Cassazione penale, Sez. I, sentenza 1° marzo 2022, n. 7140
MASSIMA
La connotazione culturale della pratica di chiedere l’elemosina non può condurre a “decriminalizzare” la condotta posta in essere dall’imputato (per il reato di cui all’art. 600 octies c.p.). Invero, i valori della cultura rom non rilevano quando contrastino con i beni fondamentali riconosciuti dall’ordinamento costituzionale, quali il rispetto dei diritti umani e la tutela dei minori.
L’esimente dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l’atto penalmente illecito, e non può quindi applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora a esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti.
Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa, che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’att. 133 c.p., cioè una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso non merita accoglimento per le ragioni di seguito esplicitate.
Quanto al primo motivo di impugnazione, la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato contestatogli è stata affermata – secondo la concorde ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito – sulla base delle precise dichiarazioni dell’assistente capo C.F., in servizio presso la Squadra Mobile di (OMISSIS), il quale aveva chiaramente riferito di avere notato dinnanzi al Tribunale della città una bambina chiedere l’elemosina ai passanti sotto la pioggia battente, nonchè a poca distanza un uomo – identificato, poi, nell’attuale imputato – al quale la predetta consegnava, via via, il denaro ricevuto. Ebbene – posto che esula dai poteri della Corte di legittimità quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, potendo e dovendo, invece, la Corte accertare se quest’ultimo abbia dato adeguatamente conto, attraverso l’iter argomentativo seguito, delle ragioni che l’hanno indotto a emettere il provvedimento – ritiene il Collegio che le argomentazioni dell’impugnata sentenza non possono dirsi manifestamente illogiche, nè contraddittorie, nè parziali, nè, infine, in contrasto con i dati acquisiti. Esse perciò, resistono alle censure con cui il ricorrente, in buona sostanza, ha riproposto la tesi difensiva già esposta nel corso dei giudizi di primo e di secondo grado, con cui sostiene che la condotta accertata è usualmente praticata dagli zingari e, in genere, in diverse comunità etniche per le quali la richiesta di elemosina costituirebbe una condizione di vita tradizionale molto radicata nella mentalità delle stesse. La dedotta connotazione culturale della pratica di chiedere l’elemosina, però, non può certamente condurre – come evidenziato nell’impugnata sentenza – a “decriminalizzare” la condotta posta in essere dall’imputato; e in vero, i “valori” della cultura rom non rilevano quando – come nel caso di specie – contrastino con i beni fondamentali riconosciuti dall’ordinamento costituzionale, quali il rispetto dei diritti umani e la tutela dei minori. Inoltre, per l’integrazione del reato contestato non è richiesto che il minore sia sottoposto a “sofferenze e/o mortificazioni”, come risulta chiaramente dal tenore della norma incriminatrice, che punisce, “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni quattordici e, comunque, non imputabile”.
- Non merita accoglimento neppure il secondo motivo di ricorso.
La prospettazione difensiva, secondo cui l’imputato avrebbe commesso il fatto per esservi stato costretto dalla profonda situazione di indigenza in cui versava, non integra l’invocata ricorrenza della scriminante di cui all’art. 54 c.p.. E in vero, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, “l’esimente dello stato di necessità postula il pericolo attuale di un danno grave alla persona, non scongiurabile se non attraverso l’atto penalmente illecito, e non può quindi applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora a esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti” (Cass. Sez. 3, n. 35590 del 11/05/2016, Rv. 267640 – 01; conformi, tra le tante: Cass. Sez. 5, n. 3967 del 13/07/2015, Rv. 265888, secondo cui “la situazione di indigenza non è di per sè idonea a integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell’attualità e dell’inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale”; Cass. Sez. 1, n. 11863 del 12/10/1995, Rv. 203245, che ha affermato che “lo stato di necessità non può essere riconosciuto al mendicante che si trovi in ristrettezze economiche, perchè la possibilità di ricorrere all’assistenza degli enti che la moderna organizzazione sociale ha predisposto per l’aiuto agli indigenti ne esclude la sussistenza, in quanto fa venir meno gli elementi dell’attualità e dell’inevitabilità del pericolo grave alla persona”).
- Infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso.
La Corte territoriale, nel rigettare la richiesta dell’imputato, tendente a ottenere l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 – bis c.p., ha affermato che essa non poteva “essere accolta stante il forte disvalore sociale della condotta posta in essere dall’ A.V.C. in rapporto alla natura degli interessi protetti dalla disposizione incriminatrice, ovvero le esigenze di tutela dei soggetti di minore età”; tale giudizio va esaminato congiuntamente alla complessiva motivazione delle sentenze di merito, dalle quali emergono le modalità dell’accertata condotta dell’imputato e, in particolare, la circostanza che la bambina di soli sei anni rivolgeva ai passanti la richiesta di elemosina sotto una pioggia battente e, quindi, consegnava il denaro ricevuto all’imputato posizionato a pochi metri di distanza. Posto che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa, che ha ad oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell’att. 133 c.p., cioè una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, la decisione adottata è esente da vizi giuridici di sorta perchè ha avuto riguardo alle forme di estrinsecazione del comportamento dell’imputato al fine di valutarne complessivamente la gravità e l’entità del contrasto rispetto alla legge.
- Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
- In caso di diffusione del presente provvedimento, occorre omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.