Massima
Tradizionalmente ancorata alla condanna, peraltro per reati particolarmente gravi, e capace di far convogliare nel Fiscus (“con-fisca”) i beni del condannato, l’ablazione penale si è andata via via sganciando dalla previa condanna, per assumere fogge polimorfe ed atteggiarsi sovente a strumento di tipo preventivo capace, come tale, di sterilizzare la pericolosità di soggetti in odore di illecito, massime se avvinti o comunque collegati a fenomenologie malavitose associative o di gruppo, come nella ipotesi classica della consorteria mafiosa; espropriare beni coinvolge tuttavia nella generalità dei casi non già solo il soggetto concretamente ablato, ma anche coloro con i quali questi ha rapporti di tipo civilistico, con particolare riguardo a chi ne è creditore, massime se titolare di garanzie reali sui beni confiscati, con conseguente necessità di prevedere strumenti che consentano la tutela delle ragioni dei terzi senza ad un tempo compromettere la tenuta “preventiva” dell’ablazione medesima.
Crono-articolo
La confisca dei beni del condannato è presente all’interno del sistema punitivo romano già in epoca Repubblicana, attraverso l’istituto della c.d. publicatio bonorum, disposta unitamente alla condanna (tendenzialmente mai dunque prima di essa) ed, in genere, accompagnantesi alla perdita dello status di cittadino Romano (c.d. capitis deminutio media); una sorta di conseguenza necessaria dunque dell’accertamento del fatto illecito, assai più che semplice accessorio rispetto all’irrogazione della pena, atteso come al giudice sia sottratta ogni forma di sindacato (potere vincolato) in merito alla relativa applicazione, dovendosi assumere la ridetta publicatio bonorum operativa ipso iure, quale effetto penale della condanna. Esclusi i casi in cui essa si atteggia a sanzione principale per delitti meno gravi, l’ablazione viene dunque in genere correlata – per via accessoria – alla commissione di delitti di particolare gravità, come la pubblicistica perduellio (genericamente assimilabile ad un alto tradimento verso lo Stato) ed il privatistico parricidio cui segue, di norma, l’irrogazione della pena capitale, unica legalmente riconosciuta in epoca repubblicana; solo successivamente, con l’ampliamento del novero delle pene principali (oltre alla condanna a morte), la misura viene applicata anche in conseguenza della c.d. relegatio, da intendersi genericamente come deportazione ed interdizione. Si ha publicatio bonorum anche nelle ipotesi, del pari assai gravi, di condanna a pena principale sub specie di “interdìctio aqua et igni” (allontanamento coatto e definitivo dal territorio romano: coloro che subiscono questo provvedimento non possono più rientrare in Patria e, se varcavano i confini dell’Urbe, non solo non riacquistano la capacità giuridica del civis Romanus, ma possono financo essere impunemente aggrediti da qualsiasi cittadino, mentre in periodo classico subiscono le pena pubblica della deportatio in insulam ); o, più tardi, sub specie di damnàtio ad metalla (pena corporale consistente in lavori forzati da espiare presso miniere; i condannati in metallum sono considerati sostanzialmente degli schiavi). Nel sistema punitivo romano della Repubblica dunque la publicatio bonorum si palesa inscindibilmente avvinta alla commissione di delitti ed alla irrogazione di pene che, come è stato fatto notare, comportano la sostanziale espunzione del reo dalla cerchia sociale, giusta eliminazione fisica (condanna a morte) ovvero a seguito di deportazione; rispetto a tale allontanamento (o a tale dipartita fisica), il deferimento al popolo delle sostanze del condannato si colloca in linea di naturale e logico continuum, quale ulteriore strumento (di natura patrimoniale) per la definitiva cancellazione del novello hostis (nemico) dal novero dei cives Romani. Una ablazione peraltro sprovvista di qualsivoglia nesso eziologico con la concreta condotta criminosa perpetrata dal condannato e che – in termini quantitativi – abbraccia l’interezza del relativo patrimonio senza limitazione alcuna (onde, nelle più blande ipotesi di deportazione, in proprietà del condannato non rimane nulla), senza che alcun limite possa riscontrarsi neppure nella presenza di eredi i quali, a cagione del reato commesso da loro congiunto (ascendente), vengono di fatto privati del diritto a succedere: un temibile strumento dunque, capace di significativa potenza afflittiva non solo nei confronti del condannato, ma anche dei relativi aventi causa, onde le conseguenze nefaste dell’azione criminosa producevano effetti infausti sull’intera “familia” del condannato. Proprio per tale eccessiva afflittività della misura, in epoca imperiale la relativa applicazione viene sovente mitigata da interventi correttivi dell’Imperatore, come nel caso del viaticum, quale piccolo patrimonio che l’esule può prendere perché possa trasferirsi ed installarsi nella terra d’esilio; o delle “portiones concessae”, piccoli lasciti elargiti agli eredi a seguito della condanna del loro dante causa; o ancora di una pensione, sovente consistente, detta “annuum”; istituti di “clemenza” che tuttavia non entrano in frizione con il principio onde al reo va confiscata la totalità dei suoi beni, compendiando piuttosto graziose ed arbitrarie concessioni del potere imperiale, tipiche espressioni di quell’imperium sul quale si fonda l’intero sistema punitivo in epoca classica (periodo nel quale peraltro – e sul crinale opposto rispetto alla cennata mitigazione di regime – la confisca, operativa nella c.d cognitio extra ordinem e dunque ormai al di fuori del processo formulare, assume il nome di ademptio bonorum, con connotati talvolta di maggiore autonomia rispetto alla irrogazione di specifiche pene principali, e con confluenza dei beni “confiscati” nel Fiscus). Più tardi, le ridette concessiones si trasformano in veri e propri diritti in capo agli eredi del condannato ed anzi, per i casi di condanna a morte, in presenza di eredi la publicatio bonorum prende a non operare più, mentre per le fattispecie di deportazione l’erario continua a vantare diritti sul patrimonio del reo e tuttavia non più per l’intero ma per la metà laddove presenti figli, o per quota ancora minore in caso di presenza di altri eredi oltre ai figli. Nel 421 l’imperatore Teodosio sopprime la distinzione tra condannati a morte ed alla deportazione, con conseguente, sostanziale inoperatività della publicatio bonorum; infine il diritto giustinianeo – pur informato al principio secondo cui “non enim res qui delinquit, sed qui res possident” (non sono le cose a delinquere, ma coloro che posseggono cose) – sostanzialmente conferma la sostanziale soppressione della pena della confisca. Va precisato tuttavia come il regime resti molto rigoroso in caso di condanna per perduellio onde, stante la gravità del reato in tal caso commesso, il condannato continua ad essere punito con la morte e con la confisca generale dei beni.
1889
La codificazione liberale Zanardelli disciplina la confisca in via generale in talune norme, senza ancora distinguerla tra misura di sicurezza e misura di prevenzione: non avendo ancora isolato le c.d. “misure di sicurezza” come categoria di provvedimenti destinati a disinnescare la pericolosità del reo “condannato”, a fortiori in esso non si trovano tracce delle misure di prevenzione che, come tali, non presuppongono ancora neppure una condanna. All’art.36 è previsto che in caso di condanna il giudice può (discrezionalmente) ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il delitto (non, dunque, la contravvenzione), e delle cose che ne sono il prodotto, purché non appartengano a persone estranee al delitto (così palesandosi già una certa sensibilità per la tutela dei terzi). La norma, al comma 2, precisa tuttavia che ove si tratti di cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o vendita costituiscano reato, la relativa confisca è sempre ordinata dal giudice (e dunque non è discrezionale, come nelle ipotesi di cui al comma 1), quand’anche non vi sia condanna (ed ancorché esse non appartengano all’imputato, per appartenere a terzi), così palesando di intendere la confisca obbligatoria come “sganciata” dalla condanna e dunque accostabile ad una misura di prevenzione. Un caso particolare di confisca è poi quello disciplinato dall’art.486 del codice onde, in ogni caso di contravvenzione per giuoco d’azzardo, il denaro esposto nel giuoco e gli arnesi od oggetti adoperati o destinati per il medesimo “si confiscano”: non discorrendosi esplicitamente di condanna, e riferendosi la fattispecie piuttosto ad “ogni caso”, anche qui si è al cospetto di una confisca accostabile alle misure di prevenzione.
1930
Nel codice penale Rocco la confisca di prevenzione non è prevista, essendo disciplinata all’art.240 la sola confisca come misura di sicurezza patrimoniale.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27, comma 1 e 3): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza particolarmente importante laddove una misura di carattere patrimoniale irrogata dal giudice penale colpisca un soggetto per un fatto non accertato come da lui commesso (e financo in difetto di un fatto accertato). Lo stesso articolo 27 della Carta, al comma 2, prevede la presunzione di innocenza, nessuno potendo essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva, con normale nesso tra sanzione penale ed intervenuta condanna irrevocabile. L’articolo 25 prevede poi che sia la legge a prescrivere quando un soggetto può essere punito (pena) e quando può essere assoggettato a misura di sicurezza, con conseguente consacrazione del principio di legalità in materia penale; del pari è la legge, ai sensi dell’art.42, comma 3, e dell’art.43, a stabilire quando la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale.
1956
Il 27 dicembre viene varata la legge n.1423, recante la prima disciplina sistematica delle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità. Di particolare rilievo l’art.7 e la disciplina, ivi contemplata, della revoca delle misure di prevenzione; non essendo previsto per i procedimenti di prevenzione lo strumento della revisione – che garantisce i condannati a seguito di un processo penale con sentenza o decreto – la giurisprudenza assumerà applicabile appunto la ridetta revoca, con funzione analoga, per i provvedimenti di prevenzione, ivi comprese le confische, non essendo rintracciabile nel sistema un rimedio diverso a garanzia del soggetto destinatario della confisca. Si tratta di una revoca che può essere invocata con efficacia ex nunc sia, sul crinale funzionale, perché sono venuti meno i presupposti di applicabilità della misura di prevenzione – come accade laddove il soggetto non sia più assunto socialmente pericoloso – sia per far valere difetti di tipo genetico del provvedimento applicativo della misura. Normalmente i beni confiscati verranno affidati a soggetti pubblici istituzionali o anche a privati, i quali – in quest’ultimo caso (soggetti privati) al netto di eventuali sempre possibili e difficilmente dimostrabili interposizioni fittizie (con conseguente recupero indiretto dei beni da parte dei soggetti confiscati) – si troveranno esposti – quanto a continuità di utilizzo dei pertinenti beni in relazione alla destinazione sociale ad essi medio tempore impressa – a continue istanze di revoca da parte dei soggetti incisi dalla confisca, con conseguente sostanziale instabilità del c.d. “giudicato di prevenzione”, stante anche la possibilità di dare la stura, da parte di soggetti estranei al procedimento di prevenzione, ad analoghi incidenti di esecuzione (avvalendosi del medesimo art.7) al fine di recuperare un bene assunto proprio, e non già del soggetto indiziato.
1964
Il 23 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.23 che, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, concernente misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, chiarisce che le misure di prevenzione in parola non possono essere adottate sulla base di semplici sospetti, richiedendosi per la relativa applicazione una oggettiva valutazione dei fatti, dalla quale risulti una condotta abituale ed il tenore di vita della persona prevenuta
1965
Il 31 maggio viene varata la legge n.575 recante disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere: si tratta del primo provvedimento organico anti-mafia.
1967
Il 30 maggio esce la sentenza della Cassazione civile n.1207, alla cui stregua la confisca di prevenzione fa luogo ad un acquisto dello Stato a titolo originario, e non già derivativo, trattandosi di un provvedimento a carattere essenzialmente sanzionatorio, onde i terzi titolari di diritti sul bene medesimo, come nel caso dei creditori – ancorché assistiti da diritti reali di garanzia – devono assumersi del tutto sforniti di tutela, l’acquisto in capo allo Stato avvenendo (a titolo originario appunto) direttamente ex lege, senza alcun concorso del confiscato in veste di “dante causa”, sulla scorta di un potere ablativo che è espressione del potere sovrano della collettività orientato alla prevenzione e repressione del crimine. Si tratta di un orientamento pretorio che rimarrà prevalente, dando peraltro per scontata – a fortiori – la totale assenza di tutela per i creditori chirografari, non potendo la mera garanzia patrimoniale ex art.2740 c.c. prevalere, per l’appunto, sulla confisca quale atto sanzionatorio capace di fare acquistare allo Stato a titolo originario.
1982
Il 13 settembre viene varata la legge n.646, meglio nota come legge Rognoni – La Torre, che conia la nuova fattispecie di associazione mafiosa (o di stampo mafioso). Essere “associato” di una consorteria mafiosa diviene il presupposto sia della fattispecie penale corrispondente, di cui al nuovo art.416.bis c.p., sia di un parallelo procedimento di prevenzione: si tratta di due piani – quello penale e quello meramente preventivo – che si distinguono (considerata anche la fase emergenziale in cui la normativa viene varata) solo per il diverso livello di prova raggiungibile per quanto concerne proprio la concreta adesione del singolo soggetto all’associazione mafiosa, onde quest’ultimo nel processo penale viene accertato “mafioso”, mentre a livello di prevenzione è sufficiente il semplice sospetto (seppure di tipo oggettivo), in uno spettro di possibili configurazioni della fattispecie che, muovendo da tale (mero) sospetto, giunge fino all’indizio idoneo proprio a far partire il processo penale. Il tutto suscita le critiche della dottrina più avvertita, sia sul piano del rischio di duplicazione procedimentale, sia su quello più sostanziale delle garanzie da riconoscere al prevenuto. L’art.14 novella poi la legge n.575.65 inserendovi, tra gli altri, un articolo 2.ter, il cui comma 4 prevede l’obbligo della citazione dei terzi ai quali risultino appartenere i beni assoggettati a sequestro di prevenzione orientato alla relativa confisca.
1986
Il 26 maggio esce la sentenza della Cassazione che fa assumere gravante sul prevenuto non già l’onere di provare la provenienza lecita dei beni sequestrati dal PM onde evitarne la confisca (circostanza che realizzerebbe una vera e propria inversione dell’onere della prova), quanto piuttosto l’onere di (solo) allegare circostanze idonee a dimostrare la provenienza lecita di quei beni che il PM ha assunto invece – in sede di sequestro – di provenienza illecita, dovendo il PM medesimo recare elementi indizianti proprio all’atto del pertinente sequestro che, se confermati, conducono il giudice alla relativa confisca.
1987
Il 2 aprile esce la sentenza della Cassazione Greco, la quale assume che laddove l’art.2.ter, comma 4, della legge 575.65 prevede l’obbligo di citare i terzi ai quali appartengano i beni assoggettati a sequestro di prevenzione, essa fa palese riferimento a tutti coloro che su tali beni vantino diritti reali di godimento assoluti ed anche parziari, purché con data di costituzione antecedente al sequestro medesimo, orientato alla successiva confisca.
1988
*Il 9 dicembre esce la sentenza della Cassazione che fa assumere gravante sul prevenuto non già l’onere di provare la provenienza lecita dei beni sequestrati dal PM onde evitarne la confisca (circostanza che realizzerebbe una vera e propria inversione dell’onere della prova), quanto piuttosto l’onere di (solo) allegare circostanze idonee a dimostrare la provenienza lecita di quei beni che il PM ha assunto invece – in sede di sequestro – di provenienza illecita, dovendo il PM medesimo recare elementi indizianti proprio all’atto del pertinente sequestro che, se confermati, conducono il giudice alla relativa confisca.
1989
*Il 18 aprile esce la sentenza del Tribunale di Palermo, alla cui stregua la confisca di prevenzione ex art.2.ter della legge 575 del 1965 fa luogo ad un acquisto dello Stato da titolo originario, e non già derivativo, trattandosi di un provvedimento a carattere essenzialmente sanzionatorio, onde i terzi titolari di diritti sul bene medesimo, come nel caso dei creditori – ancorché assistiti da diritti reali di garanzia – devono assumersi del tutto sforniti di tutela, l’acquisto in capo dello Stato avvenendo (a titolo originario appunto) direttamente ex lege, senza alcun concorso del confiscato in veste di “dante causa”, sulla scorta di un potere ablativo che è espressione del potere sovrano della collettività orientato alla prevenzione e repressione del crimine.
1994
Il 19 maggio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.190 che – in difetto di una soluzione di tipo obbligato, e dunque di una forma di vincolatezza del potere legislativo, che si atteggia all’opposto a discrezionale, così impedendo una pronuncia additiva della Corte medesima – dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art.2.ter, comma 5, della legge 575.65, sollevata con riferimento agli articoli 27, comma 1, 25, comma 3 e 24, comma 1 della Carta, nella parte in cui tale normativa non prevede che i terzi creditori tanto chirografari che privilegiati del prevenuto, ancorché in forza di titoli anteriori al procedimento di prevenzione, abbiano – tanto all’interno del procedimento di prevenzione quanto all’esterno del medesimo e dunque già in sede di giudizio di cognizione o di esecuzione – la possibilità di ottenere una tutela giuridica capace di soddisfare le relative pretese sui beni assoggettati a procedimento di confisca o comunque definitivamente confiscati, nonché nella parte in cui tanto l’art.2.ter quanto l’art.4 non prevedono che gli effetti della confisca e della conseguente devoluzione dei beni allo Stato non eccedano l’ambito (personale e) patrimoniale dell’indiziato mafioso così inopinatamente coinvolgendo anche i terzi creditori medesimi e sottraendo loro la possibilità di soddisfare i propri crediti vantati ex ante nei confronti dell’indiziato e prevenuto medesimo. Si tratta di una pronuncia che acuisce le critiche di quella parte della dottrina che assume i terzi creditori di buona fede totalmente privi di una qualche forma di tutela dinanzi alla confisca e, in quanto tali, destinatari a propria volta della confisca medesima, quale forma di sanzione senza colpa in frizione tanto con il principio civilistico di tutela dell’affidamento quanto di quello penalistico di responsabilità penale personale ai sensi dell’art.27, comma 1, Cost.
1997
Il 3 luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5988 alla cui stregua la confisca fa luogo ad un acquisto dello Stato a titolo derivativo dal soggetto confiscato, onde in caso di terzi creditori del confiscato assistiti da diritti reali di garanzia, dopo la confisca tali diritti, in forza dello ius sequelae, possono essere fatti valere nei confronti dello Stato medesimo.
1999
*Il 5 marzo esce la sentenza della Cassazione civile n.1868, che ribadisce come la confisca di prevenzione ex art.2.ter della legge 575 del 1965 faccia luogo ad un acquisto dello Stato da titolo originario, e non già derivativo, trattandosi di un provvedimento a carattere essenzialmente sanzionatorio, onde i terzi titolari di diritti sul bene medesimo, come nel caso dei creditori – ancorché assistiti da diritti reali di garanzia – devono assumersi del tutto sforniti di tutela, l’acquisto in capo dello Stato avvenendo (a titolo originario appunto) direttamente ex lege, senza alcun concorso del confiscato in veste di “dante causa”, sulla scorta di un potere ablativo che è espressione del potere sovrano della collettività orientato alla prevenzione e repressione del crimine.
L’8 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.99, Bacherotti, che si esprime nel senso onde la confisca fa luogo ad un acquisto dello Stato a titolo derivativo dal soggetto confiscato, onde in caso di terzi creditori del confiscato assistiti da diritti reali di garanzia, dopo la confisca tali diritti, in forza dello ius sequelae, possono essere fatti valere nei confronti dello Stato medesimo.
2001
L’11 gennaio esce la sentenza della Cassazione Palini alla cui stregua la confisca fa luogo ad un acquisto dello Stato a titolo derivativo dal soggetto confiscato, onde in caso di terzi creditori del confiscato assistiti da diritti reali di garanzia, dopo la confisca tali diritti, in forza dello ius sequelae, possono essere fatti valere nei confronti dello Stato medesimo. La questione si trascina da tempo e sospinge verso la istituzione di varie commissioni di studio che si succedono negli anni successivi e che vengono incaricate di varare un testo normativo inteso a risolvere in modo definitivo le problematiche che vi sono sottese, massime in termini di tutela dei terzi creditori di buona fede del prevenuto destinatario della confisca.
2003
Il 19 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.13081 che premette come sia necessario, per quanto possibile, garantire i terzi coinvolti dalla confisca di prevenzione dai possibili effetti pregiudizievoli ad essa riconducibili, non potendo tale confisca tradursi in sacrifici ingiustificati delle posizione giuridiche di terzi che siano rimasti estranei al pericolo o all’illecito che detta confisca fonda; la Corte prosegue tuttavia prendendo atto di come il creditore ipotecario non sia contemplato nell’art.2.ter della legge 565 del 1975, non rientrando dunque tra i soggetti coinvolti nel procedimento di prevenzione, e poiché il principio della libertà di iniziativa economica privata (che ne fonda la posizione creditoria privilegiata) è da intendersi recessivo rispetto al principio, del pari costituzionale, della utilità sociale (art.41 Cost.) posto a base della confisca di prevenzione, il creditore ipotecario deve intendersi privo di tutela delle proprie ragioni.
Il 29 ottobre esce la sentenza della III sezione civile della Cassazione n.16227 alla cui stregua il creditore ipotecario va assunto quale “terzo” da garantire allorché sia divenuto titolare del pertinente diritto reale di garanzia (ipoteca) anteriormente all’insorgere del procedimento di prevenzione coinvolgente l’immobile poi confiscato, essendo stata iscritta ipoteca sull’immobile, per l’appunto, prima dell’intervento della relativa confisca. In questi casi, in sede di esecuzione civile il creditore ipotecario ha diritto a che il giudice della prevenzione gli assicuri l’esercizio dei propri diritti sulla cosa confiscata.
2005
Il 31 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12317 che si occupa delle forme di tutela del terzo coinvolto nel procedimento di prevenzione, con particolare riguardo al creditore ipotecario relativamente al bene confiscato: a quest’ultimo va per la Corte garantita piena tutela laddove vanti appunto dei diritti reali sul bene oggetto di confisca, ivi compresi eventuali diritti reali di garanzia come l’ipoteca. Lo strumento di tutela per il terzo è in prima battuta l’incidente di esecuzione dinanzi al giudice della prevenzione, laddove – in veste di creditore ipotecario – egli può chiedere che ne sia accertata la propria incolpevole buona fede, il proprio affidamento del pari incolpevole e dunque, in sostanza, la propria estraneità alle attività illecite imputate al proposto. Sulla scorta di tale accertamento in sede (penale) di prevenzione, lo stesso creditore ipotecario di buona fede può poi esperire le azioni recuperatorie a tutela del proprio credito in sede civile.
*Il 12 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 13413 che si occupa delle forme di tutela del terzo coinvolto nel procedimento di prevenzione, con particolare riguardo al creditore ipotecario relativamente al bene confiscato: a quest’ultimo, ribadisce la Corte, va garantita piena tutela laddove vanti appunto dei diritti reali sul bene oggetto di confisca, ivi compresi eventuali diritti reali di garanzia come l’ipoteca. Lo strumento di tutela per il terzo è in prima battuta l’incidente di esecuzione dinanzi al giudice della prevenzione, laddove – in veste di creditore ipotecario – egli può chiedere che ne sia accertata la propria incolpevole buona fede, il proprio affidamento del pari incolpevole e dunque, in sostanza, la propria estraneità alle attività illecite imputate al proposto. Sulla scorta di tale accertamento in sede (penale) di prevenzione, lo stesso creditore ipotecario di buona fede può poi esperire le azioni recuperatorie a tutela del proprio credito in sede civile.
2008
Il 23 maggio viene varato il decreto legge n.92, che reca misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e che introduce nell’art.2.bis della legge 575.65 (attraverso il relativo articolo 10, comma 1, lettera c) un comma 6.bis, alla cui stregua le misure di prevenzione (antimafia) personali e patrimoniali – tra queste ultime, in particolare la confisca – possono essere richieste e applicate disgiuntamente.
Il 24 luglio viene varata la legge n.125 che converte con modificazioni il decreto legge n.92.
2009
Il 15 luglio viene varata la legge n.94 che, novellando l’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65, ribadisce che le misure di prevenzione (antimafia) personali e patrimoniali possono essere richieste e applicate disgiuntamente precisando inoltre che, per le misure di prevenzione patrimoniali (e dunque, in primis, per la confisca di prevenzione antimafia), tale applicazione è indipendente dalla pericolosita’ sociale attuale del soggetto proposto al momento della richiesta della misura di prevenzione medesima: in sostanza, se viene meno la pericolosità sociale del proposto, non possono applicarglisi le misure di prevenzione personali, mentre può continuare ad applicarglisi la misura di prevenzione patrimoniale, e dunque la confisca, per la quale l’attualità della ridetta pericolosità non è più requisito imprescindibile di richiesta e di applicazione, pur rimanendo tuttavia necessario l’accertamento da parte del giudice della inquadrabilità del proposto medesimo nel novero di quelli cui può essere applicata la ridetta misura di prevenzione ablatoria.
2010
Il 13 agosto viene varata la legge n.136, che reca delega al Governo ad elaborare un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione.
2011
Il 6 settembre viene varato il decreto legislativo n.159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136. In particolare, la confisca di prevenzione viene disciplinata agli articoli 24 e seguenti del codice, il quale abroga la legge 575.65. Nei confronti dell’indiziato viene iniziato un procedimento orientato appunto alla confisca, da parte del competente Tribunale, dei beni in precedenza sequestratigli e dei quali egli non sia in grado di giustificare la legittima provenienza; beni dei quali egli, anche per interposta persona, fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito siccome dichiarato ai fini delle pertinenti imposte, ovvero in valore sproporzionato rispetto alla propria attività economica (oltre che dei beni che risultino essere il frutto di attività illecite o che di esse costituiscano il reimpiego). I beni sequestrati risultano immessi nel possesso di un amministratore giudiziario, e da tale immissione in possesso la confisca può intervenire nel termine di un anno e 6 mesi; tuttavia in caso di indagini complesse ovvero di compendi patrimoniali rilevanti, tale termine può essere prorogato per non più di due volte, per un arco temporale sempre semestrale (e dunque complessivamente per un anno al massimo). Può accadere che il soggetto indiziato nei cui confronti è proposta la confisca di prevenzione disperda, distragga, occulti o svaluti i beni pertinenti con la finalità di eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro e di successiva confisca, fattispecie nella quale tanto il sequestro quanto la confisca cadono ex lege su beni di valore equivalente (c.d. confisca per equivalente), tipologia di ablazione che – ai sensi dell’art.25 – opera anche laddove, prima dell’esecuzione del sequestro, il prevenuto li abbia legittimamente trasferiti a terzi in buona fede, con corredo di relativa non confiscabilità in forma specifica. Proprio il regime del trasferimento a terzi dei beni oggetto di confisca trova nel codice specifica disciplina, massime con riguardo all’ipotesi dei trasferimenti fittizi: laddove infatti il trasferimento a terzi dei beni o la relativa intestazione siano accertati come fittizi, il decreto che dispone la confisca dei beni medesimi contestualmente dichiara la nullità dei pertinenti atti di disposizione dei beni in parola, fissandosi anche delle presunzioni di fittizietà (art.26): si prende a punto di riferimento la proposta di confisca, assumendosi presuntivamente fittizi i trasferimenti e le intestazioni a titolo gratuito o fiduciario operate nei 2 anni precedenti nei confronti di qualunque terzo e – nel caso di peculiari categorie di destinatari (ascendente, discendente, coniuge, persona stabilmente convivente, parenti entro il 6° grado ed affini entro il 4° grado) – anche laddove operate a titolo oneroso. Assai importante anche l’art.28 in tema di revocazione (simil-“revisione”) della confisca di prevenzione, disciplinata espressis verbis dopo che per anni il pertinente regime è stata ritratto dall’art.7 della legge 1423.56: il legislatore (che abroga contestualmente il ridetto art.7) pone il problema di coniugare le imprescindibili garanzie da offrire al soggetto confiscato con la necessità, pure rilevante, di garantire stabilità alla confisca di prevenzione, massime al fine di assicurare la continuità della destinazione di tipo sociale impressa ai pertinenti beni. L’equilibrio viene trovato consentendo al prevenuto che abbia con successo ottenuto la revocazione della subita confisca un ristoro solo “per equivalente” e, al contempo, escludendo il recupero del bene confiscato “in forma specifica”: in sostanza il bene confiscato entra irreversibilmente a far parte del patrimonio dello Stato privo di oneri o pesi, mentre al soggetto confiscato fuori asse rispetto al quadro ordinamentale viene garantita la corresponsione di una somma pari al valore di mercato del bene, siccome stimato dal competente amministratore giudiziario. Si tratta di un procedimento di revocazione orientato a dimostrare la insussistenza dei presupposti originari che hanno prodotto la confisca, la cui disciplina è nella sostanza quella prevista – per le sentenze di condanna definitive – dall’art.630 c.p.p. in tema di revisione, onde sarà possibile per il soggetto ablato ottenere il valore di mercato del bene sottrattogli in caso di scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento; nella ipotesi in cui l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca sia esclusa in modo assoluta da fatti accertati con sentenze penali definitive che siano sopravvenute o, se anteriori, che siano conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione (con ablazione dei pertinenti beni); nella fattispecie in cui la decisione sulla confisca sia stata motivata unicamente, ovvero in modo determinante, sulla scorta di atti riconosciuti falsi, ovvero di falsità intervenute nel giudizio, ovvero ancora di un fatto previsto dalla legge come reato. La richiesta di revocazione va proposta, a pena di inammissibilità, nel termine di 6 mesi da quando si è verificata una delle ipotesi che la consentano, a meno che il soggetto ablato dimostri di non averne avuto conoscenza per causa a lui non imputabile; viene peraltro esclusa la legittimazione a spiccare domanda di revocazione della confisca in capo a chi, potendo o dovendo partecipare al pertinente procedimento applicativo, vi abbia rinunciato espressamente o implicitamente. Per quanto più in particolare concerne le fattispecie di mafia, gli articoli 29 e 30 dettano una specifica disciplina dei rapporti tra processo penale e procedimento di prevenzione, con particolare riguardo alla coesistenza dei due titoli di sequestro (penale e, appunto, di prevenzione): poiché per il sequestro penale il codice di procedura prevede la mera custodia dei beni sequestrati, mentre per il sequestro di prevenzione è prevista la gestione ed amministrazione dei beni che vi siano coinvolti, il codice prevede che laddove i due sequestri coesistano prevale il sequestro (e la successiva confisca) di prevenzione, onde i beni sequestrati vengono affidati all’amministratore giudiziario anche al fine di consentirne la miglior finalizzazione proprio in caso di relativa confisca. Peraltro la confisca di prevenzione può essere disposta anche su beni già assoggettati a sequestro in sede penale, prevalendo per l’appunto il regime della confisca di prevenzione; per quanto riguarda tuttavia la vendita, l’assegnazione e la destinazione dei beni confiscati, si applicano le disposizioni relative alla confisca che per prima è divenuta definitiva; in ogni caso, anche la confisca successiva va trascritta, iscritta o annotata con le modalità previste nel pertinente decreto che la dispone. In tema di tutela dei terzi titolari di diritti reali sui beni sottoposti a sequestro di prevenzione e come tali orientati alla confisca, l’art.23 ripropone il disposto dell’art.2.ter, comma 4, della legge 575 del 1965, con il conseguente obbligo di citare i detti terzi ai quali risultino appartenere i beni assoggettati per l’appunto a sequestro, ribadendone la piena tutela che viene meno solo laddove si provi la natura fittizia della pertinente intestazione e, dunque, l’interposizione di persona, con disponibilità reale del bene sequestrato (e poi confiscato) in capo al prevenuto. Per quanto riguarda la tutela dei terzi, massime se titolari di diritti reali di garanzia sui beni oggetto di confisca, rilevante l’art.52 che – anche al cospetto di una confisca definitiva – assicura protezione ai terzi che siano divenuti creditori anteriormente al sequestro poi sfociato nelle ridetta confisca in forza di titolo documentato con atto di data certa; il diritto reale di garanzia va reso effettivo, e tuttavia per la norma non è sufficiente controllare ab extrinseco la sussistenza del credito garantito, dovendosi piuttosto accertare la buona fede del terzo creditore, da intendersi quale totale estraneità del medesimo all’attività illecita del prevenuto; va tenuto conto che il prevenuto medesimo potrebbe infatti approfittare della tutela garantita al terzo creditore ipotecario realizzando fittiziamente una fattispecie di credito garantito al fine di assicurarsi, seppure indirettamente, il controllo sul bene confiscatogli; perché la garanzia ipotecaria possa concretamente estrinsecarsi vengono previste allora tutta una serie di condizioni, a partire dalla imprescindibile previa escussione infruttuosa da parte del terzo creditore ipotecario del restante patrimonio del prevenuto non coinvolto nel procedimento di prevenzione; è inoltre necessario che il credito garantito dal diritto reale, sul piano genetico, non trovi la propria fonte in attività strumentali (ex ante) rispetto a quella illecita imputata al prevenuto e, sul piano finalistico (ex post), non ne costituisca neppure il frutto o il reimpiego, potendo tuttavia il terzo creditore sempre provare la propria buona fede compendiantesi nella ignoranza di tale nesso tanto genetico quanto funzionale; altra importante condizione concerne ancora una volta la fonte del credito garantito che – laddove scaturisca da promesse di pagamento o da ricognizioni di debito del prevenuto – è soddisfacibile solo laddove sia accertato e provato il rapporto fondamentale sottostante, onde scongiurare operazioni fittizie orientate al controllo indiretto del bene confiscato avvalendosi di negozi astratti dal punto di vista civilistico; il legislatore si occupa anche dei diritti di godimento vantati da terzi sul bene confiscato, stabilendo che solo quando la confisca diviene definitiva si sciolgono i contratti aventi ad oggetto diritti personali di godimento (es., locazioni), ovvero si estinguono i diritti reali di godimento aventi ad oggetto il bene confiscato (es., usufrutto): il bene confiscato riceverà dallo Stato una destinazione di tipo sociale, e non può dunque che essere acquisito libero da pesi ed oneri, dovendosi tuttavia garantire al terzo creditore (diritto personale di godimento) o titolare di diritto reale in conflitto con la confisca un equo indennizzo; per quanto riguarda gli strumenti attraverso i quali i terzi possono far accertare i propri diritti sul bene in conflitto con la confisca, viene previsto un modulo analogo a quello che caratterizza il fallimento ed il passivo fallimentare, laddove vengono appunto accertati ed ammessi i crediti da soddisfare sulla massa attiva, onde è previsto un giudice delegato ed un amministratore giudiziario (quello che nel fallimento è il curatore) il quale ultimo stila un elenco dei creditori e di coloro che vantano diritti reali o personali sul compendio oggetto di confisca; viene fissato un termine per la presentazione delle pertinenti istanze di insinuazione al “passivo da confisca” ed una data successiva per l’esame di ciascuna singola domanda, con conseguente formazione dello stato passivo e la predisposizione di un progetto di pagamento dei crediti ammessi da parte dell’amministratore giudiziario, intervenendo il giudice delegato per operare le eventuali modifiche al piano e per vararne la definitiva consistenza, a valle delle osservazioni dei creditori e dei titolari di diritti aventi ad oggetto la collocazione e la graduazione dei relativi diritti, potendosi alfine il piano essere impugnato dinanzi al tribunale.
2012
Il 24 dicembre viene varata la legge n.228, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilita’ 2013). Vi viene previsto – all’art. 1, comma 199 – il termine decadenziale di 180 giorni dall’entrata in vigore, il 1 gennaio 2013, della Legge medesima, per l’esercizio del diritto di proporre domanda di ammissione del credito da parte dei titolari di cui al precedente comma 198, ovvero di quei creditori titolari di ipoteca iscritta sui beni confiscati in esito a procedimento di prevenzione ed ai quali non sia tuttavia applicabile la disciplina contenuta nel libro 1° del D.Lgs. n. 159 del 2011; viene ad un tempo prescritta la comunicazione agli stessi creditori – a cura dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei ben sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata – delle informazioni indicate nel comma 206, lett. a), b) e c), entro 10 giorni dal 1 gennaio 2013, ovvero entro 10 giorni dal momento successivo in cui la confisca (non soggetta alla disciplina contenuta nel libro I del D.Lgs. n. 159 del 2011) è divenuta definitiva. La domanda di ammissione del credito ai sensi della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013) è dunque l’unico strumento di tutela riconosciuto a creditori titolari di diritti reali di garanzia su un bene che sia stato confiscato in via definitiva nell’ambito di un procedimento di prevenzione che abbia preso l’abbrivio prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 159/2011, quando ancora non era operativa la disciplina del codice antimafia. Esclusa in questo caso (vecchio regime) la possibilità per il terzo di costituirsi nel procedimento di prevenzione, viene piuttosto previsto l’onere di presentare entro 180 giorni dal passaggio in giudicato della confisca una domanda di ammissione del proprio credito al piano di pagamento stilato dal giudice dell’esecuzione della confisca (art. 1, comma 205 della legge 228/2012). La stessa normativa, proprio al fine di garantire a tutti i creditori una conoscibilità effettiva del termine ultimo di scadenza, prevede (art. 1, comma 206) che l’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati e Sequestrati formuli un avviso ai creditori, entro i 10 giorni dalla data in cui il provvedimento di confisca è divenuto definitivo (o, se divenuto definitivo anteriormente, entro 10 giorni dal 01 gennaio 2013, data di entrata in vigore della legge), riguardante il decorso del termine e la data ultima entro la quale devono essere presentate le pertinenti domande di ammissione del credito; sempre il comma 206 prescrive peraltro come tale avviso debba essere perfezionato ove possibile a mezzo PEC a ciascun creditore o, quantomeno, a mezzo avviso pubblico ai creditori sull’albo pretorio online dell’ANBSC, fornendo indicazione della pendenza del termine decadenziale per proporre la domanda, della relativa data di scadenza e di ogni altra utile informazione finalizzata ad agevolare la presentazione della pertinente domanda (di insinuazione).
2013
Il 25 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.14044, Occhipinti, che si occupa della questione se la confisca di prevenzione antimafia di cui all’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65 (ormai abrogato dal nuovo codice antimafia n.159.11) possa o meno applicarsi retroattivamente, nella parte in cui – contra reum – ne è stata prevista nel 2009 l’applicazione anche in difetto di attuale pericolosità del proposto. In sostanza, si tratta di capire se la confisca di prevenzione antimafia sia assimilabile, quanto a natura giuridica, ad una misura di sicurezza, con connessa possibile applicazione retroattiva ex art.200 c.p., ovvero ad una sanzione penale, con conseguente rilievo dell’art.2 c.p. e della irretroattività in esso iscritta. Per la Corte, il fatto che sia venuto meno il requisito della attualità con riguardo alla pericolosità del proposto fa della “nuova” confisca di prevenzione antimafia non più una misura di sicurezza (in termini di natura giuridica), l’obiettivo preso di mira dal legislatore palesandosi non più quello di neutralizzare la pericolosità sociale del proposto; si tratta ormai, piuttosto, di una misura ablatoria che si connota per una finalità decisamente afflittiva e sanzionatoria, atteggiandosi ormai più a pena in senso proprio che a misura di sicurezza, con conseguente soggezione della nuova disciplina del 2008-2009 al principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici, in piena conformità peraltro sia con l’art.25, comma 2, Cost., sia con l’art.7 della CEDU.
Il 23 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.39204, Ferrara, che si occupa ancora della questione se la confisca di prevenzione antimafia di cui all’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65 (ormai abrogato dal nuovo codice antimafia n.159.11) possa o meno applicarsi retroattivamente, nella parte in cui – contra reum – ne è stata prevista nel 2009 l’applicazione anche in difetto di attuale pericolosità del proposto. In sostanza, si tratta di capire se la confisca di prevenzione antimafia sia assimilabile, quanto a natura giuridica, ad una misura di sicurezza, con connessa possibile applicazione retroattiva ex art.200 c.p., ovvero ad una sanzione penale, con conseguente rilievo dell’art.2 c.p. e della irretroattività in esso iscritta. Per la Corte, che va in contrario avviso rispetto al precedente di marzo della V sezione, anche dopo la novella del 2008-2009, la confisca di prevenzione antimafia resta, quanto a natura giuridica, una misura di sicurezza e non una pena, con conseguente possibilità di applicazione retroattiva della nuova disciplina. Tale confisca mira infatti a neutralizzare una pericolosità che deriva da come il capitale illecito oggetto di confisca è stato acquistato dal proposto: è come il proposto ha accumulato il patrimonio illecito che è pericoloso, onde la confisca si pone l’obiettivo di sottrarre questo patrimonio “originariamente” pericoloso dal circuito del sistema economico legale, al fine di scongiurare che tale circuito economico legale possa essere alterato da accumuli anomali di ricchezza illecita. In sostanza, anche se non serve più l’attualità della pericolosità per applicare la confisca di prevenzione antimafia, occorre comunque neutralizzare il “modus” pericoloso con il quale il proposto medesimo ha illecitamente accumulato ricchezza. Per questo motivo si tratta ancora – quanto a natura giuridica – di misura di sicurezza, che soggiace al regime di cui all’art.200 c.p. ed alla conseguente possibile applicazione retroattiva.
2014
L’11 marzo esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.11752 che rimette alle SSUU la delicata questione se la confisca di prevenzione antimafia di cui all’art.2.bis, comma 6.bis, della legge 575.65 (ormai abrogato dal nuovo codice antimafia n.159.11) possa o meno applicarsi retroattivamente, nella parte in cui – contra reum – ne è stata prevista nel 2009 l’applicazione anche in difetto di attuale pericolosità del proposto. In sostanza, si tratta di capire se la confisca di prevenzione antimafia sia assimilabile, quanto a natura giuridica, ad una misura di sicurezza, con connessa possibile applicazione retroattiva ex art.200 c.p., ovvero ad una sanzione penale, con conseguente rilievo dell’art.2 c.p. e della irretroattività in esso iscritta.
Il 29 luglio esce la sentenza delle SSUU n.33451, Repaci, che si sofferma sulla distinzione tra confisca di prevenzione antimafia e confisca c.d. allargata (o per sproporzione) di cui all’art.12.sexies del decreto legge 306.92, quest’ultima dalla natura obbligatoria ed applicabile anche “per equivalente” (ai sensi del comma 2.ter) laddove non sia possibile confiscare proprio i beni che risultino sproporzionati rispetto al reddito o comunque all’attività economica lecita del soggetto inciso. La differenza più spiccata tra le due figure è che mentre la confisca di prevenzione non presuppone una condanna, quella “allargata” la presuppone, potendo essere applicata solo a chi sia stato condannato, per l’appunto per uno tra i gravi reati appartenenti al catalogo via via previsto ed ampliato dal legislatore: ciò è tanto vero che la dottrina penalistica tende a considerare la confisca “allargata” o per sproporzione come una misura di tipo sanzionatorio e punitivo (come tale, a rigore, non applicabile retroattivamente), mentre la giurisprudenza maggioritaria, all’opposto, vi scorge una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva (e con conseguente applicabilità retroattiva). Quello che invece accomuna le due misure è l’elemento della sproporzione dei beni oggetto di confisca rispetto al reddito del soggetto che ne viene colpito, circostanza che fa ritenere a parte della giurisprudenza la confisca c.d. allargata “assimilabile” alla confisca di prevenzione antimafia, stante da un lato il tenore letterale pressoché identico delle disposizioni di legge che, rispettivamente, prevedono le due figure, e dall’altro la finalità comune che con esse il legislatore si propone, vale a dire scongiurare l’alterazione del sistema economico legale bloccando la circolazione di ricchezza di provenienza illecita. Non manca tuttavia, registrano le SSUU, una presa di posizione opposta ed orientata a distinguere nettamente i due modelli di confisca, che sarebbero caratterizzati piuttosto ciascuno da una diversa ratio legis e da presupposti (almeno in parte) diversi, stante appunto come la confisca “allargata” presupponga una condanna che la confisca di prevenzione antimafia non presuppone, ancorché in entrambi i casi sia assai labile il nesso che avvince l’accertamento di un reato ai beni fatti concretamente oggetto della misura ablativa; peraltro, la confisca di prevenzione sembra perseguire un fine più ampio di interesse pubblico, compendiantesi nell’eliminare dal circuito economico beni di sospetta provenienza mentre, per parte sua, la confisca “allargata” reca come specifico requisito di applicabilità (che non è proprio anche della confisca di prevenzione) l’impossibilità di giustificare la provenienza dei beni confiscati (art.12.sexies della legge 356.92), onde se il soggetto che ne è destinatario riesce a giustificare la provenienza di tali beni, essi vengono sottratti alla confisca “allargata” medesima. Il problema si pone in particolare per l’evasione fiscale derivante da attività lecita, vale a dire ciò che si ottiene come reddito in forza di attività lecita e che tuttavia viene sottratto al fisco (perché evaso): per le SSUU tale posta attiva – conformemente al maggioritario orientamento della giurisprudenza – non rileva ai fini della valutazione della sproporzione quando si debba procedere ad applicare la confisca c.d. “allargata”, e questo per la ragione onde i redditi evasi, quando provenienti da attività legali, non possono essere considerati “di illecita provenienza”, considerato anche come la legge richieda di valutare la ridetta sproporzione assumendo come parametri alternativi da un lato il reddito dichiarato e, dall’altro, “l’attività economica esercitata”, lasciando dunque pensare che anche laddove da tale attività economica (lecita) esercitata il soggetto ritragga redditi che non dichiara (evasione), essi sarebbero comunque tali da poter scongiurare la più volte menzionata sproporzione rilevante ai fini dell’applicazione della misura ablatoria. A ciò la dottrina aggiunge – sul versante del principio di legalità – che l’art.12.sexies annovera tutta una serie di reati al cospetto dei quali, in caso di condanna, si applica per l’appunto la confisca “allargata”, ma tra essi non sono previsti gli illeciti fiscali, sicché assumere questi ultimi quale possibile posta “illecita”, piuttosto che “da attività lecita”, ai fini della nota sproporzione finirebbe per l’appunto col porsi in rotta di collisione con il principio di legalità in materia penale. E’ proprio per i redditi oggetto di evasione fiscale che le SSUU – pur al cospetto di opinioni dottrinali e giurisprudenziali intese sovente a sovrapporre le due figure – marcano la differenza tra la confisca c.d. “allargata”, per la quale essi rilevano ai fini della “proporzione”, e dunque della potenziale inapplicabilità della misura (in bonam partem); e la confisca di prevenzione antimafia, per la quale essi invece rilevano ai fini della “sproporzione”, e dunque della potenziale applicabilità della misura (in malam partem). Per la Corte, ai fini della confisca di prevenzione antimafia rileva – non essendo dunque deducibile dal proposto a relativo discarico – anche il fatto che i beni oggetto di possibile confisca siano il frutto di attività illecite, ovvero ne costituiscano il reimpiego, e poiché l’evasione fiscale – anche laddove non penalmente rilevante – integra un attività illecita, come tale contra legem, essa rileva appunto ai fini della nota sproporzione. Peraltro, anche quando l’attività è intrinsecamente lecita e non è di tipo mafioso, la sottrazione anche parziale di quanto se ne ritrae agli obblighi fiscali (evasione) non fa che recare seco altra congenita illiceità, tenuto anche conto di come l’evasione fiscale si accompagni inevitabilmente – nel contesto ordinamentale vigente e stanti le interrelazioni normative che la compendiano – ad altre violazioni che innescano una locupletazione sempre maggiore del proposto, sol che si ponga mente al fatto che sommergere redditi e profitti significa anche porsi in contrasto con altri obblighi in materia di dichiarazioni veritiere (perpetrando falsi) ovvero in materia contributiva o di disciplina del lavoro, anche al fine appunto di nascondere la stessa evasione e così non far fallire l’obiettivo dell’illecito arricchimento che ne discende. Peraltro, e sotto ulteriore profilo, l’evasione fiscale implica reimpiego inevitabile delle utilità che ne siano il frutto nel circuito economico dell’evasore, comportando quella confusione tra attività lecite ed attività illecite che è proprio ciò che la normativa sulla confisca preventiva antimafia intende impedire; confusione tra lecito e illecito che peraltro si implementa via via che si succedono i periodi di imposta, in una spirale di anatocismo dell’illecito scaturigine di un inevitabile effetto moltiplicatore. In conclusione, ed a differenza di quanto accade con riferimento alla confisca c.d. allargata, nella confisca di prevenzione antimafia quanto conseguito in termini di evasione pesa in termini di “sproporzione” a fini di confisca, e non già di “proporzione”, marcandosi almeno sotto questo profilo una differenza tra le due figure di confisca da parte delle SSUU (non senza critiche da parte della dottrina, che anche con riguardo alla confisca di prevenzione antimafia parla di frizione con il principio di legalità, attribuendosi agli illeciti fiscali ed ai reati tributari effetti penali che la legge non attribuisce espressamente loro).
2015
Il 2 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4880 che ribadisce, assecondando l’orientamento pretorio maggioritario, la natura giuridica di “misura di sicurezza”, e non già di “pena”, della confisca di prevenzione antimafia uscita dalla novella del 2008-2009, quand’anche essa prescinda ormai dal predicato d’attualità della pericolosità del proposto, con conseguente possibile applicazione retroattiva del nuovo regime ai sensi dell’art.200 c.p. Non si tratta, afferma la Corte, di una misura afflittiva para-penale, quanto piuttosto ancora di una misura di sicurezza in quanto essa può essere applicata, indefettibilmente, solo previo accertamento della pericolosità sociale del proposto, ancorché non debba più trattarsi di una pericolosità “attuale”; in sostanza, il giudice è dispensato solo dal verificare che la pericolosità sociale sia attuale, ma non già dall’accertamento della pericolosità stessa che deve pur sempre essere acclarata, indipendentemente dall’epoca in cui si è manifestata. Resta fondamentale per la Corte accertare che il proposto rientra nelle categorie “soggettive” di pericolosità siccome disegnate dal legislatore, ancorché con riferimento all’acquisto delle res oggetto di confisca, senza che tale pericolosità permanga come tale al momento in cui la misura ablatoria viene richiesta e irrogata: l’attualità della pericolosità del proposto è infatti indefettibile presupposto delle sole misure di prevenzione personali, che non possono essere applicate ad un soggetto che non sia “attualmente pericoloso”, mentre discorso diverso va fatto per le misure di prevenzione patrimoniali, come appunto la confisca, laddove la pericolosità è connotazione immanente alla res e sgorga dalla relativa illecita acquisizione, con conseguente inerenza della pericolosità alla res medesima in via permanente e tendenzialmente indissolubile. Per la Corte occorre considerare un dato della realtà fenomenica che è decisamente scontato, compendiantesi nella contrapposizione ontologico-naturalistica tra persona e res: alla prima (persona) va ordinariamente associato un certo qual dinamismo legato all’evoluzione propria dell’essere umano nel relativo percorso esistenziale, onde in sostanza una persona pericolosa può ad un certo punto divenire non più tale, non potendosi dunque applicare misure di prevenzione personali; alla seconda (res) è invece inerente una certa qual strutturale staticità che – lasciando da parte possibili erosioni legate a vetustà o ad agenti atmosferici – ne mantiene nel tempo l’oggettiva consistenza, onde – pare di capire dal ragionamento della Corte – la pericolosità “genetica” della res, avvinta alla relativa illecita acquisizione da parte del proposto, non muta nel tempo (anche se il proposto, come persona, non è più pericoloso) e resta condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione di una misura ablatoria (la confisca di prevenzione antimafia) che è diretta a neutralizzare tale pericolosità della res sganciandola dal soggetto che ne ha la disponibilità, con conseguente natura di “misura di sicurezza” ed applicabilità retroattiva.
Il 23 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12047 onde la confisca c.d. “allargata” prevista dal D.L. 8 giugno 1992 n. 306, art. 12 sexies, non può essere disposta in relazione a beni acquistati dal condannato dopo la sentenza di condanna, giacché da un lato si vanificherebbe ogni distinzione della disciplina di tale tipo di confisca con quella delle misure di prevenzione e, dall’altro, si attribuirebbero al giudice dell’esecuzione compiti di accertamento tipici del giudizio di cognizione.
Il 9 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.106 che si pronuncia sulla conformità alla Carta di talune disposizioni (ormai non più della legge 575.65 quanto piuttosto) del codice antimafia 159.11. Più in specie, per la Corte è corretto dal punto di vista costituzionale che solo al cospetto dell’applicazione di una confisca di prevenzione antimafia il ricorso per cassazione sia limitato alla mera censura della violazione di legge, stante come la confisca c.d. “allargata” di cui all’art.12.sexies del decreto legge 306.92 sia figura eterogenea, che non può assurgere come tale a tertium comparationis. Si tratta di una pronuncia che si colloca nel solco di quelle che vedono le due forme di confisca distinte, seppure con qualche carattere comune, e rispondenti a logiche applicative diverse.
2017
Il 23 agosto esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.39368 (decisa nello stesso giorno, il 15 giugno, in cui viene decisa anche la sentenza gemella n.43126, pubblicata il successivo 20 settembre) in tema di tutela del creditore cessionario subentrato, giusta cartolarizzazione, nei diritti su beni confiscati secondo la disciplina antimafia. La Corte va in contrario avviso rispetto al Tribunale di Palermo secondo il quale l’acquisto o la successione nella titolarità del credito, avvenuta con atto successivo al decreto di confisca ed alla relativa trascrizione del pertinente vincolo, implica mala fede del terzo cessionario, sia esso creditore originario ovvero, appunto, creditore a questo succeduto perché divenuto tale rispetto al proposto in data successiva alla trascrizione del sequestro, con la conseguenza onde l’esame di ogni ulteriore profilo (relativo alla ritenuta estraneità del credito all’attività illecita) risulta assorbito, non potendo il creditore per atto successivo al sequestro accedere alla richiesta ammissione al passivo. Più precisamente, secondo il Tribunale di Palermo la disposizione di cui all’art. 52 del D.Lgs. n. 159 del 2011, in tema di misure di prevenzione patrimoniali va interpretata nel senso che la confisca pregiudica ipso iure i diritti di credito dei terzi che risultino da atti con data certa posteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca posteriore al sequestro medesimo: essendo i creditori istanti automaticamente in colpa, diventa per il Tribunale irrilevante la prova delle ulteriori condizioni previste dall’art. 52, comma 1, lett. b, del citato decreto legislativo; un principio assunto applicabile nei confronti di tutti i creditori, sia originari che successivi cessionari del credito, i quali siano diventati titolari del diritto in data successiva alla trascrizione del sequestro, ed operante indipendentemente dalla natura della cessione (dei crediti), non rilevando che questa sia “semplice”, ovvero sia avvenuta in blocco ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 58. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, sovverte tale orientamento di merito, rappresentando piuttosto come in tema di confisca di prevenzione di beni gravati da ipoteca, il riconoscimento di una situazione di affidamento incolpevole del creditore assistito da garanzia non è necessariamente precluso dal fatto che il medesimo abbia acquistato il diritto in epoca successiva all’adozione del sequestro, quando ciò sia avvenuto mediante cessione di rapporti giuridici in blocco ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 58, tale modalità di trasferimento di posizioni giuridiche potendo rendere concretamente inesigibile, per l’entità e la consistenza dell’operazione che vi è sottesa, l’onere in capo al cessionario della previa verifica della concreta situazione coinvolgente tutti i beni sottoposti ad originaria garanzia ipotecaria e correlati ai crediti ceduti. Peraltro, per la Corte la soluzione adottata dal Tribunale di Palermo non è affatto imposta dalla lettera (o dalla ratio) del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 52, il quale si riferisce, evidentemente, ai crediti sorti anteriormente all’avvio del procedimento di prevenzione e non prende in considerazione l’ipotesi della successione – ex latere creditoris – nel rapporto obbligatorio: in base alla legislazione codicistica e alla pertinente interpretazione giurisprudenziale, la cessione del credito – in qualunque modo avvenuta – determina infatti per la Corte solo la sostituzione del nuovo creditore a quello originario, onde il nuovo creditore subentra nella medesima posizione giuridica del cedente, assumendone i diritti, ma anche gli oneri ed i rischi, con la conseguenza che sarà la (sola) “malafede” del cedente, nel senso ritraibile dall’art. 52 del codice, a precludergli la possibilità di far valere le relative pretese sul bene del debitore che sia stato, nel frattempo, oggetto di ablazione. La Corte conclude affermando che sono rilevanti in termini di potenziale escussione del bene confiscato i diritti di credito dei terzi che risultano da atti aventi data certa anteriore al sequestro ovvero i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro, quand’anche sia intervenuta sostituzione nel lato attivo del rapporto obbligatorio in epoca successiva al sequestro stesso, dovendo tuttavia ricorrere le ulteriori condizioni di cui all’art. 52 e, cioè, che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, in ogni caso la sostituzione nel lato attivo del rapporto non potendo peraltro comportare la sterilizzazione dell’accertamento al momento nel quale il credito è insorto, onde anche la tutela del terzo cessionario di credito garantito da ipoteca su beni sottoposti a sequestro ed a confisca nell’ambito di un procedimento di prevenzione deve assumersi per la Corte condizionata all’accertamento dei medesimi presupposti esigibili per la tutela del creditore originario, presupposti consistenti nell’anteriorità dell’iscrizione del titolo o dell’acquisto (originario) del diritto rispetto ai provvedimenti cautelari od ablatori intervenuti nel procedimento di prevenzione ed alla buona fede ed affidamento incolpevole del terzo cessionario che agisca innanzi al giudice dell’esecuzione penale per il riconoscimento dell’opponibilità all’erario del proprio diritto, non potendosi ritenere sufficiente che tali condizioni (soggettive) siano verificate in capo al cedente.
Il 17 ottobre viene varata la legge n.161, recante modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni nonché delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate. L’innesto normativo allarga la platea dei soggetti possibili destinatari delle misure di prevenzione tanto personali che patrimoniali, facendovi rientrare anche gli indiziati del reato di assistenza agli associati e di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la PA, di terrorismo, di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e di stalking; oltre a specifiche norme di ordine procedurale, viene prevista la trattazione prioritaria del procedimento di prevenzione patrimoniale, la revisione della disciplina dell’amministrazione giudiziaria ed in particolare la minuziosa disciplina del controllo giudiziario dell’azienda oggetto di misura di prevenzione; vengono introdotte nuove norme per garantire la trasparenza nella scelta degli amministratori giudiziari, con rotazione negli incarichi e contestuale delega al Governo per disciplinare le incompatibilità dell’amministratore giudiziario e del curatore nelle procedure concorsuali aventi ad oggetto i beni sottoposti a misure di prevenzione patrimoniale; sempre al Governo viene conferita delega per la disciplina delle aziende sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria, anche al fine di favorire l’emersione del lavoro irregolare, contrastare l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro e consentire l’accesso all’integrazione salariale e agli ammortizzatori sociali, con forme di sostegno finalizzate alla ripresa e alla continuità produttiva delle aziende sequestrate e misure a tutela dei lavoratori; vengono dettate nuove disposizioni in tema di sgombero e liberazione di immobili sequestrati e nuove norme intese a riorganizzare e potenziare l’Agenzia nazionale per i beni confiscati (ANBSC); viene prevista contestualmente una estensione della c.d. confisca allargata, assimilata alla disciplina della confisca di prevenzione antimafia: più precisamente, viene esplicitamente esclusa l’efficacia della giustificazione della legittima provenienza dei beni confiscabili fondata sulla dimostrazione della disponibilità di redditi nascosti all’amministrazione finanziaria e quindi oggetto di evasione, onde l’evasione fiscale non costituisce più “giustificazione” al fine di scongiurare la misura ablatoria de qua, nel senso onde essa rileva ormai in malam partem ed a fini di “sproporzione”, non più in bonam partem ed a fini di “proporzione” (con nuova freccia nell’arco delle tesi che vedono le due figure di confisca sostanzialmente omogenee). Si innova anche la disciplina sulla tutela dei terzi di buona fede nei procedimenti di prevenzione: in particolare, l’articolo 20 della legge estende i parametri di estraneità all’attività illecita quale condizione di tutela del terzo creditore onde, se prima era sufficiente dimostrare la buona fede per il riconoscimento del proprio credito, ormai – in forza del nuovo art. 52, comma 1, lettera b) del codice – il terzo creditore deve provare la mancanza di strumentalità del proprio credito all’attività illecita (o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego), la sussistenza della propria buona fede ed anche del proprio inconsapevole affidamento; la lettera a) del comma 1 consente l’accesso del creditore al piano di riparto solo se il destinatario dei provvedimenti cautelari non disponga di altri beni sui quali esercitare la garanzia patrimoniale; alla stregua del comma 2 del nuovo articolo 52 i crediti accertati concorrono al riparto sul valore dei beni ai quali si riferiscono, configurandosi una sorta di attribuzione dei ridetti beni “per masse distinte”. Significativo anche il comma 3-bis dell’articolo 52, secondo cui il decreto di rigetto della domanda di ammissione al passivo, quando riferito all’istanza presentata da un soggetto sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia, deve essere comunicato a quest’ultima per le opportune verifiche; il comma 4 stabilisce poi lo scioglimento conseguente alla confisca definitiva dei beni anche per i contratti aventi ad oggetto un diritto reale di garanzia (oltre che di un diritto reale o personale di godimento) mentre il novellato art. 53 precisa che i crediti per titolo anteriore al sequestro possano essere soddisfatti al netto delle spese sostenute per il procedimento di confisca, per l’amministrazione dei beni e per la procedura di accertamento dei diritti dei terzi.
Il 19 ottobre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 48126 in tema di strumenti a disposizione del terzo per la tutela dei propri interessi nell’ambito del procedimento di applicazione di misure cautelari reali. Secondo la Corte, nella scelta tra impugnare la pronuncia e aprire un’incidente di esecuzione, il terzo, prima che la sentenza sia divenuta irrevocabile, può chiedere al giudice della cognizione la restituzione del bene sequestrato e, in caso di diniego, proporre appello dinanzi al tribunale del riesame. Qualora sia stata erroneamente proposta opposizione mediante incidente di esecuzione, questa va qualificata come appello e trasmessa al tribunale del riesame. Afferma la Corte, infatti, che La differenza tra procedimento incidentale e procedimento parallelo è evidente. Il primo si inserisce, per così dire, parenteticamente, nel procedimento principale, tendendo a definire una questione certamente interna a questo, ma la cui soluzione non incide sul merito della decisione da assumere (esempio classico è costituito dalle procedure cautelari, personali o reali, che hanno ad oggetto lo status libertatis, ovvero la disponibilità – ma non la proprietà – della res); il secondo ha il medesimo oggetto del procedimento “altro” (“principale” o meglio “originario”) e tende all’accertamento della medesima questione di diritto. Nel caso in esame (contemporanea pendenza innanzi al medesimo giudice del processo di cognizione e dell’incidente di esecuzione), dovrebbe addirittura parlarsi di procedimenti “convergenti” (più che paralleli), in quanto l’oggetto è il medesimo, ma le parti sono differenti: l’imputato, nel primo, il terzo estraneo al processo di cognizione, nel secondo. Inoltre, chiosa la Corte: la procedura che ha per protagonista il terzo è fondata (anche) su elementi diversi e non vede la partecipazione degli imputati del processo “principale” o “originario”. Il possibile esito di decisioni contrastanti (assunte, oltretutto, dal medesimo giudice) è innegabile. E già tale considerazione dovrebbe orientare l’interprete che voglia essere rispettoso della coerenza del “sistema”. Va poi rimarcato che la competenza del giudice dell’esecuzione è competenza funzionale, non esercitabile, quindi, da chi non è chiamato a svolgere quello specifico ruolo. Ma a tale argomento se ne aggiunge un altro, per così dire, di carattere strutturale. Non si vede invero perché e come possa essere affidata al giudice della cognizione la procedura che il legislatore prevede per l’incidente di esecuzione; non si vede in qual modo chi ancora deve emettere una sentenza, ovvero ha già emesso una sentenza che non ha il carattere della definitività, possa comportarsi come se tale sentenza fosse venuta ad esistenza e fosse divenuta irrevocabile. L’incidente di esecuzione consente infatti la verifica del titolo esecutivo derivante dalla sentenza di condanna, si colloca nell’ambito del c.d. “rapporto punitivo” e viene attivato per l’esecuzione e nell’esecuzione della sentenza irrevocabile. Ciò a tacere del fatto che, nel caso in cui la fattispecie addebitata all’imputato sia quella di cui all’art. 12 quinquies d.l. n. 306 del 1992 l’oggetto dell’accertamento del processo di cognizione è costituito proprio dalla individuazione del (reale) proprietario di un bene che, in ipotesi di accusa, è solo fittiziamente intestato ad altri. Orbene se, come frequentemente accade, l’intestatario del bene è, a sua volta, imputato/indagato nel medesimo procedimento a titolo di concorso con quello che si sospetta sia il reale dominus del bene, nessuna questione si pone; ma, se ciò non è, non si vede come chi è stato “fuori” dal processo possa incidere sul thema probandum dello stesso. L’interprete, conclude la Corte, non può creare ex nihilo percorsi procedurali anomali, operando un “trapianto” da una procedura all’altra e snaturando, in tal modo, la funzione e la natura del giudice della cognizione. Il terzo estraneo potrà ricorrere alla procedura dell’incidente di esecuzione solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza che dispone la confisca.
*Il 27 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.53625 onde la confisca c.d. “allargata” prevista dal D.L. 8 giugno 1992 n. 306, art. 12 sexies, non può essere disposta in relazione a beni acquistati dal condannato dopo la sentenza di condanna, giacché da un lato si vanificherebbe ogni distinzione della disciplina di tale tipo di confisca con quella delle misure di prevenzione e, dall’altro, si attribuirebbero al giudice dell’esecuzione compiti di accertamento tipici del giudizio di cognizione.
Il 01 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.54286 onde, in materia di accertamento della pericolosità del prevenuto (in relazione ad illeciti fiscali) al fine di applicargli la confisca di prevenzione, l’origine lecita del denaro utilizzato, siccome derivante da un mutuo concesso da istituto di credito, per l’acquisto del bene sottoposto appunto a confisca di prevenzione non serve a caducare la misura allorché il proposto ometta di illustrare e documentare con quali mezzi leciti siano stati corrisposti i ratei del mutuo medesimo, presumibilmente connessi a denaro illecitamente risparmiato giusta evasione fiscale. La Corte precisa peraltro come proprio in tema di evasione fiscale, il soggetto dedito in modo continuativo a condotte elusive degli obblighi fiscali presenta una forma di pericolosità sociale che si colloca nella categoria di cui all’art. 1 d.lgs. n. 159/2011.
Il 6 dicembre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.54794 che rimette alle Sezioni Unite una rilevante questione in tema di tutela dei diritti di credito di terzi titolari di garanzie su beni confiscati all’esito di procedimenti di prevenzione. Più nel dettaglio, viene chiesto alle SSUU di decidere se il termine di 180 giorni dall’entrata in vigore, il 1 gennaio 2013, della Legge n. 228 del 2012, previsto dall’art. 1, comma 199, della stessa legge a pena di decadenza dal diritto di proporre domanda di ammissione del credito da parte dei titolari di cui al precedente comma 198 (ovvero di quei creditori titolari di ipoteca iscritta sui beni confiscati in esito a procedimento di prevenzione ai quali non sia tuttavia applicabile la disciplina contenuta nel libro 1° del D.Lgs. n. 159 del 2011), operi o meno anche nel caso di omessa comunicazione agli stessi creditori, a cura dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei ben sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, delle informazioni indicate nel comma 206, lett. a), b) e c), dello stesso art. 1, entro 10 giorni dal 1 gennaio 2013, ovvero dal momento successivo in cui la confisca (non soggetta alla disciplina contenuta nel libro I del D.Lgs. n. 159 del 2011) è divenuta definitiva. La domanda di ammissione del credito ai sensi della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013) è l’unico strumento di tutela riconosciuto a creditori titolari di diritti reali di garanzia su un bene che sia stato confiscato in via definitiva nell’ambito di un procedimento di prevenzione che abbia preso l’abbrivio prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 159/2011, non essendo dunque ancora operativa la disciplina del codice antimafia. Esclusa la possibilità per il terzo di costituirsi nel procedimento di prevenzione, viene piuttosto previsto l’onere di presentare entro 180 giorni dal passaggio in giudicato della confisca una domanda di ammissione del proprio credito al piano di pagamento stilato dal giudice dell’esecuzione della confisca (art. 1, comma 205 della legge 228/2012). La stessa normativa, al fine di garantire a tutti i creditori una conoscibilità effettiva del termine ultimo di scadenza, prevede (art. 1, comma 206) che l’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati e Sequestrati formuli un avviso ai creditori, entro i 10 giorni dalla data in cui il provvedimento di confisca è divenuto definitivo, riguardante il decorso del termine e la data ultima entro la quale devono essere presentate le pertinenti domande di ammissione del credito; sempre il comma 206 prescrive peraltro come tale avviso debba essere perfezionato ove possibile a mezzo PEC a ciascun creditore o, quantomeno, a mezzo avviso pubblico ai creditori sull’albo pretorio online dell’ANBSC, fornendo indicazione della pendenza del termine decadenziale per proporre la domanda, della relativa data di scadenza e di ogni altra utile informazione finalizzata ad agevolare la presentazione della pertinente domanda (di insinuazione). La prassi applicativa successiva alla entrata in vigore della ridetta legge si è tuttavia rivelata penalizzante per il ceto creditorio essendosi sovente verificato – come appunto anche nell’ipotesi oggetto di esame da parte della Cassazione e di rimessione alle SSUU – che, all’esito dei procedimenti di prevenzione, i creditori non abbiano ricevuto alcuna comunicazione circa l’intervenuta definitività di un provvedimento di confisca, e della conseguente necessità di attivarsi nei 180 giorni successivi al fine di ottenere tutela giudiziale senza incorrere nella scure della decadenza, con l’ulteriore precipitato di incorrere spesso in tale decadenza e di dover adire la Cassazione contro i provvedimenti di inammissibilità in primo grado delle domande di ammissione del pertinente credito. La stessa Suprema Corte, sezione I, sentenza n. 20479 del 12 febbraio 2016, Banco Popolare Soc. Coop. si è peraltro già espressa sulla problematica in parola, assumendo come nessuna rilevanza, a fronte dell’effettivo decorso del noto termine di 180 giorni, possa annettersi all’omissione da parte dell’Agenzia del relativo avviso ai creditori, né tampoco all’assenza di prova circa l’effettiva conoscenza della decorrenza di detto termine da parte dei creditori medesimi. la Cassazione ora – dopo avere chiarito, sul crinale processuale, che l’onere della prova di avere adempiuto all’obbligo di avviso ai creditori incombe proprio sull’Agenzia – con questa ordinanza di rimessione alle SSUU afferma invece essere non pienamente convincenti le argomentazioni sviluppate dal proprio, richiamato precedente e ciò in quanto – nell’interpretare la disciplina della decadenza dal diritto all’accertamento del credito recata dal comma 199 della legge di stabilità 2013, la Corte medesima avrebbe omesso di prendere in considerazione le disposizioni contenute nel successivo comma 206 e la relativa incidenza su quelle contenute nei comma 199 e 205; all’opposto, per la Corte non potrebbe prescindersi, in termini di significatività e rilevanza, proprio dall’adempimento da parte dell’Agenzia dell’obbligazione “di fonte legale” di dare l’avviso ai creditori, pena l’elisione del diritto del creditore all’accertamento giudiziale del proprio credito: la necessità imprescindibile di tale comunicazione deve desumersi, per la Corte, anche dalle quanto mai numerose sentenze della Corte costituzionale secondo cui, nel caso in cui un termine sia prescritto per l’esercizio di un’azione a tutela di diritti soggettivi, deve essere assicurata all’interessato la conoscibilità del dies a quo di decorrenza del termine stesso onde poter utilizzare, nella relativa interezza, il tempo all’uopo assegnatogli, pena la violazione dell’art. 24 Cost. (viene richiamata giurisprudenza costituzionale pertinente). Peraltro, anche nella giurisprudenza della Corte EDU si è consolidato il principio secondo cui deve sempre essere garantita la conoscenza effettiva del limite predisposto all’accesso giurisdizionale, conoscenza effettiva da ritenersi esclusa anche in caso di meri impedimenti di fatto, dal momento che, diversamente, simili barriere si tradurrebbero in un diniego di giustizia (vengono richiamate le sentenze Szwagrun-Baurycza c. Polonia, 24 ottobre 2006; T.P.-K.M. c. Regno Unito, 10 maggio 2001; Khalfaoui c. Francia, 14 dicembre 1999; Fayed c. Regno Unito, 21 settembre 1994). Tanto considerato, e tenuto presente che un’interpretazione della legge di stabilità 2013 conforme alla opposta opzione ermeneutica abbracciata dal precedente n. 20479 del 2016 condurrebbe ad applicare un disciplina dalla sospetta incostituzionalità, la Corte afferma l’incompatibilità del principio affermato in detta sentenza con l’interpretazione ora ex novo fornita dal Collegio, laddove tale precedente collega l’effetto decadenziale per i terzi creditori immediatamente e soltanto all’inutile decorso del termine di 180 giorni, prescindendo del tutto dall’eventuale inadempimento da parte dell’Agenzia all’obbligo di comunicazione sancito dalla L. n. 228, art. 1, comma 206, o comunque dalla effettiva conoscibilità per il terzo dell’esistenza e della possibile scadenza del termine decadenziale di che trattasi.
Il 20 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.56982 che muove dalla circostanza di fatto onde, nel caso di specie, la Corte di merito ha disposto la confisca anche del fondo del prevenuto su cui insistono gli immobili a loro volta confiscati, osservando come nel caso di specie sia applicabile il principio in forza del quale in tema di misure di prevenzione, è legittima la confisca di un bene immobile, realizzato con somme di denaro di illecita provenienza su terreno di provenienza lecita, in quanto i due beni sul piano economico e funzionale devono essere valutati unitariamente, non potendo essere suscettibili di un’utilizzazione separata, dovendosi dare maggior rilievo, in ambito penalistico, al maggior valore economico del fabbricato – bene principale – del quale il terreno, indipendentemente dalla relativa estensione, segue il regime giuridico, quale pertinenza, in conformità agli scopi della disciplina di prevenzione (viene richiamato il precedente sempre della Sez. VI, n. 16151 del 4/2/2014, Cusimano); un principio che, precisa la Corte, ha trovato autorevole riscontro anche con riguardo al sequestro e alla confisca di cui all’art. 12-sexies, legge 356 del 1992 (c.d. confisca “allargata”: viene richiamato il precedente delle SSUU n. 1152 del 25/9/2008, dep. nel 2009, Petito). In concreto, conclude la Corte, il giudice di merito ha dato conto della necessità di una valutazione unitaria, essendo preminente il valore dell’immobile (fabbricato) rispetto a quello del terreno sul quale esso insiste e non ostando l’incommerciabilità dell’edificio in ragione della relativa natura abusiva.
2018
Il 4 gennaio esce la sentenza delle SSUU n. 111 in tema di misure di prevenzione personali, alla cui stregua vanno del tutto escluse fattispecie di presunzione assoluta di pericolosità attuale del soggetto indiziato di appartenere ad associazione mafiosa, quand’anche dedotte da precedenti specifici. La Corte è più in specie chiamata ad affrontare la questione di diritto se, nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali nei confronti degli indiziati di appartenere ad una associazione di tipo mafioso, sia necessario accertare il requisito della attualità della pericolosità del proposto. La Corte dopo ampia argomentazione risponde che nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di “appartenere” ad una associazione di tipo mafioso, è necessario accertare tale requisito della “attualità” della pericolosità del proposto. Si tratta di una pronuncia che spiega i propri effetti, seppure in via riflessa, anche sulle misure di prevenzione di tipo patrimoniale, escludendo ogni forma di automaticità e di presunzione assoluta di pericolo. Peraltro in un passaggio motivazionale (n.4) della parte in diritto la Corte, richiamando la sentenza della Corte costituzionale 23 del 1964, afferma come – nell’oggettiva valutazione della pericolosità del prevenuto – non può che rientrare l’attualità di tale pericolosità, dato da intendersi strettamente connesso al concetto di prevenzione e che assume valenza essenziale anche in relazione alla possibilità di applicare le misure reali (come appunto la confisca), in riferimento alle quali – precisa la Corte – deve individuarsi con precisione il periodo nel quale la pericolosità del prevenuto è collocabile al fine di verificare l’imputazione del tempo di acquisizione dei beni sottoponibili ad apprensione a tale periodo, onde giustificare la relativa, diretta connessione con le richiamate epifanie di pericolosità ratione temporis.
Il 22 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 2404 che afferma l’impossibilità di confiscare un bene precedentemente già sequestrato nel caso in cui l’imputato sia stato assolto.
Il 30 gennaio esce l’ordinanza della V sezione della Cassazione n. 4416 che rimette alle SU la risoluzione del contrasto giurisprudenziale afferente all’esclusione della tutela creditoria del cessionario che abbia un credito ipotecario insorto precedentemente ma acquistato in data successiva alla trascrizione di un provvedimento di sequestro o di confisca di prevenzione.
Il 4 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 14984 che ribadisce come, a differenza delle misure di prevenzione personali in cui, ai fini della loro applicabilità, è richiesta la verifica del requisito dell’attualità della pericolosità sociale, quelle patrimoniali prescindono da tale requisito.
Il 9 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 15706 che, richiamando i consolidati principi in ordine all’onere probatorio del terzo circa la propria buona fede secondo cui si è esteso l’ambito della buona fede soggettiva sino ad arrivare a un concetto di buona fede oggettiva, nel senso di qualificare l’estraneità del terzo come mancanza di ogni collegamento, diretto o indiretto, con la consumazione del fatto-reato, ossia nell’assenza di ogni contribuzione di partecipazione o di concorso, ancorché non punibile e, altre volte, nel senso che non può considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia ricavato vantaggi o utilità, afferma che non può certo farsi carico all’istituto di credito, che non dispone delle banche dati proprie della autorità giudiziaria e della P.G., di effettuare penetranti indagini quanto alle pendenze penali a carico del soggetto potenziale beneficiario del finanziamento, non potendo, peraltro, il semplice dato di una condanna penale per un qualunque reato ovvero della assai risalente applicazione di una misura di prevenzione essere, di per sé, ostativo alla concessione del credito, venendo altrimenti minata la funzione economico-sociale delle banche di finanziare le attività che operano nei settori economici più disparati, essendo la ratio della normativa, come detto, esclusivamente quella di evitare un uso distorto del credito bancario, piegato ai fini elusivi della criminalità.
Il 19 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 17700 onde l’attività di amministratore di una società di capitali non è di per sé indice di fittizia intestazione, ben potendo essere possibile che titolari delle quote rimangano i soggetti nei cui confronti è proponibile la misura di prevenzione patrimoniale, deve essere escluso l’automatismo secondo cui al ruolo di amministratore unico o delegato di una società di capitali corrisponda sempre un’attività di fittizia intestazione, dovendosi invece indagare se le attività in concreto poste in essere da quella compagine sociale abbiano oggettiva e soggettiva finalità elusiva. A tal proposito la Corte richiama i propri precedenti secondo cui integrano il delitto di di cui all’art. 12 quinquies D.L. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in I. 7 agosto 1992, n. 356, sia la condotta di chi, titolare di quote di società, le intesti direttamente a terzi, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale, sia quella di chi, non essendo titolare delle quote, si adoperi in qualsiasi modo – eventualmente nella veste di amministratore di fatto o di diritto – per favorire la realizzazione della condotta elusiva. In particolare, si è precisato, quanto al rapporto tra attività societarie e delitto de quo, che integra il reato di cui all’art. 12 quinquies D.L. n. 306 del 1992 (conv. in I. n. 356 del 1992) la fittizia intestazione di quote di una società, al solo fine di eludere possibili provvedimenti di prevenzione di tipo ablativo, in favore di soggetto che rimanga di fatto estraneo alla società medesima e che risulti privo sia di capitali costitutivi sia di capacità organizzativa e gestionale. Appare pertanto evidente che alla sola carica di amministratore, privo di qualsiasi titolarità di quote sociali, la giurisprudenza di questa corte non faccia corrispondere la fittizia intestazione e, sarà allora necessario, accertare il tipo di attività svolta dallo stesso al fine di individuare eventualmente operazioni elusive.
Il 31 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 24670 onde ai fini dell’opponibilità del diritto di garanzia reale su bene oggetto del provvedimento di confisca di prevenzione, non è sufficiente che l’ipoteca sia stata costituita mediante iscrizione nei registri immobiliari in data antecedente al sequestro o al provvedimento ablativo, ma è richiesta l’inderogabile condizione della buona fede e dell’affidamento incolpevole del creditore ipotecario, da desumersi sulla base di elementi il cui onere di dimostrazione grava sul medesimo creditore. Ed invero, in materia di misure di prevenzione patrimoniale, ai fini dell’ammissione del credito garantito da ipoteca iscritta, anteriormente al sequestro, su un bene sottoposto a confisca, una volta dimostrato il nesso di strumentalità del credito rispetto all’attività illecita del prevenuto, è necessario che il creditore dia prova della propria buona fede, dimostrando, con riferimento al momento della stipula del contratto, l’estraneità a qualsiasi collusione o compartecipazione all’attività criminosa e un errore scusabile sulla situazione apparente del debitore In tal senso, si è altresì chiarito come l’onere probatorio a carico del terzo abbia ad oggetto la dimostrazione del suo affidamento incolpevole, ingenerato da una situazione di oggettiva apparenza, che rende scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza. Di guisa che l’onere della prova viene a declinarsi in triplice direzione, investendo la trasparenza delle operazioni, la loro rispondenza alla disciplina antiriciclaggio, l’assenza di elementi tali da far insorgere il ragionevole convincimento relativo all’inerenza delle stesse ad attività illecite.
L’11 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 26603 onde La possibilità di consentire al proposto di continuare a godere della casa destinata ad abitazione familiare sottoposta al provvedimento di sequestro, è, dunque, oggetto di un potere discrezionale del giudice delegato, che potrà esercitarlo solo ove ricorra la circostanza prevista dalla legge fallimentare, vale a dire nel caso in cui la casa destinata ad abitazione familiare sia di proprietà del proposto. Esula dal potere discrezionale del giudice delegato, una volta concesso al proposto di continuare a godere dell’abitazione familiare, di incidere sull’adempimento delle spese e degli altri oneri relativi all’immobile, posto dal Legislatore a carico del proposto, proprio in conseguenza della facoltà di godimento, insita nel diritto di proprietà che egli, nella fase cautelare, ancora vanta sul bene
Il 3 luglio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 29847 onde nel caso in cui la cessione di un credito ipotecario precedentemente insorto avvenga successivamente alla trascrizione del provvedimento di sequestro o di confisca di prevenzione del bene sottoposto a garanzia, tale circostanza non è in quanto tale preclusiva dell’ammissibilità della ragione creditoria, né determina di per sè uno stato di mala fede in capo al terzo cessionario del credito, potendo quest’ultimo dimostrare la buona fede. Secondo la Corte, è opportuno precisare che la questione deve essere tenuta distinta da quella relativa all’incidenza, sulla ravvisabilità del requisito della buona fede del cessionario, della circostanza per la quale la cessione del credito in discussione sia stata realizzata nell’ambito di un’operazione di acquisto in blocco di crediti, secondo le modalità previste dall’art. 58 d.lgs. n. 385 del 1993. L’attribuzione di tale decisività all’elemento cronologico indicato è per il vero coerente con la struttura testuale dell’art. 52, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, che pone il dato dell’anteriorità al sequestro quale precondizione per l’ammissione del credito, disponendo al primo periodo che la confisca non pregiudica i diritti di credito dei terzi, che risultino da atti aventi data certa precedente al sequestro, e i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore a tale provvedimento; e prevedendo rispettivamente alle successive lettere a) e b) le ulteriori condizioni della mancanza, nella disponibilità del proposto, di altri beni idonei a garantire il soddisfacimento del credito, e dell’assenza di strumentalità del credito all’attività illecita o a quella che ne costituisca il frutto o il reimpiego ovvero della dimostrazione, da parte del creditore, della propria buona fede e dell’inconsapevole affidamento con riguardo a tale circostanza. Presupposti che ai sensi del comma 2 del citato art. 52 legittimano il creditore a concorrere al riparto sul valore del bene. La ratio della previsione delle condizioni descritte è stata individuata dalla Corte Costituzionale nell’ambito della decisione dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 1, comma 198, legge n. 228 del 2012, nella parte in cui non includeva fra i creditori ipotecari, da soddisfare nei modi e limiti indicati dalla norma, i titolari di crediti da lavoro subordinato. Secondo la Corte si è ritenuto, in quella sede, che la necessità dell’insussistenza dì altri beni idonei al soddisfacimento del credito è funzionale allo scopo di impedire che i proventi dell’attività illecita siano utilizzati per liberare altri beni nella disponibilità del proposto; e che la prescrizione della mancanza di strumentalità del credito all’attività illecita è funzionale all’esigenza di escludere dalla tutela i crediti scaturiti da prestazioni connesse a quella attività. Finalità, quest’ultima, temperata nella previsione normativa dalla possibilità, offerta al creditore, di dimostrare la propria buona fede in ordine alla strumentalità del credito, che si traduce, secondo i principi affermati sul punto dalla giurisprudenza di legittimità, nella mancanza di collusione del creditore nell’attività illecita, nell’inconsapevolezza dello stesso con riguardo a tale attività e nell’errore scusabile del predetto sulla situazione apparente del debitore. Anche per il presupposto dell’anteriorità, che qui segnatamente interessa, la Corte Costituzionale ha evidenziato la funzione specifica della relativa previsione; identificandola nel fine di evitare che gli effetti della misura di prevenzione patrimoniale vengano elusi attraverso la simulazione di crediti incidenti sul valore del bene confiscato. Si tratta quindi di stabilire se il requisito dell’anteriorità rispetto al provvedimento ablativo del bene, indicato dalla legge fra le condizioni per l’ammissione del credito, debba o meno connotare non solo il momento della costituzione del credito, ma anche quella della cessione dello stesso. Secondo un primo indirizzo, la posteriorità della cessione del credito rispetto al sequestro precluderebbe di per sé al cessionario l’ammissione del credito. Tale tesi fa leva in primo luogo sul dato testuale per il quale l’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 non prevede alcuna distinzione, fra i crediti di cui si chiede l’ammissione, in base alla natura originaria ovvero derivata degli stessi; desumendone l’intento legislativo di attribuire al creditore cessionario una tutela analoga a quella offerta al creditore originario, e quindi soggetta alle stesse condizioni. Essendovi fra queste ultime quella dell’anteriorità rispetto all’apprensione del bene a cui il credito è relativo, e dovendo tale condizione essere riferita al momento dell’insorgenza della pretesa del creditore, per il cessionario dovrebbe aversi riguardo al titolo per il quale lo stesso ha specificamente acquisito il credito; e dunque all’atto di cessione, del quale sarebbe pertanto necessaria l’anteriorità rispetto al sequestro. A questo deve aggiungersi, per la posizione giurisprudenziale in esame, il dato sistematico della tendenziale preferenza per l’interesse dello Stato all’acquisizione del bene oggetto di confisca, emergente dal complesso della normativa in tema di misure di prevenzione patrimoniali; che indurrebbe ad un’interpretazione restrittiva delle condizioni che consentono il soddisfacimento dei crediti dei terzi. Anche nell’opposto orientamento, per il quale l’essere la cessione del credito intervenuta in epoca posteriore al sequestro non ne esclude per ciò solo l’ammissione, si considera il dato letterale rilevabile dal testo del citato art. 52, osservandosi che lo stesso non contempla l’ipotesi della cessione del credito. La circostanza viene tuttavia valorizzata nel senso dell’esclusivo riferimento della norma ai crediti sorti anteriormente al sequestro e della conseguente irrilevanza delle vicende successive di tali crediti e, fra esse, della loro eventuale cessione. L’estensione del requisito dell’anteriorità al sequestro alla cessione del credito è stata considerata in questa prospettiva come una non consentita analogia in malam partem; sottolineandosi altresì, in questa ed in altre decisioni, che una lettura integrata dei commi 1 e 3 dell’art. 52 suggerirebbe l’inerenza delle finalità perseguite dal legislatore al rapporto diretto fra il creditore ed il proposto, evidentemente estraneo all’ipotesi nella quale il credito sia ceduto ad un terzo. L’elemento testuale viene peraltro sviluppato con l’ulteriore rilievo per il quale la norma riferisce il requisito dell’anteriorità al credito, e non alla posizione giuridica del creditore; il che porterebbe a concludere che in tanto tale requisito possa essere attribuito anche all’atto con il quale il credito viene ceduto, in quanto la cessione determini una sostanziale novazione del credito, dando vita ad un diverso rapporto del quale debba essere verificata la costituzione in epoca anteriore o successiva al sequestro. Ma la normativa civilistica, si osserva ancora, esclude che la cessione del credito dia luogo ad una siffatta novazione dell’obbligazione, nel momento in cui prevede che il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, le garanzie e gli altri accessori. Per effetto della cessione, si verificherebbe dunque unicamente la sostituzione al creditore originario del creditore cessionario, che si limiterebbe a subentrare nella stessa posizione giuridica del primo, comprendente, ove sussista in concreto, l’anteriorità del credito al sequestro. Al riferimento del contrario indirizzo al preminente interesse dello Stato all’acquisizione del bene confiscato si contrappone, infine, l’analoga considerazione dell’ordinamento per la tutela dei diritti del terzo pregiudicati dalla confisca, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Le Sezioni Unite ritengono condivisibile il secondo orientamento, nel senso che la condizione dell’anteriorità rispetto al sequestro del bene oggetto di confisca, ai fini dell’ammissione al riparto del credito assistito da garanzia sul bene confiscato, è prevista per la costituzione del credito e non anche per l’eventuale cessione dello stesso. Secondo la Corte, infatti, non vi è dubbio che l’ipotesi della cessione del credito non sia assolutamente considerata nella disciplina dettata dall’art. 52 d. Igs. n. 159 del 2011 in tema di requisiti di ammissibilità del credito incidente sul bene confiscato. Tale dato negativo, tuttavia, non è di per sé univocamente indicativo a sostegno dell’una o dell’altra delle soluzioni fin qui assegnate dalla giurisprudenza di legittimità al problema in discussione. Ed è significativo in tal senso che ciascuno degli orientamenti in contrasto abbia valorizzato la circostanza a favore della tesi proposta. Apprezzandosi la mancanza di riferimenti al caso della cessione, in un primo senso, quale dimostrativa dell’intento legislativo di ritenere necessarie per tale fattispecie tutte le condizioni prescritte per la costituzione del credito, ivi compresa l’anteriorità al sequestro; ma, nel senso opposto, attribuendosi tale mancata previsione alla volontà del legislatore di limitare il requisito dell’anteriorità al solo momento dell’insorgenza del credito, escludendolo per quella della cessione. Neppure è decisivo il richiamo alla tendenziale preferenza dell’ordinamento per l’interesse dello Stato all’acquisizione dei beni confiscati. Tale principio deve infatti essere coordinato con quello, anch’esso affermato nella giurisprudenza di legittimità in precedenza menzionata, della tutela delle posizioni creditorie dei terzi; tutela della quale devono per l’appunto essere definiti i limiti rispetto alle finalità perseguite con le misure di prevenzione. Vi sono, di contro, plurimi elementi che depongono per l’ammissibilità del credito ceduto anche in epoca successiva al sequestro. In primo luogo, è da considerare la puntuale osservazione, presente in parte dell’indirizzo giurisprudenziale orientato nel senso appena indicato, sul dato normativo per il quale la disciplina prevista dall’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 appare testualmente riferita al credito, oggettivamente considerato, e non alla posizione creditoria del terzo. L’anteriorità rispetto al sequestro è in effetti menzionata al comma 1 quale attributo del diritto di credito; e al credito sono associate le ulteriori condizioni dell’impossibilità di soddisfacimento su beni diversi da quelli confiscati, alla lett. a), e dell’assenza di strumentalità all’attività illecita, alla lett. b). Se già questi caratteri appaiono coerenti con una visione nella quale l’eventuale cessione risulta ininfluente rispetto alla sussistenza o meno delle condizioni per l’ammissibilità del credito, va ulteriormente notato che di particolare rilevanza è il riferimento del comma 1 dell’articolo commentato ai diritti reali di garanzia gravanti sul bene confiscato, che in concreto pongono in rapporto il terzo creditore, e in quanto tale titolare di siffatti diritti, con il bene. Il requisito dell’anteriorità è specificamente previsto anche con riguardo a tali diritti; e, a questi fini, i diritti tutelati sono indicati in quelli «costituiti in epoca anteriore al sequestro». Il termine di valutazione dell’anteriorità rispetto al sequestro è dunque espressamente indicato nel momento della costituzione del diritto reale collegato al credito. E, in presenza di questa chiara espressione normativa, l’attribuzione della condizione dell’anteriorità anche alla successiva evenienza della cessione del credito presupporrebbe un’interpretazione estensiva, o addirittura analogica come rilevato in talune pronunce di legittimità, tale da richiedere ulteriori elementi indicativi dell’assimilabilità della cessione del credito alla costituzione dello stesso; laddove invece, come di seguito si vedrà, gli elementi disponibili sono di segno contrario. E’, in effetti, la stessa natura della fattispecie giuridica della cessione del credito a rendere quest’ultima non assimilabile ad un fenomeno costitutivo del credito stesso e dei diritti reali di garanzia ad esso associati; e ciò in quanto la cessione non integra alcuna novazione del rapporto obbligatorio ceduto. La novazione è invero descritta dall’art. 1230 cod. civ. quale estinzione dell’obbligazione originaria a seguito della sostituzione della stessa, ad opera delle parti, con una nuova obbligazione avente oggetto o titolo diverso, accompagnata dall’inequivoca manifestazione della volontà di estinguere l’obbligazione precedente. Tanto non si verifica nell’ipotesi della cessione del credito, nella quale, come disposto dall’art. 1263, comma 1, cod. civ., «il credito ceduto è trasferito al cessionario con i privilegi, le garanzie personali e reali e gli altri accessori»; e quindi, come precisato dalla giurisprudenza civilistica, con tutte le utilità che il creditore può trarre dall’esercizio del diritto ceduto, intendendosi come tale ogni situazione direttamente collegata con il diritto stesso e che, in quanto priva di profili di autonomia, integri il suo contenuto economico o ne specifichi la funzione. In conseguenza di ciò, la cessione del credito, secondo i principi pure affermati dalla Corte Suprema in sede civile, ha efficacia meramente derivativa, e non novativa o sostitutiva dell’obbligazione; ad essere sostituito è solo il creditore originario, al quale il cessionario subentra nella stessa posizione giuridica. A tanto segue, in primo luogo, una conclusione negativa in ordine alla possibilità di riferire alla cessione del credito una previsione normativa, quale quella dell’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 in tema di anteriorità al sequestro, dettata esplicitamente per la costituzione del diritto reale di garanzia afferente al credito; fattispecie, questa, non ravvisabile nel mero trasferimento dello stesso diritto dal creditore originario al creditore cessionario, ma alla quale neppure tale trasferimento può essere in alcun modo ricondotto in termini tali da giustificare un’interpretazione che estenda allo stesso la disciplina prevista per il momento costitutivo del diritto. A questo deve però aggiungersi, in positivo, che la ricostruzione della cessione del credito quale trasferimento al creditore cessionario delle garanzie reali e di tutti gli accessori del credito, nell’ampio significato in precedenza specificato per tale definizione, implica che il cessionario, subentrando nella stessa posizione giuridica del cedente, assume la titolarità del credito anche nella possibilità di far valere le condizioni, a quel credito afferenti, per l’ammissione dello stesso al riparto in caso di confisca del bene oggetto del diritto di garanzia associato al credito; e fra esse, pertanto, l’anteriorità della costituzione originaria del credito rispetto al sequestro del bene, che ove sussistente permane in capo al cessionario anche laddove lo stesso abbia acquisito il credito successivamente al sequestro. La soluzione appena indicata dalla Corte trova d’altra parte ulteriore sostegno nella sua conformità alla ratio della previsione normativa della necessaria anteriorità del credito al sequestro, individuata dalla Corte Costituzionale, nella citata sentenza n. 94 del 2015, nella finalità di impedire l’elusione degli effetti della misura di prevenzione reale con la simulazione di crediti gravanti sul bene confiscato. E’ evidente, infatti, come la cessione di un credito effettivamente esistente sia estranea ad un fenomeno simulatorio riguardante la stessa sussistenza del credito. Un aspetto di questa realtà veniva colto del resto in quelle pronunce che, come si è accennato in precedenza, ponevano in rilievo la stretta attinenza della disciplina di cui all’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 ai rapporti fra il creditore originario ed il proposto, nell’ambito dei quali operazioni simulatorie, come quelle che la disposizione prescrittiva dell’anteriorità del credito al sequestro mira a contrastare, trovano la loro naturale collocazione. Una volta esclusa la possibilità che siffatte operazioni si siano verificate, con la accertata anteriorità al sequestro della costituzione del credito, non trova invero ragione la necessità che anche l’eventuale cessione del credito preceda il sequestro. Le conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite in ordine alla possibilità, per il creditore cessionario, di avvalersi delle condizioni di ammissibilità del credito esistenti in capo al creditore originario, fra gli altri accessori del credito nei quali il cessionario subentra, si rivelano decisive anche per la risposta al quesito su un ulteriore aspetto della questione, riguardante l’incidenza della posteriorità della cessione rispetto al sequestro sulla buona fede del creditore; la quale, come precedentemente sottolineato, costituisce una condizione di ammissibilità del credito diversa ed ulteriore rispetto a quella dell’anteriorità al sequestro. Con tale distinzione per un verso si aderisce alla tesi che vede come non necessaria l’anteriorità della cessione del credito al sequestro, ma per altro si sostiene che la posteriorità della cessione rispetto alla trascrizione del sequestro porrebbe inevitabilmente il cessionario in una situazione di malafede, incombendo sullo stesso l’onere di verificare la mancanza di vincoli sul bene oggetto della garanzia afferente al credito acquistato. Questa posizione, tuttavia, si giustifica solo in quanto si intenda quale pregiudizievole, per la sussistenza del presupposto della buona fede del creditore, la conoscenza o la conoscibilità della mera apposizione sul bene del vincolo costituito dal sequestro. Ma quest’ultima circostanza, a ben vedere, altro non costituisce che il presupposto in presenza del quale la legge impone la verifica delle condizioni richieste perché il credito del terzo, incidente sul bene confiscato, possa essere ammesso al riparto. Il sequestro del bene, in altre parole, non esclude, per la stessa previsione normativa, che un credito garantito gravante sullo stesso possa essere soddisfatto, in presenza delle condizioni che lo consentono; di conseguenza, la conoscenza o la conoscibilità del sequestro non esclude che il creditore possa vantare comunque la sussistenza di quelle condizioni, in presenza delle quali la sua ragione di credito è tutelata anche a fronte dell’interesse dello Stato all’acquisizione del bene confiscato. In realtà, la buona fede del creditore, che integra una di tali condizioni, ha ad oggetto, nella previsione dell’art. 52, comma 1, lett. b) come precedentemente illustrata, l’assenza di strumentalità del credito rispetto all’attività illecita del proposto o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego; e in quanto tale può ben ricorrere, come è del resto implicito nella previsione normativa di ammissibilità del credito in presenza di tale condizione, anche laddove il bene sia successivamente sottoposto a sequestro. A questo punto, nel caso in cui il credito sia ceduto in epoca posteriore alla trascrizione del sequestro, il creditore cessionario può comunque avvalersi, per quanto detto in precedenza, della condizione di buona fede sussistente in questi termini in capo al creditore originario al quale è subentrato nella stessa posizione; ed è pertanto irrilevante nei suoi confronti la possibilità che egli sia o possa essere a conoscenza, al momento dell’acquisto del credito, di un vincolo che non gli impedisce il soddisfacimento del credito per effetto di quella condizione. Alla questione posta con la rimessione deve pertanto essere data risposta negativa con riguardo sia all’essere di per sé preclusiva delle ragioni creditorie la circostanza della cessione, in epoca successiva al sequestro, di un credito ipotecario sorto precedentemente al sequestro su un bene poi sottoposto a confisca, sia alla prospettata esclusione della buona fede del creditore cessionario per il solo fatto che il credito sia stato ceduto successivamente alla trascrizione del sequestro del bene. Al creditore cessionario è pertanto consentito provare l’esistenza delle condizioni per l’ammissione del credito garantito anche laddove abbia acquisito lo stesso successivamente al sequestro del bene oggetto della garanzia. Infine, viene sottolineata, quale ulteriore conseguenza della ricostruzione dei rapporti fra il creditore originario ed il creditore cessionario nei termini della successione di quest’ultimo nella stessa posizione creditoria del primo, quella per la quale — oltre al presupposto dell’anteriorità al sequestro — anche la condizione della buona fede del creditore sull’assenza di strumentalità all’attività illecita deve sussistere all’epoca della costituzione del credito e in capo al creditore originario. Tale conclusione, peraltro indiscussa nel dibattito giurisprudenziale, comporta che il creditore cessionario è chiamato fra l’altro a provare, ai fini dell’ammissione del credito, la sussistenza originaria del requisito della buona fede nei termini appena indicati, oltre alla buona fede propria sotto il profilo, segnalato dalla giurisprudenza di legittimità, della mancanza di accordi fraudolenti con il proposto. In questa prospettiva, ai fini di tale prova non può ritenersi decisiva la circostanza per la quale il credito sia stato acquisito nell’ambito di un’operazione di acquisto di crediti in blocco, conformemente a quanto previsto dall’art. 58 d.lgs. n. 385 del 1993. Il ricorso a questa, che costituisce unicamente una particolare modalità di cessione del credito, non esime infatti il cessionario dagli oneri di verifica sulla originaria sussistenza dei requisiti di ammissibilità dei crediti; il cui adempimento dovrà pertanto essere comunque dimostrato, non potendo in particolare il cessionario affidare la prova della buona fede al mero richiamo a tale particolare forma di acquisizione del credito.
Il 9 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 30974 che ricorda come le misure di prevenzione nascono come istituti diretti a garantire le esigenze di prevenzione dello Stato, si consente il controllo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza limitando la libertà della persona ovvero incidendo pesantemente sul diritto di proprietà. Esse pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso stretto, rientrano in un’accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva il che impone di ritenere applicabile il generale principio di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti presi in considerazione come fonte giustificatrice di tale limitazione. La Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 2 del 1956 ha riconosciuto la legittimità costituzionale, in via di principio, di un sistema di prevenzione dei fatti illeciti, a garanzia dell’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti subordinatamente, peraltro, al rispetto del principio di legalità e all’esistenza della garanzia giurisdizionale che trova riconoscimento anche nell’art. 2 della Costituzione. La stessa Corte EDU ha riconosciuto più volte la compatibilità delle misure di prevenzione con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, trattandosi di misure applicate sulla base di disposizioni legislative da un Tribunale e necessarie in una società democratica per la sicurezza nazionale per la sicurezza pubblica , per il mantenimento dell’ordine pubblico, per la prevenzione dei reati penali, il sistema è stato ritenuto dalla stessa Corte EDU , compatibile con la normativa comunitaria poiché il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale. Nella sentenza del 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, la Corte ha ricordato che le stesse non hanno natura anche solo sostanzialmente penale, pure alla luce della elaborazione della giurisprudenza della medesima Corte EDU, la quale ne sottolinea la funzione di provvedimenti diretti ad impedire la commissione di atti criminali e non a sanzionare la realizzazione di questi ultimi. La giurisprudenza di legittimità, in diverse pronunce, ha affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del sistema normativo previsto in materia di misure di prevenzione, poiché il giudizio di pericolosità, in un’ottica costituzionalmente orientata, si fonda sull’oggettiva valutazione di fatti sintomatici collegati ad elementi certi e non su meri sospetti, senza alcuna inversione dell’onere della prova a carico del proposto, essendo incentrati sul meccanismo delle presunzioni in presenza di indizi, i quali devono essere comunque provati dalla pubblica accusa, rimanendo a carico dell’interessato soltanto un onere di allegazione per smentirne l’efficacia probatoria. Ultimamente la Corte, proprio al fine di elidere le critiche di genericità ed indeterminatezza ed evitare una pronuncia di incostituzionalità delle norme in materia di prevenzione personale e patrimoniale, ha proceduto ad un’interpretazione del diritto interno convenzionalmente e costituzionalmente conforme al dettato dell’art. 2 Protocollo 4 addizionale della Convenzione ed ha sottolineato l’importanza della componente ricostruttiva del giudizio di prevenzione tesa a rappresentare l’apprezzamento di fatti idonei ( o meno ) a garantire l’iscrizione del soggetto proposto in una delle categorie tipizzate di soggetti a pericolosità generica precisando che il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione non viene ritenuto colpevole o non colpevole in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto pericoloso o non pericoloso in rapporto al suo precedente agire per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza elevate ad indice rivelatore della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell’ordine sociale e costituzionale o dell’ordine economico e ciò in ragione delle disposizioni di legge che qualificano le diverse categorie di pericolosità. Si è specificato che in sede di verifica della pericolosità di soggetto proposto per l’applicazione di misura ai sensi dell’art. 1, comma, 1 lett. a) e b) D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, il giudice della prevenzione, in assenza di giudicato penale, può ricostruire in via autonoma la rilevanza penale di condotte emerse durante l’istruttoria, dovendosi comunque attribuire rilevanza ai fini applicativi della misura, all’abituale dedizione a “traffici delittuosi” per tali intendendosi attività delittuose che comportino illeciti arricchimenti anche senza il ricorso a mezzi negoziali fraudolenti e quindi condotte delittuose caratterizzate da una tipica attività trafficante, ma anche tutte quelle che sono caratterizzate dalla finalità patrimoniale o di profitto e che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento e in genere per l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili, ovvero alla condotta di vita di chi “vive anche in parte con i proventi di attività delittuose”. Tale inquadramento, da operarsi sulla base di idonei elementi di fatto (ivi compreso il riferimento alla condotta e al tenore di vita), presuppone come realizzate con esito positivo, quanto alla parte constatativa del giudizio, le seguenti verifiche: la realizzazione di attività delittuose (trattasi di termine inequivoco) non episodica ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto; la realizzazione di attività delittuose che oltre ad avere la caratteristica che precede siano produttive di reddito illecito (il provento); la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare. Date queste coordinate, in ordine alla tipologia di condotte rilevanti a fini social preventivi, la stessa giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato anche quali connotati dovrà assumere la pericolosità per poter rilevare a fini dell’applicazione della misura di prevenzione, essendo necessario che le dette condotte illecite siano poste in essere in modo non episodico ma cronologicamente apprezzabile. E’ necessario cioè evidenziare una sorta di “iter esistenziale” non avente chiaramente le caratteristiche di cui all’art. 4 lett a) legge citata, ma che comunque con noti in modo significativo lo stile di vita del soggetto che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi. Tali attività delittuose devono consentire una produzione di reddito illecito idoneo anche parzialmente a sostentare il proposto ed eventualmente anche il suo nucleo familiare ove esistente. Occorre quindi una continuità nell’illecito e nel reddito prodotto con espulsione dal novero delle valutazioni rilevanti ai fini della pericolosità generica, di tutto ciò che assuma le caratteristiche di sporadicità e occasionalità.
Il 3 settembre esce la sentenza delle Sezioni unite n. 39608 onde creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, devono presentare la domanda di ammissione del loro credito, al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca, nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della legge da ultimo citata; e ciò, perché il termine di decadenza previsto dal richiamato comma 199 decorre indipendentemente dalle comunicazioni di cui al successivo comma 206. L’applicazione di detto termine è comunque subordinata all’effettiva conoscenza, da parte del creditore, del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca. È, in ogni caso, fatta salva la possibilità del creditore di essere restituito nel termine stabilito a pena di decadenza, se prova di non averlo potuto osservare per causa a lui non imputabile. le Sezioni Unite ritengono che sia possibile operare una ricostruzione del rapporto fra i commi 199 e 206 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 che rappresenti un equo contemperamento fra le esigenze di tutela del creditore e le esigenze di speditezza, di economia di “cassa”, di effettivo depauperamento del patrimonio del prevenuto, a cui risponde la disciplina transitoria dei commi 194 e ss. dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012. Deve infatti ritenersi che il termine di decadenza previsto dal richiamato comma 199 decorra indipendentemente dalle comunicazioni di cui al successivo comma 206; tuttavia, la decorrenza di tale termine deve comunque essere ritenuta ancorata all’effettiva conoscenza, da parte del terzo, del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca. Conoscenza che deve ritenersi che il legislatore abbia semplicemente presunto, almeno nell’impianto originario della normativa in esame, dandola come normalmente esistente, avuto riguardo alle categorie di soggetti nei cui confronti la stessa era indirizzata: creditori la cui posizione è connotata da un rapporto diretto con i beni oggetto di confisca e che, in quanto titolari di un diritto reale di garanzia sul bene, erano legittimati a partecipare al procedimento di prevenzione patrimoniale. Se, dunque, il centro attorno al quale ruota la questione della tutela dei terzi creditori è l’effettività della conoscenza, deve affermarsi che, a vincere la presunzione semplice che deve darsi per presupposta dalla disciplina in esame, è sufficiente, ma necessario, che con la domanda di ammissione del credito presentata dopo la scadenza del termine del comma 199 il creditore ipotecario deduca la mancata conoscenza del procedimento di prevenzione e del provvedimento definitivo di confisca. Spetterà quindi al giudice del merito la verifica, sulla base degli atti e delle ulteriori informazioni acquisibili, della fondatezza di tali prospettazioni. Non è invece sufficiente la mera deduzione della mancata ricezione delle comunicazioni di cui al comma 206, perché tali comunicazioni hanno una funzione esclusivamente notiziale e agevolatrice. Qualora il creditore ipotecario assolva agli oneri di deduzione e prova appena indicati, è comunque tenuto a proporre la domanda di ammissione del credito entro 180 giorni dall’avvenuta conoscenza, potendosi adattare a tale ipotesi il termine fissato dal comma 199, evidentemente non più decorrente dall’entrata in vigore della legge. L’applicazione di tale termine è resa infatti necessaria dalla natura del procedimento, che, per realizzare gli obiettivi di speditezza, di economia, di effettivo depauperamento del patrimonio del prevenuto che ne costituiscono la ratio, prevede (nei successivi commi 200 dello stesso art. 1) gli adempimenti necessari all’accertamento delle condizioni di ammissibilità dei crediti nonché all’individuazione dei beni e alla liquidazione degli stessi da parte dell’Agenzia, che deve essere effettuata decorsi dodici mesi dalla scadenza del termine generale di cui al comma 199 (ovvero entro il 30 giugno 2014). Nel caso in cui il terzo creditore non possa prospettare in sede di domanda di ammissione la mancata conoscenza del procedimento di prevenzione o dell’esistenza di un provvedimento definitivo di confisca, lo stesso potrà, invece, comunque accedere alla rimessione in termini, ai sensi dell’art. 175, comma 1, cod. proc. pen., se prova che, nonostante le informazioni in suo possesso, non ha potuto proporre domanda tempestiva per causa a lui non imputabile. Nozione questa in cui non rientra l’omessa o tardiva comunicazione di cui al comma 206 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012, perché l’adempimento comunicativo che la disciplina transitoria pone in capo all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si qualifica come mera pubblicità notizia dettata da una disposizione di carattere organizzativo volta ad agevolare l’obbligo del creditore ex art. 1, comma 199, legge n. 228 del 2017. Ma in cui potrà eventualmente rientrare l’ipotesi in cui, nonostante la conoscenza del procedimento, il terzo interessato non è venuto a conoscenza dell’esito dello stesso e non ha comunque conosciuto del provvedimento definitivo di confisca per ragione non imputabile a suo difetto di diligenza. Tale conclusione, nel senso dell’operatività della rimessione in termini, nei limiti fissati dall’art. 175, comma 1, cod. proc. pen., quale meccanismo di chiusura del sistema, discendente sul piano sistematico dal generale principio contra non valentem agere non currit praescriptio, appare rafforzata da un argomento di tipo testuale, fondato sul rilievo che la disciplina processualpenalistica è considerata espressamente applicabile in tema di procedimento di ammissione dei crediti, in virtù del richiamo operato dal comma 200 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 alle disposizioni di cui all’articolo 666 commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9 cod. proc. pen., che, a loro volta, disciplinano un segmento procedimentale nel quale può trovare certamente spazio il rimedio in questione. Le considerazioni appena svolte in relazione ai creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni oggetto di procedimento di confisca di prevenzione anteriormente alla trascrizione del relativo sequestro valgono, evidentemente, anche in relazione alle altre categorie dei creditori cui fa riferimento lo stesso comma 198 della legge n. 228 del 2012. Ovvero: a) i creditori che prima della trascrizione del sequestro di prevenzione hanno trascritto un pignoramento sul bene o erano intervenuti, prima dell’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, nell’esecuzione iniziata con il pignoramento trascritto prima della trascrizione del sequestro sul bene; b) i titolari di crediti da lavoro subordinato, in conseguenza della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 2015. Per tale ultima categoria di creditori, però, la conoscenza del procedimento e dell’eventuale confisca non può in alcun modo darsi per presunta, e non solo perché si tratta di categoria inserita per effetto di pronunzia additiva della Consulta, ma perché la loro posizione creditoria non è connotata da quel rapporto diretto con i beni oggetto del procedimento di confisca e da quella legittimazione a partecipare, già nel sistema previgente, a detto procedimento, che in qualche modo, come detto, potevano giustificare detta presunzione: l’assenza di tali caratteristiche verosimilmente rendendo, anzi, assai difficoltoso per l’Agenzia individuarli quali potenziali destinatari della comunicazione a mezzo posta elettronica certificata, di cui al comma 206. Con la conseguenza che, ove la loro domanda risulti apparentemente tardiva, spetterà in ogni caso al giudice di merito verificare se e quando sia per loro maturata la conoscenza effettiva del procedimento o del provvedimento lesivo dei loro diritti, all’inverso presumendo, in difetto di prova sul punto, la tempestività della domanda.
Il 24 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 40985 che ritengono che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dell’art. 12-sexies decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge n. 356 del 1992 (attuale art. 240-bis cod. pen.) può essere disposto per uno dei reati presupposto anche nella forma del tentativo aggravato dall’art. 7 legge 203 del 1991. In effetti, l’analisi della giurisprudenza di legittimità formatasi sui provvedimenti di concessione di amnistia e indulto dimostra che la differenziazione operata rispetto all’indicazione specifica dei delitti esclusi dal provvedimento di clemenza e all’indicazione generica di categorie di reati era già comparsa in precedenza: se le Sezioni Unite avevano affermato il principio per cui le esclusioni oggettive in tema di amnistia ed indulto, previste per i reati elencati nei provvedimenti di clemenza, devono intendersi riferite alle sole ipotesi di reato consumato quando solo queste siano indicate, essendo vietata la estensione al tentativo che costituisce una figura criminosa autonoma a se stante, caratterizzata da una propria oggettività e da una propria struttura, una pronuncia successiva precisava che il principio riguardava «i reati indicati nei provvedimenti di clemenza, con specifico riferimento a determinati articoli di legge»; in precedenza, si era ritenuto che l’esclusione del condono previsto dall’art. 7 lettera c) d.P.R. 4 agosto 1978 n. 413 (che prevedeva: «l’indulto non si applica […] per i delitti concernenti le armi da guerra o tipo guerra») si riferisse anche alle ipotesi di delitto tentato, evidentemente perché i delitti non erano indicati specificamente. Infine, il riconoscimento della possibilità di disporre la confisca “allargata” anche nel caso di condanna per i delitti tentati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152 del 1991 (ora art. 240-bis cod. pen.) recupera la funzione “originaria” dell’istituto, creato come “risposta” alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 12-quinquies, comma 2, d.l. 306 del 1992 e avente le medesime finalità: permettere, nei processi per reati di criminalità organizzata o a questi collegati, dinanzi ad una situazione di evidente sproporzione tra beni e reddito, di aggredire i patrimoni illecitamente costituiti. Insomma, i delitti così aggravati appartengono al “nucleo forte” e originario dei delitti-spia, come dimostra eloquentemente il testo originario della norma introdotta dal decreto-legge 20 giugno 1994, n. 399 convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1994, n. 501, che conteneva un elenco di delitti assai ridotto.
Il 9 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 51043 che riconosce tutela alle ragioni del terzo già titolare di un diritto reale di garanzia iscritto prima della trascrizione del sequestro finalizzato alla confisca.
Il 30 novembre esce la sentenza della III sezione civile della Cassazione n. 30990 che assume la confisca penale prevalente sule ragioni dei creditori, anche se assistiti da garanzie reali, del condannato. Il conflitto tra gli interessi in gioco – secondo la Corte – non può essere risolto sulla base delle comuni regole sull’anteriorità della trascrizione o iscrizione, prevalendo la confisca in ogni caso in cui il bene risulti ancora di proprietà del condannato.
Il 17 dicembre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 56683 che rimette alle Sezioni Unite la risoluzione del contrasto insorto sul divieto di restituzione delle cose oggetto di confisca nelle ipotesi di annullamento del decreto di sequestro probatorio.
2019
Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 24 onde è da assumersi illegittimo sottoporre alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e alla misura di prevenzione della confisca dei beni le persone che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi”, dovendosi condividere la valutazione di eccessiva genericità dei potenziali destinatari delle disposizioni ora censurate, già espressa nel 2017 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia De Tommaso contro Italia: l’espressione “traffici delittuosi” non è, in particolare, in grado di indicare con sufficiente precisione quali comportamenti criminosi possano dar luogo all’applicazione della sorveglianza speciale o della confisca dei beni, conseguendone la violazione del principio di legalità, che esige che ogni misura restrittiva della libertà personale o della proprietà dell’individuo si fondi su di una legge che ne determini con precisione i presupposti di applicazione. Vanno assunte sufficientemente precise, e dunque conformi al principio di legalità, le disposizioni che consentono di applicare le stesse misure a chi vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose dacché, secondo la giurisprudenza più recente, le misure in questione possono essere applicate solo a chi, sulla base di precisi elementi di fatto, si può ritenere che abbia commesso, in un significativo arco temporale, delitti fonte di profitti che abbiano costituito il suo unico reddito, o quanto meno una componete significativa del reddito: tutti questi elementi devono dunque essere dimostrati dal pubblico ministero o dall’autorità di polizia nel procedimento di prevenzione affinché il Tribunale possa applicare la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza o la confisca dei beni presumibilmente acquistati grazie alle attività delittuose e dei quali il soggetto non possa giustificare l’origine lecita. Restano impregiudicate le norme che consentono di applicare misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di delitti di mafia, terrorismo, violazioni della disciplina sulle armi, violenza sportiva, corruzione, atti persecutori.
Viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice antimafia), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1); viene dichiarata altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956.
Viene ancora dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a); viene infine dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).
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In pari data esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 26 sulla tutela dei terzi creditori rispetto al sequestro e alla confisca di prevenzione.
Non sussiste alcuna ragione plausibile per sancire l’irreparabile sacrificio dei diritti della generalità dei creditori di buona fede, a fronte di provvedimenti di sequestro o di confisca che abbiano attinto il loro debitore; né di discriminare la loro posizione rispetto a quelle sole oggi salvaguardate dalla disposizione censurata.
Ciò vale, in particolare, per il requisito alternativo stabilito dal comma 198, a tenore del quale il soddisfacimento dei creditori non ipotecari è subordinato alla circostanza che essi abbiano trascritto un pignoramento, ovvero che siano intervenuti nell’esecuzione iniziata da altro creditore, nell’uno e nell’altro caso in data anteriore alla trascrizione del sequestro di prevenzione. Tale disciplina, infatti, fa discendere un effetto radicalmente preclusivo della possibilità di ottenere il soddisfacimento del proprio credito dal mancato esperimento di un’azione esecutiva che un creditore effettivamente in buona fede potrebbe, in relazione al momento di insorgenza del credito, non aver avuto ancora la possibilità di promuovere o, comunque, non avendo ragione di sospettare l’imminente apertura di un procedimento di prevenzione a carico del proprio debitore, potrebbe non avere ancora promosso.
La giusta esigenza di evitare manovre collusive con il debitore sottoposto a procedimento di prevenzione – manovre in ipotesi finalizzate a porre in salvo una parte dei suoi beni dalla prospettiva del sequestro e della successiva confisca – può infatti essere soddisfatta attraverso la verifica, espressamente richiesta al tribunale dal successivo comma 200 dell’art. 1 censurato, delle condizioni già imposte in via generale dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011 per il soddisfacimento dei diritti di credito dei terzi.
Fra tali condizioni spiccano, in particolare, la necessità che il credito, o il diritto reale di garanzia, abbiano data certa anteriore al sequestro, che l’escussione del restante patrimonio sia risultata insufficiente al soddisfacimento del credito (salvo per i crediti assistiti da cause legittime di prelazione sui beni sequestrati), e che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità; buona fede che, ai sensi dell’art. 52, comma 3, del decreto legislativo medesimo, dovrà essere valutata dal tribunale tenendo conto «delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi».
Se tali condizioni sono state considerate dal legislatore del 2011 sufficienti a evitare il rischio di manovre collusive in relazione a qualsiasi tipologia di credito, non si vede perché, con riferimento ai soli procedimenti di prevenzione iniziati anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 159 del 2011, il legislatore del 2012 abbia invece fissato criteri più restrittivi, tali da escludere la grande maggioranza dei creditori in buona fede da ogni effettiva possibilità di soddisfacimento dei propri diritti: conseguenza, quest’ultima, direttamente discendente dal generale divieto, posto dall’art. 1, comma 194, della legge n. 228 del 2012, di iniziare o proseguire azioni esecutive sui beni confiscati all’esito di procedimenti di prevenzione.
Il radicale sacrificio dell’interesse di un creditore che abbia acquisito il proprio diritto confidando, in buona fede, nel futuro adempimento da parte del debitore, pur in presenza delle condizioni ritenute idonee a evitare condotte collusive dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011, si risolve, allora, in una restrizione sproporzionata – in quanto eccessiva rispetto al pur legittimo scopo antielusivo perseguito – del diritto patrimoniale del creditore medesimo, in violazione dell’art. 3 Cost. Garanzia costituzionale, quest’ultima, posta in causa altresì – sotto differente profilo – dalla segnalata irragionevole disparità di trattamento tra i creditori ai quali il comma 198 offre allo stato tutela, e tutte le restanti categorie di creditori, che da tale tutela restano escluse senza ragione plausibile.
L’art. 1, comma 198, della legge n. 228 del 2012 viene, conseguentemente, dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui limita alle specifiche categorie di creditori ivi menzionati la possibilità di ottenere soddisfacimento dei propri crediti sui beni del proprio debitore che siano stati attinti da confisca di prevenzione.
Tale risultato viene conseguito mediante l’ablazione dalla disposizione censurata di tutti gli incisi che limitano le categorie dei creditori legittimati ad accedere allo speciale procedimento disciplinato dai commi da 194 a 206, e la conservazione della sola parte della disposizione che recita: «[i] creditori […] sono soddisfatti nei limiti e con le modalità di cui ai commi da 194 a 206».
Resta ferma, in particolare, la necessità di verificare caso per caso, ai sensi del comma 200, la presenza di tutte le condizioni previste dall’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011 ai fini del soddisfacimento del diritto vantato da ciascun creditore.
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In pari data esce altresì la sentenza della V sezione della Cassazione n. 8547 che si allinea al principio di diritto espresso dalla S.U. n. 29847/2018 onde in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la cessione di un credito ipotecario, precedentemente insorto, successiva alla trascrizione di un provvedimento di sequestro o di confisca del bene sottoposto a garanzia, non preclude di per sé l’ammissibilità della ragione creditoria, né determina automaticamente uno stato di mala fede in capo al terzo cessionario del credito, potendo quest’ultimo dimostrare la propria buona fede.
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Il 10 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 20239 che fa il punto circa i principi di diritto espressi dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite e della Corte Costituzionale sulla confisca di prevenzione. Ricorda in particolare la Corte:
– NATURA GIURIDICA DELLE MISURA DI PREVENZIONE: le misure di prevenzione previste dalla legislazione italiana «non implicano un giudizio di colpevolezza, ma mirano a prevenire il compimento di atti criminali. Inoltre, la loro imposizione non dipende dalla preventiva pronuncia di una condanna per una infrazione penale. Esse non possono dunque essere paragonate ad una pena. Di conseguenza, i ricorrenti non possono affermare di essere stati “perseguiti o puniti penalmente” nell’ambito della procedura controversa;
– LA LEGITTIMITÀ DELLE MISURE DI PREVENZIONt la misura della confisca, rientra nel quadro di una politica criminale e «nell’attuazione di tale politica, il legislatore deve godere di un ampio margine di discrezionalità per pronunciarsi sia sull’esistenza di un problema d’interesse pubblico che richiede una regolamentazione sia sulla scelta delle modalità d’applicazione di quest’ultima. [la Corte] osserva peraltro che il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto, in Italia, delle proporzioni molto preoccupanti. I profitti smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite conferiscono loro un potere la cui l’esistenza richiama in causa il primato del diritto nello Stato. Così, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, particolarmente la confisca in contestazione, possono apparire come indispensabili per lottare efficacemente contro le predette associazioni;
– IL MECCANISMO DELLE PRESUNZIONI: la Corte, dopo avere preso atto che la confisca di prevenzione si basa su delle presunzioni, ha concluso per la legittimità di tale procedimento osservando che: «[….] Ogni sistema giuridico conosce delle presunzioni di fatto o di diritto. La Convenzione non vi pone evidentemente un ostacolo in via di principio;
– INDETERMINATEZZA E SPROPORZIONE DELLA SANZIONE: anche tale profilo è stato disatteso dalla Corte Edu, che ha rilevato, innanzitutto, che il principio di legalità è rispettato in quanto la confisca è prevista espressamente da una norma di legge e può essere disposto solo all’esito di una precisa ed articolata procedura (sentenza Bongiorno § 41). La Corte, poi, dopo avere constatato che «la confisca controversa mira ad impedire un uso illecito e pericoloso per la società di beni la cui provenienza lecita non è stata dimostrata», ritenne «che l’ingerenza che ne segue miri a raggiungere uno scopo che corrisponde all’interesse generale». In particolare, quanto alla dedotta sproporzione rispetto al legittimo scopo perseguito, la Corte osservò che «la misura controversa rientra nell’ambito di una politica di prevenzione della criminalità e ritiene che, nell’attuazione di tale politica, il legislatore debba avere un ampio margine di manovra per pronunciarsi sia sull’esistenza di un problema di interesse pubblico che richiede una normativa che sulla scelta delle modalità applicative di quest’ultima. Tra l’altro, la Corte osserva che il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto, in Italia, dimensioni davvero preoccupanti. I guadagni smisurati che le associazioni di stampo mafioso ricavano dalle loro attività illecite danno loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato. Quindi, i mezzi adottati per combattere questo potere economico, ed in particolare la confisca controversa, possono risultare indispensabili per poter efficacemente combattere tali associazioni» e, pertanto, proporzionati in rapporto allo scopo legittimamente perseguito, ossia impedire al proposto o all’organizzazione cui egli è sospettato di appartenere di trarre vantaggi dai beni in questione a scapito della collettività.
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Il 23 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 22892 onde, in materia di confisca a fini di prevenzione, non possono considerarsi i proventi da evasione fiscale nel giudizio di proporzione tra i beni posseduti dall’imputato e le attività economiche da lui svolte.
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Il 24 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 23115 onde, per ottenere il riconoscimento del proprio diritto correlato ad un bene confiscato in via definitiva, il soggetto terzo deve allegare elementi idonei a rappresentare non solo la sua estraneità all’illecito pregresso, ma anche l’affidamento incolpevole inteso come applicazione, in sede contrattuale, di un livello di diligenza teso ad escludere rimproverabilità anche di natura colposa.
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Il 1° luglio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 28525 onde la confisca c.d. “allargata” prevista dal citato art. 12-sexies ha natura di misura di sicurezza patrimoniale “atipica” (premesso che la confisca in discorso è tipica in quanto prevista dalla legge che, però, non la qualifica espressamente come misura di sicurezza, l’aggettivo è dalla giurisprudenza di legittimità utilizzato per distinguere i presupposti di applicazione del provvedimento previsto dalla disposizione di legge speciale da quelli propri della tradizionale confisca delineata dall’art. 240 cod. pen.) in quanto prescinde da collegamento pertinenziale con il reato per la cui commissione è stata inflitta condanna dei beni che ne costituiscono l’oggetto e dall’epoca del relativo acquisto, anteriore ovvero successivo alla commissione del reato medesimo; tenuto conto, in particolare, della sua applicabilità sulla base dei presupposti della condanna per le tipologie di reato più gravi ed allarmanti e della sproporzione dei beni rispetto al reddito dichiarato o ai proventi dell’attività economica svolta, dell’intento di contrastare forme di accumulazione di ricchezza illecita per impedire un loro futuro utilizzo nella commissione di ulteriori comportamenti criminosi, l’istituto esplica una funzione preventiva e mantiene le caratteristiche proprie della misura di sicurezza patrimoniale di diritto speciale.
La confisca di prevenzione, del pari assimilata alle misure di sicurezza patrimoniali (con conseguente applicabilità della disciplina di cui all’art. 200 cod. pen.: cfr., per tutte, Cass. S.U., 26 giugno 2014, dep. 2015, Spinelli, cit.) e la confisca c.d. “allargata”, di cui si discute in questa sede, presentano presupposti applicativi solo in parte coincidenti, atteso che per entrambe è previsto che i beni da acquisire si trovino nella disponibilità diretta o indiretta dell’interessato e che presentino un valore sproporzionato rispetto al reddito da quest’ultimo dichiarato ovvero all’attività economica dal medesimo esercitata; tuttavia solo per la confisca di prevenzione è prevista la possibilità di sottrarre al proposto i beni che siano frutto dì attività illecita ovvero ne costituiscano il reimpiego.
Tale diversità di struttura delle due fattispecie giustifica una diversità di procedimenti per l’adozione, rispettivamente, della misura di prevenzione reale, disgiunta da quella personale, e della confisca c.d. “allargata” da parte del giudice dell’esecuzione penale quando sul punto non abbia provveduto quello di cognizione (v. Corte cost., sent. n. 106 del 2015).
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Il 6 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 45105 che si allinea con l’orientamento secondo cui, in tema di confisca, ex art. 12-sexies d.l. n. 306/21992, convertito con modificazioni, in l. n. 356/1992, l’interessato può dimostrare la proporzione tra redditi disponibili e valore degli acquisti e/o degli investimenti, fornendo la prova che l’acquisto è avvenuto con redditi ulteriori rispetto a quelli regolarmente dichiarati (quali, ad esempio, lasciti ereditari, vincite di gioco o redditi provenienti da attività lecita prima della scadenza del termine per la dichiarazione), a condizione che gli stessi non costituiscano provento di evasione tributaria e che si tratti di provviste lecite e tracciabili.
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L’11 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 45746 onde che ribadisce l’orientamento secondo cui l’essere la confisca un modo «autoritativo» di acquisto del diritto di proprietà non comporta che il trasferimento stesso possa avere un contenuto diverso di quello che faceva capo al precedente titolare del bene, nel caso in cui ci siano diritti, non estinti, di soggetti terzi estranei.
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Il 19 novembre esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 46898 in tema di impugnabilità in appello del provvedimento reiettivo della misura del controllo giudiziario chiesto dal titolare dell’impresa destinataria di informativa prefettizia antimafia che fissa il seguente principio di diritto “il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34-bis, comma 6, del d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159, è impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito”.
Decisivo rilievo è quello della irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe, derivante da un assetto normativo che assoggetta il provvedimento applicativo della misura del controllo giudiziario alla impugnabilità con appello e poi con ricorso, soltanto in una ipotesi residuale e non in quella maggiore che, a differenza della prima, non è nemmeno preceduta dal collaudo quantomeno sulla tenuta delle comuni premesse e dalla possibilità di revoca della misura della amministrazione giudiziaria. Ne consegue che se deve ritersi ammissibile, per colmare tale ingiustificato scompenso, il ricorso al sistema impugnatorio derivante dal combinato disposto dell’art. 27 e dell’art. 10 d.lgs. n. 159 del 2011, con riferimento al provvedimento dispositivo del controllo giudiziario, la applicazione analogica deve investire parimenti anche i provvedimenti diversi sul tema e segnatamente quello reiettivo della domanda della parte privata.
E ciò, innanzi tutto, perché si creerebbe, diversamente, una ingiustificata disparità di trattamento nella tutela degli opposti interessi perseguiti da ciascuno dei rispettivi soggetti legittimati (parte pubblica o tribunale e parte privata) ed in secondo luogo perché non appare condivisibile l’assunto di uno degli orientamenti in esame, secondo cui la parte privata non sarebbe, nel caso descritto, titolare di un interesse perseguibile dinanzi alla giurisdizione della prevenzione, poiché la limitazione alla libertà di impresa sarebbe avvenuta ad opera del solo provvedimento prefettizio, aggredibile nella sola sede giudiziaria amministrativa. In realtà, sebbene sia indubbio che il tribunale non abbia potere di sindacato sulla legittimità della interdittiva antimafia adottata dal prefetto, per la evidente autonomia dei mandati delle due giurisdizioni, è anche vero che l’intera gamma delle situazioni richiamate dall’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. 159/2011 è devoluta alla sua cognizione, dovendosi esso esprimere non solo sulla applicabilità del controllo giudiziario “di cui alla lett. b) del comma 2” dell’articolo citato – cioè quello che prevede la nomina del giudice delegato e dell’amministratore giudiziario con poteri di controllo – ma anche di verificare il ricorso dei relativi presupposti – e cioè la occasionalità della agevolazione ai soggetti mafiosi e non ivi previsti, il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose e la sua intensità – e saggiare la sussistenza delle condizioni per applicare uno o più degli obblighi informativi ed anche gestionali previsti dal comma 3 dell’art. 34-bis. Una serie di controlli e accertamenti penetranti sulla vita e sulla qualità della gestione della impresa, che si affianca alla denuncia di infiltrazione mafiosa operata dal prefetto, e che nondimeno la parte privata può avere interesse a contrastare anche con elementi di fatto acquisiti successivamente alla udienza camerale anticipata, pure per non rimanere acquiescente rispetto a conclusioni che la potrebbero esporre alla adozione di misure di prevenzione patrimoniali diverse e più incisive.
A ulteriore conferma di tale assunto va riportato il fuoco della analisi sul testo originario dell’art. 27 d.lgs. n. 159/2011, divenuto da ultimo oggetto dell’intervento del legislatore del 2017. A tale intervento, come detto, non va riconosciuta la valenza di avere delineato un elenco tassativo quanto piuttosto la finalità di perseguire un tendenziale completamento del catalogo di provvedimenti impugnabili in base al criterio del caso analogo. Si è cioè ampliato e integrato il novero dei provvedimenti in tema di sequestro, confisca e cauzione impugnabili in maniera omogenea, trattandosi di provvedimenti volti a realizzare situazioni ablative assimilabili e dunque da presidiare con identico mezzo di impugnazione. Una ingiustificata lacuna era stata, quasi contestualmente, denunciata da Sez. U, n. 20215 del 23/02/2017, Yang Xinjao, Rv. 269590.Tale sentenza era giunta, infatti, alla conclusione che, analogamente a quanto già previsto dall’art. 27 d.lgs. cit. in tema di appellabilità del provvedimento di revoca del sequestro, anche per il decreto di rigetto della richiesta del pubblico ministero di applicazione della confisca non preceduta dal sequestro anticipatorio, di cui agli artt. 20 e 22 d.lgs. n. 159 del 2011, nonostante la assenza della menzione di tale provvedimento nel testo allora vigente dell’art. 27 d.lgs. cit., si imponesse la impugnazione mediante appello (e non mediante il solo ricorso per cassazione). La ragione di tale conclusione era indicata nella necessità di evitare irragionevoli conseguenze e, per converso, di riconoscere la assimilabilità sostanziale delle due situazioni, dati i comuni effetti che ne derivano in termini di insussistenza del vincolo sui beni. A prescindere da ogni rilievo sull’effettivo completamento di quel catalogo, l’insegnamento utile delle Sezioni Unite è quello di avere fatto ricorso alla qualificazione come “irrazionale” della opzione, in un testo normativo, di previsioni disomogenee quanto alla impugnabilità di provvedimenti assimilabili negli effetti; e di avere, pur senza evocare il principio della applicazione analogica, operato rilevando una svista del legislatore che ha dato luogo ad una vera e propria lacuna normativa, da colmare in virtù dei principi generali che regolano il sistema dell’ impugnazione dei provvedimenti in materia di misure di prevenzione personale.
La conclusione è che le decisioni del tribunale sulle richieste in tema di controllo giudiziario, al pari di quelle sulla ammissione alla amministrazione giudiziaria, legate con le prime in un unico sotto-sistema, debbano andare soggette al mezzo di impugnazione generale previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 159/2011, come già testimoniato, per le altre misure patrimoniali, dal richiamo contenuto nell’art. 27 e nell’art. 34, comma 6, ultima parte e come del resto reso necessario dal dovere di sopperire a ingiustificate aporie normative, pur in presenza di effetti incisivi del tutto assimilabili su beni e interessi omogenei tutelati dall’ordinamento.
2020
Il 27 gennaio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 3250 onde, a mente dell’art. 52 d. Igs. n. 159 del 2011 la confisca di prevenzione non pregiudica i diritti di credito che risultino da data certa anteriore al sequestro, nonché i diritti reali di garanzia costituiti in epoca anteriore al sequestro a condizione che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità.
Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di misure di prevenzione patrimoniale anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 161 del 2017, per escludere l’ammissione allo stato passivo di un credito sorto anteriormente al sequestro, il Tribunale è tenuto a fornire analitica dimostrazione di due condizioni: una di carattere fattuale-oggettivo, ovvero che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, e l’altra di carattere soggettivo, afferente la dimostrazione della buona fede e dell’inconsapevole affidamento del creditore, con onere della prova a carico dei creditore medesimo.
È quindi necessario, per fare salvo il diritto di credito dell’Istituto bancario, dipendente dal mancato pagamento delle rate dei finanziamenti, dimostrare e giustificare, in primo luogo, la circostanza che il finanziamento non sia stato strumentale alla attività illecita svolta dal mutuatario o al frutto e reimpiego della stessa, da individuarsi evidentemente in quella della commissione dei reati tributari e fiscali per i quali il reo ha ricevuto condanna definitiva, e che hanno costituito il motivo fondante della affermata pericolosità sociale, che ha determinato la pronuncia di una confisca di prevenzione anche sugli immobili sui quali erano state accese le ipoteche a garanzia dei finanziamenti stessi.
Una volta dimostrata la effettività del nesso funzionale sopra accennato, si potrà affermare che la Banca non vedrà pregiudicato il suo diritto di credito qualora sia stata in grado di dimostrare di aver ignorato senza colpa la finalizzazione del finanziamento concesso alla attività illecita o a quella che costituisce il frutto o il reimpiego di detta attività.
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Il 4 febbraio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 4691 onde è ormai da ritenersi immanente al sistema il principio per cui la confisca di beni riferibili al soggetto portatore di pericolosità sociale o condannato (di prevenzione o confisca estesa penale) non può recare pregiudizio ai diritti di credito vantati da soggetti terzi (rispetto al reato o alle dinamiche di inveramento della pericolosità) lì dove tale diritto, ove riferito ad epoca antecedente al sequestro, risulti caratterizzato dalla certezza e assistito dalla condizione di buona fede del titolare (credito di per sé non strumentale alla attività illecita o in caso contrario sorto nella inconsapevolezza di tale nesso di strumentalità).
La estensione della tutelabilità delle posizioni creditorie realizzata attraverso la decisione di incostituzionalità n. 26 del 2019 rafforza – pertanto – la considerazione di fondo per cui il giudice della confisca è anche quello cui l’ordinamento attribuisce il potere-dovere di tutela del superiore principio dell’affidamento – principio su cui si reggono le relazioni commerciali ed economiche – qui declinato in termini di principio di ordine pubblico.
La confisca, in altre parole, è strumento di esclusivo contenimento della pericolosità del condannato (o del soggetto pericoloso) e per tale ragione l’accrescimento patrimoniale che ne deriva allo Stato va determinato nei limiti della stretta inerenza dei beni alla pericolosità con esclusione di ipotesi di arricchimento senza causa che deriverebbero, in ipotesi, dalla contestuale negazione di tutela ai diritti patrimoniali di soggetti terzi, incisi dalla confisca, soggetti che – nell’ordinario dipanarsi delle relazioni umane – siano entrati in contatto con il soggetto portatore di pericolosità.
Partendo da tale consapevolezza, è pertanto necessario interrogarsi sull’ambito dei controlli demandati dal legislatore al giudice della confisca, in presenza di un giudicato maturato in sede civile che riguardi sia l’an che il quantum del credito, poi azionato in sede di verifica post confisca.
A parere del Collegio, in simili casi, il giudice della confisca è titolare esclusivo del potere di verificare gli aspetti – diversi da quelli già accertati – cui la legge ricollega la tutelabilità di quel credito, rappresentati essenzialmente dalla eventuale strumentalità del credito alla attività illecita e, ove tale strumentalità sussista, dalla esistenza o meno delle condizioni di incolpevole affidamento.
Si tratta, infatti, di aspetti che – per definizione – non vengono in rilevo in sede civile, giudizio teso ad accertare la ricorrenza e l’entità di quanto dovuto dal debitore.
Al di fuori di tale ambito, e salva l’esistenza di una disposizione di legge facoltizzante (ad esempio il contenuto dell’art. 52 co.2 bis in punto di calcolo degli interessi, o ancora le disposizioni di cui agli artt. 53 co.1 e la graduazione di cui all’art.61), il giudice della confisca è tenuto a servirsi dei risultati dell’accertamento del credito compiuto in sede civile, non essendo rintracciabile alcuna disposizione di legge che estenda in modo generalizzante l’ambito di intervento.
Le disposizioni introdotte con l’intervento legislativo del 2011 (d.lgs. n.159) sono, in altre parole, figlie di una esigenza di riconoscimento della tutela delle posizioni creditorie – salvi i limiti e le esigenze di verifica della assenza di colpa del creditore – e non autorizzano, se non nei limiti suddetti, alcun recupero di autonomia del giudice della confisca rispetto alla ontologica sussistenza del credito e del suo ammontare, rispetto agli esiti definitivi di un giudizio civile.
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Il 16 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 12329 che ribadisce il consolidato indirizzo secondo cui la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche misura temporale del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale.
È stato a tal proposito ulteriormente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità che, in difetto della correlazione temporale, la sproporzione di valori non dovrebbe nemmeno essere apprezzata in riferimento a beni la cui acquisizione non ricada nel periodo di pericolosità, posto che quest’ultima non può tener luogo della previa verifica della pericolosità soggettiva nel periodo preso in esame.
Non sfugge che muovendo da questa premessa possa corrersi il rischio di non poter incidere su manovre sostanzialmente elusive dei divieti di legge per quanti abbiano l’accortezza di sapientemente occultare la ricchezza illecitamente prodotta nel periodo di manifestazione della pericolosità sociale per poi, atteso il tempo necessario al disperdersi di tale connotato tipizzante, utilizzare quanto al tempo accumulato.
Osserva il Collegio che tale questione è stata presa in esame della giurisprudenza di legittimità, che ha precisato quali siano le condizioni in presenza delle quali il nesso di derivazione diretta tra manifestazione della pericolosità sociale e acquisiti aggredibili con il provvedimento ablatorio non viene meno seppure la cd. “finestra temporale” di pericolosità appaia formalmente chiusa. Quel che importa è che vi sia una definizione netta e compiuta del termine iniziale e di quello finale della pericolosità.
Il principio di diritto affermato è che “in tema di confisca di prevenzione disposta nei confronti di soggetto indiziato di appartenere ad una associazione mafiosa, anche nel caso in cui la fattispecie concreta consenta di determinare il momento iniziale e finale della pericolosità qualificata, è legittimo disporre la misura ablativa su beni acquisiti in periodo successivo a quello di cessazione della condotta permanente, ove ricorra una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi della diretta derivazione causale delle acquisizioni patrimoniali dalla provvista formatasi nel periodo di compimento dell’attività delittuosa”.
Non si contraddice così l’assunto della necessità della correlazione temporale ma si introduce un criterio operativo che consente di tradurne il significato di garanzia senza esporlo al rischio di letture formalistiche.
Occorre allora che, per quanto attiene ai beni acquistati fuori del periodo di manifestazione della pericolosità sociale, siano individuati, con adeguata motivazione capace di illustrarne la consistenza, i dati di fatto rivelatori di una diretta provenienza di quei beni dalla illecita ricchezza formatasi in precedenza.
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Il 30 aprile esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 13539 che affronta il seguente quesito di diritto: “Se, in caso di declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, sia consentito l’annullamento con rinvio limitatamente alla statuizione sulla confisca ai fini della valutazione da parte del giudice di rinvio della proporzionalità della misura, secondo il principio indicato dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo 28 giugno 2018, G.I.E.M. S.r.l. e altri c. Italia”.
La suddetta questione presuppone che, con riguardo al reato oggetto di condanna, sia maturato il corrispondente termine di prescrizione.
Residua, infatti, su un piano che è innanzitutto di dommatica generale del processo penale, la necessità di accertare se, all’annullamento senza rinvio “della sentenza impugnata”, possano resistere singole statuizioni della stessa, sulla base della possibilità di individuare una sostanziale autonomia di esse; ciò che, in definitiva, rappresenta il presupposto per dare risposta alla questione rimessa alle Sezioni Unite, ovvero la possibilità che la Corte di Cassazione, annullando la sentenza di condanna per il reato di lottizzazione in quanto estinto per prescrizione, possa, allo stesso tempo, decidere dell’impugnazione quanto alla confisca, in ciò dunque compresa, per venire alla specificità del quesito posto, anche la possibilità di annullare con rinvio, quanto a tale limitato aspetto, al giudice di merito.
Deve subito dirsi che, salvo a volere arbitrariamente frammentare la portata unitaria dell’annullamento della sentenza logicamente derivante dalla prescrizione del reato quale causa di estinzione dello stesso, la possibilità di individuare all’interno della sentenza statuizioni che restino “immuni” rispetto all’effetto caducante esercitato dalla prescrizione stessa, non può che essere il frutto di disposizioni normative che, espressamente o implicitamente, consentano una tale operazione.
Del resto, la stessa ordinanza di rimessione è giunta ad interrogarsi sulla legittima attribuzione alla Corte del potere di annullamento con rinvio della sentenza limitatamente alla confisca proprio nella ritenuta impossibilità di rinvenire una norma che tale facoltà consenta.
La questione è peraltro inevitabilmente connessa, trovando in essa il suo presupposto logico, a quella più in generale riguardante i rapporti intercorrenti tra declaratoria di prescrizione, da un lato, e adozione della confisca lottizzatoria, dall’altro, posto che, evidentemente, se detta declaratoria impedisse radicalmente di potere disporre la confisca, lo stesso interrogativo posto alle Sezioni Unite in ordine ai poteri del giudice di legittimità resterebbe privo di senso giacché lo stesso, una volta constatata la prescrizione del reato, non potrebbe fare altro che annullare senza rinvio in toto la sentenza impugnata.
Secondo un orientamento consolidato, essenzialmente fondato sulla lettera del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 2 (“La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca del terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite”), la confisca dei terreni ben può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato purché sia accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva.
Condensato inizialmente nella semplice affermazione della compatibilità tra dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato e confisca delle aree lottizzate in ragione della sufficienza di un accertamento del reato, il principio si è via via irrobustito, forgiato anche dall’apporto della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, attraverso, dapprima, la indicazione della “latitudine” dell’accertamento, necessariamente comprensivo, per tenere conto delle indicazioni a suo tempo giunte dalla sentenza della Corte EDU 30/08/2007, Sud Fondi c. Italia, sia dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo del reato e, successivamente, attraverso la predisposizione di modalità procedimentali coerenti con i principi del “giusto processo”, come tali richiedenti la sussistenza del contraddittorio delle parti quale elemento imprescindibile dell’accertamento stesso.
E seppure in un primo momento l’assunto si sia trovato in dissonanza con la giurisprudenza della Corte EDU, da ultimo, invece, come già anticipato, lo stesso ha incontrato, nella lettura della Corte sovranazionale, la affermazione di una sua compatibilità con i principi della Convenzione.
Se infatti la pronuncia della Corte EDU 29/10/2013, Varvara c. Italia, aveva affermato l’incompatibilità con le garanzie previste dalla CEDU di un sistema in cui una persona dichiarata innocente o, comunque, senza alcun grado di responsabilità penale constatata in una sentenza di colpevolezza, potesse subire una “pena” (tale dovendo secondo la Corte essere considerata la confisca lottizzatoria), in contrasto con la previsione dell’art. 7 CEDU, successivamente, sia l’elaborazione della Corte costituzionale che la “rilettura” operata, in tempi più recenti, dalla Corte EDU, hanno offerto ulteriore fondamento all’indirizzo esegetico ricordato.
Segnatamente, con la sentenza n. 49 del 2015, la Corte costituzionale ha ribadito la necessità, ai fini della confisca urbanistica, di un pieno accertamento della responsabilità dell’imputato e della malafede del terzo eventualmente colpito dalla confisca, precisando tuttavia che un tale “pieno accertamento” non sarebbe precluso nel caso di proscioglimento dovuto a prescrizione, atteso che tale pronuncia ben potrebbe “accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato”; in altri termini, ai fini della confisca urbanistica, ben potrebbe tenersi conto “non della forma della pronuncia, ma della sostanza dell’accertamento”, valorizzandosi le potenzialità di accertamento del fatto di reato consentite anche a fronte di pronuncia di sentenza di proscioglimento; in definitiva, secondo la Corte, “nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità”.
Quanto poi alla Corte EDU, la stessa, nella pronuncia della Grande Camera 28/06/2018, G.I.E.M. S.r.l. c. Italia, ribadendo che i principi di legalità e colpevolezza, condensati nell’art. 7 CEDU, rendono “necessario impegnarsi, al di là delle apparenze e del vocabolario utilizzato, ad individuare la realtà di una situazione”, andando “oltre al dispositivo di una decisione interna”, per “tener conto della sua sostanza, in quanto la motivazione costituisce parte integrante della decisione”, ha affermato che “qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’art. 7, che in questo caso non è violato”.
Può dunque dirsi che, nella “lettura” data dalla Cassazione, l’art. 44 cit., là dove ricollega la confisca lottizzatoria all’accertamento del reato, consente di prescindere dalla necessità di una sentenza di condanna “formale” permettendo di fondare la “legittimità” del provvedimento ablatorio su un accertamento del fatto che, pur assumendo le forme esteriori di una pronuncia di proscioglimento, equivale, in forza della sua necessaria latitudine (estesa alla verifica, oltre che dell’elemento oggettivo, anche dell’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza) e delle sue modalità di formazione (caratterizzate da un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati), ad una pronuncia di condanna come tale rispettosa ad un tempo dei principi del giusto processo e dei principi convenzionali, proprio come riconosciuto, da ultimo, anche dalla Corte EDU.
Tornando, dunque, al quesito rimesso, le pronunce che hanno inizialmente affermato la possibilità di annullamento con rinvio, hanno evidentemente individuato un tale esito come un logico ed inevitabile corollario proprio del principio poco sopra ricordato, pena, diversamente, la sua declamazione solo virtuale: infatti, la possibilità di coesistenza della prescrizione e della confisca, riconosciuta, da ultimo, anche dalla Corte EDU, acquista un concreto valore, in quanto si consenta che, nonostante la intervenuta prescrizione maturata nel corso del giudizio di impugnazione, il giudice possa ugualmente disporre la misura in oggetto.
E sempre tali pronunce hanno trovato una conferma di ciò nell’art. 578-bis c.p.p. secondo cui “quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1 e da altre disposizioni di legge o la confisca prevista dall’art. 322-ter c.p., il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”.
È senz’altro esatto che la formulazione originaria della norma, introdotta dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 6, comma 4, (di attuazione della delega per la riserva di codice), e da ultimo modificata con la L. n. 3 del 2019 (che vi ha inserito l’inciso relativo alla “confisca prevista dall’art. 322-ter c.p.”), ha rappresentato, salva la precisazione di cui oltre, il sostanziale trapianto, nel codice di rito, del contenuto del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, comma 4-septies, secondo cui “le disposizioni di cui ai commi precedenti, ad eccezione del comma 2-ter, si applicano quando, pronunziata sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il giudice di appello o la Corte di cassazione dichiarano estinto il reato per prescrizione o per amnistia, decidendo sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato”.
Infatti, il riferimento ai “commi precedenti” effettuato da tale norma ricomprendeva anche il comma 1 con il quale, per determinate ipotesi di reato, si prevedeva che, in casi di sentenza di condanna o di applicazione della pena, fosse sempre disposta la confisca cosiddetta “allargata”, ovvero quella concernente i beni di cui il condannato non potesse giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito; e tale comma è stato sostanzialmente trasfuso nell’art. 240-bis c.p., nel comma 1 inserito nel codice dal D.Lgs. n. 21 del 2018 cit., art. 6, comma 1, e richiamato espressamente dall’art. 578-bis (così come, appunto, l’art. 12-sexies, comma 4-septies cit. richiamava il comma 1).
Ed è ulteriormente esatto che l’art. 12-sexies cit., comma 1 (e, conseguentemente, in virtù della già indicata corrispondenza, l’art. 240 bis cit., comma 1), prevedeva, come sopra anticipato, la sola confisca cosiddetta “per sproporzione”, senza in alcun modo contemplare la confisca urbanistica, ma è anche vero che l’art. 578-bis non si è limitato a richiamare la “confisca in casi particolari prevista dall’art. 240-bis c.p., comma 1” ma ha ulteriormente aggiunto, sin dalla versione originaria, il richiamo alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge” e, successivamente, per effetto della modifica intervenuta ad opera della L. 9 gennaio 2019, n. 3, art. 1, comma 4, lett. f), il richiamo alla confisca “prevista dall’art. 322-ter c.p.”.
È pertanto evidente che, quali che siano state le ragioni che hanno determinato il legislatore ad introdurre la norma in oggetto nel codice di rito, la stessa non può che essere letta secondo quanto in essa espressamente contenuto, in particolare non potendo non riconoscersi al richiamo alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge”, formulato senza ulteriori specificazioni, una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere in essa anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale.
Va aggiunto che già le Sezioni Unite avevano significativamente affermato come il riferimento dell’art. 578-bis c.p.p. alle “altre disposizioni di legge” evocasse “le plurime forme di confisca previste dalle leggi penali speciali”, in tal modo condividendo la legittimità di una lettura ad ampio raggio, non limitata alla sola confisca “per sproporzione”.
Del resto, la riferibilità dell’art. 578-bis cit. anche alla confisca urbanistica poggia anche su un criterio di evidente razionalità: l’esigenza che ha spinto il legislatore a dettare una norma volta, in chiara analogia con la disposizione dell’art. 578 c.p.p. (non a caso immediatamente precedente nella topografia codicistica), ad evitare che la prescrizione del reato, a fronte di un’affermazione di responsabilità che resta, nella sostanza, immutata, vanifichi la confisca di cui all’art. 240-bis cit. nel frattempo disposta in primo grado o in grado di appello (a seconda che la prescrizione maturi rispettivamente nel giudizio di appello o in quello di legittimità), in linea con il principio di conservazione degli effetti delle pronunce di merito sul punto non sovvertite nei gradi successivi (così come, con riguardo all’art. 578, si è voluta evitare la dissipazione degli effetti sul piano delle statuizioni civili), è ancor più tangibile nel caso della confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44.
Come si è già detto, infatti, ai fini di disporre la confisca lottizzatoria non è necessaria una pronuncia di condanna, essendo invece sufficiente il “sostanziale” accertamento del fatto, sia pure circondato dalle garanzie sostanziali e processuali già ricordate sopra; non si comprende allora quale senso potrebbe avere consentire che il mero fatto di una prescrizione sopravvenuta in grado di appello o in quello di legittimità (ovvero, in altri termini, il sopravvenire di una situazione che, ove prodottasi già in primo grado, non avrebbe comunque potuto impedire la sanzione amministrativa de qua) impedisca al giudice dell’impugnazione di decidere comunque agli effetti della confisca.
Da tale punto di vista, dunque, il parallelismo che, con riguardo alla confisca “per sproporzione”, il legislatore ha posto, per le altre confische, tra la norma sostanziale di cui all’art. 240-bis e quella processuale di cui all’art. 578-bis, va, con riguardo alla confisca urbanistica, più specificamente instaurato tra il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 (quale “legge speciale” richiamata dalla norma del codice di procedura) e l’art. 578-bis.
Il parallelismo appena evidenziato, è, allo stesso tempo, la ragione per la quale l’art. 578-bis c.p.p. non può presupporre che ai fini della confisca urbanistica sia sempre necessaria, in primo grado, una pronuncia di condanna.
Premesso che la formulazione letterale della norma in sé considerata non contiene alcun espresso riferimento a tale presupposto (venendo unicamente menzionata la necessità di una previa confisca), il necessario antecedente di una sentenza di condanna non può neppure essere rinvenuto nell’incipit dell’art. 240 bis, comma 1, cit., che menziona la condanna (nonché la sentenza di applicazione della pena), appunto perché, come appena detto, il necessario referente dell’art. 578-bis, per quanto riguardante specificamente la confisca urbanistica, non può essere l’art. 240-bis bensì il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 che opera il chiaro riferimento al solo “accertamento”.
Allo stesso tempo, tuttavia, va necessariamente precisato, affinché sia razionalmente ricostruito il “sistema” ricavato dalle norme appena ricordate, che la possibilità per il giudice dell’impugnazione, che dichiari la prescrizione, di decidere comunque agli effetti della confisca, non può implicare, come invece ritenuto da alcune pronunce, che il giudizio di primo grado, una volta intervenuta la prescrizione e non ancora accertato il fatto, possa comunque proseguire a tali soli fini di accertamento.
Vengono, in definitiva, enunciati i seguenti principi di diritto: “La confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva determinata dalla prescrizione del reato purché sia stata accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che abbia assicurato il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, fermo restando che, una volta intervenuta detta causa, il giudizio non può, in applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 1, proseguire al solo fine di compiere il predetto accertamento.
In caso di declaratoria, all’esito del giudizio di impugnazione, di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per prescrizione, il giudice di appello e la Corte di cassazione sono tenuti, in applicazione dell’art. 578-bis c.p.p., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44″.
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Il 29 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 29983 onde la legittimazione ad intervenire nel procedimento per l’applicazione della confisca di prevenzione, cui si associa il potere di articolare una vera e propria difesa, spetta ai titolari di diritti reali, di diritti di garanzia e di diritti di godimento sui beni sottoposti a sequestro di prevenzione, e non al curatore del fallimento nella cui massa attiva siano compresi i beni sequestrati.
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Il 25 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale, secondo cui, in tema di prevenzione reale, il proposto ed il terzo che abbia partecipato al procedimento, qualora intendano ottenere la revoca del provvedimento definitivo di confisca, sono tenuti a presentare istanza di revocazione nei limiti ed alle condizioni di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159/2011, essendo invece loro preclusa l’instaurazione di un incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p., sia pur di ottenere la revoca soltanto parziale della confisca stessa; l’incidente di esecuzione è un rimedio generale del quale può giovarsi unicamente il terzo che non abbia partecipato al procedimento per non essere stato messo nelle condizioni di farlo.
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Il 18 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione Penale n. 36561, alla stregua della quale, in tema di misure di prevenzione, il rapporto esistente fra il proposto ed il coniuge, i figli e gli altri conviventi costituisce, pur al di fuori dei casi oggetto delle specifiche presunzioni di cui all’art. 26, comma 2, d.lgs. cit., una circostanza di fatto significativa, con elevata probabilità, della fittizietà della intestazione di beni dei quali il proposto non può dimostrare la lecita provenienza quando il terzo, familiare o convivente, che risulta formalmente titolare dei cespiti, è sprovvisto di effettiva capacità economica.
Peraltro, come precisato dalla Corte, la confisca dei beni intestati a terzi, anche se familiari stretti, richiede sempre l’accertamento che i beni non siano del terzo ma del proposto (interposizione fittizia o fiduciaria), ma tale prova si può desumere anche da indizi, quali sono il legame stretto parentale e l’assenza di redditi del familiare adeguati al valore del bene ad esso intestato.
Questioni intriganti
In cosa si compendia la confisca c.d. “di prevenzione”?
- ha ad oggetto beni previamente sequestrati ad un soggetto detto “prevenuto”;
- è un provvedimento di natura ablatoria, che ha come effetto la devoluzione allo Stato della proprietà di tali beni, previamente sequestrati;
- tali beni “appartengono” al prevenuto, sia direttamente, sia per interposta persona fisica o giuridica, risultandone egli comunque avere la disponibilità a qualsiasi titolo;
- di tali beni il prevenuto non può giustificare la legittima provenienza, massime per relativo valore sproporzionato rispetto al proprio reddito o alla propria attività economica;
- quand’anche sussista la proporzione rispetto al proprio reddito, sono oggetto di confisca i beni che siano frutto di attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego;
- dal punto di vista oggettivo, sono confiscabili beni della più diversa foggia, mobili o immobili, compresi i crediti, le quote sociali, le aziende e così via;
- sul crinale probatorio, l’onere di provare che i beni non sono confiscabili (perché di legittima provenienza) parrebbe ex lege gravare sul prevenuto; e tuttavia sia la dottrina che la giurisprudenza maggioritarie si sono orientate nel senso di richiedere piuttosto al PM, al momento del sequestro, di fornire gli elementi di tipo indiziario idonei a far assumere di fonte illecita i pertinenti beni (senza muovere da nessuna presunzione in senso contrario al prevenuto), e successivamente al Tribunale in sede di confisca l’accertamento della concreta permanenza di tali elementi indizianti, potendo il prevenuto allegare elementi in senso opposto tali da far ritenere lecita la provenienza dei beni de quibus e dunque da non far procedere nel senso della confisca di detti beni a suo tempo sequestrati dal PM;
Cosa distingue la confisca di prevenzione dalla confisca come misura di sicurezza?
- dal punto di vista formale, a.1) la confisca come misura di sicurezza presuppone l’accertamento della commissione di un reato da parte di un soggetto (condannato), e sul crinale oggettivo concerne il prezzo, il prodotto o il profitto del reato medesimo; a.2) la confisca come misura di prevenzione è sganciata dall’accertamento della commissione, da parte di un soggetto, di un dato reato (prevenuto), e ha per conseguenza ad oggetto anche cose che non sono tecnicamente il prezzo, il prodotto o il profitto del reato medesimo;
- sul crinale sostanziale, nondimeno, e dunque in termini di natura giuridica, anche la misura di prevenzione (antimafia) tende ad essere considerata dalla giurisprudenza (assai più che dalla dottrina) una misura di sicurezza, orientata a neutralizzare la pericolosità sociale del proposto e con regime potenzialmente retroattivo ai sensi dell’art.200 c.p.
Come si atteggia la posizione dei terzi che vantino diritti “derivati” da quelli del preposto?
- ove l’atto abbia effetto immediatamente traslativo del diritto di proprietà (di immobili), esso – se trascritto anteriormente al sequestro – è generalmente opponibile al sequestro medesimo ed alla successiva confisca di prevenzione, salva sempre la possibilità di provare ex parte publica (PM) la natura meramente fittizia dell’intestazione proprietaria;
- ove l’atto produca effetti meramente obbligatori, prevale invece il sequestro di prevenzione e la successiva confisca, a meno che lo Stato sequestrante e confiscante non ritenga di sostituirsi al prevenuto nei rapporti con il terzo creditore.