n. 217 del 1988)>, riscontrabile nell’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (New York, 10 dicembre 1948) e nell’art. 11 del Patto internazionale dei diritti economici sociali e culturali (approvato a New York il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978, in seguito ad autorizzazione disposta con legge 25 ottobre 1977, n. 881).
La Corte rammenta di avere già in altra occasione riconosciuto <indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione>, e ha individuato in tale dovere, cui corrisponde il diritto sociale all’abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 della Costituzione, un connotato della forma costituzionale di Stato sociale (cfr. sentenze n. 404 del 1988 e n. 49 del 1987).
Il dovere collettivo di impedire che singole persone, e a maggior ragione se inserite in un nucleo familiare, come quello rappresentato dal genitore affidatario del figlio minore, restino prive di abitazione e tanto più cogente quando si rapporta ad un Ente esponenziale della collettività, quale il Comune, nella specifica competenza dell’assegnazione di alloggi in regime di edilizia residenziale pubblica.
Il provvedimento di affidamento al genitore naturale del figlio minore, pronunciato dal Tribunale per i minorenni di Torino, consente peraltro di richiamare per analogia iuris quanto statuito dalla Corte medesima in tema di titolo ad abitare per il coniuge affidatario della prole (cfr. sentenza n. 454 del 1989). Il diritto umano a non perdere il tetto sotto cui si è protratta la convivenza e dunque rafforzato dal munus a provvedere all’interesse morale e materiale della prole generata mediante la conservazione della compagine domestica nella stabilita della dimora.
1990
Il 24 novembre esce la sentenza del Tribunale di Torino n…, che si occupa della fattispecie in cui – cessata una convivenza – non si possa dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, come nelle ipotesi di attività domestica compiuta da uno dei conviventi in favore del proprio nucleo famigliare.
In relazione a questa fattispecie, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno ventilato l’applicabilità dell’istituto dell’ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.), in specie assumendo giustificato l’arricchimento da parte di chi si avvantaggia dell’attività svolta dal proprio compagno nel solo caso in cui anche l’accipiens, a propria volta, abbia attivamente e corrispettivamente contribuito al menage familiare.
Si assume dunque giustificato l’arricchimento in presenza di una sinallagmaticità tra le prestazioni dei conviventi, dovendo essere l’attività domestica medio tempore svolta da uno di essi controbilanciata dall’adempimento dell’obbligazione naturale di contribuire agli oneri famigliari gravante sull’altro.
1992
Il 17 febbraio viene varata la legge n.179, recante norme per l’edilizia residenziale pubblica, secondo il cui art.17 – rubricato “decesso del socio assegnatario” – nelle cooperative a proprietà indivisa, anche non fruenti di contributo erariale, al socio che muoia dopo l’assegnazione dell’alloggio si sostituiscono, nella qualità di socio e di assegnatario, il coniuge superstite, ovvero, in relativa mancanza, i figli minorenni ovvero il coniuge separato, al quale, con sentenza del tribunale, sia stato destinato l’alloggio del socio defunto (comma 1).
In mancanza del coniuge e dei figli minorenni, uguale diritto è poi riservato (comma 2) ai conviventi more uxorio e agli altri componenti del nucleo familiare, purché conviventi alla data del decesso e purché in possesso dei requisiti in vigore per l’assegnazione degli alloggi. La convivenza alla data del decesso deve essere stata instaurata da almeno 2 anni ed essere documentata da apposita certificazione anagrafica od essere dichiarata in forma pubblica con atto di notorietà da parte della persona convivente con il socio defunto (comma 3).
1994
L’8 febbraio esce la Risoluzione del Parlamento Europeo che disciplina la parità dei diritti delle coppie omosessuali, invitando specificamente il Regno Unito ad abrogare qualsiasi legge discriminatoria nei confronti della cosiddetta “promozione” della omosessualità e sollecitando la Commissione della Comunità Europea a redigere una Raccomandazione in base alla quale agli omosessuali siano garantiti pieni ed eguali diritti rispetto al matrimonio – in specie con riguardo alla registrazione del loro rapporto di coppia – ed alla pertinente genitorialità (consentendo l’adozione di bambini).
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Il 2 maggio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.4204 onde la convivenza more uxorio non può assimilarsi al matrimonio, trovandosi al cospetto di concetti del tutto antitetici: dal matrimonio discendono conseguenze perenni e ineludibili, tra le quali il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, mentre la convivenza è la scelta di chi intende sottrarsi ai doveri di carattere pregnante connessi al matrimonio e riservarsi, invece, la possibilità di un commodus discessus in conseguenza dei caratteri di precarietà e revocabilità unilaterale ad nutum, propri della convivenza di fatto.
Per la Corte – conformemente sul punto ad un collaudato orientamento giurisprudenziale – la tutela di cui all’art. 230-bis c.c. in materia di impresa “familiare” non può dunque essere estesa in via analogica al convivente di fatto.
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Il 22 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8718 onde, in caso di eventuali passività affioranti da conto corrente cointestato, delle stesse rispondono solidalmente entrambi i conviventi, pur nel caso in cui abbia di fatto operato sul conto corrente uno soltanto dei due.
1996
Il 18 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.8 che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino; e dichiara altresì non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 29 della Costituzione, sempre dal Tribunale di Torino.
Per la Corte la sollevata questione non può essere accolta in riferimento ad alcuno dei parametri invocati, per i concorrenti motivi di infondatezza e di inammissibilità siccome esposti subito di seguito.
Per quanto attiene alla censura sollevata in riferimento all’art. 29 della Costituzione, a ragione l’ordinanza del Tribunale rimettente sottolinea la notevole diffusione della convivenza di fatto, quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell’uso e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale.
Ma questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza della Corte assume di non essere indifferente, non autorizza peraltro la perdita dei contorni caratteristici delle due figure in una visione unificante come quella che risulta dalla radicale ed eccessiva affermazione, contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle che scaturiscono dal rapporto matrimoniale e dunque le due situazioni in nulla differirebbero, se non per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo.
La Corte, al contrario, in diverse decisioni il cui orientamento non può che essere qui confermato (sentenze nn. 310 del 1989, 423 e 404 del 1988 e 45 del 1980), ha posto in luce la netta diversità della convivenza di fatto, “fondata sull’affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti” rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da “stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri … che nascono soltanto dal matrimonio“.
Ma ciò che nel giudizio di legittimità costituzionale più conta è per il Collegio che la Costituzione stessa ha dato delle due situazioni una valutazione differenziatrice. Tale valutazione esclude l’ammissibilità, secondo un punto di vista giuridico-costituzionale, di affermazioni omologanti, del tipo di quella riferita nell’ordinanza di rimessione.
La Corte, nella sentenza n. 237 del 1986 – che costituisce precedente specifico per la decisione della questione in esame -, riconosciuta la rilevanza costituzionale del “consolidato rapporto” di convivenza, ancorché rapporto di fatto, lo ha tuttavia distinto dal rapporto coniugale, secondo quanto impongono il dettato della Costituzione e gli orientamenti emergenti dai lavori preparatori. Conseguentemente, ha ricondotto il primo all’ambito della protezione, offerta dall’art. 2, dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo a quello dell’art. 29 della Costituzione.
Tenendo distinta l’una dall’altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro propria specifica dignità; si evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata e non si innesca alcuna impropria “rincorsa” verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere. Soprattutto si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale – fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi – tenga presente e quindi rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale.
Questa valutazione costituzionale del rapporto di convivenza rispetto al vincolo coniugale non può per la Corte essere contraddetta da opposte visioni dell’interprete. I punti di vista di principio assunti dalla Costituzione valgono innanzitutto come criteri vincolanti di comprensione e classificazione, e quindi di assimilazione o differenziazione dei fatti sociali giuridicamente rilevanti.
La pretesa equiparazione della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, nel segno della riconduzione di tutte e due le situazioni sotto la medesima protezione dell’art. 29 della Costituzione, risulta così infondata.
La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude affatto tuttavia, prosegue il Collegio, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’invocato art. 3 della Costituzione: un controllo, già in passato esercitato numerose volte dalla Corte costituzionale, il quale, senza intaccare l’essenziale diversità delle due situazioni, ha tuttavia condotto talora a censurare l’ingiustificata disparità di trattamento (a danno ora della famiglia di fatto, ora della famiglia legittima) delle analoghe condizioni di vita che derivano dalla convivenza e dal coniugio (sentenze nn. 559 del 1989, 404 del 1988 e 179 del 1976).
Nella prospettiva della ragionevolezza delle determinazioni legislative, il Tribunale rimettente fonda la propria richiesta sulla ratio comune alle cause di non punibilità previste dall’art. 384 del codice penale – in riferimento a ciascuno dei titoli di reato ivi elencati – a favore dei prossimi congiunti, ratio di tutela del legame di solidarietà tra i componenti il nucleo familiare e del sentimento che li unisce.
Poiché tale sentimento e tale legame possono valere con la stessa intensità tanto per i componenti della famiglia legittima quanto per quelli della famiglia di fatto, non vi sarebbe alcun ragionevole motivo – ad avviso del Tribunale rimettente – per discriminare questi ultimi dalla protezione accordata ai primi.
Ma neppure sotto questo profilo – che pur si basa innegabilmente su un dato di fatto incontestabile – la questione può per la Corte essere accolta. Essa infatti mira, come risultato, a una decisione additiva che manifestamente eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore.
Innanzitutto, l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto dalla Corte appartenere primariamente al legislatore (sentenze nn. 385, 267 e 32 del 1992, quest’ultima in tema di cause di improcedibilità; n. 1063 del 1988; ordinanza n. 475 del 1987; sentenza n. 241 del 1983).
Nel caso di specie, si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro. Ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima.
Per la famiglia legittima, non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza, può sommarsi quella di tutela dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici.
Ciò legittima per il Collegio, nel settore dell’ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi Paesi.
In più, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all’altro convivente o all’altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che – come si è detto – non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative conseguenziali di portata generale che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
Non ci sarebbe motivo infatti, chiosa ancora il Collegio, per limitare l’equiparazione del convivente al coniuge, nell’ambito del primo comma dell’art. 384 del codice penale, al solo caso del favoreggiamento personale, anche perché una tale limitazione determinerebbe di per sé ulteriori problemi di costituzionalità, sotto il profilo dell’irrazionalità, all’interno delle stesse fattispecie previste dal medesimo articolo. Ma soprattutto si dovrebbe aprire il problema dell’equiparazione in tutti gli altri numerosi casi di previsioni legislative, talora anche in malam partem (ad es. articoli 570, 577, ultimo comma, 605 del codice penale), che danno rilievo, ai più diversi fini e nei più diversi campi del diritto, all’esistenza di rapporti di comunanza di vita di tipo familiare.
Sotto il profilo dell’irragionevolezza, la dedotta questione di costituzionalità è dunque inammissibile.
Le sopra esposte ragioni di infondatezza e di inammissibilità conducono così il Collegio a confermare gli orientamenti espressi nella precedente sentenza n. 237 del 1986 di questa Corte.
Senonché, il Tribunale rimettente rileva la novità dell’ordine normativo nel quale la questione ora riproposta viene a collocarsi. Tale novità è rappresentata dalla norma del vigente codice di procedura penale (art. 199) che estende la facoltà di astensione dal prestare testimonianza (facoltà cui corrisponde il dovere del giudice, a pena di nullità, di darne avviso all’interessato), dai prossimi congiunti (comma 1) a chi (comma 3, lettera a)), “pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso…”, sia pure limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza: una disciplina applicabile altresì alle informazioni assunte da parte del pubblico ministero nelle indagini preliminari (art. 362 del codice di procedura penale, come novellato dall’art. 5 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356) e alle sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria (art. 351, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 4 della predetta novella).
Da tale nuova disciplina processuale, che prevede dunque un’ampia, anche se non totale, assimilazione del convivente al coniuge rispetto alle dichiarazioni rese all’autorità, discendono poi conseguenze sostanziali per entrambi. L’art. 384, secondo comma, del codice penale prevede una causa di non punibilità relativamente ai reati di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) – ma non anche relativamente alle false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria: comportamento non previsto come reato specifico ma suscettibile di integrare, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, la fattispecie del favoreggiamento personale – quando il soggetto richiesto di fornire informazioni o assunto come teste avrebbe dovuto essere avvertito della relativa facoltà di astenersi; ipotesi, quest’ultima, che oggi, a causa della suddetta estensione operata dall’art. 199 del nuovo codice di procedura penale, riguarda, oltre che il coniuge, anche il convivente.
Dalla descritta evoluzione dell’ordinamento nel senso dell’avvicinamento della posizione del convivente a quella del coniuge rispetto alla facoltà di astensione, nonché rispetto all’obbligo del relativo avviso e alla causa di non punibilità prevista nel caso di omesso avviso, il Tribunale rimettente trae ragione per ribadire l’incongruenza della disciplina riguardante le dichiarazioni rese dal convivente in sede di sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria.
Il fatto materiale, infatti, potrebbe essere il medesimo, consistendo in false dichiarazioni, dichiarazioni rilevanti però a titolo di favoreggiamento personale davanti alla polizia giudiziaria e a titolo di false informazioni o di falsa testimonianza davanti al pubblico ministero o al giudice. Ma solo in questi due ultimi casi e non nel primo valendo la causa di non punibilità prevista dal secondo comma dell’art. 384 del codice penale, analogo comportamento – le false dichiarazioni nel caso di omesso avviso della facoltà di astensione – può andare esente da pena se tenuto davanti al pubblico ministero o al giudice, ma non se tenuto davanti alla polizia giudiziaria, pur nell’identità delle norme processuali presupposte.
Affinché tali rilievi critici del giudice rimettente, in ordine all’accennato motivo di irrazionalità della normativa vigente, possano avere accesso all’esame della Corte, dovrebbero tuttavia – rammenta il Collegio – essere formulati nell’ambito di una questione di costituzionalità essenzialmente diversa da quella presente, l’ipotizzata discriminazione concernendo non più soggetti distinti (il coniuge e il convivente) ma il medesimo soggetto (nella specie: un convivente), a seconda dell’autorità ricevente le relative dichiarazioni, e riguardando una diversa causa di non punibilità: non quella prevista nel primo, ma quella apprestata dal secondo comma dell’art. 384 del codice penale.
Pertanto, se tale era l’intento del giudice rimettente, la via non poteva certo essere quella effettivamente percorsa della richiesta equiparazione del convivente al coniuge sotto il profilo del primo comma dell’art. 384 del codice penale: una via, oltre che infondata e inammissibile per i motivi predetti, anche artificiosa.
1997
Il 22 maggio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.4582 onde – in relazione agli eventuali conti correnti cointestati tra due partner di fatto – trova applicazione la presunzione di proprietà in parti uguali delle somme ivi depositate, ai sensi del comma 2 dell’att. 1298 c.c.
* * *
Il 9 agosto esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.7442 onde – tenuto conto del fatto che il venir meno volontario della convivenza reca seco la necessità di dividere i beni che durante la stessa siano stati acquistati in comunione – in caso di contrasto tra i conviventi tale operazione divisoria va compiuta in sede giudiziale.
Per quanto riguarda, in specie, gli eventuali beni immobili, in caso di mancanza di figli affidati a uno dei due ex conviventi, non sussiste alcun diritto di un convivente di ottenere l’affidamento della casa di proprietà dell’altro, anche se il primo (non proprietario) risulta in posizione economicamente meno vantaggiosa, e dunque più debole, rispetto al secondo (proprietario).
1998
Il 3 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.239 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, quarto comma, della legge 18 marzo 1968, n. 313 (Riordinamento della legislazione pensionistica di guerra), e dell’art. 37, quinto comma, del d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915 (Testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra), come modificato dall’art. 20 della legge 6 ottobre 1986, n. 656 (Modifiche ed integrazioni alla normativa sulle pensioni di guerra), nella parte in cui non prevedono che il diritto a pensione può essere riconosciuto anche se lo stato di preesistente convivenza abbia avuto, a causa della guerra, durata inferiore ad un anno, purché sia accompagnato da altri elementi e circostanze che dimostrino in modo non equivoco la volontà del militare di contrarre matrimonio.
La Consulta dichiara fondata la questione sollevata dalla Corte dei Conti – Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana – rammentando in primis come la legislazione pensionistica di guerra, sin dalla iniziale disciplina delineata dal decreto luogotenenziale 27 ottobre 1918, n. 1726 (Norme per la concessione delle pensioni privilegiate di guerra), abbia previsto l’attribuzione della pensione alla vedova del militare morto per causa di servizio di guerra, considerando ad un tempo anche la situazione della donna che non abbia potuto contrarre matrimonio per essere il militare deceduto ed assimilando quest’ultima, ai soli effetti della pensione, alla vedova del militare, purché sussistessero particolari requisiti, previsti dal legislatore come idonei a presumere che il matrimonio sarebbe stato contratto se la celebrazione, voluta dagli interessati, non fosse stata impedita dalle circostanze belliche.
Le diverse norme che hanno disciplinato, succedendosi nel tempo (cfr. art. 2 del regio decreto-legge 9 luglio 1936, n. 1470; art. 55 della legge 10 agosto 1950, n. 648), questa materia, hanno sempre considerato – prosegue la Corte – come vedova la donna che non abbia potuto contrarre il matrimonio per il quale il militare abbia rilasciato procura o siano state richieste le pubblicazioni, quando la morte sia intervenuta entro un determinato termine da tali atti e la mancata celebrazione non sia imputabile alle parti.
In tal modo si é attribuito rilievo presuntivo della volontà di contrarre matrimonio, rimasta inattuata a causa della guerra, ad atti formali, per loro natura preordinati alla celebrazione delle nozze.
Altre norme hanno anche riconosciuto – ma con discontinuità nella successione delle diverse discipline, giacché la situazione ora considerata non era prevista come idonea a costituire titolo per l’attribuzione della pensione di guerra dal regio decreto-legge 9 luglio 1936, n. 1470 – il medesimo rilievo presuntivo della volontà di contrarre matrimonio alla dichiarazione, resa dal militare nel corso della guerra, purché vi fosse un preesistente e certo stato di convivenza.
Nel tempo sono state disciplinate in modo non uniforme le puntuali condizioni nelle quali si sarebbe dovuto trovare il militare per rilasciare la dichiarazione, la forma della stessa, la prova della convivenza. Per quest’ultima la disciplina iniziale non richiedeva che lo stato di preesistente convivenza avesse una durata minima (art. 12 del decreto luogotenenziale n. 1726 del 1918).
Le norme denunciate, chiosa a questo punto la Corte – introducendo nuovamente l’assimilazione alla procura ed alle pubblicazioni di matrimonio della dichiarazione di voler contrarre matrimonio purché sussistesse uno stato certo di preesistente convivenza – hanno introdotto l’ulteriore elemento temporale della durata di tale convivenza per almeno un anno; questo in un contesto legislativo che, anche in altre situazioni, prevedeva una determinata durata del rapporto come essenziale perché avesse rilievo la situazione idonea a dare titolo a pensione (nel caso del matrimonio contratto dopo le ferite o malattie di guerra la vedova acquistava il diritto a pensione solo se il matrimonio fosse durato non meno di un anno), prima che con la sentenza n. 450 del 1991 fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 44 della legge n. 313 del 1968.
Lo stato di preesistente convivenza – prosegue la Corte – ha, nelle norme denunciate, la finalità di avvalorare la serietà della dichiarazione di volontà di contrarre matrimonio, quando non siano stati compiuti gli atti formali preordinati alla pertinente celebrazione e tuttavia risulti una situazione che renda inequivoca tale volontà.
L’elemento della durata connota uno stato di convivenza non episodico o transeunte ed il periodo minimo, predeterminato dal legislatore, può ragionevolmente avere efficacia presuntiva, appunto, della stabilità che corrobora la serietà della dichiarazione matrimoniale
Tuttavia, prosegue il Collegio, in funzione dell’elemento che la durata del rapporto tende a comprovare, é incongruo rispetto alle finalità perseguite, ed in contrasto quindi con il principio di ragionevolezza, attribuire al dato temporale un valore così assoluto, da precludere che uno stato di convivenza che abbia avuto, a causa delle vicende belliche, una durata inferiore a quella prefissata, non possa essere in alcun modo idoneo ad avvalorare la presunzione che il matrimonio sarebbe stato contratto se non vi fosse stato l’impedimento della guerra; ciò quando il preesistente stato di convivenza sia accompagnato da elementi, quali la nascita di un figlio o altre circostanze, che comprovino in modo non equivoco la stabilità del pertinente rapporto, quale indice della volontà di contrarre un matrimonio che non é stato celebrato a causa della guerra.
1999
L’8 luglio esce la sentenza del Tribunale di Napoli n…, onde non sussiste, allo stato attuale della legislazione, il diritto al mantenimento nei confronti del convivente “more uxorio“, concretizzando la convivenza una situazione di fatto, caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale, cui non si ricollegano diritti e doveri se non di carattere morale.
Va pertanto escluso il diritto agli alimenti nei confronti del convivente more uxorio, per gli stessi, ridetti motivi (situazione di fatto precaria e revocabile ad nutum) che stanno alla base dell’esclusione dell’assegno di mantenimento.
* * *
Il 28 luglio viene varato il D.p.R. n.510, Regolamento recante nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, secondo il cui art.13 (rubricato individuazione dei destinatari dei benefici), la speciale elargizione pertinente viene ripartita in quote eguali tra il coniuge superstite e ciascuno dei figli, se a carico (comma 1).
Quando tuttavia non vi siano il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e le sorelle conviventi a carico, per le vittime del dovere le Amministrazioni competenti procedono all’accertamento d’ufficio sull’esistenza di persone conviventi a carico della persona deceduta negli ultimi 3 anni precedenti l’evento e degli eventuali conviventi more uxorio, mentre per gli altri soggetti beneficiari si procede a seguito di domanda da parte degli interessati (comma 2).
2000
Il 16 marzo viene varata la Risoluzione del Parlamento europeo sull’elaborazione di una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che chiede agli Stati Membri di “garantire alle famiglie monoparentali, alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali“.
* * *
Il 25 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.352 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia.
Posto che le censure del giudice a quo attengono esclusivamente alla violazione dell’art. 3 Cost. (l’asserito contrasto con l’art. 24 Cost. non è in alcun modo motivato e rappresenta, comunque, un mero riflesso della denuncia della norma impugnata sul piano del rispetto del principio di uguaglianza), va per la Corte come essa abbia già in più occasioni affermato — anche con specifico riferimento al disposto dall’art. 649 cod. pen. — che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale, e a questo non meccanicamente assimilabile al fine di desumerne l’esigenza costituzionale di una parificazione di trattamento: essa, infatti, manca dei caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale, essendo basata sull’affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile (sentenza n. 8 del 1996; sentenza n. 423 del 1988; ordinanza n. 1122 del 1988).
In tale prospettiva, non può ritenersi dunque irragionevole ed arbitrario per il Collegio che — particolarmente nella disciplina di cause di non punibilità, quale quella in esame, basate sul «bilanciamento» tra contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali e quello del valore dell’unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione) — il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 della Costituzione, e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo, con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell’«istituzione familiare», basata sulla stabilità dei rapporti (sentenza n. 8 del 1996), di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo componente, ravvisata da alcuni nell’art. 649 c.p..
Di qui l’impossibilità di qualificare come illogica e «discriminatoria» la mancata estensione del medesimo regime ad una situazione di fatto quale la convivenza more uxorio.
Né ad inficiare la validità della conclusione vale per la Corte il rilievo della parificazione del convivente al coniuge riguardo alla facoltà di astensione dalla testimonianza, operata dall’art. 199 cod. proc. pen. (parificazione per vero ampia, ma non totale, giacché per il convivente, a differenza che per il coniuge non legalmente separato, la facoltà di astensione è limitata dalla legge ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza), non potendosi far discendere dalla norma invocata dal giudice a quo come termine di raffronto un principio di assimilazione dotato di vis espansiva fuori del caso considerato.
Come si legge invero, rammenta la Corte, nella relazione ministeriale al progetto di nuovo codice di procedura penale, la facoltà di astensione riconosciuta al convivente more uxorio si connette anche all’invito a suo tempo formulato dalla Corte medesima, la quale — nel dichiarare infondata, in parte qua, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 350 cod. proc. pen. del 1930 (costituente l’antecedente storico dell’art. 199 del codice vigente) — aveva auspicato una valutazione del legislatore riguardo alla tutela da accordare agli interessi connessi al rapporto di convivenza (sentenza n. 6 del 1977).
La soluzione in concreto adottata rappresenta il frutto di una scelta rispetto all’alternativa — pure prospettata in iniziative legislative rimaste senza seguito — di incidere sulla definizione generale della nozione di «prossimi congiunti», offerta dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., includendovi anche il convivente: in sostanza, con apprezzamento discrezionale non censurabile, il legislatore penale ha preferito limitare l’assimilazione a singole situazioni ben individuate (come egualmente è avvenuto, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ad esempio in rapporto alla circostanza aggravante dei delitti di prostituzione e pornografia minorile di cui all’art. 600-sexies, secondo comma, cod. pen., aggiunto dalla legge 3 agosto 1998, n. 269), anziché procedere ad un «allineamento» generale ed indiscriminato dei due rapporti.
Anche l’argomento che il rimettente ritiene di poter trarre dall’asserita identità di ratio fra le due norme poste a confronto — l’art. 199 cod. proc. pen. e l’art. 649 cod. pen. — denuncia, del resto, evidenti limiti di validità. La disposizione del codice di rito sancisce, bensì, la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (esercitabile o meno, sulla base del proprio personale apprezzamento) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto.
Tale facoltà resta peraltro esclusa, in virtù dell’espresso disposto dell’art. 199, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen., quando l’interessato (o un suo prossimo congiunto) sia offeso dal reato: onde risulta privo di pregio l’argumentum a fortiori evocato dal giudice a quo, secondo cui il riconoscimento della preminenza dell’interesse della famiglia sull’interesse pubblico al perseguimento degli illeciti penali, sotteso alla previsione processuale in parola, si imporrebbe a maggior ragione — rendendo così irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva di operatività delle due norme — nelle ipotesi avute di mira dall’art. 649 cod. pen. (ipotesi nelle quali il congiunto è, per l’appunto, offeso dal reato).
Di contro, come già dalla Corte accennato, la disposizione del codice penale, almeno con la radicale esclusione della punibilità sancita dal primo comma, protegge l’istituzione familiare in una prospettiva in certo qual senso inversa, e, cioè, anche ad eventuale discapito del singolo componente, il quale viene privato della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici poste a presidio del patrimonio pure se abbia, nel caso concreto, un personale interesse alla punizione del colpevole.
La non omogeneità – prosegue il Collegio – della situazione regolata dalla disposizione assunta come tertium comparationis impedisce pertanto, di ravvisare il censurato profilo di irragionevolezza della norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità.
D’altronde la Corte, in analoga occasione – nella quale era parimenti in discussione la razionalità dei limiti soggettivi di applicazione della causa di non punibilità prefigurata dall’art. 384, primo comma, cod. pen., nel confronto con il disposto dell’art. 199, comma 3, lett. a) cod. proc. pen. – ha rilevato che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità.
Si aprirebbe in tal modo il problema dell’estensione al convivente — talora anche in malam partem (artt. 570, 577, ultimo comma, 591, ultimo comma, 605 cod. pen.) — del complesso delle disposizioni della legge penale sostanziale e processuale (e anche della legge extrapenale) che, a diversi fini, fanno riferimento al rapporto di coniugio (sentenza n. 8 del 1996): opera di revisione, questa, che esorbita dai compiti e dai poteri della Corte medesima.
* * *
Il 7 dicembre viene proclamata a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, della quale rilevano in specie, ratione materiae, l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati);
Più in particolare, secondo l’art.9 della Carta il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.
Come già gli artt. 8 e 14 della CEDU, anche gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe.
Invece il ridetto art.9 della Carta di Nizza – come già l’art.12 della CEDU – prevede specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia; per il principio di specialità, dunque, si tratta della norma cui occorre fare riferimento nella materia in esame.
Le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’ha redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso».
2001
Il 7 marzo esce la sentenza del Tribunale di Savona n…, onde va assunto valido ed efficace il contratto di costituzione di usufrutto di immobile stipulato tra due conviventi more uxorio, senza corrispettivo alcuno, sul presupposto che esso trovi fondamento nella convivenza stessa e nell’assetto che i conviventi hanno inteso dare ai loro reciproci rapporti.
* * *
Il 5 aprile viene varata la legge n.154, recante misure contro la violenza nelle relazioni familiari, il cui art.2, rubricato “ordini di protezione contro abusi familiari”, inserisce nel codice civile, dopo il Titolo IX, un nuovo Titolo IX-bis.
La prima norma è l’art.342.bis del codice alla stregua del quale quando la condotta del coniuge “o di altro convivente” è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge “o convivente”, il giudice, qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter (che a propria volta reca il contenuto degli ordini di protezione ridetti).
2003
Il 13 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3713 che torna ad occuparsi delle prestazioni patrimoniali di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro; se per la Corte è corretto parlare di obbligazione naturale e di soluti retentio in ottica fisiologica, si è al di fuori dello schema dell’obbligazione naturale (con connessa possibilità per il solvens di ripetere la prestazione operata) laddove esclusivo effetto della prestazione sia quello di arricchire il partner, in difetto di qualsivoglia rapporto di proporzionalità tra il dovere morale o sociale gravante sul partner solvens medesimo (in via reciproca rispetto al proprio convivente), e le somme concretamente erogate a quest’ultimo.
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Il 4 settembre viene varata la Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea.
Il Parlamento, oltre a richiedere di favorire il riconoscimento delle coppie di fatto (punto 81), sollecita con questo provvedimento gli Stati membri dell’UE ad attuare il diritto al matrimonio e all’adozione di minori da parte di persone omosessuali (punto 77).
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Il 6 novembre viene varata la legge n.304, secondo il cui art.1 gli ordini di protezione di cui alla legge 154.01 in tema di violenza nelle relazioni familiari possono ora essere disposti dal giudice – quando vengano compromessi l’integrità fisica o morale o la libertà di “conviventi”, oltre che di coniugi – anche qualora il fatto costituisca reato perseguibile d’ufficio.
2005
Il 29 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8976 onde, laddove lo scioglimento di una convivenza di fatto derivi dalla morte di un convivente per fatto illecito del terzo, va garantito al partner sopravvissuto il diritto al risarcimento del danno subito.
Tale risarcibilità del pregiudizio – sia nella relativa componente patrimoniale che in quella non patrimoniale – va tuttavia per la Corte ancorata alla dimostrazione dell’esistenza e della portata dell’”equilibrio affettivo – patrimoniale” instaurato con il convivente deceduto, dovendo a tal fine essere provata l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale.
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Il 23 dicembre viene varata la legge n.266, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006), secondo il cui art.1, comma 598,in sede di alienazione degli immobili già IACP, viene consentito di subentrare nel diritto all’acquisto dell’immobile, in caso di rinunzia da parte dell’assegnatario, al relativo convivente more uxorio, purché la convivenza duri da almeno 5 anni.
Più precisamente, i principi fissati dall’accordo tra Governo e Regioni, siccome regolati dal decreto di cui al precedente comma 597, devono consentire tra l’altro (lettera b) che, per le unità abitative ad uso residenziale, venga riconosciuto il diritto all’esercizio del diritto di opzione all’acquisto per l’assegnatario dell’alloggio pertinente, unitamente al proprio coniuge, qualora risulti in regime di comunione dei beni; e che, in caso di rinuncia, subentrino, con facoltà di rinuncia, nel diritto all’acquisto, nell’ordine: il coniuge in regime di separazione dei beni, il convivente more uxorio – purché appunto la convivenza duri da almeno 5 anni – , i figli conviventi, i figli non conviventi.
* * *
Il 30 dicembre viene varato il decreto legge n.273, recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti, nonché proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative, che abroga l’art.17 della legge n.179.92 in materia di edilizia economica e popolare e subentro del convivente more uxorio, il pertinente regime risultando ormai disciplinato dalla legge 266.05.
2006
Il 23 febbraio viene varata la legge n.51 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge 273.05.
Attraverso il nuovo art. 39-novies viene introdotto nell’ordinamento l’art. 2645-ter c.c., volto a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela».
In dottrina, non mancherà chi vi vedrà un prezioso strumento per creare vincoli patrimoniali in favore della famiglia di fatto: disposizioni sulla casa familiare; protezione del patrimonio destinato ad alimentare le risorse del ménage familiare di fatto; creazione di un vero e proprio “fondo patrimoniale tra conviventi”.
2007
Il 6 febbraio viene varato il decreto legislativo n.30, recante Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.
Ai sensi del relativo art.2, comma 1, ai fini di tale decreto legislativo si intende per “cittadino dell’Unione” qualsiasi persona avente la cittadinanza in uno Stato membro, e per “familiare” di quest’ultimo, oltre al coniuge, anche il “partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante”.
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Il 12 dicembre viene proclamata una seconda volta a Strasburgo, in versione adattata, la Carta di Nizza da parte di Parlamento, Consiglio e Commissione europea.
* * *
Il 13 dicembre viene firmato il Trattato di Lisbona, che apporta ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea.
Con la relativa entrata in vigore, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei Trattati, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1 novellato, del Trattato sull’Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le Istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di Trattati e Protocolli ad essi allegati, come vertice dell’ordinamento dell’Unione europea, con conseguente disapplicabilità delle norme interne contrastanti.
I paragrafi 2 e 3 dell’art.6, anch’essi novellati, consentono nella sostanza all’Unione Europea di aderire alla CEDU; quando ciò dovesse accadere (con la procedura di cui al protocollo n.8 annesso al Trattato), i diritti fondamentali CEDU non saranno comunque, secondo l’interpretazione dottrinale, comunitarizzati tout court, ma la relativa tutela verrà considerata quale principio generale del diritto dell’Unione, così come già avviene per le tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri.
Ai sensi del relativo art.51, le disposizioni della Carta si applicano alle Istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri, esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, onde i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze (comma 1), la Carta medesima non introducendo competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modificando le competenze e i compiti definiti dai Trattati.
In sostanza dunque, nelle materie penali “a rilevanza eurounitaria” (ma non anche fuori di esse) si applica la Carta ridetta.
2008
Il 16 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.23725 onde il partner che abbia convissuto more uxorio vanta il diritto ad essere risarcito in caso di morte del compagno, sia per il danno morale sia per il danno patrimoniale derivante dalla perdita del pertinente contributo economico, sempre che la relazione de qua sia stata caratterizzata da stabilità e mutua assistenza morale e materiale.
2010
Il 15 aprile esce la significativa sentenza della Corte costituzionale n.210 che dichiara inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento e non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del codice civile sollevata sempre dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento.
Per la Consulta i due giudizi di legittimità costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
In via preliminare, deve essere confermata per la Corte l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell’Associazione radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. Ciò in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato nell’ordinanza, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale contrasterebbe con il carattere incidentale del detto giudizio di legittimità.
La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., deve poi per la Corte essere dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002); solo in caso di pronunzia additiva “costituzionalmente obbligata” infatti non residuerebbe margine di discrezionalità al legislatore, con conseguente ammissibilità della pertinente questione di legittimità costituzionale.
Le dette ordinanze, chiosa il Collegio, muovono entrambe dal presupposto che l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile.
In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale veneziano.
Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976).
Ferme le considerazioni che precedono, si deve dunque stabilire per la Consulta se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata (con eventuale applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.
L’art. 2 Cost. – riprende la Corte – dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la relativa personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare per la Corte anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Si deve escludere tuttavia per il Collegio che l’aspirazione a tale riconoscimento – la quale necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della relativa, piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che la Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.
La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è per la Corte fondata.
Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone per la Corte il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).
Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.
Questo significato del precetto costituzionale – chiosa ancora la Corte – non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.
Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.
Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.
In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.
Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non è poi per il Collegio pertinente.
La normativa ora citata – sottoposta a scrutinio dalla Corte che, con sentenza n. 161 del 1985, dichiarò inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale all’epoca promosse – prevede la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei relativi caratteri sessuali (art. 1).
Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella omosessuale e, perciò, inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l’esigenza fondamentale da soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto è indispensabile, di regola, l’intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a realizzare tale coincidenza (sentenza n. 161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto).
La persona è ammessa al matrimonio per l’avvenuto intervento di modificazione del sesso, autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel vigente ordinamento.
Resta da esaminare – chiosa ancora la Corte – il parametro riferito all’art. 117, primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell’ordinanza del Tribunale di Venezia).
Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiarò contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l’operazione) con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l’analogia della fattispecie con quella del matrimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare, l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti Stati, aventi civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali.
Ciò posto, si deve osservare per la Corte che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea non è pertinente, perché essa riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982.
E, comunque, già si è notato da parte del Collegio che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.
Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».
A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati».
Non occorre per la Corte, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare piuttosto per il Collegio che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi, rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.
Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso».
Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.
Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.
Ulteriore riscontro di ciò – chiosa ancora la Corte – si desume, come già accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.
Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.
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Il 24 giugno esce la sentenza della I sezione della Corte EDU, Schalk e Kopf contro Austria, onde il diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dalla CEDU impone la qualifica di “famiglia” anche alle unioni formate da persone dello stesso sesso.
Per la Corte, ne consegue che le relazioni omosessuali non sono più comprese soltanto nella nozione di “vita privata“, ma in quella di “vita familiare“, pure contenuta nell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo che tutela il diritto alla vita familiare, riservando allo Stato la disciplina e l’introduzione dell’istituto del matrimonio omosessuale a livello statuale.
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Il 22 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n.41139 onde non può essere applicata al convivente “more uxorio“, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente “more uxorio“.
Ciò sulla scia di Corte cost. 121 del 2004 e 140 del 2009.
2011
Il 19 gennaio esce la sentenza della I sezione penale della Cassazione n.1328 in tema di riconoscimento della qualità di “familiare” di un cittadino dell’Unione Europea, che scandaglia una fattispecie criminosa ex art.10 bis del D.Lgs. n. 286 del 1998.
La sentenza gravata, nel caso di specie, ha condannato ciascuno degli imputati alla pena di Euro 5.000,00 di ammenda. In particolare, per quel che ancora rileva in sede di legittimità, la Corte rammenta come l’anzidetto giudice di merito abbia assunto irrilevante – al fine del decidere – la documentazione prodotta dall’imputato U. relativa all’avvenuto relativo matrimonio con persona dello stesso sesso.
Avverso tale sentenza ha poi spiccato ricorso per cassazione il solo imputato U. deducendo il relativo, mancato riconoscimento della qualità di “familiare di cittadino dell’Unione Europea”, come da documentazione prodotta.
La Corte rammenta come il D.Lgs. 06 febbraio 2007, n. 30, attuativo nel diritto interno della Direttiva europea 2004/3 8/CE, disciplini (art. 1) le modalità di esercizio del diritto di libera circolazione, ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato da parte dei cittadini dell’Unione Europea e dei “familiari” di cui al successivo art. 2.
Detto art. 2 – chiosa ancora il Collegio – precisa che “ai fini del presente decreto legislativo si intende per : a) cittadino dell’Unione: qualsiasi persona avente la cittadinanza di uno Stato membro; b) familiare: il coniuge, il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno stato membro, ecc.”.
Orbene, prosegue la Corte, la Spagna è Stato membro dell’Unione Europea; l’impugnata sentenza ha disconosciuto il diritto di libera circolazione e soggiorno dell’ U. nel territorio dello stato italiano in sostanza qualificando lo stesso come “partner” di una situazione non riconoscibile in Italia, tralasciando tuttavia di verificare se, sulla base della legislazione interna dello Stato membro, l’unione in parola sia qualificabile – o equiparabile – a rapporto di coniugio, quale è stato prospettato, con relativa documentazione, dall’imputato.
In tal senso, è parimenti evidente che lo status di coniuge esime dalla documentazione sulla cittadinanza, trattandosi di due condizioni equiparate ex lege.
Si impone dunque alla Corte il rinvio perché il Giudice di Pace di Mestre, acquisita la disciplina spagnola in proposito, verifichi nel concreto la condizione dell’ U. agli effetti dell’eventuale liceità della relativa presenza nel territorio dello Stato italiano, quale “familiare” di un cittadino UE.
2012
Il 13 febbraio esce la sentenza della sezione I civile del Tribunale di Reggio Emilia che – scandagliando una fattispecie di cittadino italiano sposato con cittadino extra-UE in Spagna – afferma come il termine “coniuge” non possa essere interpretato secondo la normativa italiana, quanto piuttosto secondo il diritto europeo, riconoscendo, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, il matrimonio contratto in Spagna da due uomini, l’uno italiano e l’altro, appunto, extracomunitario.
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Il 13 marzo viene varata la Risoluzione del Parlamento Europeo sulla parità tra donne e uomini nell’Unione Europea: vi viene votato a maggioranza che gli Stati membri dell’UE non devono dare al concetto di famiglia “definizioni restrittive” allo scopo di negare protezione alle coppie omosessuali e ai loro figli.
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Quel medesimo 13 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4184 che afferma espressamente come i componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se da un lato – secondo la legislazione italiana – non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, dall’altro tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia – quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del proprio diritto inviolabile a vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possano adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni“, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti, applicabili nelle singole fattispecie, in quanto – ovvero nella parte in cui – non assicurino detto trattamento, per assunta violazione delle pertinenti norme costituzionali e/o del principio di ragionevolezza.
Per il Collegio la differenza di sesso non deve dunque essere assunta quale elemento naturalistico del matrimonio, i componenti della coppia omosessuale dovendosi considerare titolari del diritto alla vita familiare, del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, potendo in specie ricorrere perché il loro matrimonio siccome contratto all’estero (seppure non trascrivibile nei Registri dello Stato Civile dei Comuni italiani) possa in ogni caso produrre effetti anche in Italia.
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Il 01 ottobre viene varata la legge n.172, recante ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno, che tra le altre cose modifica l’art.572 c.p. in tema di maltrattamenti “in famiglia”, annoverando tra le possibili vittime della fattispecie criminosa ormai, accanto alle persone per l’appunto “della famiglia”, anche quelle “comunque conviventi”.
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Il 3 aprile esce la decisione della Grande Camera della Corte EDU sul caso Van der Heijden v. Netherlands, che esclude una violazione dell’art. 8 CEDU laddove la legislazione interna costringa una persona a testimoniare nell’ambito di procedimenti penali a carico del “convivente” senza conferirle la facoltà di astensione riconosciuta invece al coniuge e al convivente registrato.
Con tale ultima decisione la Corte di Strasburgo, seguendo la dottrina del margine di apprezzamento riservato agli Stati, fornisce in qualche misura argomenti alla dottrina che assume la non irragionevolezza di trattamenti differenziati fra coniugi e conviventi, quantomeno nel settore processuale penale.
2013
Il 20 febbraio esce il decreto della IX Sezione del Tribunale di Milano, alla cui stregua i legami di natura personale instaurati tra conviventi non sono vincolanti sul piano giuridico ma sono rimessi esclusivamente alla spontanea osservanza reciproca, onde la cessazione del pertinente rapporto può avere luogo ad nutum e senza necessità di intervento dell’autorità giudiziaria, la quale è chiamata a verificare solamente l’adeguatezza degli accordi raggiunti tra gli ex partners nell’interesse della prole, ex art. 337-ter c.c..
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Il 21 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7214 alla cui stregua l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli in particolare di esperire l’azione di spoglio.
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Il 12 dicembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, C-267/12, Hay / Crédit agricole mutuel de Charente-Maritime et des Deux-Sèvres che – sulla base del principio della parità di trattamento – dichiara che il lavoratore dipendente unito in un PACS con una persona del medesimo sesso, qualora la normativa nazionale dello Stato membro dell’UE non consenta alle persone del medesimo sesso di sposarsi, deve godere dei giorni di congedo parentale e del premio stipendiale concessi agli altri dipendenti in occasione del loro matrimonio, “allorché, alla luce della finalità e dei presupposti di concessione di tali benefici, detto lavoratore si trova in una situazione analoga a quella di un lavoratore che contragga matrimonio.”
2014
L’11 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.170 che dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore.
La Corte dichiara altresì, in via consequenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 6, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui non prevede che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che determina lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli i diritti ed obblighi della coppia medesima, del pari con modalità da statuirsi da parte del legislatore.
In via preliminare, per la Corte deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla sentenza, con la quale è stato dichiarato inammissibile l’intervento dell’Avvocatura per i diritti LGBTI.
La questione, nel merito, viene dipoi assunta dalla Corte fondata, nei termini e limiti appresso esplicitati.
La situazione (sul piano fattuale innegabilmente infrequente, ma che, nella vicenda al centro del giudizio principale, si è comunque verificata) di due coniugi che, nonostante la rettificazione dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, intendano non interrompere la loro vita di coppia, si pone, evidentemente, fuori dal modello del matrimonio – che, con il venir meno del requisito, per il nostro ordinamento essenziale, della eterosessualità, non può proseguire come tale – ma non è neppure semplicisticamente equiparabile ad una unione di soggetti dello stesso sesso, poiché ciò equivarrebbe a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale, che, seppur non più declinabili all’interno del modello matrimoniale, non sono, per ciò solo, tutti necessariamente sacrificabili.
Il parametro costituzionale di riferimento – prosegue il Collegio – per una corretta valutazione della peculiare fattispecie in esame – in relazione ai prospettati quesiti sulla legittimità della disciplina, correttamente individuata dalla Corte di cassazione negli artt. 2 e 4 della Legge n. 164 del 1982, che la risolvono in termini di divorzio automatico – non è dunque quello dell’art. 29 Cost. invocato in via principale dallo stesso collegio rimettente, poiché, come già sottolineato, la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che «stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso» (sentenza n. 138 del 2010).
Il che comporta che anche a colui (o colei) che cambia il proprio sesso non resta impedito di formare una famiglia, contraendo nuovo matrimonio con persona di sesso diverso da quello da lui (o lei) acquisito per rettifica.
Non pertinente per la Corte è anche il riferimento agli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 12 (sul diritto di sposarsi e formare una famiglia) della CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (H. contro Finlandia – decisione del 13 novembre 2012; Schalk and Kopf contro Austria – decisione del 22 novembre 2010), invocati come norme interposte, ai sensi della denunciata violazione degli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.
E ciò perché, chiosa la Corte, in difetto di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità di ciascun legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso.
La stessa sentenza della Corte EDU Schalk and Kopf contro Austria, citata nell’ordinanza di rimessione, nel ritenere possibile una interpretazione estensiva dell’art. 12 della CEDU nel senso della riferibilità del diritto di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali, chiarisce come non derivi da una siffatta interpretazione una norma impositiva di una tale estensione per gli Stati membri.
Neppure sussiste per il Collegio, nei termini di cui alla relativa prospettazione, il contrasto della normativa denunciata con i precetti di cui agli artt. 24 e 3 Cost.
Quanto al primo parametro, perché non essendo, per quanto detto, configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio, non ne è, di conseguenza, ipotizzabile alcun vulnus sul piano della difesa.
E quanto al parametro dell’art. 3 Cost., poiché la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina.
Pertinente è invece per la Corte il riferimento al precetto dell’art. 2 Cost.
Al riguardo la Corte ha già avuto modo di affermare, nella richiamata sentenza n. 138 del 2010, che nella nozione di “formazione sociale” – nel quadro della quale l’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».
In quella stessa sentenza è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», come confermato, del resto, dalla diversità delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette.
Dal che – rammenta ancora la Corte – la conclusione, per un verso, che «nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», e, per altro verso, che resta, però, comunque, «riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni», nel quadro di un controllo di ragionevolezza della rispettiva disciplina.
Sulla linea dei principi enunciati nella riferita sentenza, è innegabile per il Collegio che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di situazioni “specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento della Corte medesima per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore.
La fattispecie peculiare che viene qui in considerazione coinvolge, infatti, da un lato, l’interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi) e, dall’altro lato, l’interesse della coppia, attraversata da una vicenda di rettificazione di sesso, a che l’esercizio della libertà di scelta compiuta dall’un coniuge con il consenso dell’altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe, viceversa, mantenere in essere (in tal ultimo senso si sono indirizzate le pronunce della Corte costituzionale austriaca – VerfG 8 giugno 2006, n. 17849 – e della Corte costituzionale tedesca BVerfG, 1, Senato, ord. 27 maggio 2008, BvL 10/05) .
La normativa – della cui legittimità dubita la Corte rimettente – risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell’istituto del matrimonio, restando chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di relativo bilanciamento con gli interessi della coppia, non più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissuto nel contesto di un regolare matrimonio, reclama di essere, comunque, tutelata come «forma di comunità», connotata dalla «stabile convivenza tra due persone», «idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione» (sentenza n. 138 del 2010).
Sta in ciò, dunque, la ragione del vulnus che, per il profilo in esame, le disposizioni sottoposte al vaglio di costituzionalità arrecano al precetto dell’art. 2 Cost.
Tuttavia, non ne è possibile per il Collegio la reductio ad legitimitatem mediante una pronuncia manipolativa, che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l’art. 29 Cost.
Sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere, per la Corte, con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti.
Va pertanto dichiarata per la Corte – in accoglimento, per quanto di ragione, delle sollevate questioni − l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, con riferimento all’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore.
Negli stessi termini, la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, n. 87, va estesa all’art. 31, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011, che ha sostituito l’art. 4 della legge n. 164 del 1982, abrogato dall’art. 36 del medesimo d.lgs., ma che ne ripete, con minima ininfluente variante lessicale, identicamente il contenuto.
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Il 7 ottobre viene varata la Circolare n. 0010863 del Ministero dell’Interno che invita formalmente i Sindaci che prescrivano agli ufficiali di stato civile di provvedere alla trascrizione di matrimoni celebrati all’estero tra persone dello stesso sesso di cancellare tali trascrizioni.
Ciò per il Ministero, “in quanto la disciplina dell’eventuale equiparazione di matrimoni omosessuali a quelli celebrati tra persone di sesso diverso e la conseguente trascrizione di tali unioni nei registri dello stato civile rientrano nella competenza esclusiva del Legislatore”.
2015
Il 3 aprile esce l’innovativa sentenza della I sezione della Cassazione n.6855, onde – dovendosi attribuire dignità piena alla famiglia di fatto che, in quanto stabile e duratura, è da annoverarsi tra le formazioni sociali in cui l’individuo libero e consapevole nella scelta di darvi corso, svolge, ex art. 2 Cost., la propria personalità – il divorziato che instauri una nuova convivenza more uxorio, in applicazione del principio dell’auto-responsabilità, non può non mettere in conto – quale esito della scelta compiuta – insieme al rischio di una cessazione (anche) della nuova convivenza, il venir meno “automatico” dell’assegno divorzile e di ogni forma di residua responsabilità post-matrimoniale, rescindendosi attraverso la nuova convivenza ridetta ogni legame con la precedente esperienza matrimoniale ed il relativo tenore di vita.
L’automatismo degli effetti estintivi sull’assegno divorzile di una nuova convivenza di fatto resta d’altra parte, per il Collegio, mediato e contenuto dall’imprescindibile accertamento – operato in sede giudiziale – circa i caratteri della famiglia di fatto, in quanto formazione stabile e duratura, e, ancora, in ragione della solidarietà economica che si realizza tra i componenti di quest’ultima.
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Il 30 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione penale n.34147, Agostino e altri, Rv. 264630, alla cui stregua, in tema di favoreggiamento personale, la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente “more uxorio“.
Per il Collegio va confutata l’attualità dell’opinione espressa dal Giudice delle leggi in ordine alla concezione di famiglia cui fare riferimento, dovendosi piuttosto richiamare la giurisprudenza della Corte EDU, la quale considera la famiglia in senso dinamico, come una formazione sociale in perenne divenire, e non come un istituto statico ed immutabile, essendo irrilevante che il rapporto familiare sia sanzionato dall’accordo matrimoniale.
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Il 21 luglio esce la sentenza della IV sezione della Corte EDU, Oliari ed altri c. Italia, alla cui stregua la protezione giuridica attualmente offerta alle coppie dello stesso sesso in Italia non solo è incapace di provvedere ai bisogni fondamentali di una coppia impegnata in una relazione stabile, ma non è neppure da ritenersi sufficientemente certa.
Per la Corte va dunque assunto violato l’art. 8 della Convenzione, in quanto il Governo italiano ha ecceduto il proprio margine di discrezionalità e non ha ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali.
Nell’attuazione del loro obbligo positivo ai sensi dell’articolo 8 della CEDU gli Stati – rammenta la Corte – godono di un certo margine di discrezionalità. Quando si determina l’ampiezza di tale margine si deve tener conto di diversi fattori. Nel contesto della “vita privata” la Corte ha ritenuto che, qualora sia in gioco un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o dell’identità di una persona, il margine consentito allo Stato sarà ristretto (si vedano, per esempio, X e Y; Christine Goodwin; Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02).
Qualora, tuttavia, non vi sia accordo tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa riguardo alla relativa importanza dell’interesse in gioco o ai mezzi migliori per tutelarlo, in particolare quando la causa solleva delicate questioni morali o etiche, il margine sarà più ampio (si vedano X, Y e Z c. Regno Unito, 22 aprile 1997, § 44, Reports 1997-II; Fretté c. Francia, n. 36515/97, § 41, CEDU 2002-I; e Christine Goodwin). Il margine sarà usualmente ampio anche quando si richiede allo Stato di garantire l’equilibrio tra opposti interessi privati e pubblici o tra diritti della Convenzione (si vedano Fretté; Odièvre c. Francia [GC], n. 42326/98; Evans c. Regno Unito [GC], n. 6339/05; Dickson c. Regno Unito [GC], n. 44362/04; e S.H.e altri).
La Corte rammenta di avere già dovuto affrontare doglianze concernenti l’assenza di riconoscimento delle unioni omosessuali. Tuttavia nella più recente causa Schalk e Kopf c. Austria, quando la Corte ha emesso la sentenza i ricorrenti avevano già ottenuto la possibilità di contrarre un’unione registrata. La Corte ha pertanto dovuto determinare unicamente se lo Stato convenuto avrebbe dovuto fornire ai ricorrenti uno strumento alternativo di riconoscimento giuridico della loro unione prima di quando lo ha fatto (vale a dire prima del 1° gennaio 2010).
Avendo preso atto dell’accordo europeo in rapido sviluppo, emerso nel decennio precedente, nonché del fatto che non vi era ancora una maggioranza di Stati che prevedeva il riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali (all’epoca diciannove stati), la Corte ha ritenuto che la materia in questione riguardasse diritti in evoluzione sui quali non vi era un accordo consolidato, rispetto ai quali gli Stati godevano di un margine di discrezionalità relativamente ai tempi dell’introduzione di modifiche legislative (§ 105).
La Corte ha pertanto concluso che, pur non essendo all’avanguardia, il legislatore austriaco, non poteva essere biasimato per non aver introdotto la legge sulle unioni registrate prima del 2010 (si veda ibid., § 106). In tale causa la Corte ha concluso anche che l’articolo 14 in combinato disposto con l’articolo 8 non poneva in capo agli Stati contraenti l’obbligo di concedere alle coppie omosessuali l’accesso al matrimonio (ibid, § 101).
Dopo un’ampia e articolata motivazione la Corte conclude nel senso onde, non avendo il Governo italiano dedotto un interesse collettivo prevalente in rapporto al quale bilanciare gli importantissimi interessi dei ricorrenti, così come individuati in precedenza, e alla luce del fatto che le conclusioni dei tribunali interni in materia sono rimaste lettera morta, il Governo italiano medesimo deve assumersi avere ecceduto il proprio margine di discrezionalità e non avere ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali.
2016
Il 20 maggio viene varata la tanto attesa (e, per molti versi, contestata) legge n.76 (c.d. legge Cirinnà), recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, che si articola in un solo articolo con poco meno di 70 comma (per la precisione, 69) e che disciplina in modo organico le c.d. unioni civili omosessuali, da un lato, e le convivenze di fatto, dall’altro.
Viene istituita l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, che può essere costituita da 2 persone maggiorenni dello stesso sesso mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni (comma 2); l’ufficiale di stato civile provvede poi alla registrazione dell’atto di unione civile tra persone dello stesso sesso nell’archivio dello stato civile (comma 3).
Ai sensi del comma 4 dell’art.1 ridetto, vanno assunte cause impeditive per la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso:
- a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso;
- b) l’interdizione di una delle parti per infermità di mente; se l’istanza d’interdizione è soltanto promossa, il PM può chiedere che si sospenda la costituzione dell’unione civile; in tal caso il procedimento non può aver luogo finché la sentenza che ha pronunziato sull’istanza non sia passata in giudicato;
- c) la sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all’articolo 87, primo comma, del codice civile; non possono altresì contrarre unione civile tra persone dello stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e la nipote; si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 87;
- d) la condanna definitiva di un “contraente” per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte; se è stato disposto soltanto rinvio a giudizio ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare, la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso è sospesa sino a quando non è pronunziata sentenza di proscioglimento.
Ove sussista una delle cause impeditive di cui al comma 4, ciò comporta ai sensi del successivo comma 5 la nullità dell’unione civile tra persone dello stesso sesso; all’unione civile tra persone dello stesso sesso vengono poi dichiarati applicabili gli articoli 65 e 68, nonché le disposizioni di cui agli articoli 119, 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129 e 129-bis del codice civile.
L’unione civile costituita in violazione di una delle cause impeditive di cui al comma 4 e, dunque, nulla, ovvero costituita in violazione dell’articolo 68 del codice civile (in tema di morte presunta), può poi essere impugnata da ciascuna delle parti, dagli ascendenti prossimi, dal PM e da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale; l’unione civile costituita da una parte durante l’assenza dell’altra non può tuttavia essere impugnata finché dura l’assenza (comma 6).
L’unione civile può poi essere impugnata (comma 7) dalla parte il cui consenso sia stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità determinato da cause esterne alla parte stessa, nonché dalla parte il cui consenso sia stato dato per effetto di errore sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell’altra parte; l’azione non può tuttavia essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che è cessata la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l’errore; quest’ultimo, laddove cada sulle qualità personali, è essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell’altra parte, si accerti che la stessa non avrebbe prestato il proprio consenso se le avesse esattamente conosciute e purché l’errore riguardi:
- a) l’esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune;
- b) le circostanze di cui all’articolo 122, terzo comma, numeri 2), 3) e 4), del codice civile.
Su altro crinale, la parte di una unione civile può in qualunque tempo impugnare il matrimonio o l’unione civile dell’altra parte e, dal punto di vista processuale, se si oppone dall’altra parte la nullità della prima unione civile, tale questione deve essere preventivamente giudicata, rivestendo dunque carattere pregiudiziale ex lege (comma 8).
Dal punto di vista documentale, l’unione civile tra persone dello stesso sesso va certificata appunto dal relativo “documento” attestante la costituzione dell’unione e che deve contenere i dati anagrafici delle parti, l’indicazione del loro regime patrimoniale e della loro residenza, oltre ai dati anagrafici e alla residenza dei testimoni (comma 9); mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile le parti possono poi stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi, la parte “pretermessa” potendo anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, all’uopo facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile (comma 10).
Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; da essa deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione; entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni (comma 11); le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune, a ciascuna delle parti spettando il potere di attuare l’indirizzo concordato (comma 12).
Quanto al regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, esso è costituito dalla comunione dei beni (comma 13); in materia di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile; le parti non possono peraltro derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile, trovando applicazione le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro I del codice civile.
Sul crinale dei rapporti personali, quando la condotta della parte dell’unione civile è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altra parte, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter del codice civile (comma 14). Nella scelta dell’amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce poi, ove possibile, la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso e l’interdizione o l’inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell’unione civile, la quale può presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa (comma 15).
In termini generali, la violenza è causa di annullamento di un contratto anche quando il male minacciato (dall’altro contraente) riguarda la persona o i beni dell’altra parte dell’unione civile costituita dal contraente o da un discendente o ascendente di lui (comma 16).
In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate dagli articoli 2118 e 2120 del codice civile devono poi corrispondersi anche alla parte dell’unione civile (comma 17).
Con riguardo al regime della prescrizione, essa rimane sospesa anche tra le parti dell’unione civile (comma 18).
All’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano poi tutta una serie di disposizioni del codice civile, ed in particolare quelle di cui al titolo XIII del libro I del codice civile, nonché gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma, numero 4), e 2659 (comma 19); alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano inoltre le disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V-bis del titolo IV del libro secondo del codice civile (comma 21).
Su di un piano più generale (comma 20), ed al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso; tale regime di “estensione” non si applica tuttavia alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella legge de qua, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184, restando fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti.
In tema di scioglimento dell’unione civile, la morte o la dichiarazione di morte presunta di una delle parti dell’unione civile medesima ne determina per l’appunto lo scioglimento (comma 22); l’unione civile si scioglie altresì nei casi previsti dall’articolo 3, numero 1) e numero 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898 in tema di c.d. divorzio (comma 23); l’unione civile si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile; in tale caso la domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi 3 mesi dalla data della manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione (comma 24).
Quanto poi al regime dello scioglimento (comma 25) si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 4, 5, primo comma, e dal quinto all’undicesimo comma, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nonché le disposizioni di cui al Titolo II del libro IV del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162.
Anche la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (comma 26); nondimeno, alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi – legati dunque da precedente matrimonio – abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (comma 27).
Fatte salve le disposizioni della legge, che si pone anche come legge delega, il Governo viene poi delegato (comma 28) ad adottare, entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore della stessa, uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
- a) adeguamento alle previsioni della legge delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni;
- b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo;
- c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la legge delega delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti.
Tali decreti legislativi (comma 29) vanno adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’interno, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale; ciascuno schema di decreto legislativo, a seguito della deliberazione del Consiglio dei ministri, va poi trasmesso (comma 30) alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perché su di esso siano espressi, entro 60 giorni dalla trasmissione, i pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia: decorso tale termine il decreto può peraltro essere comunque adottato, anche in mancanza dei pareri.
Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, deve trasmettere nuovamente i pertinenti testi alle Camere con le proprie osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione; i pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia vanno poi espressi entro il termine di 10 giorni dalla data della nuova trasmissione, decorso il quale i decreti possono essere comunque adottati. Peraltro, entro 2 anni dalla data di entrata in vigore di ciascun decreto legislativo, il Governo può adottare disposizioni integrative e correttive del decreto medesimo, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi di cui al comma 28, con la procedura prevista nei commi 29 e 30 e, dunque, in costante interlocuzione con il Parlamento (comma 31).
Vengono poi previste ulteriori modifiche di raccordo al codice civile: all’articolo 86, dopo le parole: «da un matrimonio» sono inserite le seguenti: «o da un’unione civile tra persone dello stesso sesso» (comma 32); all’articolo 124, dopo le parole: «impugnare il matrimonio» sono inserite le seguenti: «o l’unione civile tra persone dello stesso sesso» (comma 33). Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno, da emanare entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, vanno poi stabilite le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile nelle more dell’entrata in vigore dei decreti legislativi adottati ai sensi del comma 28 (comma 34).
Tutte le disposizioni passate in rassegna sin qui è previsto che entrino in vigore immediatamente, e dunque dalla data di entrata in vigore della legge (comma 35).
Stando al successivo comma 36, ai fini delle disposizioni di cui ai successivi comma da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile; ferma restando la sussistenza dei ridetti presupposti, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (comma 37).
I conviventi di fatto hanno per la legge gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (comma 38); in caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari (comma 39).
Ciascun convivente di fatto può poi designare l’altro (comma 40) quale proprio rappresentante con poteri pieni o limitati – designazione da operarsi in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità, alla presenza di un testimone (comma 41) – nei seguenti casi:
- a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute;
- b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie.
Salvo quanto previsto dall’articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare (c.d. diritto di abitazione) nella stessa per 2 anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a 2 anni e comunque non oltre i 5 anni (comma 42). Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a 3 anni.
Il diritto di abitazione ridetto viene tuttavia meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto (comma 43). Nei casi di morte del conduttore o di relativo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto (comma 44).
Nel caso in cui poi l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto (comma 45).
Il comma 46 della legge, su altro crinale, aggiunge nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, dopo l’articolo 230-bis, un nuovo art.230 ter, onde: «(Diritti del convivente). – Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».
In tema di interdizione ed inabilitazione, il comma 47 della legge novella l’art.712, comma 2, c.p.c., onde – quanto alla legittimazione ed alla pertinente domanda – dopo le parole: «del coniuge» sono inserite le seguenti: «o del convivente di fatto». Il convivente di fatto può poi essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l’altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all’articolo 404 del codice civile (comma 48).
Sul versante del risarcimento del danno da fatto illecito, in caso di decesso del convivente di fatto, derivante appunto da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite (comma 49).
Sul crinale patrimoniale, i conviventi di fatto possono disciplinare i loro rapporti (patrimoniali, appunto) relativi alla instaurata vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza (comma 50); tanto tale contratto, quanto le relative modifiche e la relativa risoluzione vanno redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico (comma 51).
Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve poi provvedere entro i successivi 10 giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (comma 52).
Il contratto di convivenza (comma 53) “deve” recare l’indicazione dell’indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo e “può” contenere:
- a) l’indicazione della residenza;
- b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
- c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro I del codice civile.
Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può peraltro essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza (comma 54) con le modalità “formali” di cui al comma 51 ai fini della pertinente opponibilità ai terzi.
Ai sensi del comma 55, il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire conformemente alla normativa prevista dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignità degli appartenenti al contratto di convivenza; i dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono peraltro costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza.
Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione, ed è dunque un c.d. actus legitimus (comma 56): nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti.
Esso è affetto da nullità insanabile (comma 57) che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, laddove concluso:
- a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza;
- b) in violazione del comma 36 in tema di c.d. convivenze di fatto;
- c) da persona minore di età;
- d) da persona interdetta giudizialmente;
- e) in caso di condanna per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile (omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra parte).
Gli effetti del contratto di convivenza restano poi sospesi (comma 58) in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento.
Il comma 59 disciplina poi le fattispecie di risoluzione del contratto di convivenza, che si può sciogliere per:
- a) accordo delle parti;
- b) recesso unilaterale;
- c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona;
- d) morte di uno dei contraenti.
La risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso unilaterale deve essere peraltro redatta (comma 60) nelle forme di cui al comma 51; qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la relativa risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro I del codice civile; resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza.
Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza, il professionista che riceve o che autentica l’atto è tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto oggetto di recesso; nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a 90 giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione (comma 61).
Nel caso poi di cui alla lettera c) del comma 59 (matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona), il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all’altro contraente, nonché al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile (comma 62).
Nella fattispecie di cui alla lettera d) del comma 59 (morte di uno dei contraenti), il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza (comma 63).
Sul crinale del diritto internazionale privato, dopo l’articolo 30 della legge 31 maggio 1995, n. 218, viene inserito dal comma 64 il seguente nuovo art 30 bis onde “(Contratti di convivenza). – 1. Ai contratti di convivenza si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata. 2. Sono fatte salve le norme nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima».
Infine, in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento; in tali evenienze, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438, secondo comma, del codice civile; ai fini della determinazione dell’ordine degli obbligati ai sensi dell’articolo 433 del codice civile, l’obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle (comma 65).
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Il 23 luglio viene varato il D.P.C.M. n. 144, Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76.
2017
Il 19 gennaio viene varato il decreto legislativo n.5, recante adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76.
Si tratta di 9 articoli che provvedono al ridetto adeguamento, come ad esempio nel caso dell’art.3, comma 1, lettera a), che in tema disciplina anagrafica assume “famiglia”, per l’apputo, agli effetti anagrafici anche l’insieme di persone legate da vincoli di “unione civile”, all’uopo novellando l’art.4 del D.p.R. 223.89.
Importante l’art.2, che modifica l’art.199 c.p.p. (facoltà di astensione dei prossimi congiunti) il cui comma 3, nella nuova formulazione, afferma applicabili i precedenti comma 1 e 2 anche a chi è legato all’imputato da vincolo di adozione ed inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale “o derivante da un’unione civile tra persone dello stesso sesso”:
- a) a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso;
- b) al coniuge separato dell’imputato;
- c) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio “o dell’unione civile” tra persone dello stesso sesso contratti con l’imputato.
Significativa altresì l’estensione della causa di non punibilità di cui all’art.649 c.p., in tema di reati contro il patrimonio in ambito “familiare”, anche alla “parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso” (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.).
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Il 21 aprile esce l’ordinanza del Tribunale di Matera in composizione monocratica che solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede «la non punibilità anche dei fatti criminosi previsti dal titolo XIII del libro II del Codice Penale commessi in danno di un convivente more uxorio».
Le questioni di legittimità costituzionale vengono sollevate nell’ambito di un procedimento penale a carico di soggetto «imputato del reato previsto e punito dall’art. 646 c.p. “perché al fine di procurarsi un profitto, avendo il possesso di indumenti, effetti personali e documenti dell’ex convivente […] e del loro figlio […], se ne appropriava rifiutandone la restituzione”»;
Il giudice lucano rimettente riferisce che l’applicazione dell’art. 649 cod. pen. era stata espressamente invocata dalla difesa dell’imputato, che ne aveva eccepito l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede la non punibilità anche per i fatti commessi in danno del convivente more uxorio, considerando che nel caso di specie tale qualifica soggettiva si sarebbe configurata in capo alla «persona offesa dal reato costituitasi parte civile, avuto riguardo all’accertata sua intercorsa relazione personale di convivenza di fatto con l’imputato […] e dalla cui unione è nato il loro figlio minore»;
Il Tribunale ordinario di Matera – dopo aver ricordato che l’art. 649 cod. pen. riconosce la non punibilità in riferimento ai delitti contro il patrimonio di cui al Titolo XIII del Libro II del codice penale (con alcune deroghe relative agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen. e di ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alla persona) posti in essere nei confronti del coniuge non legalmente separato, dell’ascendente, del discendente, dell’affine in linea retta, dell’adottante, dell’adottato e del fratello o della sorella conviventi – sottolinea che il decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 6, recante «Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», ha aggiunto in quell’articolo anche il riferimento alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.).
Secondo il giudice rimettente, la ratio originaria della previsione della causa di non punibilità risiederebbe «nell’esigenza di evitare turbamenti nelle relazioni familiari sull’assunto che l’applicazione di una sanzione penale renderebbe irreparabilmente compromessi i rapporti intrafamiliari, così vanificando la riconciliazione del nucleo familiare, inteso e concepito nel rispetto di quanto statuito dall’art. 29 della nostra Carta fondamentale in guisa di “società naturale fondata sul matrimonio”»;
Pur definendo la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) quale «complesso portato ed agognato punto di approdo della presa d’atto di un mutato costume sociale e dell’esistenza di nuclei familiari ontologicamente differenti dalla classica famiglia fondata sul vincolo matrimoniale con effetti civili», il giudice a quo ritiene che il legislatore con tale legge abbia inteso «irrazionalmente e/o comunque riduttivamente regolamentare le sole unioni civili tra persone dello stesso sesso», provvedendo a coordinarne la disciplina attraverso le modificazioni e le integrazioni introdotte con il citato d.lgs. n. 6 del 2017, che ha aggiunto, all’art. 649, primo comma, cod. pen., il riferimento alla parte dell’unione civile, ma non al convivente more uxorio.
Il giudice lucano rimettente ritiene tuttavia che alla luce della «sua esegesi letterale e nel perimetro rigoroso del precipuo rispetto del principio di legalità, inteso anche quale tassatività della fattispecie penale», non sia perciò possibile applicare la disposizione censurata ai fatti commessi in danno del convivente more uxorio, escludendo quindi di poter pervenire a un’estensione analogica della disposizione, pure invocata dalla difesa dell’imputato.
Il Tribunale riferisce, ad un tempo, di non ignorare che la Corte costituzionale, in diverse occasioni, ha dichiarato la non fondatezza di analoga questione, ritenendo la convivenza more uxorio non assimilabile al rapporto di coniugio (vengono citate le sentenze n. 352 del 2000, n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988).
Ciononostante, il giudice rimettente ritiene che la «valutazione della disposizione codicistica […] deve, ad ogni buon conto, essere attuata alla stregua dell’attuale realtà sociale, senza alcun dubbio profondamente mutata rispetto a quella esistente ed esaminata dal Legislatore storico, nell’ottica di un’esegesi in sintonia ed al passo con i tempi dello stesso concetto costituzionale di famiglia concepita in guisa di un luogo di sviluppo armonico della persona, fondato ed ispirato da uno stretto e stabile rapporto di solidarietà reciproca»;
In particolare, il giudice rimettente concede che, in ragione del «tempo ormai remoto in cui è stata concepita ed emanata» la disposizione censurata, non potevano essere considerati istituti o situazioni di fatto emersi solo successivamente, ma ritiene che sia irragionevole e discriminatorio non ricomprendere fra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame «anche i partecipi di una convivenza more uxorio, ovvero persone di sesso diverso»;
A sostegno delle proprie argomentazioni, chiosa ancora il Collegio, il giudice a quo richiama l’art. 199, comma 3, lettera a), del codice di procedura penale, che equipara il coniuge a chi conviva o abbia convissuto con l’imputato in relazione alla facoltà di astenersi dal deporre, affinché «vada, re melius perpensa, nuovamente considerato anche il segnalato parallelismo della ratio legis posta a base» di tale disposizione e di quella censurata, che mirerebbero entrambe a salvaguardare la prevalenza dell’unità della famiglia rispetto alle esigenze di giustizia della collettività.
Il giudice rimettente ritiene che, anche alla luce del rilievo assegnato alla convivenza di fatto dalla legge n. 76 del 2016, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per il convivente more uxorio violi il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché il diritto di difesa (art. 24 Cost.), poiché si precluderebbe «la fruizione, nelle ipotesi di cui alla medesima norma di diritto penale sostanziale, della speciale causa di non punibilità», risultando «irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva e di operatività della norma […], non derivando, di converso, dall’accoglimento del sollevato incidente di costituzionalità alcun vulnus alla protezione della “istituzione familiare” tutelata in via primaria dall’art. 29 della Carta costituzionale»;
In questa prospettiva, non si terrebbe conto del fatto che la fisionomia dell’originaria istituzione famigliare fondata sul matrimonio tutelata dall’art. 29 Cost. è «mutata sul piano sociale e culturale e dei costumi al punto da essersi dovuta disciplinare, persino, l’unione civile di persone del medesimo sesso e tanto da sembrare a fortiori meritevole di pari dignità e tutela la posizione di un convivente di fatto more uxorio, anche di sesso diverso dal proprio partner»;
Da ultimo, nel caso oggetto del giudizio emergerebbe «il dato fattuale di una convivenza more uxorio tra l’imputato e la persona offesa, dalla cui unione è nato, persino, un figlio, a comprova di una pregressa stabilità di rapporti e di una comunanza di vita ed interessi, non suscettibile di affievolimento od inesistenza di tutela, neppure parziale, anche a preservazione di una possibile riconciliazione delle parti»;
Di conseguenza, sussisterebbe per il giudice rimettente la rilevanza delle questioni, poiché l’art. 649 cod. pen. costituirebbe disposizione di applicazione necessaria, almeno con riguardo alla posizione del figlio dell’imputato, influendo altresì sulla definizione del giudizio, poiché l’eventuale sentenza di accoglimento inciderebbe sulle formule di proscioglimento o quanto meno sulla formula del dispositivo della decisione.
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Il 27 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.10377 secondo la quale la convivenza “more uxorio“, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge il programma di vita in comune, un potere di fatto del convivente tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, avente titolo in un negozio giuridico di tipo familiare.
Essa tuttavia non incide per la Corte, salvo diversa disposizione di legge, sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sull’immobile, sicché tale detenzione del convivente non proprietario, né possessore, è esercitabile ed opponibile ai terzi fin quando perduri la convivenza, mentre, una volta venuta meno la stessa, in conseguenza del decesso del convivente proprietario-possessore, si estingue anche il relativo diritto.
Ne deriva per il Collegio che, in assenza di una istituzione testamentaria, ovvero della costituzione di un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario, non può ritenersi legittima la protrazione della relazione di fatto tra il bene ed il convivente superstite (già detentore qualificato), restando a carico del soggetto che legittimamente intende rientrare nel possesso del bene, il dovere di concedere a quest’ultimo un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa, in virtù dei principi di buona fede e correttezza.
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L’11 luglio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.17093 onde il lavoro domestico di cura ha alcune caratteristiche oggettive che lo rendono peculiare e sostanzialmente insuscettibile di essere reso in altra forma che non quella subordinata.
Conseguentemente, ove non risulti alcuna dimostrazione della sussistenza di un legame affettivo tra le parti alla cui stregua la convivenza si sarebbe potuta ritenere more uxorio, non può trovare giustificazione la tesi secondo la quale il rapporto lavorativo si sarebbe svolto a titolo gratuito, come prestazione volontaria giustificata dall’affectio tra le parti e resa pertanto nell’ambito di “un vincolo di solidarietà ed affettività sfociato in una comunanza di vita e interessi che abbia implicato altresì la partecipazione di uno dei conviventi alla vita e alle risorse dell’altro”.
Nel caso di specie, osserva la Corte come con la sentenza gravata la Corte d’appello abbia escluso la natura gratuita di un rapporto di lavoro (per mansioni di cura) tra soggetti conviventi, che gli eredi del creditore della prestazione predicavano fosse stato reso affectionis vel benevolentiae causa, mentre la lavoratrice ne rivendicava la natura subordinata e la conseguente onerosità.
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Il 21 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n.51115 onde la mancata concessione ad un testimone della facoltà di astensione dal rendere dichiarazioni ex art. 199 cod. proc. pen., per la ritenuta assenza del presupposto della convivenza “more uxorio” con l’imputato, si basa su un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità, se congruamente e logicamente motivato.
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Il 28 settembre esce la sentenza della sezione VI della Cassazione penale n. 52723 alla cui stregua, in assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
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Il 20 ottobre esce la sentenza della I sezione del Tribunale di Treviso onde – nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio, laddove assume rilievo l’istituto dell’obbligazione naturale – il riferimento ad esigenze di tipo solidaristico non è di per sé sufficiente a prefigurare una giusta causa dello spostamento patrimoniale, giacché, ai fini dell’art. 2034, comma 1, c.c., occorre allegare e dimostrare non solo l’esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso.
In tale prospettiva, per il Tribunale è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento dell’accipiens in presenza di prestazioni di un convivente a vantaggio dell’altro esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.
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Il 23 ottobre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.25074 alla cui stregua, in tema di cessazione dell’assegno divorzile per il caso di intervenuta convivenza more uxorio da parte dell’ex coniuge già beneficiario dell’assegno medesimo, la convivenza non dotata di quelle imprescindibili caratteristiche di stabilità e continuità in grado di elevarla ad un modello familiare simile a quello fondato sul matrimonio e come tale in grado di far venire meno il diritto all’assegno di mantenimento ove adeguatamente motivato è accertamento di fatto, come tale incensurabile in sede di giudizio di legittimità.
2018
Il 16 marzo esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.57 alla cui stregua vanno dichiarate manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, cod. pen., censurato – in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – dal Tribunale di Matera nella parte in cui, a seguito della novella apportata dal D.Lgs. n. 6 del 2017, prevede che la causa di non punibilità prevista per i delitti contro il patrimonio operi anche a beneficio della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, e non anche del convivente more uxorio.
Nell’ordinanza di rimessione il soggetto nei cui confronti si procede nel processo a quo viene espressamente definito quale ex convivente, oltre a farsi riferimento alla convivenza in termini di relazione pregressa.
Come peraltro confermato anche dagli atti del giudizio principale, precisa nondimeno la Corte, la condotta per la quale si procede sarebbe stata posta in essere in epoca successiva alla cessazione della convivenza.
Da tale circostanza – laddove venisse accertata nel processo a quo la responsabilità dell’imputato nei confronti della ex convivente – consegue inequivocabilmente l’inapplicabilità della disposizione censurata.
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Il 14 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.11696 alla cui stregua il matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all’estero, di cui uno sia cittadino italiano e l’altro cittadino straniero, va trascritto come unione civile, in adesione al modello legislativo applicabile al nostro ordinamento.
L’art. 32 bis della legge 218/1995 non trova invece applicazione diretta nell’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un’unione coniugale contratta all’estero da due cittadini stranieri, sicché in tal caso il matrimonio va trascritto come tale fra gli atti di matrimonio.
Pregiudiziale all’esame dei singoli motivi di ricorso è la verifica dell’applicabilità alla fattispecie dedotta in giudizio della nuova disciplina normativa relativa alle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Nella specie il matrimonio di cui si chiede la trascrizione è stato contratto prima del 5 giugno 2016, giorno in cui è entrata in vigore la l. n. 76 del 2016 ed anche il giudizio è stato instaurato anteriormente a tale data.
La giurisprudenza di legittimità, in relazione a un caso analogo (matrimonio contratto all’estero da due cittadini italiani dello stesso sesso), con la sentenza n. 4124 del 2012 ha escluso la legittimità della trascrizione e, successivamente, con la sentenza n. 2400 del 2015 ha ritenuto inapplicabile il modello matrimoniale alle unioni omoaffettive, in una fattispecie sorta dal rifiuto di procedere alle pubblicazioni matrimoniali, nonostante la indubitabile riconducibilità di tali unioni tra le formazioni sociali che godono di pieno riconoscimento e protezione ex art. 2 Cost.
In entrambe le decisioni – prosegue la Corte – è stato evidenziato come sia l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sia l’art. 12 Cedu, non impongano agli Stati l’adozione del modello matrimoniale per il riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive al loro interno, ferma la necessità di garantire un grado di protezione dei diritti individuali e relazionali sorti da tali unioni tendenzialmente omogeneo a quelle coniugali.
La conseguenza, prospettata dal Procuratore Generale nella propria requisitoria, della inapplicabilità del nuovo regime giuridico introdotto dalla l. n. 76 del 2016, anche alla luce delle pronunce n. 138 del 2010 e 170 del 2014, è la radicale intrascrivibilità del matrimonio contratto da una coppia omoaffettiva all’estero.
Tale conclusione, tuttavia, non può per il Collegio essere integralmente condivisa, dal momento che la legge n. 76 del 2016 oltre ad introdurre un peculiare modello giuridicamente riconosciuto per le unioni omoaffettive, ha regolato specificamente anche la disciplina delle trascrizioni dei matrimoni o delle unioni giuridicamente riconosciute di natura omoaffettiva contratte all’estero.
Il legislatore ha avvertito l’inadeguatezza della regolazione dei rapporti di famiglia contenuti nel Titolo III, capo IV della l. n. 218 del 1995 ed ha introdotto gli artt. 32 bis, ter, quater, quinquies. Gli artt. 32 ter e quater hanno ad oggetto l’individuazione della giurisdizione e della legge applicabile in ordine alla capacità e alle condizioni per contrarre matrimonio e allo scioglimento delle unioni civili.
Gli artt. 32 bis e quinquies riguardano, invece, specificamente il tema degli effetti nel nostro ordinamento dei matrimoni e delle unioni civili (o istituti analoghi come precisa l’art. 32 quinquies) contratte all’estero da cittadini italiani. La definizione degli effetti rispettivamente del matrimonio e dell’unione civile (o istituto analogo) contratti all’estero da cittadini italiani non può essere temporalmente limitata, proprio in virtù dell’intrinseca ratio della novella, alle relazioni coniugali o alle unioni giuridicamente riconosciute, contratte dopo l’entrata in vigore della legge italiana né può essere condizionata dalla data d’instaurazione del giudizio.
Nessuna delle due norme contiene la delimitazione dell’efficacia temporale del meccanismo legislativo di conversione (nell’ipotesi del matrimonio contratto all’estero) o di equiparazione degli effetti (nell’ipotesi dell’unione contratta all’estero) e, del resto, una previsione diversa avrebbe determinato un’ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento per i cittadini italiani che abbiano contratto matrimoni o unioni all’estero prima dell’entrata in vigore della nuova legge, ai quali sarebbe preclusa in via generale l’applicazione delle nuove norme di diritto internazionale privato, volte proprio ad evitare soluzioni di continuità e disomogeneità di condizioni di riconoscimento e di tutela all’interno del nostro ordinamento, con riferimento a situazioni omogenee.
L’applicazione delle nuove norme ai rapporti sorti prima della relativa entrata in vigore non costituisce per la Corte una deroga al principio d’irretroattività della legge, ma una conseguenza della specifica funzione di coordinamento e legittima circolazione degli status posta alla base della loro introduzione nell’ordinamento.
L’esigenza primaria, indicata anche nel comma 28 dell’art. 1 della l. n. 76 del 2016, nel quale è definito l’ambito della delega al Governo nella materia, deve rinvenirsi proprio nella necessità di fornire un regime giuridico uniforme alle coppie che abbiano (già) contratto all’estero un matrimonio, unione civile od altro istituto. Poiché con il matrimonio o con l’unione civile od istituto analogo si costituisce uno status tipicamente a natura non istantanea, ma destinato a durare nel tempo quanto meno fino all’eventuale relativo scioglimento, deve essere applicato, in tema di riconoscimento degli effetti di esso in ordinamento diverso da quello in cui il vincolo è stato contratto, il regime giuridico vigente al momento della decisione, non essendo costituzionalmente compatibile una soluzione che, solo in virtù di una preclusione temporale, potrebbe impedire il riconoscimento di effetti giuridici all’interno del nostro ordinamento a cittadini italiani e stranieri.
Premessa l’astratta applicabilità del nuovo regime di diritto internazionale privato alla fattispecie dedotta in giudizio, ed in particolare degli artt. 32 bis e quinquies, specificamente riguardanti il riconoscimento di matrimoni o unioni riconosciute contratte all’estero, deve in primo luogo per la Corte essere definito l’oggetto dell’accertamento relativo al riconoscimento dell’efficacia di atti, provvedimenti o sentenze straniere nel nostro ordinamento secondo gli artt. 64 e ss. della l. n. 218 del 1995.
Secondo il proprio consolidato orientamento, rammenta la Corte, il sindacato giurisdizionale deve essere rivolto agli effetti che possono prodursi nel nostro ordinamento a causa del riconoscimento o, nella specie, della trascrizione dell’atto, senza che lo stesso possa essere sottoposto ad un sindacato contenutistico (Cass. 15343 del 2016) o, nel caso si tratti di una sentenza straniera, senza che si debba verificare la correttezza della soluzione adottata dal giudice straniero in relazione alla disciplina di diritto positivo interno (cfr. Cass. 9483 del 2013, sulla irrilevanza della diversità del regime patrimoniale coniugale vigente negli Stati Uniti rispetto a quello italiano).
Neanche l’accertamento dell’esistenza (o della mancanza) di analogo istituto nell’ordinamento italiano costituisce, in linea generale, un ostacolo impeditivo al riconoscimento, come è accaduto nelle pronunce che hanno riconosciuto provvedimenti e sentenze straniere di divorzio ancorché negli ordinamenti di provenienza non fosse conosciuta la separazione personale.
Il limite effettivo, in ordine ai rapporti di famiglia, è costituito dal complesso dei principi anche di natura valoriale, costituzionale e convenzionale che, sul fondamento della dignità della persona, della uguaglianza di genere e della non discriminazione tra generi ed in relazione all’orientamento sessuale, determinano l’orizzonte non oltrepassabile dell’ordine pubblico internazionale.
Un atto o provvedimento straniero che sia rispettoso di tale limite merita per il Collegio di essere riconosciuto nel nostro ordinamento con riferimento specifico agli effetti che è destinato a produrre.
L’applicazione dei principi sopra esposti alla fattispecie dedotta nel giudizio de quo presenta per la Corte delle peculiarità che meritano di essere sinteticamente rilevate.
Le parti ricorrenti hanno richiesto la trascrizione dell’atto di matrimonio come tale. Esse, come ribadito anche in tutti gli atti difensivi dimessi in giudizio, richiedono il riconoscimento della loro unione coniugale come matrimonio e non come unione civile. Non ritengono legittima l’applicazione del cd. downgrading ovvero la conversione della loro unione matrimoniale in unione civile. Non ritengono, di conseguenza, sufficiente che mediante la trascrizione negli atti del registro delle unioni civili del loro matrimonio si producano automaticamente nel nostro ordinamento gli effetti giuridici previsti dalla L. n. 76 del 2016 e la conseguente, tendenziale, equiparazione delle tutele a quelle previste per l’unione coniugale con i limiti in essa indicati e salva la clausola di salvaguardia per i diritti già riconosciuti in sede giurisdizionale, contenuta nel comma 20 dell’art. 1 della L. 76 del 2016.
Alla peculiarità della domanda proposta dalle parti ricorrenti corrisponde specularmente la complessità del sistema giuridico ad essa astrattamente applicabile. Deve rilevarsi per la Corte, al riguardo, che le norme di diritto internazionale privato (artt. 64 e ss l. n. 218 del 1995; per i provvedimenti ed atti in materia di famiglia, artt. 65 e 66), come già evidenziato, concernono il riconoscimento degli effetti dell’atto. L’impedimento costituito dalla contrarietà all’ordine pubblico, nella configurazione sopra delineata, coerente con gli orientamenti della Corte (Cass. 11599 del 2016 e S.U.16601 del 2017), riguarda gli effetti e non la qualificazione dell’atto.
A tal proposito deve precisarsi che la disciplina contenuta nell’art. 28 della l. n. 218 del 1995, relativa alla validità formale del matrimonio, riguarda la legge applicabile e non il riconoscimento o la trascrizione dell’atto formato all’estero. Ai fini dell’individuazione della legge applicabile per la validità formale dell’atto, in via generale, concorre con gli altri criteri anche quello del luogo della celebrazione ma tale disposizione non incide sulla determinazione degli effetti nonché delle condizioni e capacità matrimoniali che, anche ai fini della legge applicabile, sono regolate dal criterio della legge nazionale dei contraenti (art. 27).
Quest’ultima, ove diversa, darà luogo ad ambiti di riferimento giuridico diverso, rispetto ai quali non viene indicato un criterio di prevalenza.
Nel caso di specie, la non contrarietà all’ordine pubblico internazionale, così come interpretato dal legislatore della l. n. 76 del 2016 e dei decreti delegati, del riconoscimento del matrimonio e delle unioni civili o istituti analoghi contratti all’estero, è consacrata dagli artt. 32 bis e quinquies della L. n. 218 del 1995. Gli atti di matrimonio e di unioni riconosciute producono senz’altro effetti giuridici nel nostro ordinamento secondo il regime di convertibilità stabilito dalle nuove norme.
La norma cardine per stabilire entro che limiti può essere riconosciuto nel nostro ordinamento l’atto di matrimonio dedotto nel presente giudizio è per la Corte l’art. 32 bis della l. n. 218 del 1995.
La norma dispone che “Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana.” La formulazione vigente è frutto di una modifica del testo iniziale, dovuta all’intervento correttivo sollecitato dalle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia sul testo precedente che non prevedeva la limitazione della conversione in unione civile ai matrimoni contratti da “cittadini italiani” all’estero ma si riferiva genericamente ai matrimoni contratti all’estero, comprendendovi anche i cittadini stranieri.
Tale estensione è stata ritenuta ingiustificata rispetto alla ratio antielusiva posta a base della nuova norma. In particolare si è ritenuto che quando il matrimonio è stato contratto all’estero da cittadini stranieri non può ravvisarsi in esso alcun intento di aggiramento della L. n. 76 del 2016 e del modello di unione civile vigente nel nostro ordinamento, così da doversi escludere la necessità di derogare alle regole generalmente applicabili di diritto internazionale privato in relazione alla legge applicabile a tale relazione coniugale.
In tale peculiare ipotesi non può essere ignorato il carattere intrinsecamente transnazionale del rapporto matrimoniale contratto tra cittadini stranieri, in quanto caratterizzato da un sufficiente grado di estraneità rispetto al nostro ordinamento, con conseguente operatività dei criteri di collegamento stabiliti negli artt. da 26 a 30 della l. n. 218 del 1995 o, ove applicabili, dei regolamenti UE in materia matrimoniale (Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 1259 del 2010).
L’art. 32 bis, in conclusione, non trova applicazione diretta nell’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un’unione coniugale contratta all’estero tra due cittadini stranieri. Il matrimonio dovrebbe essere trascritto, in questa ipotesi, come tale, senza operare alcuna conversione ancorché l’art. 63 del r.d. n. 1238 del 1939, così come modificato dal d.lgs n. 5 del 2017, non preveda un registro dei matrimoni contratti da cittadini stranieri dello stesso sesso all’estero ma, al contrario, per questa ipotesi stabilisca, verosimilmente per un difetto di coordinamento con l’altro d.lgs n. 7 del 2017, all’art. 63, c. 2, lettera c-bis, che anche tali atti vadano trascritti nel registro delle unioni civili.
Tale profilo critico tuttavia non incide per il Collegio sull’applicazione della regola sostanziale della lex fori, in considerazione della funzione meramente certificativa della trascrizione di un atto che sia idoneo a produrre effetti nell’ordinamento ove ciò sia stato richiesto in forza di una norma di legge o di un provvedimento giurisdizionale.
Il testo dell’art. 32 bis lascia tuttavia irrisolta la questione, formante oggetto del presente giudizio, relativa alla trascrizione in Italia del matrimonio tra persone dello stesso sesso, di cui una sia cittadino italiano e l’altro cittadino straniero, contratto all’estero.
Come già rilevato, le nuove norme regolative della trascrizione (e della conseguente produzione degli effetti nel nostro ordinamento) delle unioni matrimoniali (o delle unioni civili) omoaffettive contratte all’estero sono l’art. 32 bis e l’art. 32 quinquies.
Dall’esame coordinato di esse può per la Corte essere ricavato in primo luogo il principio, definito efficacemente dalla dottrina di ordine pubblico “positivo” di netto favor in ordine al riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive ed all’accesso alle unioni civili ex l. n. 76 del 2016. L’art. 32 quinquies contiene una clausola di salvaguardia secondo la quale le unioni civili o altri istituti analoghi, anche se non dotati di un complesso di strumenti di tutela equiparabili a quelli contenuti nella l. n.76 del 2016, producono gli stessi effetti delle unioni civili regolate dalla legge italiana.
La norma stabilisce la prevalenza della legge italiana rispetto a leggi straniere che non tutelino in maniera equivalente tali unioni e costituisce uno degli indicatori della centralità e l’esclusività della scelta adottata dal legislatore italiano in ordine al riconoscimento delle unioni omoaffettive.
L’art. 32 bis completa, pertanto, il quadro degli effetti che possono produrre le diverse tipologie di unioni formate da coppie omoaffettive nel nostro ordinamento, in quanto stabilisce anche per l’ipotesi dell’unione coniugale contratta all’estero quantomeno la produzione degli effetti dell’unione civile ex L. n. 76 del 2016.
Deve, in conclusione, ritenersi per il Collegio che il legislatore italiano abbia inteso esercitare pienamente la libertà di scelta del modello di riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive coerentemente con il quadro convenzionale (artt. 8 e 12 Cedu) e con quello derivante dal sistema anche costituzionale dell’Unione Europea (art. 9 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
È stato prefigurato un sistema di riconoscimento delle unioni omoaffettive, contratte all’estero, fondato sulla preminenza del modello adottato nel diritto interno delle unioni civili. Con la legge n. 76 del 2016 il legislatore ha colmato il vuoto di tutela che caratterizzava l’ordinamento interno, così come richiesto dalla Corte Cost. con la sentenza n. 170 del 2014 e dalla Corte Europea dei diritti umani nella sentenza Oliari contro Italia (sentenza del 21 luglio 2105 ricorsi n.18766 e 36030 del 2011), operando una scelta diversa da quella di molti altri Stati, fondata, invece sull’adozione del modello matrimoniale.
Tale scelta è stata il frutto dell’esercizio di una discrezionalità legislativa del tutto rientrante nel “potere di apprezzamento degli Stati” indicato dalla giurisprudenza della Corte Edu proprio con riferimento all’interpretazione dell’art. 12 (Sentenza Schalk e Kopf del 3 giugno 2010, ricorso n. 30141 del 2004) e della precisa indicazione proveniente dalla citata sentenza n. 170 del 2014.
Per le unioni omoaffettive è stato scelto un modello di riconoscimento giuridico peculiare, ancorché in larga parte conformato, per quanto riguarda i diritti ed i doveri dei componenti dell’unione, al rapporto matrimoniale. Alla diversità della “forma” dell’unione civile rispetto al matrimonio corrisponde, peraltro, un’ampia equiparazione degli strumenti di regolazione, realizzata attraverso la tecnica del rinvio alla disciplina codicistica del rapporto matrimoniale da ritenersi, anche in ordine alla funzione adeguatrice della giurisprudenza, il parametro di riferimento antidiscriminatorio.
Prima di procedere all’esame del nuovo sistema di diritto internazionale privato relativo agli effetti dei matrimoni e delle unioni contratte all’estero da cittadini dello stesso sesso, è necessario per la Corte a questo punto ribadire che all’esito del rifiuto della trascrizione dell’atto (o in virtù dell’opposizione al riconoscimento di un titolo giurisdizionale estero), il sindacato giurisdizionale riguarda gli effetti dell’atto o del provvedimento e non è limitato alla forma dello stesso.
Il riconoscimento dell’atto determina il regime giuridico applicabile secondo le norme di collegamento di diritto internazionale privato elaborate dal d.lgs n. 7 del 2017 (prevalentemente coerenti con quelle preesistenti salve le esigenze di adeguamento dovute al nuovo istituto dell’unione civile).
Nel caso di specie occorre stabilire se trova applicazione la limitazione degli effetti stabilita nell’art. 32 bis alla fattispecie peculiare dedotta in giudizio o se l’atto in oggetto può essere trascritto come unione matrimoniale (e non come unione civile).
La specialità della normazione introdotta con il d.lgs n. 7 del 2017, nel sistema previgente di diritto internazionale privato, determina l’applicazione di questo peculiare regime giuridico degli effetti degli atti formati all’estero, nell’ambito delle unioni omoaffettive. La disciplina generale contenuta negli artt. 24 e seguenti della l. n. 219 del 1995 è integrata da quella puntuale sopra indicata e il rispetto del limite costituito dall’ordine pubblico internazionale non deve essere oggetto di un esame specifico, essendo già stato oggetto della valutazione operata dal legislatore all’interno del nuovo regime giuridico di carattere speciale ex art. 1, comma 28, della l. n. 76 del 2016.
Le unioni omoaffettive nel nostro ordinamento – chiosa ancora il Collegio – non contrastano con l’ordine pubblico internazionale e, conseguentemente, anche quelle contratte all’estero devono essere riconosciute ed assistite da un sistema di tutele adeguato. La compatibilità dei modelli adottati all’estero (matrimonio od unione civile) nel nostro ordinamento trova una regolazione puntuale con i meccanismi di conversione elaborati dal legislatore del d.lgs n 7 del 2016.
Tale complesso di regole definisce, tuttavia, anche il perimetro all’interno del quale tali unioni producono effetti nel nostro ordinamento. La libertà di scelta del modello di unione omoaffettiva rimessa ai singoli Stati si estende, a fini antielusivi e di coerenza antiscriminatoria del sistema di regolazione interna, anche alla produzione degli effetti degli atti formati all’estero, salva l’ipotesi della totale transnazionalità di essi (matrimonio contratto all’estero da cittadini entrambi stranieri).
All’interno del quadro che si è delineato non risulta disagevole alla Corte l’interpretazione dell’art. 32 bis della l. n. 219 del 1995.
Sul piano strettamente testuale, come è stato rilevato anche dalla dottrina, si può cogliere una differenza rilevante tra la formulazione dell’art. 32 bis e quella dell’art. 32 quinquies. Nella prima norma l’ambito soggettivo di applicazione del nuovo regime riguarda in generale “il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani” mentre l’art. 32 quinquies, che estende il sistema di tutele previsto dalla l. n. 76 del 2016 anche ad istituti analoghi, si riferisce ad unioni costituite all’estero “tra cittadini italiani“, oltre a richiedere l’ulteriore requisito dell’abituale residenza in Italia.
La differenza testuale ha un significato logico-giuridico chiaro. L’art. 32 bis esprime la nettezza della scelta legislativa verso il modello dell’unione civile, limitando gli effetti della circolazione di atti matrimoniali relativi ad unioni omoaffettive a quelle costituite da cittadini entrambi stranieri, come rileva l’indicatore costituito dall’uso del “da“, rispetto alla diversa opzione adottata dall’art. 32quinquies che ha una ratio estensiva del regime giuridico di riconoscimento e tutela contenuto nella L. n. 76 del 2016 a tutti i cittadini italiani, ancorché abbiano dato vita all’estero ad un vincolo munito di un grado inferiore di diritti.
La soluzione indicata è coerente anche con il regime giuridico di diritto internazionale privato relativo alla capacità e alle condizioni per contrarre matrimonio. L’art. 27, applicabile nella specie, rinvia alla legge nazionale di ciascuno dei nubendi. Tale criterio nella specie creerebbe un conflitto non risolvibile in ordine alla forma ed agli effetti della trascrizione dell’atto contratto all’estero ove non si adottasse la soluzione interpretativa dell’art. 32 bis cui si è acceduto.
Si deve, inoltre, rilevare – prosegue la Corte – che se l’art. 32 bis si applicasse anche ai cd. matrimoni “misti“, ovvero contratti da un cittadino italiano e da un cittadino straniero, si determinerebbe una discriminazione cd. “a rovescio” tra i cittadini italiani che hanno contratto matrimonio all’estero e possono “trasportare” forma ed effetti del vincolo nel nostro ordinamento e quelli che hanno contratto un’unione civile in adesione al modello legislativo applicabile nel nostro ordinamento.
Alla luce del quadro costituzionale, convenzionale e di diritto interno delineato, non possono essere poi accolte per il Collegio le eccezioni d’illegittimità costituzionale formulate dall’interveniente Associazione Rete Lenford.
Premessa l’applicabilità diretta dell’art. 32 bis l. n. 219 del 1995 in quanto norma diretta proprio a regolare la circolazione ed il riconoscimento degli effetti degli atti di matrimonio contratti da coppie omoaffettive all’estero, così come richiesto dalla delega contenuta nell’art. 1, c. 28 della l. n. 76 del 2016, la non trascrivibilità dell’atto di matrimonio formato da un cittadino straniero ed un cittadino italiano non costituisce il frutto di un quadro discriminatorio per ragioni di orientamento sessuale o un’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente incompatibile con il limite antidiscriminatorio, dal momento che la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti facenti parte del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli stati membri, salva la definizione di uno standard di tutele coerenti con l’interpretazione del diritto alla vita familiare ex art. 8 fornita dalla Corte Edu.
La discriminazione tra cittadini italiani non è ravvisabile ed anzi, come rilevato, un profilo di discriminazione inversa potrebbe individuarsi nella scelta ermeneutica contraria. La discriminazione per orientamento sessuale dei cittadini stranieri in ordine alla libertà di circolazione e di stabilimento è del pari non rilevabile dal momento che l’unione omoaffettiva riconosciuta all’estero secondo il paradigma matrimoniale non è priva di effetti nel nostro ordinamento e la regolazione dei rapporti personali e patrimoniali tra i componenti dell’unione rimane disciplinata dal sistema generale di diritto internazionale privato (artt. 26 e ss.).
Infine la specialità del nuovo regime giuridico come illustrato evidenzia, da un lato, che non può essere valutato il limite dell’ordine pubblico internazionale in astratto, disancorato dalle norme di diritto internazionale privato concretamente in vigore, e, dall’altro, che la scelta legislativa è del tutto compatibile con tale parametro.
* * *
Il 9 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.212, che assume inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento all’art. 22 della Costituzione.
La medesima Corte dichiara altresì non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007; e del pari non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017, sollevate dal Tribunale ordinario di Ravenna, in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 76 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE.
Con la disposizione censurata – afferma il Collegio – il legislatore delegato ha escluso la valenza anagrafica del cognome comune scelto dalle parti dell’unione civile. Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale cognome comune per la durata della unione, viene espressamente esclusa la necessità di modificare la scheda anagrafica individuale, la quale resta, pertanto, intestata alla stessa parte con il cognome posseduto prima della costituzione dell’unione.
È questa la scelta del legislatore delegato che è stata censurata dal giudice rimettente, assumendo che essa contrasti, in primo luogo, con i principi posti dalla legge n. 76 del 2016 e, dunque, con l’art. 76 Cost.
Secondo la propria costante giurisprudenza – rammenta la Corte – «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 194 del 2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014).
Ciò premesso, va in primo luogo rilevato per il Collegio che oggetto della delega in esame era «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, e in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione prevede un sistema di individuazione del cognome comune fondato sull’accordo e ispirato alla libertà di determinazione delle parti dell’unione civile. Ad esse è riconosciuta infatti la facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti, esse potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione del comma 10 non contenga un’espressa qualificazione degli effetti di tale scelta, essa fornisce tuttavia – chiosa ancora la Corte – un’indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a quella dell’unione civile. Ai sensi del comma 10 in esame, infatti, la scelta del cognome è operata «per la durata dell’unione». Dallo scioglimento dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la perdita automatica del cognome comune.
È stata proprio la considerazione di tale delimitazione temporale che ha guidato la scelta operata dal legislatore delegato. Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna lo schema del d.lgs. n. 5 del 2017, si rileva che «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile avrebbe effetto solo per la durata dell’unione». Tale rilievo sottintende la contraddittorietà e l’irragionevolezza insite nell’attribuire alla scelta compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la variazione del cognome anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile, mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell’unione.
Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato che qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato, con la conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche i dati fiscali, lavorativi, sanitari e previdenziali.
L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega.
Anche in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost. le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 per la Corte non sono fondate.
Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all’art. 262 del codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell’unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato.
L’art. 20, comma 3, del d.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che «Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile». In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che la legge n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle parti dell’unione civile.
Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della relativa iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, del d.P.R. n. 396 del 2000).
La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e della pertinente visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.
Anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 – prosegue il Collegio – non sono fondate.
Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo alla violazione dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato conferito al legislatore delegato alcun potere di revoca o annullamento di iscrizioni e annotazioni già effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato per la Corte che la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina transitoria destinata ad applicarsi alle unioni civili costituite nell’intervallo temporale tra il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l’opzione per il cognome comune e sia stata altresì effettuata la variazione anagrafica prevista dall’art. 4 del citato d.P.C.m. e successivamente esclusa dall’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega conferita dall’art. 1, comma 28, lettera a), della legge n. 76 del 2016 aveva ad oggetto «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Come si è visto nel precedente punto 4., prosegue la Corte, il legislatore delegato ha dapprima esplicitato il significato del principio posto dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del cognome comune. Con il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della disciplina dello stato civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni effettuate medio tempore, in applicazione di una fonte normativa, provvisoria e di carattere secondario, non coerente con i principi della delega.
Non è ravvisabile neppure – prosegue il Collegio – la denunciata violazione degli artt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella prospettazione del rimettente, tali censure sono ricondotte al sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune da parte di chi lo abbia acquisito nel vigore dell’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016.
Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in attesa dell’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla legge n. 76 del 2016, l’effetto modificativo della scheda anagrafica rivestiva la medesima natura provvisoria della fonte regolamentare che l’aveva previsto e che era destinata a cessare per effetto dei successivi decreti legislativi. La dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa brevità del pertinente orizzonte temporale di riferimento portano per la Corte ad escludere che le novità da esso introdotte abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine all’emersione e al consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. Ne consegue che la previsione dell’annullamento delle variazioni anagrafiche già effettuate non può ritenersi lesiva di una nuova identità personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
In quella occasione, l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome è stata riconosciuta «[…] in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive […]», ciò che non può ritenersi verificato nel caso in esame.
Non è fondata infine, conclude la Corte, la censura di irragionevolezza proposta dal rimettente in riferimento all’indicazione legislativa del procedimento di cui all’art. 98 del d.P.R. n. 396 del 2000 per l’annullamento delle variazioni anagrafiche effettuate in base all’art. 4 del citato d.P.C.m.
Il modello procedimentale prescelto dal legislatore delegato prevede, in particolare, che del provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al procuratore della Repubblica ed al Prefetto. A partire da questa comunicazione gli interessati hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a norma dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto per il procuratore della Repubblica che può proporre ricorso contro la correzione effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una procedura che garantisce il contraddittorio con la parte interessata attraverso la proposizione di un ricorso e l’instaurazione di un giudizio di fronte ad un tribunale (come è avvenuto proprio nel giudizio a quo).
E, se è vero che la procedura indicata contempla il contraddittorio e l’intervento del giudice in una fase differita, si tratta pur sempre di uno strumento processuale che consente alle parti coinvolte di contestare l’annullamento di variazioni anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque l’utilizzo di uno schema procedimentale, già previsto nel sistema dell’ordinamento dello stato civile, ancorché utilizzato per differenti evenienze. La legittimità del rinvio a tale modello non è dunque inficiata per la Corte dall’estensione del relativo ambito applicativo a ulteriori fattispecie, differenti da quelle per le quali esso era originariamente previsto.
2019
Il 28 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 3998 onde integra il reato di violazione di domicilio aggravata, ai sensi dell’art. 614, commi primo e quarto, cod. pen., la condotta di colui che, essendo stato escluso dall’abitazione a seguito dell’interruzione del rapporto di convivenza, vi si introduca, con violenza sulle cose ed alla persona, contro l’espressa volontà contraria della ex convivente “more uxorio“, unica titolare dello “ius excludendi“.
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Il 14 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n. 11476, Cavassa Samuel, Rv. 275206, onde la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 cod. proc. pen. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti.
Va infatti recepita per il Collegio un’interpretazione “in bonam partem” che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza “more uxorio” alla famiglia fondata sul matrimonio, l’equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un’unione civile, prevista dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, non escludendo l’estensione della causa di non punibilità per l’appunto ai conviventi “more uxorio“, soluzione già peraltro consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla nozione di famiglia desumibile dall’art.8 CEDU, ricomprendente anche i rapporti di fatto.
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Il 15 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione penale n. 16385 alla cui stregua lo straniero che convive more uxorio con una cittadina italiana non può essere espulso dal territorio dello Stato.
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Il 29 marzo esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 8889 onde la convivenza “more uxorio” dello straniero con un cittadino, ancorché giustificata dal tempo necessario affinché uno o entrambi i conviventi ottengano la sentenza di scioglimento del matrimonio dal proprio coniuge, non rientra tra le ipotesi tassative di divieto di espulsione di cui all’art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998.
Queste ultime, precisa la Corte, essendo previste in deroga alla regola generale dell’obbligo di espulsione nelle fattispecie contemplate dall’art. 13 d.lgs cit., non sono suscettibili di interpretazione analogica o estensiva; né, manifestamente, contrasta con principi costituzionali la previsione (contenuta nell’art. 19 cit.) del divieto di espulsione solo per lo straniero coniugato con un cittadino italiano e per lo straniero convivente con cittadini che siano con lo stesso in rapporto di parentela entro il secondo grado, atteso come essa risponda all’esigenza di tutelare da un lato l’unità della famiglia, dall’altro il vincolo parentale e riguardando persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici, che è invece assente nella convivenza “more uxorio“.
Tuttavia, chiosa ancora il Collegio, l’inestensibilità del divieto espulsivo non esclude che il giudice di pace debba valutare la situazione quando vi siano figli minorenni conviventi con la coppia; nella specie va dunque cassato il provvedimento impugnato che ha omesso di valutare tale ultimo aspetto.
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Il 30 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.11416 stando alla quale, ai fini dell’IMU, i benefici previsti per la casa coniugale (e relative pertinenze) assegnata al coniuge, a seguito di provvedimento di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, si applicano anche per l’abitazione principale e le relative pertinenze della famiglia “di fatto” (conviventi more uxorio) in caso di separazione dei conviventi, allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti.
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L’8 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.12193 che, sulla scia di uniforme giurisprudenza delle sezioni semplici, ribadisce autorevolmente come – ai fini della (ammessa) trascrivibilità in Italia di certificati di nascita formati all’estero – l’annotazione sugli stessi di una duplice genitorialità femminile va riconosciuta non contraria a principi di ordine pubblico, secondo le disposizioni di diritto internazionale privato.
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Il 10 maggio esce la sentenza del Tar Calabria, Reggio Calabria, n. 321 alla cui stregua, data l’esigenza di tutelare il diritto all’unità familiare, inteso nella relativa accezione più ampia, comprensiva delle unioni di fatto, sussiste il diritto dell’appartenente all’arma dei carabinieri al trasferimento geografico per motivi di ricongiungimento familiare con il convivente more uxorio.
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Il 29 maggio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 14746 secondo la quale, in tema di danno non patrimoniale, qualora il giudice proceda alla liquidazione equitativa in applicazione delle “tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano, egli può superare i limiti minimi e massimi degli ordinari parametri previsti dalle dette tabelle solo quando la specifica situazione presa in considerazione si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto, in quanto elaborato in astratto in base all’oscillazione ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'”id quod plerumque accidit“.
Pertanto, chiosa il Collegio, nel caso di determinazione del danno a favore del convivente “more uxorio” del defunto, il giudice non può procedere ad una determinazione del relativo importo in misura inferiore a quella minima prevista dalla corrispondente forbice tabellare, realizzando una discriminazione ontologica tra le convivenze di fatto e i rapporti coniugali fondati sul matrimonio, attesa l’espressa completa equiparazione, contenuta in dette tabelle, tra convivenze more uxorio e convivenze matrimoniali.
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Il 14 giugno esce la sentenza della IV sezione della Corte d’Appello di Palermo in sede penale onde, in assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione.
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Il 25 luglio esce la sentenza della XVII sezione del Tribunale di Roma alla cui stregua l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro è configurabile in presenza di prestazioni del solvens a vantaggio del primo (accipiens), che esulano dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza.
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Il 25 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n. 47887 alla cui stregua, nel caso di convivenza more uxorio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto in relazione alle condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva potranno semmai integrare il delitto di atti persecutori.
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Il 23 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.221 che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone.
La stessa pronuncia dichiara altresì non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano.
La Corte in sostanza – nel respingere le censure di illegittimità costituzionale rivolte al predetto art. 5 e all’art. 12, commi 2, 9 e 10, nonché agli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, per asserito contrasto con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 11, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, e con altre disposizioni sovranazionali – afferma che «[l]’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è […] fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale».
Ricorda inoltre come in questo senso si sia espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Invero, per la Corte la scelta operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare» – sottende l’idea, «non […] arbitraria o irrazionale», che «una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato». E tale scelta non viola gli artt. 2 e 30 Cost., per i profili evidenziati dal giudice a quo, perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.
A propria volta, prosegue la Corte, l’art. 30 Cost. «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] non implica che […] possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, «con altri interessi costituzionalmente protetti: […] particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico».
Quanto poi al prospettato vulnus all’art. 3 Cost., è pur vero che la giurisprudenza, anche di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 15 giugno 2017, n. 14878 e 30 settembre 2016, n. 19599), ammette il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri”, ma, come è stato già rilevato, «[l]a circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia».
Se peraltro il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali».
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Il 15 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.237 che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della «norma che si desume» dagli artt. 250 e 449 del codice civile; 29, comma 2, e 44, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127); 5 e 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 30 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, sollevata dal Tribunale ordinario di Pisa.
Per la Corte in sostanza la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto «[d]al rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante».
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Il 18 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n.12201 onde – in tema di reati contro la famiglia – il convivente “more uxorio” non è soggetto agli obblighi di assistenza previsti dall’art. 570 cod. pen., pena configurandosi, diversamente, una non consentita interpretazione “in malam partem” di detta previsione normativa.
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Il 19 dicembre esce la sentenza della I sezione della Corte di Giustizia UE, H. c. Commissione europea e altri, onde il legislatore dell’Unione ha esplicitamente esteso, a determinate condizioni, l’applicazione delle disposizioni dello Statuto dei funzionari dell’UE relative alle persone sposate a persone legate da un’unione non matrimoniale registrata.
Infatti, ai sensi dell’articolo 1 quinquies, paragrafo 1, secondo comma, dello Statuto ridetto, ai fini di quest’ultimo le unioni non matrimoniali sono equiparate al matrimonio, a condizione che siano rispettate tutte le condizioni previste all’articolo 1, paragrafo 2, lettera c), dell’allegato VII dello Statuto in parola.
Le condizioni previste da questa disposizione includono l’esibizione da parte della coppia di un documento ufficiale riconosciuto come tale da uno Stato membro o da un’autorità competente di uno Stato membro, attestante la condizione di membri di un’unione di fatto e che la coppia non abbia accesso al matrimonio civile in uno Stato membro.
Tale disposizione esige pertanto che, affinché un’unione non matrimoniale registrata sia equiparata al matrimonio ai sensi dello Statuto, il funzionario registrato come membro stabile di un’unione non matrimoniale soddisfi le condizioni giuridiche previste dalla disposizione stessa.
Dall’articolo 17, primo comma, dell’allegato VIII dello Statuto, in combinato disposto con l’articolo 1 quinquies, paragrafo 1, secondo comma – prosegue la Corte – risulta che, se sono soddisfatte le condizioni previste da quest’ultima disposizione, il partner non matrimoniale ha diritto a una pensione di reversibilità in seguito al decesso del partner.
D’altra parte, precisa nondimeno il Collegio, un’unione di fatto come quella basata su di una convivenza more uxorio non soddisfa tali caratteristiche in quanto non è, in linea di principio, oggetto di uno status previsto dalla legge. Tale disposizione esige pertanto che, affinché un’unione non matrimoniale registrata sia equiparata al matrimonio ai sensi dello Statuto, il funzionario registrato come membro stabile di un’unione non matrimoniale soddisfi le condizioni giuridiche previste dalla disposizione stessa.
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Sempre il 19 dicembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.1825 secondo la quale va rimessa alle Sezioni Unite la soluzione della questione se la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p. sia o meno applicabile al convivente more uxorio.
Osserva la Corte che la questione sottesa ad entrambi i motivi di ricorso, pregiudiziale rispetto al loro vaglio, è appunto la applicabilità della causa scriminante o scusante di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen. al convivente more uxorio.
In ordine alla questione – rammenta il Collegio – sono stati espressi due opposti orientamenti.
Secondo un primo orientamento prevalente, non può essere applicata al convivente “more uxorio“, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente “more uxorio” (cfr. Corte cost. 121 del 2004 e 140 del 2009)(Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903).
La decisione, nel solco di Sez. 6 n. 35967 del 28/09/2006, Cantale, Rv. 234862, ha osservato che l’esclusione del convivente more uxorio manifestamente non si pone in contrasto con i principi di cui all’art. 3 Cost., avuto anche riguardo a quanto già affermato dalla stessa Corte costituzionale con pronunce nn. 124 del 1980, 39 del 1981, 352 del 19 89, 8 del 1996, 121 del 2004. In particolare, come ribadito dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 121 del 2004 (ud. 10-12-2003); gli artt. 307 e 384 c.p. non includono nella nozione di prossimi congiunti anche il convivente “more uxorio“, oltre il coniuge, finanche separato di fatto o legalmente.
Tale assetto normativo non è neppure contrario alla Carta costituzionale (in special modo, con riferimento all’art. 3 Cost.) in quanto esistono, nell’ordinamento, ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi, trovando il rapporto coniugale tutela diretta nell’art. 29 Cost., mentre il rapporto di fatto fruisce della tutela apprestata dall’art.2 Cost. ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali, con la conseguenza che ogni intervento diretto a rendere una identità di disciplina rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore.
Ancora più di recente, con sentenza n. 140 del 2009, del resto, il giudice delle leggi ha affermato, riprendendo i principi già espressi, che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale in ragione della diversità delle norme di copertura e tale diversità giustifica che la legge possa riservare trattamenti giuridici non omogenei.
Infatti, se è vero che, in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra i due istituti caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria un’identità di disciplina, che la Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza, nella specie, l’estensione di cause di non punibilità comporta un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti che appartiene primariamente al legislatore.
Si tratterebbe, insomma, di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro, ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità. Ciò legittima nel settore dell’ordinamento penale soluzioni legislative differenziate.
Per tale essenziale ragione, il contrario orientamento espresso in materia dalla sent. n. 22398 del 22/01/2004, Rv. 229676, citata nel ricorso e rimasta isolata nel panorama giurisprudenziale, appare non condivisibile.
Due più recenti decisioni – prosegue tuttavia la Corte – hanno espresso un opposto orientamento. Secondo Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino e altri, Rv. 264630, in tema di favoreggiamento personale, la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente “more uxorio” confutando l’attualità dell’opinione espressa dal Giudice delle leggi in ordine alla concezione di famiglia cui fare riferimento e richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale considera la famiglia in senso dinamico, come una formazione sociale in perenne divenire, e non come un istituto statico ed immutabile, essendo irrilevante che il rapporto familiare sia sanzionato dall’accordo matrimoniale.
Nello stesso solco, prosegue la Corte, si è posta Sez. 6 n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa Samuel, Rv. 275206 che ha affermato che la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 cod. proc. pen. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti, dovendosi recepire un’interpretazione “in bonam partem” che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza “more uxorio” alla famiglia fondata sul matrimonio, argomentandosi che l’equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un’unione civile, prevista dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, non esclude l’estensione della causa di non punibilità ai conviventi “more uxorio“, trattandosi di soluzione già consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla nozione di famiglia desumibile dall’art.8 CEDU, ricomprendente anche i rapporti di fatto.
Le due decisioni innovative – prosegue il Collegio – sono state criticate dalla dottrina secondo la quale il discostamento dal precedente consolidato orientamento, innanzitutto, si pone in tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare – all’epoca della prima delle due decisioni – un necessario interpello della Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore.
Con riferimento alla ultima decisione del 2019 è stato osservato che la riscrittura giurisprudenziale dell’esimente in parola involge poteri dei quali è istituzionalmente affidataria la Corte Costituzionale per superare i limiti che il giudice comune incontra nella «correzione» delle norme.
Le critiche della dottrina, chiosa ancora la Corte, appaiono peraltro in linea con lo specifico orientamento di legittimità – riguardante il tema della c.d. inesigibilità della condotta, ambito nel quale la prevalente dottrina situa la disposizione in parola – secondo il quale il principio della non esigibilità di una condotta diversa – sia che lo si voglia ricollegare alla “ratio” della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui “umanamente” pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla “ratio” dell’antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale – non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l'”analogia juris” (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833).
Ove si dovessero, in qualche modo, ritenere superabili il limite letterale e la natura eccezionale della norma in parola, la interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dichiaratamente posta a base dell’orientamento innovativo e l’obiettivo dell’ermeneusi, vanno confrontati – da un lato, come ricordato dalla sentenza Migliaccio – con i ripetuti interventi della Corte Costituzionale che ha ritenuto costituzionalmente non illegittima l’esclusione dal novero dei soggetti indicati dall’art. 384, comma 1, cod. pen. con riferimento all’art. 307, comma 4, cod. pen. del convivente di fatto giustificando il diverso trattamento delle diverse situazioni e non costituendo l’estensione una soluzione costituzionalmente necessaria; dall’altro, con la decisione espressa dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo nel caso Van der Heijden v. Netherlands del 3 aprile 2012 che ha escluso la violazione dell’art. 8 CEDU laddove la legislazione interna costringa una persona a testimoniare nell’ambito di procedimenti penali a carico del convivente senza conferirle la facoltà di astensione riconosciuta invece al coniuge e al convivente registrato.
Con tale ultima decisione, si è annotato, la Corte di Strasburgo, seguendo la dottrina del margine di apprezzamento riservato agli Stati, ha in qualche misura fornito argomenti per sostenere la non irragionevolezza di trattamenti differenziati fra coniugi e conviventi, quantomeno nel settore processuale.
La dichiarata interpretazione valoriale a sostegno della innovazione deve inoltre confrontarsi – conclude il Collegio – con quanto emerge dal più recente intervento legislativo del d.leg.vo n. 6 del 2017, conseguente alla c.d. legge Cirinnà del 2016 («Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»), con il quale si è ampliata la cerchia dei «prossimi congiunti» per ricomprendervi i soggetti uniti civilmente e non anche i conviventi di fatto.
A tal proposito, la dottrina ha osservato che quella compiuta dal legislatore delegato del 2017 nell’ammodernare il concetto di prossimità con il riferimento alla sola parte dell’unione civile, è stata una scelta ben precisa – e non una svista involontaria – derivante dal limitato oggetto della delega legislativa, che non lasciava all’esecutivo alcun margine per includere anche i conviventi more uxorio nell’articolo 307, comma 4, cod. pen.
Ritiene, pertanto, il Collegio che il rilevato contrasto giurisprudenziale – che esplicita l’emersione di questioni che coinvolgono lo stesso esercizio della funzione nomofilattica in rapporto ai relativi presupposti, contenuti e limiti – impone appunto di sottoporre alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: « se l’ipotesi di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen. sia applicabile al convivente more uxorio».
2020
Il 26 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.5268 alla cui stregua la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite del defunto, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto.
Tra essi, anche la durata delle (eventuali) convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale.
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Il 18 marzo esce la sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila alla cui stregua, in tema di separazione personale dei coniugi, la convivenza stabile e continuativa, intrapresa con altra persona, è suscettibile di comportare la cessazione o l’interruzione dell’obbligo di corresponsione di mantenimento che grava sull’altro, dovendosi presumere che le disponibilità economiche di ciascuno dei conviventi “more uxorio” siano messe in comune nell’interesse del nuovo nucleo familiare.
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Il 22 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8029, che – sul crinale della filiazione – nega ad una coppia omosessuale, composta da due madri unite in unione civile, la possibilità di riconoscere congiuntamente il figlio nato in Italia ma precedentemente concepito all’estero tramite il ricorso alla procreazione medicalmente assistita eterologa, portata avanti con l’apporto biologico di una sola delle due donne ma con il consenso dell’altra, in quanto in contrasto con le previsioni dell’art. 4 della legge n. 40/2004.
La Corte premette che l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore ricorre, secondo la giurisprudenza di legittimità, soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla relativa competenza.
Tale vizio non è ravvisabile per la Corte nel decreto impugnato che, nel dichiarare ammissibile il riconoscimento di un minore nato da una donna unita civilmente ad un’altra donna come figlio naturale di entrambe, nonostante l’assenza di un legame biologico con una di esse, ha fornito, a sostegno di tale conclusione, un’interpretazione costituzionalmente orientata della L. n. 40 del 2004, secondo cui la violazione del divieto di applicare tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie omosessuali non comporta l’esclusione di ogni rapporto tra il minore ed il convivente del genitore che abbia prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche, dovendosi ritenere prevalenti l’interesse del minore al riconoscimento dello status filiationis ed il relativo diritto alla bigenitorialità, realizzabile anche nello ambito delle unioni omosessuali, quali formazioni sociali idonee a consentire il libero sviluppo della personalità umana.
In quanto ancorato a precisi indici normativi e puntuali richiami giurisprudenziali, tale percorso argomentativo, indipendentemente dalla relativa condivisibilità, consente di escludere che la Corte d’appello abbia ecceduto nel caso di specie i limiti del proprio potere giurisdizionale, risultando piuttosto difficile distinguere, nell’ambito del predetto ragionamento, gli aspetti prettamente interpretativi da quelli eventualmente creativi, la cui estraneità all’esercizio della giurisdizione dev’essere peraltro valutata anche alla luce del margine di creatività intrinsecamente proprio dell’attività ermeneutica: è noto d’altronde che alla figura dell’eccesso di potere per sconfinamento nella sfera di attribuzioni del legislatore la Corte ha riconosciuto una portata eminentemente teorica ed astratta, escludendone la configurabilità allorquando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la regula juris applicabile al caso concreto attraverso la ricostruzione della voluntas legis, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un error in judicando (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).
Procedendo nel proprio iter motivazionale, per la Corte è opportuno premettere che nella fattispecie in esame non possono trovare applicazione i principi enunciati in una recente sentenza, con cui le Sezioni Unite hanno dichiarato inammissibile il riconoscimento dell’efficacia nel nostro ordinamento di un provvedimento giurisdizionale straniero avente ad oggetto l’accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale cittadino italiano, affermando che tale riconoscimento trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
L’atto di nascita del quale è stata chiesta la rettificazione nel presente giudizio riguarda infatti – rammenta la Corte – un minore in possesso della cittadinanza italiana, in quanto nato in Italia da una donna cittadina italiana, e la modifica richiesta consiste nell’attribuzione della qualità di genitore ad un’altra donna, anch’essa in possesso della cittadinanza italiana, legata da unione civile alla madre del minore: la fattispecie deve ritenersi pertanto assoggettata interamente alla disciplina dell’ordinamento italiano, non presentando alcun elemento di estraneità rispetto allo stesso, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, per stabilire se nella decisione della controversia possa darsi ingresso a norme o istituti appartenenti ad altri ordinamenti.
Nessun rilievo può assumere, in proposito, la circostanza, risultante dal decreto impugnato, che il minore, pur essendo venuto al mondo in Italia, sia stato concepito in Spagna, a seguito del consenso ivi prestato dalla genitrice intenzionale alla sottoposizione della convivente a tecniche di procreazione medicalmente assistita: ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 33, lo stato di figlio è infatti determinato dalla legge nazionale di quest’ultimo, o, se più favorevole, da quella dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino al momento della nascita, restando pertanto inifluenti il luogo e le modalità del concepimento.
Non merita dunque accoglimento per la Corte la richiesta di rimessione della causa alle Sezioni Unite, avanzata dal Pubblico Ministero per l’ipotesi in cui la ridetta Corte avesse ritenuto di non dover recepire la nozione di ordine pubblico risultante dalla sentenza citata, al fine di ottenere l’esclusione dell’applicabilità della legge straniera, la cui inoperatività è invece ricollegabile all’applicazione delle norme ordinarie di diritto internazionale privato.
Ciò posto, non può condividersi per il Collegio l’interpretazione della L. n. 40 del 2004, fornita dal decreto impugnato, secondo cui il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie dello stesso sesso, in violazione di quanto disposto dall’art. 5, comporterebbe esclusivamente l’irrogazione della sanzione amministrativa comminata dall’art. 12, comma 2, a carico di chi ne abbia fatto applicazione, ma non escluderebbe l’operatività dell’art. 8, in virtù del quale il nato potrebbe acquistare lo stato di figlio riconosciuto non solo del partner che lo ha messo al mondo, ma anche di quello che, pur non avendo fornito alcun apporto biologico, sia stato parte integrante del progetto di assunzione della responsabilità genitoriale, per aver prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche.
Lo stesso decreto impugnato pone in risalto le scelte di fondo sottese alla disciplina in esame, consistenti da un lato nell’escludere il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e dall’altro nello assoggettare a precisi requisiti soggettivi ed oggettivi l’accesso alle altre tecniche.
Il primo principio, originariamente enunciato in termini assoluti dall’art. 4, ha subito un parziale temperamento per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno dichiarato illegittima la predetta disposizione nella parte in cui estendeva il divieto del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche alle coppie alle quali fosse stata diagnosticata una patologia che fosse causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili ed alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili.
Il secondo principio, rimasto invece invariato, trova a propria volta espressione nell’art. 5, il quale consente l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto alle coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, nell’art. 6, il quale subordina l’utilizzazione delle predette tecniche al consenso informato di entrambi i richiedenti, e nell’art. 10, il quale riserva la realizzazione degli interventi in questione alle strutture pubbliche o a strutture private autorizzate.
L’osservanza di tali principi è presidiata dall’art. 12, il quale eleva al rango d’illeciti amministrativi le relative violazioni, prevedendo sanzioni pecuniarie a carico di chiunque, a qualsiasi titolo, utilizzi a finii procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente (comma 1) o applichi tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie prive dei requisiti soggettivi prescritti dall’art. 5 (comma 2) o senza aver raccolto il consenso secondo le modalità prescritte (comma 4) o presso strutture diverse da quelle autorizzate (comma 5), ma escludendo la punibilità dell’uomo o della donna ai quali siano state applicate le tecniche in esame (comma 8).
Il sistema trova poi il proprio completamento nell’art. 8, che attribuisce ai nati lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle predette tecniche, e nell’art. 9, che, oltre a stabilire il divieto dell’anonimato per la madre biologica, esclude, in caso di violazione del divieto di ricorrere a tecniche di tipo eterologo, la facoltà del coniuge o del convivente il cui consenso sia ricavabile da atti concludenti di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o d’impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità, precludendo inoltre al donatore dei gameti l’acquisizione di qualsiasi relazione parentale con il nato.
E’ proprio l’esame degli artt. 8 e 9, ritenuto idoneo ad evidenziare la prevalenza dell’interesse del nato ad una genitorialità completa, e quindi al riconoscimento di uno status filiationis corrispondente al complessivo esito dell’evento intenzionale dei genitori, ad aver indotto la Corte territoriale ad affermare che l’illegittimità della condotta dei coniugi o dei conviventi, che abbiano prestato il proprio consenso all’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita in assenza dei requisiti oggettivi o soggettivi prescritti dalla legge, non consente di escludere l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il minore messo al mondo da uno di essi e l’altro convivente, pur in assenza di un rapporto biologico tra gli stessi; e tale conclusione è stata ritenuta estensibile anche all’ipotesi in cui la nascita del minore costituisca il risultato dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo effettuata su richiesta di una coppia omosessuale, in virtù dell’orientamento ormai prevalente nella coscienza sociale e giuridica, che ravvisa nelle unioni omosessuali formazioni sociali idonee a favorire il libero sviluppo della persona, e del conseguente diritto delle predette coppie a realizzare in tali unioni un progetto di genitorialità condivisa.
La tesi in esame costituisce indubbiamente il portato delle citate pronunce d’incostituzionalità, che, introducendo un limite al divieto assoluto del ricorso a tecniche di tipo eterologo, hanno reso configurabili nel nostro ordinamento ipotesi di genitorialità svincolate da un rapporto biologico con il nato, in tal modo aprendo la strada ad un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale riguardante la possibilità di riconoscere la sussistenza di un rapporto di filiazione anche nei confronti di coppie che abbiano fatto ricorso alle predette tecniche non perché affette cita sterilità o infertilità patologiche o da malattie genetiche trasmissibili, ma perché fisiologicamente incapaci di generare o per l’età avanzata o per difetto di complementarità biologica dei componenti.
La predetta tematica – prosegue il Collegio – è stata affrontata dalla Corte costituzionale in una recente pronuncia, con la quale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 12, nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, essa ha precisato la portata ed i limiti dei precedenti interventi, in tal modo pervenendo all’esclusione da un lato della possibilità di ravvisarvi una generalizzata legittimazione del ricorso alle predette tecniche, dall’altro dell’utilizzabilità delle stesse per la soddisfazione delle aspirazioni genitoriali delle coppie omosessuali.
Ha infatti osservato che le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, pur avendo comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, hanno lasciato inalterate le coordinate di fondo della predetta legge, costituite dalla configurazione di tali tecniche come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e dall’intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre.
Premesso che l’ammissione delle coppie omosessuali alla procreazione medicalmente assistita richiederebbe la sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le linee guida della relativa disciplina, la Consulta ha rilevato che quest’ultima non presenta alcuna incongruenza interna, non essendo l’infertilità fisiologica della coppia omosessuale omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive.
Pur confermando che nella nozione di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost., rientra anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso, ha ricordato che, come già affermato nella sentenza n. 162 del 2014, la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, ribadendo che il riconoscimento della libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale libertà possa esplicarsi senza limiti.
Precisato inoltre che la possibilità, dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone il problema di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque, ovvero se sia giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate, soprattutto in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del nato, ha affermato che il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un equilibrio tra le diverse istanze, tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi allo interno del tessuto sociale nel singolo momento storico, spetta in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale.
In proposito, sempre la Corte costituzionale ha rilevato – rammenta ancora il Collegio – che la scelta espressa dalle disposizioni censurate non eccede il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce nella materia in esame, non potendosi per un verso considerare irrazionale ed ingiustificata la preoccupazione di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato, e dovendosi per altro verso escludere, pur a fronte di soluzioni di segno diverso, l’arbitrarietà o l’irrazionalità dell’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato, e ciò indipendentemente dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale o della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019; al riguardo, v. anche sent. n. 237 del 2019).
La perdurante operatività, emergente dalle predette considerazioni, delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, confermando da un lato la piena vigenza del divieto di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, salvi i casi d’infertilità patologica o di malattie genetiche trasmissibili, dall’altro l’esclusione della possibilità di avvalersi delle predette tecniche per la realizzazione di forme di genitorialità svincolate dal rapporto biologico tra il nascituro ed i richiedenti, si pone in radicale contrasto con l’interpretazione sistematica prospettata dal decreto impugnato, secondo cui sarebbero proprio le norme in esame a consentire, anche al di fuori dei predetti casi, l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, e ciò in ossequio alla preminenza dell’interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita.
Non può condividersi, in particolare, il tentativo di astrarre il disposto dell’art. 9, dal contesto in cui è collocato, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtù del quale, ai fini dell’instaurazione del relativo rapporto, può considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall’adesione ad un comune progetto genitoriale.
Se è vero infatti, prosegue il Collegio, che lo sviluppo scientifico e tecnologico ha reso possibili forme di procreazione svincolate dall’atto sessuale, è anche vero però che l’intera disciplina del rapporto di filiazione, così come delineata dal codice civile, rimane tuttora saldamente ancorata alla necessità di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d’inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice.
In tal senso depongono chiaramente l’art. 269, comma 3, il quale identifica la madre con la donna che ha partorito colui che si pretende essere figlio, l’art. 231, in virtù del quale il marito si presume padre del figlio concepito o nato in costanza di matrimonio, l’art. 243-bis, che richiede l’esercizio di un’apposita azione per dimostrare l’insussistenza del rapporto di filiazione, l’art. 250, che attribuisce la legittimazione a riconoscere il figlio nato fuori del matrimonio alla madre o al padre, l’art. 263, che consente l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, l’art. 269, che consente di ottenere giudizialmente la dichiarazione di paternità o maternità nei casi in cui è ammesso il riconoscimento.
La stessa Corte costituzionale, rammenta ancora il Collegio, pur avendo posto in risalto la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori, ha d’altronde riconosciuto che tale valore dev’essere bilanciato con altri valori costituzionalmente protetti, soprattutto quando, come nella specie, si discuta della scelta di ricorrere a tecniche che, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost. (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019, cit.), oltre a quella del codice civile.
In contrario, non appare sufficiente il richiamo del decreto impugnato alla disciplina delle unioni civili ed agli orientamenti da tempo affermatisi nella giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, che riconoscono i diritti delle coppie omosessuali ed escludono la legittimità di condotte ingiustificatamente discriminatorie nei confronti delle stesse, ravvisando in tali unioni un fenomeno meritevole di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost., quali formazioni sociali idonee a consentire il pieno dispiegamento della personalità umana: il riconoscimento, ormai ampiamente diffuso nella coscienza sociale, della capacità delle coppie omosessuali di accogliere, crescere ed educare figli, che ha condotto a ritenere ammissibile l’adozione del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore biologico, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d), (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962), nonché la trascrizione dell’atto di nascita validamente formato all’estero dal quale risulti che il nato è figlio di due donne (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599), non implica infatti lo sganciamento della filiazione dal dato biologico, né giustifica la prospettazione di un meccanismo d’instaurazione del relativo rapporto alternativo a quello fondato su tale dato, non dovendo la predetta genitorialità esprimersi necessariamente nelle medesime forme giuridiche previste per il figlio nato dal matrimonio o riconosciuto, a condizione, ovviamente, che al minore accolto dalla coppia omosessuale sia assicurata una tutela comparabile a quella garantita a quest’ultimo.
Non è un caso d’altronde, prosegue la Corte, che la L. n. 76 del 2016, nel dettare la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, si sia limitata a far salvo “quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” (art. 1, comma 20), senza richiamare in alcun modo la disciplina della procreazione medicalmente assistita, rimasta immodificata a seguito di tale intervento normativo.
L’esclusione della possibilità di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l’instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il partner del genitore biologico al consenso da quest’ultimo prestato all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, non contrasta in alcun modo neppure con la giurisprudenza della Corte EDU: quest’ultima, infatti, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia; 28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalità esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria).
Quanto poi all’interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia).
La predetta violazione non è pertanto configurabile nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale nè l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
Può quindi concludersi per il Collegio che il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3 e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto.
Tale conclusione non si pone in alcun modo in contrasto con i precedenti della Corte che hanno riconosciuto l’efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di nascita formato all’estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, è figlio di due persone dello stesso sesso, ancorché una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l’una fornito l’ovulo per la fecondazione e l’altra provveduto alla gestazione, è sufficiente rilevare che il riconoscimento dell’atto straniero non fa venir meno l’estraneità dello stesso all’ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti, così come previsti e regolati dall’ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l’ordine pubblico.
Tale compatibilità, com’è noto, dev’essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonché del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).
La nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell’efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri è più ristretta di quella rilevante nell’ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non può quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall’atto di nascita formato all’estero e l’esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev’essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento.
Tale disparità di trattamento – prosegue la Corte – non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi, la cui diversità, pur rendendo possibili condotte elusive della più restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per sé causa d’illegittimità costituzionale di quest’ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019).
L’esclusione dell’ammissibilità del riconoscimento consente poi di ritenere legittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla ricezione della dichiarazione di riconoscimento del minore come figlio naturale delle due donne, o comunque come figlio naturale della donna che si è limitata a prestare il proprio consenso alla fecondazione eterologa, trovando tale provvedimento giustificazione nel disposto del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 42, che, subordinando il riconoscimento alla dimostrazione dell’insussistenza di motivi ostativi legalmente previsti, consente di escluderne l’operatività nella ipotesi in cui, come nella specie, la costituzione del rapporto di filiazione trovi ostacolo nella disciplina legale della procreazione medicalmente assistita.
Il decreto impugnato – conclude la Corte – va pertanto cassato, in applicazione del principio enunciato, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda.
* * *
Il 23 aprile esce la sentenza del Tribunale di Trani onde il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio“.
Ciò a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima, siccome assimilabile al rapporto coniugale.
In proposito, per il Tribunale ai fini dell’individuazione degli elementi identificativi della convivenza di fatto, se la coabitazione costituisce un indice rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita (parimenti) comune, essa non è tuttavia ritenuta un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, sia determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza.
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Il 10 giugno esce la sentenza della I sezione del Tribunale di Velletri onde la convivenza “more uxorio“, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare.
Ne consegue per il Tribunale che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta da terzi e finanche dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio.
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Il 12 giugno esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 11303 stando alla quale, nell’ambito del rapporto di convivenza “more uxorio“, il termine di prescrizione dell’azione di ingiustificato arricchimento decorre non dai singoli esborsi, bensì dalla cessazione della convivenza.
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Il 17 giugno esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3896 alla cui stregua va assunto illegittimo il provvedimento dell’Amministrazione che abbia rigettato la richiesta di trasferimento ex art. 398 del regolamento generale dell’Arma per il ricongiungimento dell’istante con la compagna convivente more uxorio laddove motivato con riguardo alla sola circostanza – evidentemente ritenuta decisiva – della inesistenza di un unione matrimoniale fra il militare e la compagna.
L’equiparazione, ai fini del profilo di specie, al rapporto matrimoniale e all’unione civile della stabile convivenza di fatto, attestata da certificazioni anagrafiche, appare al Collegio del tutto coerente con la giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, ferma restando la discrezionalità del Parlamento nell’individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni affettive diverse da quella matrimoniale, si è riservata la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni con il controllo di ragionevolezza, come infatti più volte è avvenuto per le convivenze more uxorio.
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Il 27 luglio esce la sentenza della I sezione della Corte d’Appello di Ancona alla cui stregua – ai fini dell’accertamento dell’esistenza della convivenza “more uxorio“, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – i requisiti della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi devono essere ricavati dal complesso degli indizi da valutarsi non già atomisticamente, quanto piuttosto nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno, quand’anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, potrebbe rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento.
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Il 4 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.230 che – ancora una volta in tema di filiazione – dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) e dell’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24, paragrafo 3, della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, dal Tribunale ordinario di Venezia.
Preliminarmente, per la Corte va confermata l’allegata ordinanza, con la quale è stata esclusa l’ammissibilità dell’intervento dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, poiché titolare di meri interessi indiretti e generali correlati ai relativi scopi statutari e non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale.
Sempre in via preliminare, va per la Corte esaminata l’eccezione di inammissibilità, formulata dalle parti costituite, per adombrata carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata motivazione in ordine alla esclusa possibilità di addivenire ad una interpretazione delle norme denunciate conforme a Costituzione.
L’eccezione per il Collegio non è fondata, il rimettente non avendo mancato di prendere in considerazione la praticabilità di una «via ermeneutica alla tutela» richiesta dalle ricorrenti. Ma è poi pervenuto ad escluderla per l’ostacolo, a relativo avviso non superabile, rinvenibile nella lettera (in particolare nell’incipit) dell’art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016, oltre che nella preclusione normativa all’accesso delle coppie dello stesso sesso alla procreazione medicalmente assistita. E tanto basta, poiché attiene al merito, e non più all’ammissibilità della questione, la condivisione o meno del presupposto interpretativo della normativa censurata (da ultimo, sentenze n. 32 e n. 11 del 2020, n. 189, n. 187 e n. 179 del 2019).
Nel merito, per la Corte è, in primo luogo, comunque esatta la premessa esegetica da cui muove il giudice a quo. È pur vero che, come sostengono le due ricorrenti, la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi: PMA) è legata anche al “consenso” prestato, e alla “responsabilità” conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa.
Ciò, infatti, si desume sia dall’art. 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) – per cui, appunto, i nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di «figli nati nel matrimonio» o di «figli riconosciuti» della coppia che questo percorso ha avviato – sia dal successivo art. 9 che, con riguardo alla fecondazione di tipo eterologo, coerentemente stabilisce che il «coniuge o il convivente» (della madre naturale), pur in assenza di un relativo apporto biologico, non possa, comunque, poi esercitare l’azione di disconoscimento della paternità né l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
Ma – soggiunge la Corte – occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso», atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Tanto è espressamente disposto dall’art. 5 della citata legge n. 40 del 2004: norma della quale non è possibile l’interpretazione adeguatrice pretesa dalle ricorrenti medesime.
Con la recente sentenza n. 221 del 2019, la Corte – nel respingere le censure di illegittimità costituzionale rivolte al predetto art. 5 e all’art. 12, commi 2, 9 e 10, nonché agli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, per asserito contrasto con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 11, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, e con altre disposizioni sovranazionali – rammenta di avere, tra l’altro, affermato che «[l]’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è […] fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale».
Ha, inoltre, ricordato come in questo senso si sia espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Con la successiva sentenza n. 237 del 2019, sempre la Corte ha altresì affermato che ad opposte conclusioni neppure può poi condurre la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto «[d]al rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante».
E ancor più di recente – rammenta il Collegio – la Corte di legittimità, in una fattispecie analoga a quella oggetto del procedimento a quo, ha, a sua volta, ribadito che non può essere accolta la domanda di rettificazione dell’atto di nascita di un minore nato in Italia, mediante l’inserimento del nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica, sebbene la prima avesse in precedenza prestato il proprio consenso alla pratica della procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero, poiché nell’ordinamento italiano vige, per le persone dello stesso sesso, il divieto di ricorso a tale tecnica riproduttiva (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 3 aprile 2020, n. 7668).
Resiste dunque a censura per la Corte l’affermazione assunta in premessa dal rimettente, che lo induce a chiedere alla Corte stessa se «l’attuale impossibilità di indicare due madri unite civilmente nell’atto di nascita formato in Italia» violi o meno, «sia per gli adulti che per il nato», i parametri evocati.
In realtà, i precetti di cui agli artt. 2, 3, 30 Cost. e i parametri europei e convenzionali, congiuntamente richiamati attraverso l’intermediazione dell’art. 117, primo comma, Cost., così come non consentono l’interpretazione adeguatrice della normativa censurata – alla quale lo stesso rimettente esclude di poter pervenire – allo stesso modo neppure, però, ne autorizzano per la Corte la reductio ad legitimitatem, nel senso dell’auspicato «riconoscimento delle donne omosessuali civilmente unite quali genitori del nato da fecondazione eterologa praticata dall’una con il consenso dell’altra».
Ed invero, la scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016 – quella, cioè, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare» – sottende l’idea, «non […] arbitraria o irrazionale», che «una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il “luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato» (sentenza n. 221 del 2019). E tale scelta non viola gli artt. 2 e 30 Cost., per i profili evidenziati dal giudice a quo, perché l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.
A propria volta, prosegue la Corte, l’art. 30 Cost. «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] non implica che […] possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, «con altri interessi costituzionalmente protetti: […] particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico» (sentenza n. 221 del 2019).
Quanto poi al prospettato vulnus all’art. 3 Cost., è pur vero che la giurisprudenza, anche di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenze 15 giugno 2017, n. 14878 e 30 settembre 2016, n. 19599), ammette il riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione nei confronti di “due madri”, ma, come è stato già rilevato, «[l]a circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia» (sentenza n. 221 del 2019).
Né diversamente rilevano, infine, le richiamate fonti europee, poiché sia la Carta di Nizza sia la CEDU, in materia di famiglia, rinviano in modo esplicito alle singole legislazioni nazionali e al rispetto dei principi ivi affermati.
E, in particolare, la giurisprudenza della Corte EDU ha affermato in più occasioni che, nelle materie che sottendono delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; grande camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria).
Nello stesso senso la Corte EDU ha recentemente chiarito che gli Stati non sono tenuti a registrare i dettagli del certificato di nascita di un bambino nato attraverso la maternità surrogata all’estero per stabilire la relazione legale genitore-figlio con la madre designata: l’adozione può anche servire come mezzo per riconoscere tale relazione, purché la procedura stabilita dalla legislazione nazionale ne garantisca l’attuazione tempestiva ed efficace, nel rispetto dell’interesse superiore del minore (grande camera, parere 10 aprile 2019).
A medesime conclusioni deve pervenirsi con riguardo al diritto alla genitorialità di cui alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, diritto che è riconosciuto non già in termini assoluti, ma solo ove corrisponda al migliore interesse per il minore (best interest of the child).
Se dunque, prosegue il Collegio il riconoscimento della omogenitorialità, all’interno di un rapporto tra due donne unite civilmente, non è imposto dagli evocati precetti costituzionali, vero è anche che tali parametri neppure sono chiusi a soluzioni di segno diverso, in base alle valutazioni che il legislatore potrà dare alla fenomenologia considerata, non potendosi escludere la «capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali» (sentenza n. 221 del 2019).
Non privo di rilievo, in questa prospettiva, è poi il fatto che, ai fini della (ammessa) trascrivibilità in Italia di certificati di nascita formati all’estero, l’annotazione sugli stessi di una duplice genitorialità femminile è stata riconosciuta, dalla ricordata giurisprudenza, non contraria a principi di ordine pubblico, secondo le disposizioni di diritto internazionale privato (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193; oltre alle già citate sentenze n. 14878 del 2017 e n. 19599 del 2016).
L’obiettivo auspicato dal Tribunale di Venezia, quanto al riconoscimento del diritto ad essere genitori di entrambe le donne unite civilmente, ex lege n. 76 del 2016, non è, pertanto, come detto, raggiungibile attraverso il sindacato di costituzionalità della disposizione di segno opposto, recata dalla legge stessa e da quella del collegato d.P.R. n. 396 del 2000.
Esso è, viceversa, perseguibile per via normativa, implicando una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente «attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre […] il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016), donde l’inammissibilità, per tal profilo, della pertinente questione.
Questione che è posta peraltro, rammenta la Corte, anche sotto un altro, connesso e parallelo profilo, che è quello relativo al vulnus che si assume arrecato all’interesse del minore, nel caso concreto in cui una delle due donne civilmente unite abbia (sia pur in violazione del divieto sub art. 5 della legge n. 40 del 2004), con il consenso dell’altra, portato a termine, all’estero, un percorso di fecondazione eterologa, da cui sia poi nato, in Italia, quel minore.
Per questo secondo aspetto, la giurisprudenza ha già preso in considerazione l’interesse in questione, ammettendo l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia). In questa chiave, «si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962)» (sentenza n. 221 del 2019).
Una diversa tutela del miglior interesse del minore, in direzione di più penetranti ed estesi contenuti giuridici del relativo rapporto con la “madre intenzionale”, che ne attenui il divario tra realtà fattuale e realtà legale, è ben possibile, ma le forme per attuarla attengono ancora una volta, conclude la Corte, al piano delle opzioni rimesse alla discrezionalità del legislatore.
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Il 13 novembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.25656 onde la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite del defunto, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei rispettivi matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto.
Tra questi, per il Collegio va annoverata la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale (Cass. n. 26358 del 07/12/2011).
Vanno poi ponderati ulteriori elementi, quali l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due aventi diritto e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali (Cass. n. 16093 del 21/09/2012), senza mai confondere, però, la durata della convivenza con quella del matrimonio, cui si riferisce il criterio legale, né individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso.
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Il 26 novembre viene pubblicata l’informazione provvisoria n.22 delle SSUU penali della Cassazione, che avvisa come sia stato deciso – salva successiva pubblicazione del pertinente iter motivazionale – che la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, del Codice penale è applicabile al convivente more uxorio.
Nella nota le SU precisano di avere dunque risposto affermativamente alla questione controversa ad esse sottoposta, concernente – per l’appunto – l’applicabilità, anche al convivente di fatto, della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p., prevista per i casi di cui agli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378 – e quindi dei reati di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, omessa denuncia aggravata, omessa denuncia di reato da parte del cittadino, omissione di referto, rifiuto di uffici legalmente dovuti, autocalunnia, false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, frode processuale e favoreggiamento personale – per chi abbia commesso il fatto essendovi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
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Nell’ordine delle questioni introdotte dal ricorso – afferma in incipit il Collegio – viene in valutazione per il relativo rilievo quella relativa alla disciplina da riservarsi all’assegno di divorzio là dove il coniuge che ne benefici abbia instaurato una convivenza con un terzo, dovendosi, partitamente, stabilire se l’effetto estintivo previsto dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 10, nel caso di nuove nozze del beneficiario trovi applicazione, e per quali contenuti e limiti, nella distinta ipotesi della famiglia di fatto.
La questione sottesa all’illustrato motivo rientra tra quelle di massima di particolare importanza, a norma dell’art. 374 c.p.c., comma 2, offrendo essa occasione, ritiene il Collegio, per rimeditare, rimodulandolo nella soluzione da offrirsi, l’indirizzo più recentemente formatosi nella giurisprudenza di legittimità, da cui la Corte dissente, sull’incidenza che l’instaurazione della convivenza di fatto con un terzo ha sul diritto dell’ex coniuge, economicamente più debole, all’assegno di divorzio.
Appare pertanto necessario investire della questione il Primo Presidente perché valuti l’opportunità di rimetterne l’esame alle Sezioni Unite, puntualizzandosi sin d’ora che poiché l’esame del primo motivo, e la relativa definizione, non incide sulla necessità di esame del secondo, questo si vuole anticipare nella trattazione ai soli fini della remissione indicata, impregiudicata – qualunque sia l’esito della questione rimessa – la definizione sia del primo che dei restanti motivi, siano essi esaminati dalle Sezioni Unite o restituiti alla Prima sezione.
Nell’orientamento di più recente affermazione della Corte, che ha trovato applicazione nella sentenza dei giudici di appello di cui al caso di specie, si attribuisce – rammenta il Collegio – dignità piena alla famiglia di fatto che, in quanto stabile e duratura, è da annoverarsi tra le formazioni sociali in cui l’individuo libero e consapevole nella scelta di darvi corso, svolge, ex art. 2 Cost., la propria personalità (Cass. 03/04/2015 n. 6855 ripresa nelle sue affermazioni da Cass. 08/02/2016 n. 2466 e su cui vd. pure: Cass. 12/11/2019 n. 29317 e Cass. 16/10/2020 n. 22604).
In applicazione del principio dell’auto-responsabilità, la persona mette in conto quale esito della scelta compiuta, con il rischio di una cessazione della nuova convivenza, il venir meno dell’assegno divorzile e di ogni forma di residua responsabilità post-matrimoniale, rescindendosi attraverso la nuova convivenza ogni legame con la precedente esperienza matrimoniale ed il relativo tenore di vita.
L’automatismo degli effetti estintivi resta, d’altra parte, mediato e contenuto dall’accertamento operato in sede giudiziale circa i caratteri della famiglia di fatto, in quanto formazione stabile e duratura, e, ancora, in ragione della solidarietà economica che si realizza tra i componenti di quest’ultima.
Le ragioni di un ripensamento dell’indicato orientamento vengono, nell’apprezzamento del Collegio, da un completo scrutinio del canone dell’auto-responsabilità sorretto dalla necessità dell’interprete di individuarne a pieno il portato applicativo, anche per quelli che ne sono i corollari.
Nel dare disciplina agli aspetti economico-patrimoniali che conseguono alla pronuncia di divorzio, il principio di autoresponsabilità si trova ad operare non soltanto per il futuro, chiamando gli ex coniugi che costituiscano con altri una stabile convivenza a scelte consapevoli di vita e a conseguenti assunzioni di responsabilità e ciò, anche, a detrimento di pregresse posizioni di vantaggio di cui il nuovo stabile assetto di vita esclude una permanente ed immutata redditività.
Il medesimo principio – chiosa ancora il Collegio – lavora anche, per così dire, per il tempo passato e come tale sul fronte dei presupposti del maturato assegno divorzile là dove di questi, nel riconosciuto loro composito carattere come da SU n. 18287 del 2018, si individua la funzione compensativa.
Rimarcando di quest’ultima il rilievo, va colta l’esigenza, piena, di dare dell’assegno divorzile una lettura che, emancipandosi da una prospettiva diretta a valorizzare del primo la natura assistenziale, segnata dalla necessità per il beneficiario di mantenimento del pregresso tenore di vita matrimoniale, resta invece finalizzata a riconoscere all’ex coniuge, economicamente più debole, un livello reddituale adeguato al contributo fornito all’interno della disciolta comunione; nella formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’altro coniuge.
Nel ridefinire i parametri di attribuzione dell’assegno divorzile, la Corte rammenta di essersi fatta in tal modo portatrice di una peculiare declinazione del principio dell’auto-responsabilità che, intesa ad apprezzare il carattere eccedente, rispetto alle finalità altrimenti assolte, dell’esigenza che l’assegno operi per il mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, contiene dell’indicata posta la componente assistenziale ma non, invece, quella perequativo-compensativa, che ne viene, anzi, esaltata.
Dopo una vita matrimoniale che si è protratta per un apprezzabile arco temporale, l’ex coniuge economicamente più debole, che abbia contribuito al tenore di vita della famiglia con personali sacrifici anche rispetto alle proprie aspettative professionali ed abbia in tal modo concorso occupandosi dei figli e della casa pure all’affermazione lavorativo-professionale dell’altro coniuge, acquista il diritto all’assegno divorzile.
Gli indicati contenuti, per i quali trova affermazione e composizione nelle dinamiche post-matrimoniali il principio di auto-responsabilità in materia di assegno della L. n. 898 del 1970, ex art. 5, comma 6 e successive modifiche, vogliono così che il beneficiario possa godere dell’assegno divorzile non solo perché soggetto economicamente più debole, ma anche per quanto da egli fatto e sacrificato nell’interesse della famiglia e dell’altro coniuge, il tutto per un percorso in cui le ragioni assistenziali nella loro autonomia perdono di forza, lasciando il posto a quelle dell’individuo e della relativa dignità.
Il principio di autoresponsabilità destinato a valere in materia per il nuovo orientamento della Corte, compendiato nelle ragioni di cui alla sentenza delle Sezioni unite n. 18287 cit., non può escludere per intero, il diritto all’assegno divorzile là dove il beneficiario abbia instaurato una stabile convivenza di fatto con un terzo.
Il principio merita una differente declinazione più vicina alle ragioni della concreta fattispecie ed in cui si combinano la creazione di nuovi modelli di vita con la conservazione di pregresse posizioni, in quanto, entrambi, esito di consapevoli ed autonome scelte della persona.
Sulla indicata esigenza, ben può ritenersi che permanga il diritto all’assegno di divorzio nella relativa natura compensativa, restando al giudice di merito, al più, da accertare l’esistenza di ragioni per un’eventuale modulazione del primo là dove la nuova scelta di convivenza si rilevi migliorativa delle condizioni economico-patrimoniali del beneficiario e tanto rispetto alla funzione retributiva dell’assegno segnata, come tale, dall’osservanza di una misura di autosufficienza.
La funzione retributivo-compensativa dell’assegno divorzile non può altrimenti risentire delle sorti del distinto istituto dell’assegno di mantenimento del coniuge separato che abbia instaurato una convivenza more uxorio con un terzo.
Vero è infatti che, in tal caso, la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto segna una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita – propri della pregressa fase di convivenza matrimoniale ed alla cui conservazione concorre l’assegno di mantenimento – ed il nuovo assetto e che su questa premessa determina il venir meno, in via definitiva, del diritto alla contribuzione periodica (Cass. 19/12/2018 n. 32871).
La differente funzione dell’assegno di mantenimento del coniuge separato lascia che permanga, nel suo rilievo, il pregresso tenore di vita matrimoniale inteso sia quale parametro cui rapportare l’assegno stesso sia quale ragione destinata ad escludere dell’indicata posta la sopravvivenza in caso di nuova convivenza di fatto dell’avente diritto.
Ancora, a definizione del quadro di riferimento con cui il Collegio dichiara di doversi confrontare nell’individuare e dare contenuto alle ragioni della sollecitata rimessiva, nessun argomento in chiave di disconoscimento o contenimento della funzione dell’assegno divorzile viene dalla disciplina della convivenza di fatto.
La L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 65, istitutiva delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e di disciplina delle convivenze di fatto, riconosce – rammenta il Collegio per quanto nel giudizio rileva – anche ai conviventi di fatto, quando la convivenza venga meno, il diritto agli alimenti ex art. 433 c.c., che è destinato a valere per la parte economicamente più debole che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, il tutto “per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’art. 438 c.c., comma 2”.
La finalità in gioco è qui, nettamente, quella assistenziale, tutta spesa sulla necessità del riconoscimento di un aiuto economico all’ex convivente e modulata sulla durata del legame per l’espresso riferimento contenuto nella norma.
Nella diversità degli interessi in rilievo, la questione della distinta sorte da riservarsi all’assegno divorzile nella instaurazione di una stabile convivenza di fatto del beneficiario, resta aperta.
La questione per cui si sollecita l’intervento delle Sezioni Unite è allora quella di stabilire se, instaurata la convivenza di fatto, definita all’esito di un accertamento pieno su stabilità e durata della nuova formazione sociale, il diritto dell’ex coniuge, sperequato nella posizione economica, all’assegno divorziale si estingua comunque per un meccanismo ispirato ad automatismo, nella parte in cui prescinde di vagliare le finalità proprie dell’assegno, o se siano invece praticabili altre scelte interpretative che, guidate dalla obiettiva valorizzazione del contributo dato dall’avente diritto al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, sostengano dell’assegno divorzile, negli effetti compensativi suoi propri, la perdurante affermazione, anche, se del caso, per una modulazione da individuarsi, nel diverso contesto sociale di riferimento.
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Il 17 dicembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.28915 che nega il diritto all’assegno divorzile alla donna che si sia costituita una nuova famiglia di fatto, stante l’acclarata condivisione di un progetto di vita con il nuovo compagno.
La giurisprudenza di legittimità – rammenta la Corte – ha già da tempo chiarito (cfr. Cass. 6855 del 2015; Cass. n. 2466 del 2016; Cass. n. 4649 del 2017; Cass. n. 2732 del 2018; Cass. n. 406 del 2019; Cass. n. 5974 del 2019) che «l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso».
Invero, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo.
Cass. n. 18111 del 2017 peraltro, precisa la Corte, ha pure precisato che non assume rilievo la successiva cessazione della convivenza di fatto intrapresa dall’ex coniuge beneficiario.
La stessa Corte, poi, ha rappresentato che, ai fini della valutazione sulla persistenza delle condizioni per l’attribuzione dell’assegno divorzile, deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità, che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente (cfr. Cass. n. 17643 del 2007; Cass. n. 17453 del 2018).
In questa prospettiva, dunque, è sufficiente che l’obbligato, che chiede l’accertamento della sopravvenuta insussistenza del diritto a percepire l’assegno mensile, dimostri l’instaurazione di una stabile convivenza dell’ex coniuge con un nuovo partner, integrando tale prova una presunzione idonea a far ritenere la formazione di una nuova famiglia di fatto e gravando, invece, sul beneficiario dell’assegno l’onere di provare che la convivenza in essere non integra nel caso concreto la formazione di una nuova famiglia (cfr. Cass. n. 17453 del 2018).
Nel caso di specie la corte distrettuale – prosegue il Collegio – dopo aver analiticamente riportato il contenuto della nuova documentazione prodotta in quella sede dal Pu.. ha affermato che:
- i) «Alla luce di tali elementi, numerosi, univoci e concordanti, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, il reclamante ha assolto pienamente all’onere probatorio su di esso incombente di dimostrare che la Si. ha ormai formato una stabile famiglia di fatto con il suo nuovo compagno. Invero, si tratta di nuova relazione di lunga durata oramai caratterizzata da una piena stabilità, che ha registrato e registra contribuzioni economiche da parte del nuovo compagno alla reclamata, la quale non soltanto trascorre da anni le sue vacante con il compagno, ma ne condivide i progetti di vita quotidiana, fermandosi a pernottare nella casa del Li.. di cui possiede le chiavi, con assoluta assiduità, rivestendo cariche sociali nelle società riconducibili al compagno e utilizzando mezzi di tali società. A fronte di ciò, la reclamata si è limitata a sostenere di non percepire redditi dalle cariche sociali che ricopre presso le società riconducibili al suo compagno e di non convivere stabilmente con il Li., avendo locato una casa d’abitazione a suo nome, dopo la revoca dell’ assegnazione della casa coniugale contenuta nel provvedimento impugnato, ove vive allorquando non si trattiene a dormire presso l’abitazione del suo compagno. Tali affermazioni, ad avviso della Corte, sono del tutto insufficienti a scalfire la prova dell’esistenza della convivenza more uxorio della Si. con il Li., fornita dal reclamante»
- ii) «… non può confondersi il concetto di coabitazione quotidiana con il concetto di convivenza more uxorio nell’accezione […] di libera formazione di un nuovo progetto di vita, costante, stabile e continuativo tra due persone, che è quello che soltanto rileva ai fini della revoca dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile»
La corte catanese. dunque, chiosa ancora il Collegio, ha descritto gli elementi istruttori che l’hanno indotta all’appena riportata conclusione, ed il corrispondente accertamento integra una valutazione fattuale, a fronte della quale la Si.. con il motivo in esame, tenta, sostanzialmente, di opporre alla ricostruzione dei fatti definitivamente sancita nella decisione impugnata una propria alternativa loro interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio motivazionale e/o di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione).
Ciò in contrasto con il granitico orientamento della Corte alla cui stregua il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. ex multis, Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
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2021
Il 25 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n. 2911 che conferma l’orientamento secondo il quale il delitto di maltrattamenti ha, quale presupposto, una relazione tra agente e vittima caratterizzata da uno stabile rapporto di affidamento e solidarietà, con la conseguenza che la condotta lesiva lede la dignità della persona infrangendo un rapporto che dovrebbe essere ispirati a fiducia e condivisione. Il reato di maltrattamenti viene riconosciuto anche in relazione a situazioni di non convivenza, ma in quanto succedute a precedente convivenza e, quindi, non nel senso di assenza di convivenza, ma di cessata convivenza. Il reato è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto, piuttosto, che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione. Pertanto, pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche in presenza di una relazione sentimentale che abbia comportato un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale o di un rapporto familiare di mero fatto, in assenza di una stabile convivenza, ma con un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza.
Il 31 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 9006 alla cui stregua, non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell’adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione.
La determinazione in parola viene assunta dalle Sezioni Unite sulla base di una serie di principi di derivazione costituzionale e convenzionale.
In particolare, viene in rilievo il principio del preminente interesse del minore nelle determinazioni che incidono sul suo diritto all’identità, alla stabilità affettiva, relazionale e familiare, contenuto nell’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, nell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e divenuto parte integrante della costruzione del diritto alla vita privata e familiare ad opera della Corte Europea dei diritti umani oltre che fondamento della riforma della L. n. 184 del 1983 ad opera della L. n. 149 del 2001 e della recente Legge sulla continuità affettiva (n. 173 del 2015) nonchè di tutta la disciplina legislativa relativa alla responsabilità genitoriale, ed agli status filiationis, essendo una delle estrinsecazioni più rilevanti dell’art. 2 Cost.
In secondo luogo, viene richiamato il principio della parità di trattamento tra tutti i figli, nati all’interno e fuori del matrimonio o adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. e che è stato inverato dalla recente riforma della filiazione (L. n. 219 del 2012; D.Lgs. n. 154 del 2013). Al riguardo, proprio in relazione alla filiazione adottiva, attualmente ripartita tra l’adozione legittimante e quella in casi particolare, deve essere rimarcata l’innovazione relativa all’art. 74 c.c. che ha reso unico, senza distinzioni, il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali, con la sola eccezione dell’adozione dei maggiorenne, così da ingenerare perplessità in dottrina sulla compatibilità costituzionale della conservazione di un regime differenziato nei diversi modelli di genitorialità adottiva nel nostro ordinamento.
Il panorama dei principi intangibili in tema di tutela degli status filiali, fortemente caratterizzato dall’obiettivo di non creare discriminazioni nel regime giuridico di tutela dei minori si completa, inoltre, con la considerazione che la giurisprudenza costituzionale e la giurisprudenza di legittimità che si sono trovate fin dagli anni 90 a confrontarsi con le richieste di costituzione di status genitoriali adottivi da parte di soggetti diversi dalle coppie coniugate eterosessuali, hanno unanimemente riconosciuto l’esigenza di ampliare le condizioni di accesso all’adozione legittimante ed hanno sollecitato il legislatore al riguardo, ritenendo che ciò corrispondesse non solo ad una sensibilità condivisa ma anche alle indicazioni della Convenzione sulle adozioni firmata a Strasburgo il 24/4/1967 che impone di trovare per il minore un “foyer stable et harmonieux”.
Infine, in tempi più recenti in relazione alle istanze delle coppie omoaffettive rivolte alla realizzazione della genitorialità all’interno di un nucleo relazionale stabile e prevalentemente sostenuto da un riconoscimento giuridico in Italia od all’estero è stata individuata proprio nel modello adottivo indicato nella L. n. 184 del 1983, art. 44, lett. d) la forma di riconoscimento minimo e residuale anche per i minori venuti al mondo all’esito di un accordo di surrogazione di maternità.
Alla forte promozione della giurisprudenza costituzionale, sovranazionale e di legittimità di un regime giuridico interno di accesso alla genitorialità sociale meno restrittivo e più vicino alla evoluzione condivisa dei modelli relazionali e filiali, secondo le Sezioni Unite, si collega indissolubilmente il superamento, sotto il profilo dei principi di ordine pubblico internazionale, della limitazione alla coppia eterosessuale unita in matrimonio dell’accesso all’adozione legittimante stabilita nell’art. 6. L’unione matrimoniale così come prevista nell’art. 29 Cost. costituisce il modello di relazione familiare fornito, allo stato attuale della regolazione interna, del massimo grado di tutela giuridica ma in relazione agli status genitoriali non costituisce più, soprattutto dopo la riforma della filiazione, il modello unico o quello ritenuto esclusivamente adeguato per la nascita e la crescita dei figli minori e conseguentemente deve escludersi che possa essere ritenuto un limite al riconoscimento degli effetti di un atto che attribuisce la genitorialità adottiva ad una coppia omoaffettiva, peraltro unita in matrimonio, tanto più che in relazione alla genitorialità sociale l’imitatio naturae manca ab origine ed è ampiamente compensata dalle ragioni solidaristiche dell’istituto e, con riferimento al minore, dalla realizzazione, da assoggettarsi a verifica giurisdizionale, del processo di sviluppo personale e relazionale più adeguato alla sua crescita.
Il 14 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 98 che dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del c.p.p, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. In particolare, nel caso di specie, l’imputato era stato chiamato a rispondere del delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, primo e secondo comma, del c.p.. In esito al dibattimento, il rimettente aveva ritenuto di dover riqualificare i fatti contestati – immutati nella loro materialità – nella diversa e più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 c.p.. Avendo prospettato alla difesa dell’imputato tale possibile riqualificazione, e avendo il difensore chiesto – a fronte di tale modifica in iure – di essere ammesso al rito abbreviato, il rimettente aveva sollevato le questioni di legittimità costituzionale, aventi ad oggetto la disposizione del codice di procedura penale – l’art. 521, comma 1 – che consente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto così come diversamente qualificato. Nella pronuncia in parola, la Corte Costituzionale afferma che la riqualificazione – da atti persecutori aggravati a maltrattamenti in famiglia – dei fatti contestati all’imputato costituisce il presupposto logico che condiziona l’applicazione nel giudizio della disposizione, della cui legittimità costituzionale si era dubitato. Secondo la Suprema Corte, tuttavia, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente ha omesso di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 c.p.., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta). Il divieto di analogia non consente, infatti, di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.
Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce, secondo la Corte, il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale: corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti, nonché tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione. La ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.
Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati. Tale imperativo mira anch’esso a evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito, nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma una percezione sufficientemente chiara ed immediata dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta. La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura. Pertanto, l’intento di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.
In particolare, il divieto di analogia in malam partem avrebbe imposto di chiarire se davvero potesse sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella intercorsa tra l’imputato e la persona offesa nel processo in discussione, consentiva di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro potesse già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”. Tale dimostrazione, nel caso di specie, non era avvenuta e, pertanto, secondo la Corte Costituzionale, il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie ha comportato una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne ha determinato l’inammissibilità.
Il 14 luglio esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 20062 che, in materia di divisione di un immobile comune fra ex conviventi, assegnato a uno dei due comproprietari dietro pagamento di un conguaglio, afferma che, laddove vi sia stato un maggior apporto economico fornito da uno dei due ex conviventi nel relativo acquisto, l’animus donandi, relativo alla parte eccedente la rispettiva quota, deve essere provato, anche tramite presunzioni, non potendosi, invece, ritenere la convivenza, per sé stessa, quale elemento idoneo a giustificare il maggiore apporto per spirito di liberalità.
2021
Il 17 marzo esce l’’importantissima sentenza delle SSUU n.10381 alla cui stregua l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
La Sezione rimettente – principia il Collegio – ha correttamente rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto l’ambito applicativo dell’art. 384, primo comma, cod. pen., con riferimento alla possibilità di farvi rientrare anche i casi di convivenze di fatto.
L’orientamento, allo stato prevalente, che esclude l’applicabilità dei casi di non punibilità previsti dalla norma in questione alle situazioni di convivenza more uxorio, giustifica tale soluzione in base ad almeno tre ordini di ragione.
Innanzitutto, si ritiene determinante l’espresso riferimento contenuto nell’art. 384 cod. pen. ai “prossimi congiunti“, la cui definizione è offerta dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., disposizione generale all’interno del codice penale, che identifica la categoria dei prossimi congiunti esclusivamente nel coniuge, oltre che negli ascendenti, discendenti, fratelli, affini nello stesso grado, zii e nipoti, senza ricomprendervi il convivente.
In questo modo la nozione di prossimi congiunti viene ricondotta esclusivamente ai membri della famiglia fondata sul matrimonio, negando ogni possibile parificazione della convivenza more uxorio (in questo senso, Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, Turatello, Rv. 154880; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/1988, Melilli, Rv. 178467; Sez. 1, n. 9475 del 05/05/1989, Creglia, Rv. 181759; Sez. 6, n. 132 del 18/01/1991, Izzo, Rv. 187017; Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, Agate, Rv. 244725, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903).
In secondo luogo, le decisioni che formano oggetto di questo indirizzo interpretativo escludono l’assimilabilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale e, richiamando la giurisprudenza costituzionale che in più occasioni ha ritenuto infondate le questioni di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sottolineano la diversità tra il rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e reciprocità di diritti e doveri, e la convivenza di fatto, fondata, invece, su una affectio che può essere revocata in ogni momento, evidenziando, inoltre, la differente tutela riservata alle due situazioni dalla stessa Costituzione, che solo nell’art. 29 riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, mentre la famiglia di fatto viene presa in considerazione sulla base dell’art. 2 Cost. (cfr., Corte cost. n. 8 del 1996 e n. 121 del 2004).
Proprio sulla base di questi argomenti – prosegue il Collegio – la Corte ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., tenendo conto della diversa copertura costituzionale del rapporto di convivenza e di quello coniugale, rilevando come la piena assimilazione di tali situazioni rientri nelle scelte discrezionali del legislatore (Sez. 6, n. 35967 del 28/09/2006, Cantale, Rv. 234862).
L’esclusione dell’equiparazione sul piano interpretativo del convivente al coniuge, in vista dell’applicabilità della causa di non punibilità ai sensi dell’art.384 cod. pen., viene motivata evidenziando anche le conseguenze in malam partem di una tale operazione, conseguenze rinvenibili in tutti quei casi in cui il vincolo familiare rileva per la configurabilità di taluni reati, come ad esempio quelli previsti dagli artt. 570, 577, secondo comma, n. 1, 605, primo comma , n. 1, cod. pen.
Infine, prosegue la Corte, l’esclusione della estensibilità fa leva sulla qualificazione della norma come causa di non punibilità che, in quanto norma eccezionale, non può essere applicata analogicamente (in questo senso si esprime anche l’ordinanza di rimessione).
Si sostiene che spetterebbe sempre al legislatore prevedere l’estensione della non punibilità attraverso un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse, sicché andrebbe operato un confronto tra «l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro», rilevando come non possa dirsi «che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità».
Per queste ragioni si assume che debbano ritenersi legittime soluzioni legislative differenziate con riferimento alla causa di non punibilità di cui all’art. 384 cit. (così, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Rv. 248903, nonché Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, cit.; in termini analoghi, Sez. 1, n. 9475, del 05/05/1989, cit.; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/ 1988, cit. e Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, cit.), non essendo consentito al giudice ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833).
Da ultimo, si è sottolineato il rilievo che deve essere attribuito al recente intervento legislativo con cui, a seguito della riforma che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e regolamentato le convivenze (legge 20 maggio 2016, n. 76, c.d. legge Cirinnà), è stata espressamente ampliata la cerchia dei “prossimi congiunti” di cui all’art. 307, quarto comma, cod. pen., ricomprendendovi i soggetti uniti civilmente, ma non anche i conviventi di fatto (d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6): secondo l’ordinanza di rimessione, si sarebbe trattato di una scelta ben precisa del legislatore, non di una semplice “svista“, dal momento che la legge delega non lasciava alcun margine per includere anche i conviventi di fatto nell’art. 307 cit.
L’orientamento favorevole all’estensione della causa di non punibilità anche al convivente more uxorio – prosegue a questo punto la Corte – si è sviluppato più di recente ed annovera un minor numero di decisioni. La prima in ordine temporale è Sez. 6, n. 22398 del 22/01/2004, Esposito, Rv. 229676, che però afferma il principio della applicabilità dell’art. 384 cod. pen. al convivente senza un particolare approfondimento, prospettando una possibile applicazione analogica della causa di non punibilità.
Più articolato è il ragionamento condotto da Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264630: in questo caso la Corte di cassazione, disattendendo la soluzione offerta dalla precedente sentenza Esposito, riconosce che l’art. 384 cod. pen., in quanto causa speciale di non punibilità, ha natura di norma eccezionale che, quindi, non può ricevere un’applicazione analogica, e si basa, invece, su una lettura aperta delle nozioni di famiglia e di coniugio, sottolineando come oggi termini come “matrimonio” e “famiglia” hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello risalente all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale, evidenziando, inoltre, come «la stabilità del rapporto, con il venire meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più una caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio».
La sentenza registra una vistosa contraddizione nella stessa giurisprudenza di legittimità, che, da un lato, nega l’equiparazione tra famiglia di fatto e famiglia legittima, dall’altro, invece, attribuisce rilievo alla convivenza: questa giurisprudenza ondivaga, anche quando è produttiva di effetti in malam partem, come è avvenuto ritenendo configurabile il reato di maltrattamenti anche nel caso in cui la condotta delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente (prima dell’ultima modifica dell’art. 572 cod. pen.), ha fornito comunque una nozione “moderna” di famiglia, intesa come un consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (tra le tante, Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, Rv. 239726); lo stesso è accaduto in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in cui la Corte di cassazione ha preso in considerazione tra i redditi dei familiari anche quello del convivente more uxorio (cfr., nell’ambito di un orientamento consolidato, Sez. 4, n. 109 del 26/10/2005, Curatolo, Rv. 232787).
Analoga tendenza a favore di una assimilazione tra le due tipologie di “famiglia” si è verificata, secondo la sentenza Agostino, nelle interpretazioni che hanno portato ad effetti in bonam partem, ad esempio in materia di riconoscimento dell’attenuante della provocazione e dell’estensione della causa di non punibilità dell’art. 649 cod. pen. al convivente: anche in questi casi la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato l’esistenza di un rapporto affettivo che può dar luogo ad una convivenza more uxorio.
Nei due esempi sopra indicati, prosegue il Collegio, l’attenuante della provocazione e la causa di non punibilità ex art. 649 cod. pen. hanno trovato applicazione con riguardo a soggetti legati da un vincolo non matrimoniale, ma comunque caratterizzato da una convivenza duratura, fondata sulla reciproca assistenza e su comuni ideali e stili di vita (cfr., Sez. 6, n. 12477 dl 18/10/1985, Cito, Rv. 171450 e Sez. 4, n. 32190 del 21/05/2009, Trasatti, Rv. 244692).
A sostegno di questa interpretazione estensiva la sentenza Agostino ha invocato anche la nozione di famiglia accolta dall’art. 8 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che vi fa rientrare anche i legami di fatto particolarmente stretti, fondati su una stabile convivenza (Corte EDU, 13/06/1979, Marchx c. Belgio; Corte EDU, 13/12/2007, Emonet c. Svizzera). In conclusione, la sentenza in esame, in presenza della «mutevole rilevanza penale della famiglia di fatto emergente dalle applicazioni giurisprudenziali» conclude ritenendo che solo accogliendo una nozione di famiglia e di coniugio in linea con i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi anni è possibile «ricondurre il sistema a coerenza, evitando soluzioni che contrastano – prima ancora che con una visione unitaria del tema – con il senso comune».
Alle medesime conclusioni è pervenuta, più recentemente, Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, Rv. 275206, che per la prima volta ha esaminato la questione relativa alla estensibilità della causa di non punibilità alla luce della nuova normativa introdotta dalla legge 20 maggio 2016, n. 76, che, come è noto, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso e ha, inoltre, offerto una regolamentazione anche per le convivenze di fatto.
La sentenza, preso atto che a seguito della legge n. 76 del 2016 il coordinamento circa le ricadute sul piano penale della nuova disciplina ha riguardato solo le unioni civili, prevedendo, in particolare, l’inclusione, ad opera del d.lgs. n. 6 del 2017, di tale nuova formazione sociale nella nozione di “prossimi congiunti” attraverso la modifica dell’art. 307, quarto comma, cod. pen., nonché l’introduzione, per mezzo dello stesso d.lgs. cit., di una disposizione generale come il nuovo art. 574-ter cod. pen. – che riferisce, agli effetti penali, il termine matrimonio anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso -, senza operare alcun coordinamento dei profili penali con lo statuto delle convivenze more uxorio, ha comunque escluso che i “silenzi” sulle convivenze di fatto attribuibili alla legge n. 76 del 2016 e ai provvedimenti successivi possano «costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della materia».
In sostanza, prosegue la Corte, il riferimento è soprattutto al quadro e ai principi cui è pervenuta quella giurisprudenza di legittimità che, seppure in limitati settori, ha riconosciuto la parificazione giuridica delle convivenze di fatto al coniugio.
Secondo la sentenza in esame «una diversa impostazione, fondata sul dato formale, obiettivamente significativo, ma, tuttavia, non conformata con il sistema normativo di riferimento (…) porta con sé il rischio di implicare – quanto meno con riguardo agli effetti in “bonam partem” – profili di incerta compatibilità costituzionale in punto di diversificazione delle tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto».
In altri termini, si assume come la ricerca di una effettiva coerenza all’interno del sistema non può che condurre ad una parità di trattamento, anche sul terreno penale, della famiglia legittima e di quella more uxorio ed è la stessa sentenza a sostenere che, attraverso quella che definisce “interpretazione valoriale“, può essere superato il contrasto con la Costituzione e riconoscere applicabile l’istituto dell’art. 384, primo comma, cod. peri. ai rapporti di convivenza, anche dopo la legge n. 76 del 2016.
Segue l’impostazione della sentenza Cavassa anche Sez. 1, n. 40122 del 16/05/2019, Balice (non mass.), che ai fini della verifica della sussistenza di un effettivo rapporto di convivenza richiama l’art. 1, comma 37, legge n. 76 del 2016, secondo cui per l’accertamento della stabile convivenza deve farsi riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13, comma 1, lett. b), del d.P.R. 23 maggio 1989, n. 223.
Possono essere ricomprese in questo secondo orientamento anche Sez. 4, n. 23118 del 21/03/2017, De Paola (non mass.) e Sez. 3, n. 6218 del 12/01/2018, Giacono (non mass.) che si limitano a ribadire, senza ulteriori argomentazioni, le conclusioni della sentenza Agostino.
Nell’ordinanza di rimessione – chiosa il Collegio – questo orientamento viene criticato, riportando le perplessità della dottrina secondo cui il tentativo di operare il superamento della giurisprudenza consolidata rischia di porsi in «tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare (…) un necessario interpello del Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore».
Prima di procedere all’esame della questione rimessa, appare necessario alla Corte – a questo punto verificare se la fattispecie concreta possa essere comunque risolta attraverso l’applicazione del secondo comma dell’art. 384 cod. pen., così come ipotizzato dalla difesa nella memoria da ultimo depositata.
Tale norma, che prevede una speciale causa di non punibilità in favore, tra l’altro, di soggetti che per legge avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere informazioni al pubblico ministero o dichiarazioni nel corso delle indagini difensive ovvero testimonianza al giudice, richiamando i corrispondenti reati di cui agli artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen. (oltre all’art. 373 cod. pen., che riguarda la falsa perizia), è stata, come noto, dichiarata costituzionalmente illegittima, perché contraria al canone di razionalità delle scelte legislative (art. 3 Cost.), nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni fornite alla polizia giudiziaria da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi a norma dell’art. 199 cod. proc. pen. (Corte cost. n. 416 del 1996).
Con l’aggiunta di questo nuovo caso di non punibilità, per effetto della sentenza costituzionale citata, sono oggi ricomprese nell’art. 384, secondo comma, cod. pen. anche le condotte di favoreggiamento poste in essere attraverso false informazioni rese alla polizia giudiziaria da parte dei soggetti indicati nell’art. 199 cod. proc. pen., tra cui è menzionato espressamente anche il convivente.
E’ evidente – prosegue la Corte – che, se si dovesse ritenere applicabile il secondo comma del citato art. 384, sarebbe superata la questione oggetto della rimessione.
Nondimeno, un tale esito non può trovare spazio per il Collegio nella fattispecie concreta, in quanto deve escludersi che l’imputata dovesse essere avvertita della facoltà di astenersi. Infatti, nel corso delle indagini preliminari l’avvertimento della facoltà di astenersi di cui all’art. 199 cod. proc. pen., che si riferisce alle c.d. dichiarazioni endo-processuali, non è dovuto ai prossimi congiunti – e ai conviventi – del soggetto che non abbia ancora assunto la qualità di indagato (cfr., Sez. 1, n. 41142 del 17/07/2017, Z., Rv. 273971; Sez. 1, n. 16215 del 30/01/2008, Taddeo, Rv. 239497).
Nella specie, F. ha reso informazioni alla polizia giudiziaria nell’immediatezza dell’incidente stradale, in una fase di primissimo accertamento, in cui non vi era alcun elemento indiziario o di mero sospetto che potesse far ritenere sussistente un reato, tanto è vero che le relative dichiarazioni non risultano formalmente verbalizzate dalla polizia giudiziaria, bensì raccolte come “osservazioni delle parti interessate“, cioè come dichiarazioni rese ai fini della responsabilità civile da incidente stradale.
Peraltro, in quella fase non era emerso alcun elemento da cui la polizia giudiziaria avrebbe potuto desumere l’esistenza di un rapporto di convivenza tra F. e T. , tale da giustificare l’avvertimento di cui all’art. 199 cod. proc. per).
L’esame della questione posta dall’ordinanza di rimessione, che ha il proprio fulcro nell’ampiezza applicativa dell’art. 384 cod. pen., si intreccia, necessariamente, con il tema della mancata equiparazione, nel nostro ordinamento, della convivenza more uxorio alla famiglia legittima.
La famiglia di fatto condivide con la famiglia legittima la scelta di una condivisione di un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla responsabilità della cura ed educazione dei figli. La differenza attiene alla formalizzazione del rapporto, un elemento che non assume una veste solo convenzionale, ma rappresenta l’esteriorizzazione del diverso atteggiamento che caratterizza le due convivenze, la prima, quella matrimoniale, basata su una dichiarata volontà di assumere reciproci obblighi di “fedeltà, di assistenza morale e materiale e di collaborazione“, la seconda connotata dalla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti.
E’ questa distinzione che impedisce, nelle decisioni della giurisprudenza costituzionale a cui si è già fatto cenno (Corte cost. n. 45 del 1980; n. 237 del 1986; n. 423 e n. 404 del 1988; n. 140 del 2009; n. 138 del 2010), che le due situazioni possano trovare uguale fondamento nell’art. 29 Cost., con la conseguenza che, pur riconoscendo “la rilevanza costituzionale del ‘consolidato rapporto’ di convivenza“, occorre tenerlo distinto dal rapporto coniugale, riconducendo il primo nell’ambito della protezione, offerta dall’art.2 Cost., dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo nello schema del citato art. 29.
Le due situazioni non differiscono soltanto in ragione del dato estrinseco della sanzione formale del vincolo, poiché, fermi in ogni caso i diritti e i doveri che ne derivano verso i figli e i terzi, nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale, mentre in quella del rapporto di coniugio si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, intesa cioè come stabile comunità di persone legate da vincoli di solidarietà, di fedeltà e di condivisione su base paritaria.
L’indirizzo che porta a negare l’estensione della causa di non punibilità alle semplici convivenze di fatto, indirizzo a cui sembra ispirata anche l’ordinanza che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, trova forza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha sempre escluso la irragionevolezza della mancata inclusione nell’art. 384, primo comma, cod. pen. dei conviventi more uxorio, sostenendo, reiteratamente, che una tale questione fuoriuscisse dai limiti delle sue attribuzioni, spettando al legislatore la scelta di operare una simile modifica rientrante nella materia penale (Corte cost., n. 237 del 1986; n. 352 del 1989; n. 8 del 1996; n. 121 del 2004, n. 140 del 2009).
In sostanza, la giustificazione circa la diversa regolamentazione viene rintracciata nella maggiore “stabilità” della famiglia legittima – anche dopo che è venuta meno l’indissolubilità del vincolo coniugale -, considerando che il differente regime della famiglia more uxorio si fonda sulla volontà delle parti, che liberamente decidono di non contrarre matrimonio, optando per una tipologia di unione con minori vincoli giuridici, ma in una comunione materiale e spirituale di vita che può coincidere in ciò che caratterizza il matrimonio stesso.
Si è precisato che «quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza, anziché intervenire sulla definizione generale della nozione di “prossimi congiunti” contenuta nell’art. 307, quarto comma, cod. pen. includendovi anche il convivente, ha ritenuto operare scelte selettive e mirate a casi determinati» (così, Corte cost. n. 140 del 2009).
Peraltro, sempre secondo la Corte costituzionale «un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità», in quanto l’estensione al convivente del complesso delle norme penali che si riferiscono al rapporto di coniugio avrebbe forti ricadute sull’intero sistema – anche relativamente a disposizioni extrapenali – compresi possibili effetti in malam partem, con conseguenze che solo il legislatore potrebbe regolare attraverso una riforma organica (Corte cost., n. 352 del 2000).
Le decisioni della Corte di cassazione favorevoli ad un allargamento della portata applicativa dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto richiamano spesso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che invece dalle sentenze ascrivibili nell’orientamento contrario, tra cui la stessa ordinanza di rimessione, viene svalutata o, meglio, ritenuta scarsamente significativa.
Invero, chiosa ancora la Corte, anche la Corte EDU, così come la Corte costituzionale, riconosce la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i contro-interessi in gioco.
La Corte EDU, infatti, da un lato riconduce nella sfera applicativa dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la “vita familiare“, la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto; dall’altro lato, tuttavia, considera legittima la limitazione di tale diritto in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi connessi all’amministrazione della giustizia penale, riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 03/04/ 2012, Van der Heijdel c. Netherlands).
Risulta interessante rilevare come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU (cfr., Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Irlanda; Corte EDU, 05/01/2010, Jaremowicz c. Polonia; Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 24/06/2010, Schalk and Kopf c. Austria; da ultimo, Corte EDU, 21/07/2015, Oliari ed altri c. Italia).
L’ambito soggettivo della nozione di “vita familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU include, secondo la giurisprudenza europea, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.
Una nozione, dunque, dalla portata applicativa assai ampia, senza dubbio più estesa rispetto a quella cui fa riferimento la diversa disposizione normativa dell’art. 12 CEDU (riferibile alla sola famiglia fondata sul matrimonio), che permette alla Corte europea di ricomprendervi sia quest’ultima, sia quella basata sulla relazione di fatto tra conviventi (Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Ireland; Corte EDU, 18/12/1986, Johnston c. Irlanda, § 55; Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; v., inoltre, Corte EDU, 13/12/2007, Emonet ed altri c. Svizzera).
Tuttavia, prosegue la Corte, la prospettiva seguita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – con le su citate disposizioni di cui agli artt. 8 e 12, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo – non presenta, in relazione alla materia qui esaminata, sostanziali punti di divergenza rispetto alle linee direttrici del modello normativo disegnato nella Costituzione italiana (ex artt. 2 e 29 Cost.), poiché sia nel sistema convenzionale che in quello interno sono riconosciuti, e costituiscono oggetto di tutela, i diritti dei singoli che nascono, si esprimono e si sviluppano all’interno di un nucleo familiare, fatta salva la possibilità di un trattamento non omogeneo correlato alla diversità dei modelli di relazioni familiari, alla luce di un giusto bilanciamento operato, a livello nazionale, fra le legittime istanze di tutela di interessi generali (ad es., sicurezza nazionale, protezione della salute o della morale, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, ecc.) e le esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona (Corte EDU, 07/07/ 1989, Soering c. Regno Unito).
Non è riconoscibile, allora, alcun contrasto nel panorama delle ragioni argomentative che sorreggono i moduli interpretativi utilizzati dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU, poiché sia nel sistema interno che in quello convenzionale le diverse tipologie di unioni familiari rappresentano fenomeni distinti l’uno dall’altro, il cui pacifico riconoscimento, fondato sulla non esclusività della specifica tutela garantita alla famiglia fondata sul matrimonio e, al contempo, sulla consapevolezza della pari dignità delle scelte legate all’avvio di una convivenza senza matrimonio, non determina l’effetto di una generale equiparazione fra modelli che restano comunque diversi e, come tali, non possono essere appiattiti l’uno sull’altro, né fra loro integralmente assimilati.
Invece, chiosa a questo punto il Collegio, un significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare si registra nella più recente previsione normativa dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a Nizza il 7-8 dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
La su citata disposizione normativa – peraltro rafforzata dall’ulteriore previsione di garanzia dettata nell’art. 33, par. 1, della Carta (secondo cui “è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale“) – pur ispirandosi al contenuto di altre norme internazionali (ad es., l’art. 12 CEDU, l’art. 23, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, ratificato con I. n. 881/1977, nonchè l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), che regolano la materia enunciando in forma unitaria il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, presenta una formulazione letterale più ampia, poiché, nel rinviare alle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano l’esercizio, riconosce e garantisce separatamente i due diritti, isolando il diritto di fondare una famiglia dal vincolo matrimoniale stricto sensu inteso e in tal modo creando le condizioni per estenderne la tutela anche in favore di altre forme di relazione familiare.
Il “diritto di sposarsi“, infatti, viene riconosciuto, tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia“, così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari.
Al tradizionale favor per il matrimonio, come si è osservato in dottrina, si sostituisce in tal modo la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.
Si è visto – prosegue la Corte – come sia nell’ordinanza di rimessione, sia nella memoria dell’Avvocato generale, una delle critiche più “forti” alla possibile estensione dell’art. 384 cit. alle coppie di fatto riguardi la circostanza che il legislatore, con la legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), ha introdotto una disciplina per le unioni civili tra persone dello stesso sesso, dettando anche una minima regolamentazione relativa alle convivenze di fatto, senza tuttavia inserire nessuna disposizione riguardante una piena equiparazione tra le due diverse situazioni, riscrivendo l’art. 307 cod. pen. con l’inserimento tra i “prossimi congiunti” anche della «parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma omettendo ogni riferimento alle coppie di fatto e senza “toccare” l’art. 384 cod. pen.
In questo modo, si assume, il legislatore avrebbe manifestato la sua volontà di non operare alcuna equiparazione delle convivenze di fatto, escludendo definitivamente ogni possibile interpretazione estensiva della nozione di “coniuge” che ricomprenda anche il “convivente“.
Come dire che non si è in presenza di una “lacuna” dell’ordinamento, dal momento che il legislatore non vuole alcuna equiparazione, tanto meno ai fini dell’applicazione della scusante ex art. 384 cod. pen. (N, 16 Invero, deve ritenersi che con la legge c.d. Cirinnà il legislatore ha inteso offrire una tutela legale a situazioni affettive mai regolamentate prima, offrendo una disciplina, di fatto, analoga a quella prevista per le famiglie legittime, prevedendo anche le necessarie ricadute penalistiche, con il successivo d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6.
Si è trattato, quindi, di un intervento volto ad occuparsi di situazioni del tutto diverse dalle convivenze di fatto, che, come si è visto, basano la loro unione sulla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti; la disciplina delle “unioni civili” si è basata, invece, proprio sulla richiesta di stabilità del rapporto, sul modello della famiglia legittima.
Il fatto che con la legge del 2016 il legislatore nulla abbia previsto per le convivenze, ad eccezione di un tentativo di definizione e della equiparazione alle coppie coniugate per una serie di profili analiticamente elencati, tra cui l’unico riguardante la materia penale è quello sulla parificazione dei diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (art. 1, comma 38, legge n. 76 del 2016), per la Corte non può certo significare una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze more uxorio, né tanto meno alla estensibilità della scusante di cui all’art. 384 cod. pen. al convivente.
Il legislatore, semplicemente, si è occupato di disciplinare le situazioni riguardanti le unioni tra persone dello stesso sesso, avendo ben presente il percorso legislativo e giurisprudenziale che ha condotto verso una tendenziale equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio, ferme restando le differenze di base delle due situazioni.
L’assenza di una legge che disciplini organicamente il fenomeno della convivenza more uxorio non significa che tale modello di relazione ed i relativi effetti giuridici siano sforniti di tutela nel diritto positivo. I numerosi interventi normativi e la stessa evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali hanno consentito, sia pure frammentariamente, di riconoscere ai componenti la famiglia di fatto singole posizioni soggettive meritevoli di tutela analogamente a quelle proprie dei membri della famiglia legittima.
Si pensi sul piano normativo, chiosa ancora la Corte, al tema della filiazione. In questo delicatissimo settore si è stabilito nell’ordinamento una completa identità tra la famiglia matrimoniale e quella non matrimoniale con riguardo al rapporto genitori-figli, che oggi risulta unitariamente disciplinato dagli artt. 315-bis ss. cod. civ., uniche essendo le regola in materia di diritti e doveri del figlio e di responsabilità genitoriale.
Fra le disposizioni normative espressamente riferite ai conviventi devono poi menzionarsi, per la loro oggettiva rilevanza, quelle che consentono:
- a) di richiedere l’interdizione o la nomina di un amministratore di sostegno per il partner (art. 417 cod. civ.);
- b) di ammettere la coppia non coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (art. 5 della I. 15 febbraio 2004, n. 40);
- c) di astenersi dal rendere dichiarazioni nel processo penale (art. 199, comma 3, cod. proc. pen., per il convivente dell’imputato);
- d) di presentare domanda di grazia al Presidente della Repubblica in favore del condannato (art. 681 cod. proc. pen.).
Nella medesima linea vanno altresì richiamate, a mero titolo esemplificativo, le disposizioni normative che riguardano la possibilità di adottare ordini di protezione contro gli abusi familiari, pur se commessi da conviventi o in danno di conviventi (legge 4 aprile 2001, n. 154); quella che prevede la rilevanza del periodo di mera convivenza ai fini della verificazione della stabilità della coppia in vista dell’adozione (art. 6, legge n. 149/2001); quelle, infine, dettate dal legislatore in tema di disciplina dei congedi parentali (legge n. 53/2000; d.lgs. n. 151/2001) e di assicurazione sulla responsabilità civile (ex art. 129, comma 2, lett. b), della legge n. 209/2005).
E’ soprattutto nella giurisprudenza, sia civile che penale, che si assiste ad una progressiva e continua tendenza a garantire analoghi diritti alle convivenze di fatto. A titolo esemplificativo, si pensi che la giurisprudenza civile riconosce al convivente separato l’assegnazione della casa familiare, analogamente a quanto si prevede per il coniuge separato o divorziato, in presenza di prole (Sez. civ. 1, n. 10102 del 26/05/2004, Rv. 573134).
L’assegnazione della casa familiare in favore del convivente separato è stata poi normativamente regolata ex art. 337-sexies cod. civ.
Va evidenziato anche l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Sez. civ. 3, n. 12278 del 07/06/2011, Rv. 618134); Sez. civ. 3, n. 23725 del 16/09/2008, Rv. 604690; v., inoltre, Sez. civ. 3, n. 7128 del 21/03/2013, Rv. 625496).
Nella giurisprudenza penale, che più interessa in questa sede, si afferma – chiosa ancora la Corte – un’esplicita equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio a proposito della valutazione della sussistenza dei requisiti per l’ammissione al gratuito patrocinio per i non abbienti. (tra le tante, Sez. 4, n. 15715 del 20/03/2015, Rv. 263153; v., inoltre, Sez. 4, n. 44121 del 20/09/2012, Rv. 253643).
Analoga estensione, ancora, è avvenuta in tema di costituzione di parte civile, ove si è precisato che la lesione di qualsiasi forma di convivenza, purché dotata di un minimo di stabilità tale da fondare una ragionevole aspettativa di un futuro apporto economico, rappresenta legittima causa petendi di un’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice penale competente per l’illecito che ha causato detta lesione (Sez. 4, n. 33305 del 08/07/2002, dep. 04/10/2002, Rv. 222366; Sez. 4, n. 19487 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 262350).
Ulteriori ampliamenti della tutela penale riconosciuta alla convivenza di fatto sono riscontrabili con riferimento al diritto all’inviolabilità del domicilio, con il riconoscimento anche al convivente dell’esercizio del diritto di esclusione (Sez. 5, n. 6419 del 05/04/1974, Rv. 128059).
Particolarmente rilevante deve poi ritenersi l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità formatasi in merito ai presupposti di configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen., che nel perseguire la condotta di colui che “maltratta una persona della famiglia” considera famiglia — sulla base di una pacifica linea interpretativa – non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto tendenzialmente stabile, fondato su legami di reciproca assistenza e protezione.
Si è così affermato che sono da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune e di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 21239 del 24/01/2007, Gatto Rv. 236757; Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, B., Rv 239726; Sez. 5, n. <24688 del 17/03/2010, B., Rv. 248312; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472;).
Si tratta di una giurisprudenza risalente già agli anni settanta, che questa volta, nell’equiparare la convivenza al rapporto coniugale vero e proprio, di fatto ha operato una estensione in malam partem, seppur finalizzata alla tutela della vittima del reato, fino a quando il legislatore con la novella del 1 ottobre 2012, n. 172, ha parzialmente riformato la previsione della norma incriminatrice in esame, cambiando la rubrica da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi“, così precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto “una persona della famiglia“, ma “una persona della famiglia o comunque convivente“.
Il legislatore del 2016, con la legge c.d. Cirinnà è, quindi, intervenuto in presenza di un quadro complessivo, normativo e giurisprudenziale, in cui risulta evidente l’interesse di salvaguardare la famiglia, sia legittima che di fatto, come pure, sotto altro e più specifico versante, tutelare l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento dei rapporti che lo legano, affettivamente, ma non solo, con altra persona con la quale ha istaurato uno stabile rapporto di convivenza e dalla quale può e deve pretendere assoluto rispetto verso condotte che risultino abitualmente lesive della propria integrità fisica o morale.
Un quadro complesso, sicuramente disorganico, che non poteva essere ignorato, sicché il relativo “silenzio” sulle coppie di fatto acquista un significato neutro, spiegabile con l’obiettivo principale della legge di occuparsi delle c.d. unioni civili e con la consapevolezza che le convivenze di fatto non sono certo prive di tutela, anzi sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, ma non solo, agli interventi della giurisprudenza.
L’ordinamento, dunque, sia pure all’infuori di una visione organica del fenomeno, e procedendo sempre attraverso interventi eterogenei e settoriali posti in essere nelle più varie direzioni, avverte il rilievo delle implicazioni legate alla esigenza di preservare la sostanza delle strutture fondamentali della società, non mancando di valorizzare, entro tale prospettiva, anche le numerose potenzialità applicative sottese alla progressiva introduzione di specifiche forme di garanzia della tendenziale continuità dei rapporti a vario titolo riconducibili al diverso modello della relazione familiare de facto.
Le forme di tutela sinora illustrate, assai spesso ricorrenti nella prassi, confermano la rilevanza assunta dal riconoscimento del carattere “familiare” delle relazioni che si sviluppano all’interno della convivenza di fatto e delle connesse esigenze di protezione che, in quanto “relazioni di famiglia“, ad essa competono.
Tuttavia, l’assenza di una disciplina organica della materia lascia trasparire evidenti incoerenze del sistema, se non veri e propri “effetti paradossali“, alcuni dei quali, nei limiti dell’attività interpretativa, possono essere quantomeno ridotti.
Escluso – chiosa a questo punto il Collegio – che la disciplina introdotta dalla legge c.d. Cirinnà sulle unioni civili, con le successive, conseguenti integrazioni inserite nel codice penale, possano avere l’effetto di “impedire” un’interpretazione estensiva dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto e ricostruito il quadro normativo complessivo, così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e anche da quella europea, nonché dalla giurisprudenza di legittimità, il Collegio rileva come entrambi gli orientamenti contrapposti, cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti, sebbene con approcci diversi, diano per scontato il carattere eccezionale della norma contenuta nell’art. 384, primo comma, cod. pen.
Così, la stessa ordinanza che ha rimesso la questione, coerentemente, indica come uno dei principali ostacoli all’estensione applicativa del primo comma dell’art. 384 la natura eccezionale della disposizione, che ne preclude l’applicazione analogica in favore delle coppie di fatto, rifacendosi peraltro alla stessa giurisprudenza costituzionale, secondo cui «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore» (Corte cost., n. 140 del 2009).
Peraltro, anche le sentenze che propongono di estendere l’ambito applicativo dell’art. 384 facendo leva sull’evoluzione normativa, attraverso una lettura aperta dell’istituto della “famiglia” nella Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, finiscono per riconoscere il carattere eccezionale della norma in questione (così, Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, cit.).
Ebbene, riprende a questo punto la Corte, se si dovesse convenire che siamo in presenza di una disposizione avente natura di norma eccezionale occorrerebbe riconoscere l’estrema difficoltà di operare un’estensione dell’«esimente» al di là del suo tenore letterale, perché si violerebbe il disposto dell’art. 14 delle preleggi.
La questione, invece, deve essere affrontata verificando la natura dell’art. 384, primo comma, cod. pen., attraverso una lettura costituzionalmente orientata che valorizzi l’elemento della colpevolezza e, soprattutto, inserita nell’ambito delle disposizioni penali che regolamentano istituti analoghi.
Sembra definitivamente superato l’orientamento secondo cui l’art. 384, primo comma, cod. pen. contiene una causa di non punibilità in senso stretto, in cui la rinuncia alla pena ubbidisce a ragioni di opportunità politica, che sono del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o della “situazione esistenziale psicologica dell’agente“, come pure l’altro, meno recente, che qualifica la disposizione come una causa di giustificazione, in cui vengono bilanciati contrapposti interessi, istituto somigliante allo stato di necessità, in cui pure viene esclusa la responsabilità di colui che pone in essere una condotta costretto dalla necessità di evitare un grave nocumento.
Vanno, invece, condivise le riflessioni della dottrina più avvertita che ravvisa nella previsione in esame una causa di esclusione della colpevolezza, meglio una “scusante” soggettiva, che investe la colpevolezza.
Come è noto, vengono ricomprese in questa definizione le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla relativa volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo.
Con riferimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., i legami di natura affettiva che legano l’agente con il prossimo congiunto (sia esso il genitore o il figlio o il fratelli o il coniuge o lo zio o il nipote…) fanno sì che l’ordinamento sceglie di non punire i reati considerati nella disposizione citata quando siano stati realizzati per salvare la libertà o l’onore di un prossimo congiunto.
A queste conclusioni è pervenuta anche la giurisprudenza di legittimità più recente, che in alcune decisioni ha stabilito che l’art. 384, primo comma, cod. pen., esclude la colpevolezza, non l’antigiuridicità della condotta, trattandosi di una esimente «connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate dal comma 1 dello stesso art. 384» (Sez. 5, n. 18110 del 12/03/2018, Esposito, Rv.273181, in un caso in cui si è negato che l’esimente in questione potesse essere applicata anche al concorrente nel reato commesso dal soggetto non punibile; nello stesso senso, Sez. 6, n. 34543 del 23/05/2019, Germino, non mass.; Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019, Quaranta, Rv. 275320; Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019, Buonaiuto, Rv. 278062; Sez. 6, n. 34777 del 23/09/2020, Nitti, Rv. 280148 che, proprio in tema di favoreggiamento personale, ha precisato che l’art. 384 cod. pen., quale causa di esclusione della colpevolezza e non di esclusione della antigiuridicità della condotta, opera solo nel caso in cui, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, valutate secondo il parametro della massima diligenza esigibile, si presenti all’agente come l’unica in grado di evitare un grave pregiudizio per la libertà o per l’onore proprio o altrui; inoltre, v., Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, cit., in motivazione).
Si tratta di sentenze che, seppure con motivazioni non sempre dedicate specificamente alla questione, prendono una posizione decisa sulla natura dell’esimente, dando luogo ad un vero indirizzo giurisprudenziale.
Peraltro, analogo orientamento lo si rintraccia anche in decisioni meno recenti che, nel considerare l’art. 384, primo comma, oltre a negarne la natura di causa oggettiva di esclusione dell’antigiuridicità, lo qualificano come un’esimente «basata sul principio dell’inesigibilità di un comportamento diverso, come tale da escludere la colpevolezza» (così, Sez. 1, n. 11855 del 03/07/1980, Mastini, Rv. 146627; nonché Sez. 6, 25/10/1989, Milioto; Sez. 6, 10/02/1997, Puzone).
Infine, su questa stessa linea interpretativa si sono poste le Sezioni Unite (Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, dep. 2008, Genovese, non massimata sul punto), le quali hanno asserito che «coglie certamente nel segno» quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ad es., Sez. 6, n. 44761 del 04/10/2001, Mariotti, Rv. 220326) che afferma, concordemente con la dottrina, che l’art. 384 cod. pen. trova la propria giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà “familiare” in senso lato, essendo l’intenzione del legislatore quella di riconoscere prevalenti e quindi tutelare i motivi di ordine affettivo.
In questa decisione, le Sezioni Unite hanno affermato che «deve darsi atto della sussistenza di una strettissima connessione tra l’istituto, di natura sostanziale, dell’art. 384 c.p. e la prescrizione processuale contenuta nell’art.199 c.p.p.», dal momento che a fondamento di tali disposizioni vi è la medesima giustificazione e perché la ratio dell’astensione dal rendere testimonianza in capo ai prossimi congiunti dell’imputato, riconosciuta dalla citata norma del codice di rito, va «unanimemente ravvisata proprio nella tutela del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del conflitto che può determinare, in colui che è chiamato a rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto».
Il riconoscimento alla disposizione di cui al primo comma dell’art. 384 della valenza di causa di esclusione della colpevolezza, comporta che la ragione della non punibilità va ricercata nella «particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto», tale da rendere “inesigibile” l’osservanza del comando penale.
Spiega la Corte come a differenza delle cause di giustificazione, in cui la rinuncia alla pena avviene perché, in presenza di quelle situazioni considerate dal legislatore, l’ordinamento non riconosce più l’antigiuridicità della condotta, invece nelle cause di esclusione della colpevolezza (c.d. scusanti soggettive) il disvalore oggettivo della condotta non viene meno, ma l’ordinamento prende in considerazione «i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere» ed è proprio in considerazione di questa particolare situazione che, come è stato efficacemente detto da autorevole dottrina, «l’ordinamento penale non se la sente di incrudelire con la sua sanzione».
L’art. 384 cod. pen. non si basa su considerazioni di mera opportunità che giustificano la non punibilità, né appare fondato su un bilanciamento di interessi contrapposti, che lo farebbero qualificare come una causa di giustificazione, ma tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta “alterato“, tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico: infatti, l’esimente prevede che il soggetto deve aver commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un nocumento grave che attenti alla libertà o all’onore, presupposti e condizioni che danno rilievo a situazioni che, come già si è detto, determinano una alterazione della “motivabilità” della condotta realizzata dall’agente.
Alla condotta dell’agente, che risulti “motivata” secondo quanto prevede la norma, corrisponde un abbassamento della pretesa statuale, in base alla ratio dell’inesigibilità.
Il superamento di quelle posizioni che attribuiscono alla disposizione in questione natura di causa di non punibilità in senso stretto e il riconoscimento all’esimente in parola della natura di scusante a struttura soggettiva, quindi che investe direttamente la colpevolezza, ha delle importanti ricadute sul piano ermeneutico quando si va a verificarne l’applicabilità ai casi non espressamente considerati.
Il tema è quello della possibilità di applicazione analogica in bonam partem dell’art. 384, primo comma, cod. pen., una volta che sia stata esclusa la relativa natura di causa di non punibilità in senso stretto.
A seguito di un lungo dibattito – prosegue la Corte – oggi può dirsi superata l’opinione che attribuisce al divieto di analogia un carattere assoluto, nel senso che sia rivolto tanto alle norme penali incriminatrici, quanto alle norme di “favore“, funzionale ad assicurare la certezza del comando penale; infatti, il divieto di analogia è finalizzato ad assicurare, più che la certezza, l’esigenza di garantire le libertà del cittadino, libertà che vengono messe in pericolo se si riconosce al giudice il potere di applicare analogicamente – in senso sfavorevole – norme incriminatrici, mentre un tale pericolo non ricorre in presenza di una applicazione di norme di favore.
Il divieto di analogia in materia penale, ricondotto all’art. 25 Cost., del quale si sottolinea, appunto, la dimensione garantistica, non si riferisce all’intera materia penale, ma si rivolge alle sole disposizioni punitive: in sostanza, si esclude che vi siano impedimenti di carattere costituzionale che consentano operazioni di interpretazione analogica che operino nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante, ammettendo l’esperibilità di un intervento analogico in bonam partem.
In sostanza, l’art. 25, comma 2, Cost. proibisce solo l’analogia in malam partem.
Si tratta di posizioni condivise dalla giurisprudenza di legittimità che considera l’interpretazione analogica in bonam partem pacificamente ammessa nel campo penale (tra le tante, Sez. 5, n. 10054 del 22/05/1980, Taormina, Rv. 146121).
Riconosciuto il carattere “relativo” del divieto di analogia, riferito alla sola interpretazione delle norme penali sfavorevoli, occorre verificare i limiti di un’interpretazione analogica in bonam partem, in presenza di una disposizione generale, come l’art. 14 preleggi, che esclude comunque l’applicazione analogica delle leggi eccezionali.
In altri termini, si tratta di vedere se anche l’interpretazione analogica in bonam partem sia ostacolata in presenza di leggi eccezionali. Si è visto che proprio il riconoscimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., della natura di norma di carattere eccezionale ha costituito una delle ragioni prevalenti per far negare alla Corte costituzionale (sent. n. 140 del 2009) la possibilità di applicazione dell’esimente alle coppie di fatto, impostazione seguita, in parte, dalla giurisprudenza di legittimità e ripresa in questo processo anche nell’ordinanza di rimessione nonché nella memoria dell’Avvocato generale.
Tradizionalmente sono ritenute eccezionali quelle norme che introducono discipline derogatorie rispetto alla portata di leggi generali, sebbene in questo caso il rapporto che viene a stabilirsi è tra legge speciale e legge generale; più corretta appare l’impostazione, suggerita da un’attenta e autorevole dottrina, che individua la disposizione eccezionale là dove deroga ad un principio generale dell’ordinamento.
Dall’eccezionalità della norma deriva l’impossibilità di attivare il procedimento di interpretazione analogica. Le cause di non punibilità in senso stretto, in quanto norme eccezionali, sono considerate escluse dall’applicazione analogica. In questo caso, l’esclusione del ricorso all’analogia è affermato in quanto esse derivano il carattere eccezionale dal fatto che sono «riconducibili a valutazioni di opportunità estrinseche rispetto al fatto di reato».
Al contrario, si ritiene che non abbiano carattere eccezionale le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza, per le quali può riconoscersi uno spazio per l’applicazione analogica.
In particolare, per le scusanti si ritiene che possa negarsi la natura di norme eccezionali ogni qualvolta siano espressione di un principio generale dell’ordinamento, sebbene non manchino opinioni contrarie, secondo cui le «eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore e non dal giudice in via analogica», opinioni che, d’altra parte, non sono condivise da chi sottolinea come la stessa “inesigibilità” sia una causa generale di esclusione della colpevolezza.
Si è visto che la disposizione dell’art. 384, primo comma, cod. pen., non può essere considerata come una causa di non punibilità in senso stretto, ma piuttosto una scusante soggettiva, che investe la colpevolezza, impedendo la punizione in presenza di una condotta che viene percepita come inesigibile. Queste – per la Corte – caratteristiche portano ad escludere la valenza eccezionale della norma – così come intesa dall’art. 14 preleggi — che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost., sotto il profilo della necessaria valutazione della possibilità per il soggetto di poter agire diversamente.
L’esimente in questione costituisce manifestazione di un principio immanente al sistema penale, quello cioè della “inesigibilità” di una condotta conforme a diritto in presenza di circostanze particolari, tali da esercitare una forte pressione sulla motivazione dell’agente, condizionando la sua libertà di autodeterminazione. Nel nostro ordinamento è ben presente il principio generale volto ad escludere che possa esservi una condotta colpevole in presenza di un precetto penale che non risulti esigibile. La causa di esclusione della colpevolezza di cui al citato art. 384 è espressione del principio generale contenuto nell’art. 27 Cost. (Corte cost. n. 364 del 1988), tale da giustificare un’applicazione analogica nei “casi simili“.
Una volta riconosciuta all’art. 384, primo comma, cod. pen. la natura di scusante soggettiva ed esclusa di conseguenza ogni valenza eccezionale della disposizione stessa, la relativa applicazione anche alle coppie di fatto trova per il Collegio piena giustificazione.
Una giustificazione la cui legittimazione trova forza non solo nel complessivo quadro normativo e giurisprudenziale cui si è fatto riferimento – univocamente diretto a offrire una piena tutela alle situazioni di convivenza di fatto -, quanto piuttosto nella stessa struttura, funzione e natura della disposizione in esame.
Va riconosciuto che nella specie l’applicazione della scusante al “convivente” si pone in linea proprio con la ratio della causa di esclusione della colpevolezza. Insomma, si tratta di operare una interpretazione di una norma di favore concernente la colpevolezza in piena conformità alla ratio della scusante stessa, che determina una lettura “analogica” della norma che le consente di esplicare tutta la propria portata con coerenza e razionalità.
Infatti, in presenza di una scusante basata su una situazione soggettiva della persona chiamata a rendere una dichiarazione all’autorità giudiziaria ovvero a fornire indicazioni alla polizia giudiziaria contro un proprio parente, che si trovi dinanzi alla alternativa – che può risultare drammatica – tra l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente e la protezione dei propri affetti, risulta del tutto “incoerente” negare che non ricorra la medesima condizione soggettiva, sia che si tratti di persone coniugate, sia che si tratti di persone conviventi. In entrambi i casi il conflitto interiore è identico.
In entrambi i casi l’art. 384 cit. considera inesigibile la condotta oggetto della norma penale violata, per mancanza della “colpevolezza” dell’agente. D’altra parte, l’art. 384, primo comma, cod. pen. più che funzionale alla tutela dell’«unità familiare», appare volto a garantire il singolo componente che si trovi nell’alternativa di porre in essere un reato ovvero di non nuocere a un prossimo congiunto. In questo senso, si è evidenziato come la disposizione sia posta a «tutela del singolo familiare sull’interesse della collettività e dello Stato alla punizione».
La ratio corrisponde perfettamente a quella dell’art. 199 cod. proc. pen., come hanno evidenziato le Sezioni Unite (sent. n. 7208 del 29/08/2007, Genovese, cit.), riconoscendo che l’art. 384 cod. pen. si ricollega al principio generale dell’ordinamento nemo tenetur se detegere, allo scopo di salvaguardare i vincoli di solidarietà “familiare“, scopo che ha di mira anche l’art. 199 cit., relativo alla facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato dal rendere testimonianza.
Anche nella disposizione processuale l’oggetto della tutela è il “sentimento affettivo“, la motivabilità dell’agente, in presenza di un conflitto interiore tra rendere una dichiarazione pregiudizievole per il “parente” e non danneggiarlo. Una simile lettura del rapporto tra le due norme citate e dell’inserimento di esse nella tematica della “famiglia“, trova conferma anche nella sentenza n. 352 del 2000 della Corte costituzionale, secondo cui «la disposizione del codice di rito sancisce la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia, chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (…) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto».
Può dirsi che l’art. 199 cod. proc. pen. acquista una funzione di indirizzo interpretativo in ordine alla estensione della scusante prevista dall’art. 384 alle coppie di fatto, considerato che la facoltà di astensione è riferita anche a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, conviva o abbia convissuto con lui. Il mancato riconoscimento dell’estensione della scusante di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., anche al convivente determinerebbe un problematico rapporto con il secondo comma dello stesso articolo, dal momento che il convivente more uxorio, sebbene gli sia riconosciuto, come per il coniuge, il diritto all’avvertimento in funzione dell’astensione di cui all’art. 199 cod. proc. pen., con conseguente non punibilità in caso di omissione, non sarebbe invece tutelato nell’ipotesi prevista dal primo comma in cui abbia posto in essere un comportamento che sia ritenuto inesigibile.
Insomma, l’art. 384, primo comma, così come l’art. 199 cod. proc. pen., è volto a tutelare la libertà del singolo componente della “famiglia“.
Ciò avviene valorizzando il coinvolgimento psicologico dell’agente, dando rilievo alla situazione di conflitto che altera “il procedimento di motivabilità“, che coinvolge la sfera della “colpevolezza“. La struttura, la funzione e la natura della scusante dell’art. 384, primo comma, così come ricostruita, consente di concludere riconoscendo una assoluta parità delle situazioni in cui possono venirsi a trovare il coniuge e il convivente, nel senso che l’esistenza di un conflitto determinato da sentimenti affettivi, non può essere valutato differentemente a seconda che l’unione tra due persone sia fondata o meno sul vincolo matrimoniale.
Affermata la possibilità di applicare “analogicamente” la causa di esclusione della colpevolezza anche nei confronti di chi abbia commesso uno dei reati indicati nell’art. 384, primo comma, cod. pen. per “salvare” il convivente di fatto, ne deriva la necessità che la situazione di “convivenza” risulti in base ad elementi di prova rigorosi.
La dimostrazione della ricorrenza della situazione della convivenza potrà essere dimostrata anche dall’imputato, attraverso allegazioni da cui risultino elementi specifici che pongano il giudice in condizione di accertarne l’esistenza. Riguardo ai caratteri della “convivenza“, la legge n. 76 del 2016 definisce conviventi due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, di fatto utilizzando i risultati di una consolidata giurisprudenza civile e anche penale, che richiede la sussistenza di un grado di stabilità e di continuatività del legame affettivo, in qualche modo assimilabile al rapporto coniugale.
A seguito della citata legge del 2016 la stabilità della convivenza può oggi essere accertata anche attraverso la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 13 del regolamento di cui al d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, dichiarazione che, secondo alcuni, avrebbe istituito il nuovo genere di coppie di fatto “registrate“, sebbene sia discussa la valenza costitutiva di tale dichiarazione, tuttavia ai fini penali potrà costituire un forte elemento di prova, ferma restando che la convivenza potrà comunque essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova.
Può quindi alfine formularsi per la Corte il seguente principio di diritto: “l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore“.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare in particolare della c.d. convivenza di fatto?
- in origine, si tratta in Italia – sul piano del pertinente rilievo giuridico – di un fenomeno rapsodico, siccome affiorante da singole disposizioni di legge che riconoscono al “convivente” specifici diritti (o, assai più raramente, obblighi);
- tale fenomeno viene disciplinato in modo organico e sistematico solo nel 2016 con la legge n.76 che disciplina – accanto alle “unioni civili” tra persone dello stesso sesso – anche (ed appunto) le convivenze di fatto;
- la convivenza di fatto coinvolge 2 persone maggiorenni che non siano già vincolate da rapporti di parentela, di affinità, di adozione ovvero da (altro) matrimonio o da (altra) unione civile;
- occorre che queste 2 persone siano unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale;
- la convivenza di fatto è connotata per l’appunto da una “stabile convivenza”, siccome affiorante dalla dichiarazione anagrafica resa dai conviventi ai sensi delle vigenti disposizioni di regolamento anagrafico;
- sul crinale “sociale”, in forza della legge 2016: f.1) taluni personali e specifici diritti spettano al convivente di fatto in tema di assegnazione di alloggi di edilizia economica e popolare; f.2) in caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza e di accesso alle informazioni; f.3) in caso di detenzione, i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti che spettano al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario; f.4) più in generale, in caso di morte di uno dei conviventi proprietario della casa adibita a comune residenza, il convivente superstite viene reso titolare di un novello diritto di abitazione sui generis, potendo continuare ad abitare nella ridetta casa di residenza comune per 2 anni, ovvero per un periodo pari alla convivenza laddove questa sia stata superiore a 2 anni, senza tuttavia poter superare i 5 anni dalla morte dell’altro convivente (già) proprietario; qualora poi nella stessa abitazione coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, questi ha diritto a continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a 3 anni dalla morte dell’altro convivente; all’opposto, il diritto di abitazione si estingue allorché il convivente supersite cessi di abitare stabilmente nella casa di residenza, ovvero in caso di “nuovo” matrimonio, “nuova” unione civile o “nuova” convivenza di fatto; dal punto di vista della pertinente natura giuridica, si discute se si tratti: f.4.1) del diritto reale tipico di abitazione; f.4.2) di altro diritto reale di godimento di nuovo conio (necessariamente ex lege, stante il canone di tipicità dei diritti reali ed il relativo numerus clausus); f.4.3) di un diritto personale di godimento, sulla scia della giurisprudenza che predica tale natura (e non già quella di un diritto reale) per l’analogo diritto del coniuge o ex coniuge assegnatario dell’alloggio nelle fattispecie di separazione o di divorzio; al cospetto di simile opzione ermeneutica, il problema della opponibilità ai terzi può superarsi giusta applicazione analogica dell’art.1599 c.c. in tema di locazione infra-novennale, il pertinente contratto potendo per l’appunto essere opposto ai terzi – anche laddove non trascritto – per (e fino a) 9 anni e, dunque, ben oltre il termine di durata massima del diritto di abitazione in parola (che si estende al massimo per 5 anni dalla morte del proprietario “altro” convivente deceduto);
- sul crinale “economico”, il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa familiare dell’altro convivente viene reso destinatario di una precipua tutela (nuovo art.230 ter c.c.);
- sul versante dei rapporti “personali” più intimi, ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale proprio rappresentante in caso di malattia, ovvero per le decisioni che concernano donazione di organi, modalità di trattamento della salma e celebrazioni funebri; in caso poi di cessazione della convivenza di fatto, il convivente che risulti più debole può ottenere dal giudice – laddove in stato di bisogno e non in grado di mantenere al proprio mantenimento – il riconoscimento del proprio diritto a ricevere gli alimenti dall’altro convivente, in misura proporzionale alla durata della (ormai cessata) convivenza, secondo lo spettro precettivo di cui all’art.438, comma 2, c.c.;
- sul crinale dei rapporti patrimoniali legati alla “vita in comune”, campeggia la volontà delle parti, che possono liberamente autodisciplinarsi (senza peraltro essere obbligate a farlo) giusta stipula di un c.d. contratto di convivenza, ai sensi dell’art.1, comma 50, della legge 76.16, che va redatto in forma scritta a pena di nullità (forma ad substantiam), giusta atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestino la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico; sul versante pubblicitario, finalizzato alla opponibilità del contratto ai terzi, il notaio o l’avvocato che ha rogato l’atto pertinente ovvero ne ha autenticato le sottoscrizioni deve trasmettere una copia del contratto al comune di residenza dei conviventi perché venga iscritto all’anagrafe (ai sensi dei richiamati articoli 5 e 7 del D.p.R. 223.89);
- sul crinale dell’oggetto contenutistico, il contratto di convivenza deve recare l’indirizzo indicato da ciascuna delle due parti ed al quale vanno effettuate tutte le comunicazioni che a tale contratto ineriscono, potendo invece (facoltativamente) indicare la residenza, le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, nonché la (eventuale) scelta del regime patrimoniale di comunione dei beni di cui alla sezione III, capo VI, titolo VI, libro I del codice civile; se poi da un lato al contratto di convivenza non possono essere apposti termini o condizioni (che, laddove inseriti, si hanno per non apposti: actus legitimi), dall’altro le parti possono decidere in qualunque momento di modificare il regime patrimoniale ab origine prescelto (art.1, comma 51, della legge 76.16);
- sul crinale della validità “strutturale”, il contratto di convivenza è nullo (in guisa assoluta ed insanabile, con legittimazione alla pertinente declaratoria da riconoscersi a chiunque vi abbia interesse) laddove concluso nonostante la presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza coinvolgente una delle parti contraenti, ovvero se stipulato tra soggetti non qualificabili come “conviventi di fatto” ai sensi dell’art.1, comma 36, della legge 76.16, ovvero ancora allorché sia stato stipulato da un minore di età, da un soggetto giudizialmente interdetto, ovvero da chi sia stato condannato per omicidio consumato o tentato nei confronti del “coniuge” dell’altro (c.d. impedimentun criminis del matrimonio ex art.88 c.c.), discutendosi la ricorrenza del vizio qualora l’omicidio tentato o consumato abbia coinvolto, piuttosto, il partner di una precedente unione civile;
- sul versante dello scioglimento “funzionale”, il contratto di convivenza può essere risolto (art.1, comma 59, legge 76.16) tanto in via bilaterale – per accordo tra le parti – quanto per recesso unilaterale di una di esse, in entrambe le fattispecie dovendosi osservare gli oneri di forma di cui all’art.1, comma 51, della legge 76.16, siccome previsti per la stipulazione del contratto che si va a sciogliere; più in particolare, una copia dell’atto che contiene il recesso unilaterale va notificata all’altro contraente all’indirizzo indicato nel contratto di convivenza (proprio al fine di ricevere le pertinenti comunicazioni); laddove la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente “unilaterale”, la dichiarazione di recesso deve contenere – a pena di nullità – il termine non inferiore a 90 giorni concesso al convivente “non recedente”) per lasciare l’abitazione (fino ad allora) comune; qualora poi intervenga il matrimonio o l’unione civile tra i conviventi, o tra uno di loro ed un terzo, o più radicalmente la morte di uno dei contraenti, il contratto di convivenza si risolve di diritto; laddove i contraenti abbiano scelto il regime della comunione dei beni, la risoluzione del contratto di convivenza reca seco lo scioglimento della ridetta comunione dei beni con applicazione – in quanto compatibili – delle disposizioni di cui alla sezione III, capo VI, titolo VI, libro I del codice civile.
- in difetto del “contratto di convivenza”, trovano applicazione i canoni – di elaborazione per lo più giurisprudenziale, sulla scorta dei più illuminati suggerimenti dottrinali – affiorati via via nella fase diacronica anteriore al 2016, con particolare riguardo alla rilevanza ratione materiae delle obbligazioni naturali ex art.2034 c.c., esecuzione delle quali vengono da tempo assunti i singoli apporti di natura economica, lavorativa e talvolta anche sentimentale che abbiano avuto luogo durante la convivenza di fatto (purché assistiti da adeguatezza e proporzionalità); in sostanza, l’assistenza materiale di un partner all’altro durante la convivenza non può essere fatta oggetto ex post, quanto a pertinenti prestazioni singole, di un’azione di restituzione (c.d. soluti retentio), trovandosi al cospetto di contributi corrisposti – in un prisma di solidarietà tra conviventi analogo a quello previsto dall’art.142 c.c. con riguardo alla “famiglia” tout court – per i bisogni complessivi della “famiglia di fatto”, ovvero comunque per i bisogni del singolo partner, da assumersi quale adempimento di un particolare dovere morale e sociale; resta tuttavia il problema di garantire tutela ai crediti per prestazioni non ancora eseguite, con riguardo ai quali la soluti retentio del partner creditore si palesa ovviamente priva di operatività, non avendo questi ricevuto nulla di quanto dovutogli dall’altro partner debitore: la questione si pone in particolare per le prestazioni lavorative erogate a favore del partner e non ancora “retribuite”, per le quali – assumendosi superato lo schema della presunzione di gratuità (applicato analogicamente rispetto al lavoro prestato nella “famiglia”, anteriormente al 1975) – è ormai operativo, almeno in talune fattispecie, l’art.230 ter c.c., introdotto dalla legge 76.16, che, in modo parallelo a quanto accade per l’impresa “familiare” ai sensi dell’art.230 bis c.c., garantisce al convivente di fatto “lavoratore” una forma di partecipazione agli utili dell’impresa dell’altro partner;
- come visto, la “famiglia di fatto” subisce talune cause di scioglimento analoghe a quelle che coinvolgono la “famiglia di diritto”, e segnatamente: n.1) la volontà di un partner o di entrambi di “svincolarsi”: nel caso in cui a “recedere” dal punto di vista personale sia uno solo dei conviventi, si pone il problema della relativa responsabilità, tradizionalmente esclusa al cospetto della base “volontaristica” della convivenza medesima; anche in ambito patrimoniale, gli eventuali conflitti – laddove faccia difetto un “contratto di convivenza”, siccome previsto dalla legge 76.16 – vengono tradizionalmente “sciolti” dalla giurisprudenza, specie in relazione agli eventuali beni immobili coinvolti nella convivenza medesima, distinguendosi le soluzioni a seconda della presenza o meno di prole (per il caso di morte di uno dei partner, è tuttavia ormai previsto un diritto di abitazione a beneficio dell’altro); n.2) la morte di uno dei partners: in questo caso il problema è capire se possano configurarsi diritti successori “automatici” in capo al convivente superstite, dubbio da sciogliersi in senso negativo, dacché il convivente more uxorio non rientra ancora tra i chiamati in sede di successione legittima, salvo il ridetto diritto di abitazione siccome novellamente previsto dalla legge 76.16; resta nondimeno la possibilità per ciascun convivente di confezionare un testamento finalizzato, nei limiti della porzione disponibile, ad assicurare l’acquisto mortis causa di diritti in capo all’altro;
- con specifico riguardo al tema della morte di uno dei partners, in difetto di specifiche disposizioni normative che espressamente disciplinino la successione del convivente superstite, ed in aggiunta al tradizionale strumento testamentario, la dottrina più illuminata ha ventilato ipotesi alternative, non prive ciascuna di una certa qual intrinseca problematicità, stante la potenziale incompatibilità con il divieto dei c.d. “patti successori”: l.1) il negozio a favore di terzo “post mortem”, stipulato prudentemente – in vita – dal partner economicamente “forte” a favore di quello “debole” (si rinvia, sul punto, al CRONO-PERCORSO dedicato al contratto e ai pertinenti effetti sui terzi); l.2) il trust, sulla cui ammissibilità grava tuttavia anche il frequente difetto di elementi di c.d. “internazionalità” della pertinente fattispecie (si rinvia, sul punto, al CRONO-PERCORSO dedicato ai c.d. patrimoni destinati); l.3) il vincolo di destinazione ex art.2645 ter c.c. (si rinvia, sul punto, ancora una volta al CRONO-PERCORSO dedicato ai c.d. patrimoni destinati), che può garantire sicurezza economica alla parte debole del menage attraverso l’erogazione di redditi (ritraibili dal capitale vincolato) o la messa a disposizione di taluni beni vincolati (come nel caso paradigmatico di una casa di abitazione), pur senza il trasferimento post mortem della proprietà sui beni oggetto di vincolo alla ridetta parte debole: si ventila in proposito la costituzione – ex art.2645 ter, appunto – di una sorta di “fondo patrimoniale tra conviventi” (che non sarebbe ammissibile nella relativa foggia tout court in difetto di una “famiglia” tradizionale: art.167 c.c.), secondo l’opinione più avanguardista capace financo di prevedere il mantenimento di uno dei conviventi dopo la “rottura”, oltre che dopo la morte del compagno (in quest’ultimo caso, per tutta la vita del partner superstite); un problema posto dalla norma andrebbe peraltro ravvisato nella identificazione delle facoltà concesse al «conferente», e dunque a chi costituisce il patrimonio vincolato, dovendosi capire se attraverso tale nuovo istituto sia possibile esclusivamente prevedere la costituzione di un vincolo su beni di proprietà del costituente stesso, ovvero se l’art.2645 ter ammetta anche trasferimenti di diritti in capo ad un distinto «esecutore della destinazione» e, massime, se tale ultimo soggetto possa ulteriormente vincolarsi a trasferire – una volta spirato il periodo di durata del vincolo siccome ab origine costituito – i beni pertinenti ad un soggetto distinto (conformemente allo schema del trust “non autodichiarato”); laddove si desse risposta affermativa a tale domanda, ne risulterebbe consentito far luogo non già solo ad un autentico «fondo patrimoniale tra conviventi» – fattispecie certamente ammissibile, stante la pertinente, piena rispondenza a criteri di meritevolezza di un vincolo ex art. 2645-ter e 1322 c.c. in favore della convivenza more uxorio – ma financo di prevedere attribuzioni di cespiti patrimoniali in occasione di determinati eventi, quali la cessazione del vincolo o la morte del partner «forte»;
- sul crinale penale, interessanti le questioni concernenti: p.1) sul piano processuale, l’applicabilità al convivente di fatto dell’art.199 c.p.p. in tema di facoltà di astensione dalla deposizione nei processi che coinvolgano il partner; m.2) sul crinale sostanziale, l’applicabilità al convivente medesimo – siccome recentissimamente ammessa dalle SSUU della Cassazione – dell’art.384 c.p. e della causa di non punibilità in esso inscritta, con riguardo a taluni reati contro l’amministrazione della giustizia coinvolgenti il partner (come nel tipico caso del favoreggiamento personale).
Cosa occorre rammentare in particolare della c.d. unione civile?
- è istituto nuovo varato nel 2016 con la legge n.76;
- esso coinvolge 2 persone maggiorenni dello stesso sesso e, dunque, omosessuali;
- configura una specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione;
- occorre una dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni;
- l’ufficiale di stato civile provvede poi alla registrazione dell’atto di unione civile tra persone dello stesso sesso nell’archivio dello stato civile;
- la disciplina ricalca, nella sostanza, quella del ben più collaudato “matrimonio”;
- di rilievo, sul crinale della filiazione, la questione della possibilità per entrambe le donne omosessuali unite in Italia da unione civile di poter riconoscere il figlio concepito all’estero da una di esse con un terzo in forza di una fecondazione eterologa, allorché il bimbo sia poi nato in Italia: mentre infatti una delle due donne è madre “naturale”, l’altra è solo madre “intenzionale” ed al momento ne viene escluso il diritto ad instaurare un rapporto di filiazione che sia diverso da quello adottivo; allorché il bimbo sia invece nato all’estero, viene ormai pacificamente ammessa la trascrivibilità in Italia del pertinente certificato di nascita formato appunto all’estero, l’annotazione sullo stesso di una duplice genitorialità femminile essendo stata riconosciuta non contraria a principi di ordine pubblico secondo le disposizioni di diritto internazionale privato.