Massima
Una delle vicende più intricate del nostro sistema giuridico è senz’altro quella che caratterizza le misure di “prevenzione”, la cui potenzialità – indubbiamente afflittiva – interviene in una fase anteriore alla (probabile, ma non certa) commissione di un fatto inadempimento reato, sulla scorta della mera “pericolosità sociale” del proposto, in guisa parallela, ma ex ante, rispetto a quanto – in relazione al ridetto fatto inadempimento reato – accade (di regola) ex post, giusta applicazione di una misura di sicurezza; circostanza che, già di per sé, pone complessi interrogativi legati al rapporto tra “fatto” e “soggetto” ed al nesso che avvince “libertà” e “autorità”, potendo la prima (libertà) essere conculcata – per ragioni di sicurezza – dalla seconda (autorità) sub specie di “Amministrazione” (di PS), seppure sotto stretto controllo del Giudice (penale); né mancano criticità, recentemente affiorate dalla giurisprudenza, con riguardo agli obblighi che discendono dall’applicazione di una misura di prevenzione ed alla rilevanza penale delle relative, eventuali violazioni da parte del “prevenuto”, massime in tema di tassatività e sufficiente determinatezza delle pertinenti fattispecie criminose, oltre che di prevedibilità del corrispondente trattamento sanzionatorio.
Crono-articolo
Al diritto romano non sono ignote figure di “prevenzione” personali, seppure – come è ovvio – non integralmente sovrapponibili al pertinente concetto siccome declinato nel diritto moderno e contemporaneo. Si tratta di fattispecie in cui al civis romanus, pur rimanendo, sui iuris (e, dunque, non sottoposto ad altrui potestà) viene comunque limitata o minorata la capacità giuridica.
Nell’età più antica la fonte di tale restrizione della capacità giuridica è la nota del Censore (o nota censoria), mentre nel diritto onorario successivo è un editto del Pretore ad elencare i c.d. “infames”: si tratta delle fattispecie – tutte tassative, seppure ciascuna con diversi e precipui effetti – di c.d. “infamia”, che può derivare dall’esercizio di mestieri, per l’appunto, “infamanti” quali l’attività teatrale o gladiatoria, il lenocinio (sfruttamento della prostituzione) ed altri ancora; dall’inosservanza del “tempus lugendi” (“periodo del pianto”, corrispondente a 300 giorni ed imposto alla vedova prima di contrarre nuove nozze); ancora, dall’esclusione dall’esercito per ignominia. Anche l’aver commesso un “delictum” può recare seco l’infamia, con fattispecie di applicazione ex post assimilabile a quella che oggi è una misura di sicurezza.
I cittadini colpiti da infamia non possono votare nei comizi (privazione del c.d. “ius suffragii”), non possono essere eletti a cariche pubbliche (c.d. “ius honorum”) e, in relazione al diritto pretorio, non possono “postulare pro aliis” e, dunque, difendere altri in giudizio o esercitare azioni popolari.
Il cittadino colpito da infamia si qualifica anche come “turpis” o “ignominiosus” e tuttavia – pur discorrendo le fonti anche di turpitudo e di ignominia – mentre l’infamia è un istituto di carattere giuridico con precisi effetti del pari giuridici, la turpitudo (non a caso definita anche “infamia facti”) è più una valutazione di fatto operata, caso per caso, nei confronti di un determinato soggetto che produce di riflesso taluni effetti giuridici, onde determinate persone il cui onore è dubbio vengono con maggiore difficoltà nominate tutori, curatori o testimoni e così via.
Con Giustiniano i vari istituti classici riconducibili all’infamia vengono unificati e generalizzati, producendo ormai tutti effetti giuridici uniformi.
1839
Il 26 ottobre viene promulgato il codice penale del Regno di Sardegna, destinato ad entrare in vigore il 15 gennaio del 1840, che punisce i reati di oziosità e di vagabondaggio; si tratta di un diritto penale che persegue dunque non già solo condotte oggettivamente pericolose (e, come tali, offensive), ma anche individui “soggettivamente” pericolosi, palesando una sostanziale indistinzione tra diritto penale vero e proprio e diritto di prevenzione ante delictum, dacché è già fatto inadempimento reato essere, sul crinale soggettivo, oziosi o vagabondi.
1865
Il 20 marzo viene varata la legge n.2248, il cui Allegato B contiene la c.d. legge di pubblica sicurezza che – sotto l’influenza delle concezioni penalistiche di orientamento liberale delineatesi nel corso della seconda metà dell’800 – opera una distinzione netta tra diritto penale e diritto di prevenzione ante delictum giusta attribuzione della prevenzione speciale a misure amministrative e, dunque, extrapenali, di polizia.
In omaggio alle concezioni del c.d. diritto penale classico, orientato alla punizione post delictum, al diritto penale vero e proprio – che per l’appunto opera ex post – viene affiancato un diritto amministrativo di polizia, che opera ex ante e con funzione specificamente preventiva, con lo scopo di contenere la pericolosità sociale di determinati soggetti (per lo più si tratta di individui socialmente emarginati) ed evitare che commettano reati; dinanzi al mero sospetto di potenziali comportamenti idonei a compromettere la pax sociale, all’autorità amministrativa di polizia viene dunque attribuito il potere di intervenire con misure quali l’ammonizione, il domicilio coatto ed il c.d. rimpatrio con foglio di via obbligatorio.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che esclude dalla disciplina codicistica penale le situazioni di pericolosità sociale fondate sul mere caratteristiche soggettive del soggetto agente, relegandole in un autonomo diritto della prevenzione di polizia posto “a latere” della repressione penale.
Le semplici condizioni (soggettive) di ozioso o vagabondo non vengono considerate reato; nondimeno, lo Stato non rinuncia al controllo di simili forme di pericolosità soggettiva configurando misure di prevenzione e di polizia da applicarsi non già col tipico corredo di garanzie del processo penale, quanto piuttosto (direttamente) dall’autorità amministrativa di pubblica sicurezza.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che anch’esso non prevede le misure di prevenzione, ma unicamente le misure di sicurezza, applicabili a chi abbia commesso un reato e non sia tuttavia punibile, ad esempio perché non imputabile; ed applicabili altresì, ma solo in casi eccezionali, a chi non abbia commesso un reato, ma abbia comunque in qualche modo “pensato” ad un delitto.
Significative si palesano in proposito talune norme, come ad esempio l’art.203, rubricato “pericolosità sociale”, onde agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale abbia commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente (nella sostanza, un reato), quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati (comma 1), soggiungendo che la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133 (comma 2).
Ai sensi del precedente art.202 le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato (comma 1); la legge penale determina poi i casi nei quali a persone socialmente pericolose possono essere applicate misure di sicurezza per un fatto non preveduto dalla legge come reato (comma 2): si tratta delle note fattispecie di “quasi reato” di cui al reato impossibile (art.49); all’accordo per commettere un delitto poi non commesso; alla istigazione a commettere un delitto non raccolta (art.115).
Emblematico anche l’art.108 in tema di c.d. tendenza a delinquere, onde è dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene non recidivo o delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo, contro la vita o l’incolumità individuale, anche non preveduto dal capo primo del titolo dodicesimo del libro secondo del codice, il quale, per sé e unitamente alle circostanze indicate nel capoverso dell’articolo 133 riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole (comma 1); tale disposizione, nondimeno, non si applica se la inclinazione al delitto è originata dall’infermità preveduta dagli articoli 88 e 89 (comma 2).
1931
Il 18 giugno viene varato il R.D. n.773, testo unico di pubblica sicurezza, che si inserisce nella lunga evoluzione storica che caratterizza le misure di prevenzione e le cui origini risalgono quanto meno alla legislazione di polizia ottocentesca, cristallizzatasi subito dopo l’unità d’Italia nella legge 20 marzo 1865, n. 2248 (Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia), allegato B.
Quest’ultima già conferiva all’autorità di pubblica sicurezza il potere di disporre le misure dell’ammonizione, del domicilio coatto (o confino di polizia) e del rimpatrio con foglio di via obbligatorio nei confronti di persone ritenute pericolose per la società, senza che fosse – tuttavia – necessaria una loro condanna in sede penale.
Largamente utilizzate in epoca fascista come strumento di controllo e di repressione degli oppositori politici, tali misure vedono la loro disciplina ora confluire nel regio decreto in parola (Testo unico di pubblica sicurezza).
1948
Viene varata la Costituzione che – se da un lato non annovera norme specifiche in materia di prevenzione (nessun reato è stato ancora commesso) – dall’altro impone la natura personale della responsabilità penale (laddove invece si sia fatto luogo ad un fatto inadempimento reato), cui è in via immediata connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza a rigore da escludersi quando un fatto penalmente rilevante non è stato ancora commesso.
Importante in tema di prevenzione quanto prescrive l’art.13 onde, dopo essersi solennemente affermato che la libertà personale è inviolabile (comma 1), si soggiunge che non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (comma 2).
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive 48 ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto (comma 3).
È poi punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà (comma 4), demandandosi alla legge di stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva (comma 5), quest’ultima norma dovendo nondimeno assumersi riferita a fatti penalmente rilevanti già commessi ed in relazione ai quali sono in corso indagini, piuttosto che a fatti inadempimento reato che “potrebbero” essere in futuro commessi da chi si assume socialmente pericoloso.
Ancora, stando all’art.16 ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza, ancorché nessuna restrizione possa essere determinata da ragioni politiche (comma 1); del pari, ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, ma fatti salvi gli obblighi di legge (comma 2).
L’art.17 disciplina il diritto di riunione prevedendo (comma 1) che i cittadini hanno per l’appunto diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi; per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso (comma 2), mentre delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica (comma 3).
Proprio sul crinale della pericolosità sociale, significativo l’art.25, comma 3, onde nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge: vige dunque il principio di legalità per quanto concerne le “misure di sicurezza” che, nondimeno, anch’esse presuppongono un fatto penalmente rilevante commesso da soggetto socialmente pericoloso e non punibile per i motivi più vari (ad esempio, perché non imputabile), senza lambire la diversa fattispecie di misure “preventive” che, come tali, presuppongono fatti non ancora commessi.
Significativo poi l’art.23 e la riserva di legge “relativa” in esso inscritta, onde nessuna “prestazione personale” (oltre che patrimoniale) può essere imposta se non “in base alla legge”.
In tema di rapporti economici, emblematico (sul crinale dei rapporti con le misure di prevenzione patrimoniali) l’art.41 che, dopo aver dichiarato libera l’iniziativa economica privata (comma 1) ribadisce come essa non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (comma 2), demandando alla legge di determinare i programmi e i “controlli” opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali; nonché l’art.42 onde, per quanto di interesse, la proprietà è pubblica o privata (comma 1), i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati (comma 2) ed in particolare la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la “funzione sociale” e di renderla accessibile a tutti (comma 3), potendo essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale (comma 3).
Restano in vita anche dopo l’avvento della Costituzione repubblicana le misure di prevenzione di cui al TULPS 773.31, ponendo alla dottrina e alla giurisprudenza più avvertite la questione della loro compatibilità con la Carta costituzionale.
1956
Il 23 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.2, alla cui stregua va dichiarata la illegittimità costituzionale: a) del primo comma dell’art. 157 del T.U. delle leggi di p.s., approvato con decreto 18 giugno 1931 n. 773, nella parte relativa al rimpatrio obbligatorio o per traduzione di persone sospette; b) dei commi secondo e terzo dello stesso articolo nelle parti relative al rimpatrio per traduzione; facendo nondimeno salva l’ulteriore disciplina legislativa della materia.
Si tratta di una delle prime pronunce della Corte, che espunge dal sistema talune norme “di prevenzione” risalenti al regime fascista assunte in contrasto con gli art.13 e 16 Cost. anche perché disposte in difetto di un controllo dell’autorità giurisdizionale.
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Il 3 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.11 che dichiara la illegittimità costituzionale delle disposizioni contenute negli articoli dal 164 al 176 del T.U. delle leggi di p.s., approvato col R.D. 18 giugno 1931, n. 773, modificati col D.L.L. 10 dicembre 1944, n. 419, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, in materia di ordinanza di ammonizione, facendo sempre salva la ulteriore necessaria disciplina della materia.
Per il Collegio l’ordinanza di ammonizione ha per conseguenza la sottoposizione dell’individuo ad una speciale sorveglianza di polizia; attraverso questo provvedimento si impone all’ammonito tutta una serie di obblighi, di fare e di non fare, fra cui, quello di non uscire prima e di non rincasare dopo di una certa ora; effetti, tutti, integranti una significativa «restrizione» del diritto alla libertà personale tutelato dall’art. 13 Cost., e come tali sottratti – per volere dei costituenti – al potere esclusivo dell’autorità di polizia.
Si tratta dunque di una nuova pronuncia demolitoria della Corte costituzionale in tema di misure di prevenzione personali disposte dall’Autorità di PS senza alcun controllo giudiziario.
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Il 26 dicembre viene varata la legge n.1423, recante misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, che costituisce il testo fondamentale in materia appunto di misure di prevenzione e che demanda – giusta sistema “misto” – l’applicazione pertinente in parte all’Autorità (amministrativa) di pubblica sicurezza ed in parte all’Autorità giudiziaria, con funzioni di controllo.
Nella legge – che si colloca in proposito nel solco di una remota tradizione delle leggi di polizia – non viene definita la c.d. pericolosità sociale, come invece fa il codice penale all’art.203, isolando piuttosto 3 categorie di persone che, in progressione, vanno assunte vieppiù pericolose, ovvero: 1) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; 2) coloro che, per la condotta ed il tenore di vita, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; 3) coloro che, per il loro comportamento, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
Non vengono riproposte, in particolare, le categorie degli oziosi e dei vagabondi, oltre che dei soggetti abitualmente dediti ad attività contrarie alla morale pubblica ed al buon costume, presenti invece nella legislazione precedente quali figure di soggetti pericolosi, volendo il legislatore scongiurare l’applicazione di provvedimenti conculcativi della libertà personale in presenza di contegni meramente immorali dei pertinenti destinatari.
Il continuo riferimento ai sottostanti “elementi di fatto” implica il netto ancoraggio del giudizio di pericolosità – che è alla base delle misure di prevenzione siccome previste dalla nuova legge – a fatti oggettivamente valutabili secondo uno schema di ascendenza penalistica; solo tali fatti possono costituire concreto indizio delle situazioni soggettive che implicano l’applicazione delle misure ridette, con esclusione di comportamenti capaci di ingenerare meri sospetti.
Importante in particolare l’art.5 alla cui stregua, qualora il tribunale (e, dunque, una autorità giudiziaria) disponga l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 3, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare.
A tale scopo, qualora la misura applicata sia quella della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza e si tratti di ozioso, vagabondo (le cui categorie, dunque, riaffiorano in questa norma) o di persona sospetta di vivere con il provento di reati, il tribunale prescrive di darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di un lavoro, di fissare la propria dimora, di farla conoscere nel termine stesso all’autorità di pubblica sicurezza e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità medesima (comma 2).
In ogni caso, prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospetti e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia alla autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare armi, di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole, o in case di prostituzione e di non partecipare a pubbliche riunioni (comma 3). Inoltre, puo’ imporre tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale; ed, in particolare, il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province (comma 4).
Qualora sia applicata la misura dell’obbligo di soggiorno in un determinato comune, può essere, inoltre, prescritto: 1) di non andare lontano dall’abitazione scelta senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza; 2) di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni indicati ed a ogni chiamata di essa (comma 5). Alle persone cui sia applicata la misura dell’obbligo di soggiorno in un determinato comune e’ consegnata una carta di permanenza da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza.
1959
Il 5 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.27, che dichiara non fondata la questione, proposta con ordinanza del 1 marzo 1958 del Tribunale di Lucca, sulla legittimità costituzionale delle due norme dell’art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 indicate nell’ordinanza, in riferimento agli artt. 2 e 17 della Costituzione.
Per la Corte, il contenuto generale di talune prescrizioni alla cui violazione segue la sanzione penale – ed in particolare delle due in forza delle quali é fatto divieto al sorvegliato speciale di associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza e di partecipare a pubbliche riunioni – non si pone in contrasto con la Costituzione, ed in particolare con gli articoli 2 e 17 Cost..
Proprio con riferimento alle prescrizioni di non associarsi a persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di sicurezza o di prevenzione e di non partecipare a pubbliche riunioni, per la Corte esse si informano ad un rigoroso criterio di necessità, come risulta dalle ristrette e qualificate categorie di individui cui la sorveglianza speciale si rivolge e dal fatto che tale misura può essere applicata solo dopo che siano risultate senza effetto le diffide del questore. Le due prescrizioni ridette «si ispirano alla direttiva fondamentale dell’attività di prevenzione, cioè tenere lontano l’individuo sorvegliato dalle persone o dalle situazioni che rappresentano il maggior pericolo».
1964
Il 23 marzo esce la sentenza n.23 che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, concernente misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione.
Per il Collegio le ridette misure presentano una finalità tale onde l’adozione di esse può essere collegata, nelle previsioni legislative, non al verificarsi di fatti singolarmente determinati, ma a un complesso di comportamenti che costituiscano una condotta (complessiva) assunta dal legislatore come indice di pericolosità sociale. Discende, pertanto, dalla natura delle misure medesime come nella descrizione delle pertinenti fattispecie il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, potendo far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili.
Il che – chiosa ancora la Corte – non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione, rispetto alla previsione di reati e alla irrogazione delle pene.
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Il 30 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.68 che dichiara non fondata – in materia di ordine di rimpatrio – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, concernente misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità, in riferimento agli artt. 3, 16, 25 e 102 della Costituzione.
Per la Corte anche se fosse esatto – e non lo é – che le misure di polizia abbiano il contenuto di sanzione, non per questo all’organo amministrativo dovrebbe essere inibito di provvedere, non esistendo una norma o un principio costituzionale che, in linea generale, imponga l’intervento del giudice per l’applicazione delle sanzioni non penali. E lo stesso é da dirsi anche in rapporto al carattere personale del rimpatrio obbligatorio: tale carattere non impedisce che il provvedimento sia adottato dall’Amministrazione.
1965
Il 31 maggio viene varata la legge n.575, recante disposizioni “contro la mafia”, attraverso la quale viene ampliata la platea dei possibili destinatari di misure di prevenzione, includendovi anche gli indiziati di mafia. Agli articoli 1 e 2 non vi si fa peraltro cenno al requisito della c.d. “attualità” della pericolosità sociale di tali soggetti, che viene dunque assunta come presunta iuris tantum.
1975
Il 22 maggio viene varata la legge n.152, c.d. Legge Reale, che amplia ancora una volta il novero dei possibili destinatari delle misure di prevenzione includendovi anche chi è in qualche modo avvinto al fenomeno dell’eversione e del terrorismo.
Il relativo art. 18 estende infatti l’applicazione delle misure di prevenzione a coloro che: pongono in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato mediante la commissione di gravi delitti contro l’ordine costituzionale; avendo fatto parte di associazioni politiche disciolte, si debba ritenere, per il successivo comportamento, che continuino a svolgere attività analoga alla precedente; compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista; siano stati condannati per determinati delitti previsti dalle leggi speciali sulle armi o abbiano violato le prescrizioni della sorveglianza speciale, quando, per il comportamento tenuto successivamente, debba ritenersi che siano proclivi a commettere un delitto della stessa specie al fine di sovvertite l’ordine costituzionale dello Stato.
1980
Il 6 novembre esce la sentenza della Corte EDU, Guzzardi contro Italia, onde (paragrafo 102) l’applicazione della misura della sorveglianza speciale con ordine di soggiorno all’isola dell’Asinara disposta nei confronti del ricorrente di cui al caso di specie, indiziato di appartenenza a un’associazione mafiosa ai sensi della legge n. 575 del 1965, non ne ha soltanto limitato la relativa libertà di circolazione tutelata dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU (non ancora ratificato dall’Italia), ma si è risolta – in ragione della particolare ristrettezza dello spazio cui il ricorrente è confinato, nonché della situazione di sostanziale isolamento personale in cui egli è costretto a vivere – in una vera e propria privazione della relativa libertà personale, ai sensi dell’art. 5 CEDU.
Tale privazione – prosegue la Corte – non può, d’altra parte, considerarsi legittima, non ricorrendo alcuna delle eccezioni previste dal comma 1 dello stesso art. 5 CEDU: secondo la Corte, il confino del ricorrente non può – in particolare – legittimarsi in quanto misura necessaria «a impedirgli di commettere un reato» ai sensi della lettera c) del comma 1 dell’art. 5 indicato, dal momento che una privazione di libertà disposta a tal fine dovrebbe essere necessariamente funzionale a un successivo giudizio penale, celebrato davanti all’autorità giudiziaria, per uno specifico reato del quale il soggetto venga accusato. Funzionalità che, evidentemente, non sussiste rispetto alle misure di prevenzione, la cui applicazione prescinde dalla necessità di formulazione di un’accusa penale, con conseguente condanna dell’Italia.
Su altro crinale, la Corte EDU si colloca tuttavia in un consolidato filone giurisprudenziale orientato ad affermare – più in generale ed al di là del caso di specie – la piena legittimità delle misure di prevenzione, stante la relativa tendenziale compatibilità con la normativa convenzionale.
Per la Corte di Strasburgo, va esclusa l’appartenenza alla “materia penale” delle ridette misure (esse prevengono dei reati, non ne sanzionano un comportamento realizzativo) e, con essa, la pertinente sottoposizione alle garanzie per tale materia previste, prima fra tutte quella concernente il c.d. “giusto processo” ax art. 6 CEDU, oltre al divieto di ne bis idem di cui all’art.4, prot. 7, della Convenzione medesima.
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Il 16 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.177 che dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 1, n. 3, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nella parte in cui elenca tra i soggetti passibili delle misure di prevenzione previste dalla legge medesima coloro che, <per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere >; dichiara invece non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152, sollevata con riferimento all’art. 25, terzo comma, Cost. dal Tribunale di Roma.
La Corte rammenta preliminarmente come la tematica delle misure di prevenzione ed i relativi problemi le siano stati posti all’attenzione sin dall’inizio della relativa attività. Già con la sentenza n. 2 del 1956, la Corte ebbe ad annunciare alcuni importanti principi, quali l’obbligo della garanzia giurisdizionale per ogni provvedimento limitativo della libertà personale e il netto rifiuto del sospetto come presupposto per l’applicazione di siffatti provvedimenti, in tanto legittimi in quanto motivati da fatti specifici. Con la successiva sentenza n. 11 del medesimo anno 1956, la Corte affermò che < Il grave problema di assicurare il contemperamento tra le due fondamentali esigenze di non frapporre ostacoli all’attività di prevenzione dei reati e di garantire il rispetto degli inviolabili diritti della personalità umana, appare… risoluto attraverso il riconoscimento dei tradizionali diritti di habeas corpus nell’ambito del principio di stretta legalità>. <Correlativamente >, prosegue la Corte nella citata sentenza, <in nessun caso l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà (personale) se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni>.
La legittimità costituzionale di <un sistema di misure di prevenzione dei fatti illeciti>, a garanzia <dell’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti, fra i cittadini> è sempre stata ribadita dalle successive sentenze della Corte (sentenze: n. 27 del 1959; n. 45 del 1960; n. 126 del 1962; n. 23 e n. 68 del 1964; n. 32 del 1969 e n. 76 del 1970) con riferimento agli artt. 13, 16, 17 e 25, terzo comma, Cost.; ora sottolineando ora attenuando il parallelismo con le misure di sicurezza (di cui appunto all’art. 25, terzo comma, Cost.) e perciò, ora richiamando l’identità del fine di prevenzione di reati perseguito da entrambe le misure che hanno per oggetto la pericolosità sociale del soggetto, ora marcando, invece, le differenze che si vogliono intercorrenti tra di esse.
Soprattutto occorre ricordare, prosegue il Collegio, non tanto l’inciso contenuto nella sentenza n. 27 del 1959, che definisce <ristrette e qualificate> le <categorie di individui cui la sorveglianza speciale può essere applicata (art. 1 della legge)> (n. 1423 del 1956), quanto la sentenza n. 23 del 1964 della Corte, che ha dichiarato non fondata <la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 Cost.>. Nella parte motiva di questa sentenza si legge che <nella descrizione delle fattispecie (di prevenzione) il legislatore debba normalmente procedere con diversi criteri da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti, però, sempre, a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione rispetto alla previsione dei reati e dalla irrogazione delle pene>.
Con riferimento specifico ai numeri 2, 3 e 4 dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, la Corte rammenta di avere escluso che <le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti>, richiedendosi, invece, <una oggettiva valutazione di fatti da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione>.
In coerenza con le precedenti decisioni della Corte, va allora ribadito che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà personale è necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sent. n. 11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perchè la mancanza dell’uno vanifica l’altro, rendendolo meramente illusorio.
Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai <casi previsti dalla legge>, lo si ancori all’art. 13 ovvero all’art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in <fattispecie di pericolosità>, previste descritte dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata.
Invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l’accertamento dei presupposti di fatto per la relativa applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l’altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità (demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di fatto <previsti dalla legge> e, perciò, passibili di accertamento giudiziale.
L’intervento del giudice (e la presenza della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve) nel procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale (o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione giurisdizionale nel campo della libertà personale) se non fosse preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti, l’accertamento di fattispecie legali predeterminate. Si può, infine, ricordare per la Corte che l’applicazione delle misure di sicurezza personali, finalizzate anche esse a prevenire la commissione di (ulteriori) reati (e che non sempre presuppongono la commissione di un precedente reato; art. 49, secondo e quarto comma e art. 115, secondo e quarto comma del codice penale), talché possono considerarsi una delle due species di un unico genus, è vincolata all’accertamento delle fattispecie legali dal quale dipende il giudizio di pericolosità, sia tale pericolosità presunta o da accertare in concreto.
L’accento, anche per le misure di prevenzione, cade dunque per la Corte sul sufficiente o insufficiente grado di determinatezza della descrizione legislativa dei presupposti di fatto dal cui accertamento dedurre il giudizio, prognostico, sulla pericolosità sociale del soggetto.
Le questioni decidende esigono che la Corte verifichi la sufficienza nel senso anzidetto degli <indici di pericolosità sociale>, per usare la terminologia corrente in letteratura, descritti nelle disposizioni di legge denunziate. Al proposito, è bene accennare che, sotto il profilo della determinatezza, non è affatto rilevante che la descrizione normativa abbia ad oggetto una condotta singola ovvero una pluralità di condotte, posto che apprezzabile può essere sempre e soltanto il comportamento o contegno di un soggetto nei confronti del mondo esterno, come si esprime attraverso le relative azioni od omissioni.
Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all’avvenire.
Si deve ancora osservare per il Collegio che le condotte presupposte per l’applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti.
Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, deve per la Corte dichiararsi fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, n. 3 ultima ipotesi, della legge n. 1423 del 1956. La disposizione di legge in esame (a differenza ad esempio di quella di cui al n. 1 del medesimo art. 1), non descrive, infatti, né una o più condotte, né alcuna <manifestazione> cui riferire, senza mediazioni, un accertamento giudiziale.
Quali <manifestazioni > vengano in rilievo è rimesso al giudice (e, prima di lui, al pubblico ministero ed alla autorità di polizia proponenti e segnalanti) già sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello dell’accertamento. I presupposti del giudizio di <proclività a delinquere> non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei <casi> (come vogliono sia l’art. 13, che l’art. 25, terzo comma, Cost.), ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità.
Né per la ricostruzione della fattispecie può per la Corte sovvenire il riferimento al o ai reati della cui prevenzione si tratterebbe. La espressione <proclivi a delinquere> usata dal legislatore del 1956 sembrerebbe richiamare l’istituto della <tendenza a delinquere> di cui all’art. 108 del codice penale, ma l’accostamento sul piano sostanziale non regge, posto che la dichiarazione prevista da quest’ultima norma presuppone l’avvenuto accertamento di un delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale e dei motivi a delinquere, tali da far emergere una speciale inclinazione al delitto; e l’indole particolarmente malvagia del colpevole.
Nel caso in esame la <proclività a delinquere> deve, invece, essere intesa come sinonimo di pericolosità sociale, con la conseguenza che l’intera disposizione normativa, consentendo l’adozione di misure restrittive della libertà personale senza l’individuazione né dei presupposti né dei fini specifici che le giustificano, si deve dichiarare costituzionalmente illegittima.
Le stesse considerazioni di cui ai punti 4 e 5, conducono la Corte a dichiarare, invece, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152. Il giudice a quo muove dall’affermazione che gli atti preparatori di cui alla disposizione di legge censurata <non debbono rivestire, rispetto alla direzione specificata dalla norma, gli estremi della idoneità e della univocità> perché, se così non fosse <verrebbe commesso uno dei reati elencati>.
Posta questa esatta premessa, il Tribunale di Roma osserva che <la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi, accolta nel codice penale del 1889 < in tema di tentativo> è stata abbandonata dal legislatore del 1930 (come espressamente risulta dalla relazione al re sul C.P. (n. 39)), in quanto ritenuta inidonea a risolvere il difficile problema, appunto del tentativo. <In palese contraddizione con se stesso il legislatore> del 1975 avrebbe nella disposizione di legge denunziata <riesumato lo sfuggente concetto di atto preparatorio>, <senza in alcun modo determinare mediante limiti o specificazioni di contenuto della norma, in che cosa consista l’atto preparatorio di un reato>.
Tale assunto non può per la Corte essere condiviso. Se è vero, infatti, che il legislatore del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell’epoca, aveva ritenuto di allargare l’area del tentativo punibile redigendo il testo dell’art. 56 del codice penale, non è meno vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno dimostrato l’illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare. Ciò perché <atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto> possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l’idoneità di un atto può denotare al più la potenzialità dell’atto a conseguire una pluralità di risultati, soltanto dall’inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell’atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall’agente.
Dottrina e giurisprudenza indicano nell’art. 115 del codice penale la disposizione che integra, ovvero conferma l’anzidetta interpretazione dell’art. 56 del codice penale, per quanto attiene alle condizioni e ai limiti di rilevanza del tentativo punibile. Dal medesimo art. 115 del codice penale, d’altra parte, si deduce anche la (possibile) rilevanza per l’ordinamento di atti che ancora non sono esecutivi di una fattispecie criminosa, ma che, a partire dalla prima manifestazione esterna del proposito delittuoso, predispongono i mezzi e creano le condizioni per il delitto. Si tratta, appunto, degli atti preparatori, che vengono presi in considerazione dal citato art. 115 cod. pen. in via normale per l’applicazione di misure di sicurezza, fatti salvi i casi in cui, in via di eccezione, la legge li preveda come figure autonome di reato.
Si può dunque dire che la distinzione tra tentativo punibile ed atto preparatorio è certamente percepibile e che l’atto preparatorio consiste in una manifestazione esterna del proposito delittuoso che abbia un carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura di reato.
Se così e, è difficile negare per la Corte che le fattispecie descritte dall’art. 18, n. 1, della legge n. 152 del 1975 abbiano i necessari requisiti di determinatezza. Gli atti preparatori, infatti sono riferiti ad una pluralità di figure di reato tassativamente indicate, sottolineandosi in tal modo l’accennato carattere strumentale dell’atto preparatorio medesimo, sottolineatura ulteriormente ribadita con l’inciso <obiettivamente rilevanti> che richiama non solo e non tanto il dato, ovvio, della rilevanza esterna dell’atto quanto la relativa significatività rispetto al fine delittuoso perseguito dall’agente. Infine, gli atti preparatori devono essere finalizzati al sovvertimento dell’ordinamento dello Stato e della sussistenza di questo requisito dovrà darsi la prova nel caso concreto.
Deve, quindi, ritenersi sufficientemente determinata la fattispecie di pericolosità di cui all’art. 18, n. 1, della legge n. 152 del 1975, la cui latitudine rispecchia una scelta che compete solo al legislatore. Quanto alle difficoltà che possono insorgere nell’applicazione di questa come di altre disposizioni normative, la Corte assume non spettare ad essa né proporne una sistemazione né indicarne la soluzione.
E’ peraltro evidente – conclude la Corte – che gli atti preparatori di cui all’art. 18, n. 1, della legge n. 152 del 1975 in tanto possono venire in considerazione per l’applicazione di misure di prevenzione in quanto non costituiscano figure autonome di reato (ci si riferisce, in particolare, ai reati associativi) e che il materiale probatorio ritenuto inidoneo o insufficiente per fondare una affermazione di responsabilità in ordine a taluna di siffatte figure di reato non può essere diversamente valutato quando si tratti di accertare, per l’applicazione di misure di prevenzione, la sussistenza del medesimo atto preparatorio.
1982
Il 13 settembre viene varata la legge n.646, c.d. legge Rognoni-La Torre, che integra la legge 575.65 anche in tema di misure di prevenzione personali, nello stesso momento in cui inserisce nel codice penale il nuovo art.416 bis sulle associazioni di stampo mafioso.
Ne scaturisce un potenziamento del sistema della prevenzione, massime giusta introduzione di nuove misure preventive di tipo patrimoniale.
1986
*Il 22 giugno esce la sentenza della Corte EDU nel caso Ciulla c. Italia, che si colloca in un consolidato filone giurisprudenziale orientato ad affermare la piena legittimità delle misure di prevenzione, stante la relativa tendenziale compatibilità con la normativa convenzionale.
Per la Corte di Strasburgo, va esclusa l’appartenenza alla “materia penale” delle ridette misure (esse prevengono dei reati, non ne sanzionano un comportamento realizzativo) e, con essa, la pertinente sottoposizione alle garanzie per tale materia previste, prima fra tutte quella concernente il c.d. “giusto processo” ax art. 6 CEDU, oltre al divieto di ne bis in idem di cui all’art.4, prot. 7, della Convenzione medesima.
1988
Il 3 agosto viene varata la legge n.327, recante norme in materia di misure di prevenzione personali, con importanti modifiche al sistema normativo afferente per l’appunto a tale tipologia di misure preventive.
Essa, raccogliendo le sollecitazioni della Corte EDU e dalla Corte costituzionale, da un lato elimina la possibilità per il tribunale di ordinare l’obbligo di soggiorno in un Comune diverso da quello di residenza; e, dall’altro, riformula le descrizioni normative contenute nell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, eliminando dal novero dei destinatari delle misure in questione i «vagabondi» e gli «oziosi», e precisando in ciascuna di esse che la riconduzione del soggetto alle categorie descritte dalla legge deve effettuarsi da parte del tribunale sulla base di «elementi di fatto» (e non già, dunque, sulla base di semplici voci o sospetti).
* * *
Il 22 settembre viene varato il D.P.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, secondo il cui art.274, comma 1, lettera c), le misure cautelari “sono disposte” (e, dunque, vanno disposte) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai relativi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede
Il riferimento ai delitti di criminalità organizzata porta ad assumere una “pericolosità sociale intrinsecamente attuale”, per presunzione relativa, in capo a chi partecipi ad associazioni mafiose, che giustifica anche l’applicazione di misure di prevenzione (specie personali) muovendo proprio dalla presunzione iuris tantum di pericolosità sociale “attuale” del proposto.
1989
Il 17 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.2924, Nuvoletta, che si inscrive nel collaudato filone pretorio orientato nel senso della presunzione relativa di pericolosità attuale con riferimento agli appartenenti ad una associazione di stampo mafioso, per i quali la ridetta “attualità di pericolosità” va assunta implicitamente dimostrata dall’appartenenza stessa alla compagine criminale organizzata secondo il principio “semel mafioso, semper mafioso”.
* * *
Il 13 dicembre viene varata la legge n.401, recante interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive, il cui art.6 forgia una nuova misura di prevenzione personale compendiantesi nel c.d. DASPO, ovvero nel divieto di accedere nei luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive per coloro che siano stati coinvolti in episodi di violenza negli stadi, o vi si rechino portando armi improprie, nonché per coloro che siano stati denunciati in passato ovvero condannati per episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive.
1990
Il 19 marzo viene varata la legge n.55, recante nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale, il cui art.14 estende l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali agli indiziati di appartenenza ad associazioni finalizzate al traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 74 d.p.r. n. 309/1990), nonché a coloro che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi dei delitti di cui agli artt. 629, 630, 648-bis, 648-ter c.p., ovvero del contrabbando.
* * *
Il 6 giugno esce la sentenza della sezione VI della Cassazione, Charni, onde – stante il disposto dell’art. 166, comma 2, c.p., siccome novellato dall’art. 4 legge n. 19/1990 – la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire, di per sé sola, motivo per l’applicazione di una misura di prevenzione, stante come la prognosi favorevole compiuta dal giudice penale con la concessione del beneficio suppone implicitamente, ma inequivocabilmente, un giudizio favorevole in ordine alla concreta insussistenza della pericolosità sociale del condannato.
1991
Il 01 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.212, Piromalli, che si inserisce nel solco pretorio onde, per quanto concerne – a fini di applicazione di una misura di prevenzione personale – la c.d. pericolosità sociale “qualificata”, necessita accertare la presenza di indizi, quali elementi certi, dai quali possa ritrarsi la probabile appartenenza del soggetto proposto ad un’associazione di tipo mafioso, senza tuttavia che occorra che tali indizi siano “gravi, precisi e concordanti”, come tali capaci di fondare un giudizio di responsabilità penale.
* * *
L’11 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.3866, Bonura, che si inserisce nel consolidato solco pretorio orientato ad assumere la pericolosità sociale “attuale” quale presupposto indefettibile dell’applicazione di una misura di prevenzione, onde sono da assumersi tutt’affatto irrilevanti eventuali pregresse manifestazioni di pericolosità in difetto di precipui riscontri, all’atto dell’applicazione della singola misura, che si atteggino a sintomi rivelatori della persistenza del soggetto in comportamenti antisociali tali da imporne una peculiare vigilanza comportamentale.
* * *
*Il 10 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.3999, Giamboi, onde – stante il disposto dell’art. 166, comma 2, c.p., siccome novellato dall’art. 4 legge n. 19/1990 – la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire, di per sé sola, motivo per l’applicazione di una misura di prevenzione, stante come la prognosi favorevole compiuta dal giudice penale con la concessione del beneficio suppone implicitamente, ma inequivocabilmente, un giudizio favorevole in ordine alla concreta insussistenza della pericolosità sociale del condannato.
1992
*Il 18 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Vicenti, che si inserisce nel solco pretorio onde, per quanto concerne – a fini di applicazione di una misura di prevenzione personale – la c.d. pericolosità sociale “qualificata”, necessita accertare la presenza di indizi, quali elementi certi, dai quali possa ritrarsi la probabile appartenenza del soggetto proposto ad un’associazione di tipo mafioso, senza tuttavia che occorra che tali indizi siano “gravi, precisi e concordanti”, come tali capaci di fondare un giudizio di responsabilità penale.
* * *
Il 6 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Ripepi, che si inserisce nel solco pretorio onde, per quanto concerne – a fini di applicazione di una misura di prevenzione personale – la c.d. pericolosità sociale “qualificata”, necessita accertare la presenza di indizi, quali elementi certi, dai quali possa ritrarsi la probabile appartenenza del soggetto proposto ad un’associazione di tipo mafioso, senza tuttavia che occorra che tali indizi siano “gravi, precisi e concordanti”, come tali capaci di fondare un giudizio di responsabilità penale.
Per la Corte l’indagine finalizzata all’applicazione di una misura di prevenzione personale va orientata, dal punto finalistico, non già all’accertamento della sussistenza di un fatto di reato, quanto piuttosto ad acclarare, giusta procedimento valutativo di tipo sintomatico, il modo di essere di una persona e la relativa, abituale condotta di vita nell’illegalità.
1993
*Il 26 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione, D’Ausilio, che si inserisce nel solco pretorio onde, per quanto concerne – a fini di applicazione di una misura di prevenzione personale – la c.d. pericolosità sociale “qualificata”, necessita accertare la presenza di indizi, quali elementi certi, dai quali possa ritrarsi la probabile appartenenza del soggetto proposto ad un’associazione di tipo mafioso, senza tuttavia che occorra che tali indizi siano “gravi, precisi e concordanti”, come tali capaci di fondare un giudizio di responsabilità penale.
Per la Corte l’indagine finalizzata all’applicazione di una misura di prevenzione personale va orientata, dal punto finalistico, non già all’accertamento della sussistenza di un fatto di reato, quanto piuttosto ad acclarare, giusta procedimento valutativo di tipo sintomatico, il modo di essere di una persona e la relativa, abituale condotta di vita nell’illegalità.
* * *
Il 26 aprile viene varato il decreto legge n.122, recante misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, che dispone (in specie, all’art.2) il divieto di accesso agli stadi per un sempre più ampio novero di soggetti, massime al fine di far fronte al crescente allarme sociale ed ai connessi pericoli per l’ordine pubblico avvinti al fenomeno di tifoseria violenta dei c.d. hoolingas.
* * *
Il 25 giugno viene varata la legge n.205 che converte in legge con modificazioni il decreto legge n.122.
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Il 14 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione, Marchese, che si inscrive nel collaudato filone pretorio orientato nel senso della presunzione relativa di pericolosità attuale con riferimento agli appartenenti ad una associazione di stampo mafioso, per i quali la ridetta “attualità di pericolosità” va assunta implicitamente dimostrata dall’appartenenza stessa alla compagine criminale organizzata secondo il principio “semel mafioso, semper mafioso”.
1994
*Il 22 febbraio esce la sentenza della Corte EDU nel caso Raimondo c. Italia, che si colloca in un consolidato filone giurisprudenziale orientato ad affermare la piena legittimità delle misure di prevenzione, stante la relativa tendenziale compatibilità con la normativa convenzionale.
Per la Corte di Strasburgo, va esclusa l’appartenenza alla “materia penale” delle ridette misure (esse prevengono dei reati, non ne sanzionano un comportamento realizzativo) e, con essa, la pertinente sottoposizione alle garanzie per tale materia previste, prima fra tutte quella concernente il c.d. “giusto processo” ax art. 6 CEDU, oltre al divieto di ne bis in idem di cui all’art.4, prot. 7, della Convenzione medesima.
1995
Il 24 ottobre esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.450, che – nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Firenze – afferma come la delimitazione della norma all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso (delimitazione mantenuta in una recente novella) rende manifesta la non-irragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992).
In sostanza la Corte, pronunciandosi in tema di misure cautelari, avalla la natura “attuale” – presunta iuris tantum – della pericolosità sociale degli appartenenti ad associazioni di tipo mafioso, con evidenti ricadute anche in tema di applicazione di pertinenti misure di prevenzione personali.
1996
Il 7 marzo viene varata la legge n.108 in materia di usura che, modificando l’art. 14 della legge n. 55/90, estende l’ambito di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali anche a coloro che siano sospettati di vivere abitualmente, in tutto o in parte, dei proventi del delitto di usura, ovvero che siano allo stesso dediti abitualmente.
* * *
Sempre il 7 marzo viene varata la legge n.109 che introduce procedimenti amministrativi orientati alla destinazione a fini sociali dei beni confiscati alla criminalità organizzata, ai sensi della legge n. 575/1965.
* * *
L’8 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n.335 che dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-ter, settimo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 42 e 112 della Costituzione, dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere, e che opera un importante connessione tra le misure di prevenzione personali e quelle a carattere patrimoniale.
Per la Corte, in particolare, dal sistema legislativo vigente affiora, come principio, che le misure di prevenzione di ordine patrimoniale non hanno la loro ragion d’essere esclusivamente nei caratteri dei beni che colpiscono. Esse sono rivolte non a beni come tali, in conseguenza della loro sospetta provenienza illegittima, ma a beni che, oltre a ciò, sono nella disponibilità di persone socialmente pericolose, in quanto sospette di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad altre alle prime equiparate.
In sostanza, per il Collegio la pericolosità del bene, per così dire, è considerata dalla legge derivare dalla pericolosità della persona che ne può disporre.
1999
*Il 15 giugno esce la sentenza della Corte EDU nel caso Prisco c. Italia, che si colloca in un consolidato filone giurisprudenziale orientato ad affermare la piena legittimità delle misure di prevenzione, stante la relativa tendenziale compatibilità con la normativa convenzionale.
Per la Corte di Strasburgo, va esclusa l’appartenenza alla “materia penale” delle ridette misure (esse prevengono dei reati, non ne sanzionano un comportamento realizzativo) e, con essa, la pertinente sottoposizione alle garanzie per tale materia previste, prima fra tutte quella concernente il c.d. “giusto processo” ax art. 6 CEDU, oltre al divieto di ne bis in idem di cui all’art.4, prot. 7, della Convenzione medesima.
2000
*Il 6 aprile esce la sentenza della Corte EDU nel caso Labita c. Italia, che si colloca in un consolidato filone giurisprudenziale orientato ad affermare la piena legittimità delle misure di prevenzione, stante la relativa tendenziale compatibilità con la normativa convenzionale.
Per la Corte di Strasburgo, va esclusa l’appartenenza alla “materia penale” delle ridette misure (esse prevengono dei reati, non ne sanzionano un comportamento realizzativo) e, con essa, la pertinente sottoposizione alle garanzie per tale materia previste, prima fra tutte quella concernente il c.d. “giusto processo” ax art. 6 CEDU, oltre al divieto di ne bis idem di cui all’art.4, prot. 7, della Convenzione medesima.
2001
Il 20 agosto viene varato il decreto legge n.336, recante disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive, che incide sull’art.6 della legge 401.89, aggiungendo alle prescrizioni “in negativo” ivi previste, il potere del Questore di prescrivere “in positivo” ai soggetti interessati “di comparire personalmente una o più volte negli orari indicati, nell’ufficio o comando di polizia competente, nel corso della giornata în cui si svolgono le manifestazioni per le quali opera il divieto” di accedere alle ridette manifestazioni; più che una mera misura di prevenzione, si è cospetto di una vera e propria misura cautelare coercitiva come dimostra la circostanza onde ne è prevista la convalida del GIP, su richiesta del P.M., secondo lo schema (anche in termini di stringente tempistica procedurale) di cui all’art. 13 Cost.
* * *
Il 19 ottobre viene varata la legge n.377 che converte con modificazioni il decreto legge n.336.
2003
Il 12 dicembre esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.354 che dichiara la manifesta inammissibilità (per irrilevanza) della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), in relazione all’art. 5, secondo comma, della medesima legge, sollevata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palmi, con particolare riguardo alle previsione di «non dare ragioni di sospetto».
Per la Corte, in tema di misure di prevenzione, vanno distinte le prescrizioni (in esse previste) di specifiche e qualificate condotte, puntualmente descritte dalla norma – che, prevedendo precisi obblighi, assumono valore precettivo per il prevenuto, e “prescrizioni di genere” – riconducibili al paradigma dell’honeste vivere, precisando che «sono anch’esse funzionali alla ratio essendi della sorveglianza speciale, ma non sono certo qualificabili alla stregua di specifici obblighi penalmente sanzionati».
Alla luce di tale distinzione, la Corte riconduce al paradigma dell’honeste vivere la prescrizione di “non dare ragione di sospetto“, quale proiezione esteriore del comportamento di chi osservi il più generale precetto, costituzionalmente imposto a chiunque, di “vivere onestamente“.
Per la Corte nondimeno, non risultando il profilo evocato pertinente al caso di specie, la questione sollevata finisce con l’essere priva di rilevanza agli effetti delle determinazioni che il giudice a quo è chiamato ad adottare, altra essendo la “prescrizione” della cui applicazione in concreto si tratta: quella dell’essersi o meno il prevenuto associato abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza.
2004
Il 30 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.20612 alla cui stregua – ai fini dell’applicazione e della revoca, ai sensi dell’art. 7, comma 2, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, di una misura di prevenzione personale – costituisce elemento rilevante in termini di cessazione della pericolosità sociale, dopo le modifiche apportate dalla I. 13 febbraio 2001 n. 45, l’ammissione allo speciale programma di protezione dei collaboratori di giustizia, sicché non può essere posto a carico del collaboratore l’onere di ulteriori dimostrazioni, mentre spetta al giudice accertare l’eventuale esistenza di elementi comprovanti la persistenza della pertinente pericolosità.
2005
Il 27 luglio viene varato il decreto legge n.144, recante misure urgenti contro il terrorismo internazionale, che tra le altre cose riformula l’art. 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, quale norma penale di chiusura del sistema della prevenzione, con speciale riguardo alle misure di prevenzione personali ed alla pertinente, pedissequa osservanza degli obblighi in esse previsti.
Vi viene prevista un’ipotesi contravvenzionale – con una pena (dell’arresto) da tre mesi ad un anno – che si riferisce alla violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale c.d. semplice; ed una più grave fattispecie delittuosa, punita con la reclusione da uno a cinque anni, in caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o con il divieto di soggiorno.
L’art.9 della legge 1423.56 acquista dunque una nuova struttura: viene contestualmente abrogato l’art. 12 della ridetta legge 1423.56 e le violazioni delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale, con obbligo o divieto di soggiorno, vengono trasferite per l’appunto nel comma 2 dell’art. 9 in parola, con l’effetto di trasformare le condotte inottemperanti a tali prescrizioni in ipotesi delittuose.
La violazione di un qualunque obbligo inerente alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, anche se diverso dal divieto di recarsi fuori del comune di soggiorno, integra l’ipotesi delittuosa e non più quella contravvenzionale. Solo le inosservanze agli obblighi commesse dal sorvegliato speciale non sottoposto all’obbligo vengono punite a titolo di contravvenzioni ai sensi dell’art. 9, comma 1, legge n. 1423 del 1956.
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Il 31 luglio viene varata la legge n.155 che converte, con modificazioni, il decreto legge n.144
2008
Il 23 maggio viene varato il decreto legge n.92, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, che incide su gran parte del sistema normativo dedicato alle misure di prevenzione, con particolare riguardo a quelle patrimoniali (c.d. Pacchetto sicurezza).
Il provvedimento amplia il novero dei soggetti potenziali destinatari delle misure di prevenzione di cui all’art.1 della legge 575.65 includendovi anche i soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art.51, comma 3 bis, c.p.p.
L’innovazione certamente più significativa, ai fini della definizione – in particolare – della natura delle misure di prevenzione patrimoniale e del loro statuto di garanzia, consiste nella autonomizzazione del rispettivo procedimento applicativo rispetto a quello finalizzato all’applicazione delle misure di prevenzione personali: espressamente si stabilisce che le due tipologie di misure possano essere richieste e applicate disgiuntamente, prevedendo altresì l’applicazione di quelle patrimoniali anche in caso di morte del soggetto, con prosecuzione del pertinente procedimento nei confronti dei relativi eredi o comunque aventi causa, nell’ipotesi in cui la morte sia sopraggiunta nel corso del procedimento applicativo medesimo.
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Il 24 luglio viene varata la legge n.122 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge 92.08, completando il c.d. Pacchetto sicurezza.
2009
Il 22 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.161 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), così come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Caltanissetta, in composizione monocratica.
La Corte, riferendosi all’art. 9 cit., giustifica l’inasprimento sanzionatorio che è derivato da tale equiparazione, in quanto riguardante «soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee».
In altri termini, si assume il legislatore avere esercitato la propria discrezionalità in maniera ragionevole, in un settore che si rivolge a soggetti ritenuti portatori di una particolare pericolosità criminale e nei cui confronti si giustifica la previsione di trattamenti sanzionatori severi in caso di violazioni di obblighi e di prescrizioni alle misure di prevenzione, anche al fine di garantire l’effettività dei controlli da parte dell’autorità di pubblica sicurezza.
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Il 15 luglio viene varata la legge n.94, recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, il cui art.2, comma 5, significativamente innova il titolo della legge 31 maggio 1965, n. 575, sostituendolo con il seguente: “Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere“.
La legge amplia ancora una volta il novero dei soggetti potenziali destinatari di misure di prevenzione, includendovi gli indiziati del delitto di trasferimento fraudolento di valori al fine di eludere le vigenti disposizioni in materia di misure di prevenzione, di contrabbando o sui reati di riciclaggio ex art. 12 quinquies, comma 1, del decreto legge n. 306/1992.
Con l’art. 2, comma 22, viene modificato l’art. 10, comma 1, lettera c), numero 2), del d.l. 92 del 2008, chiarendo che le misure di prevenzione patrimoniale possono essere applicate «indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione», che può dunque essere invocata anche in difetto del predicato dell’”attualità” della pericolosità sociale del proposto.
2010
*Il 5 gennaio esce la sentenza della Corte EDU nel caso Bongiorno c. Italia, che si colloca in un consolidato filone giurisprudenziale orientato ad affermare la piena legittimità delle misure di prevenzione, stante la relativa tendenziale compatibilità con la normativa convenzionale.
Per la Corte di Strasburgo, va esclusa l’appartenenza alla “materia penale” delle ridette misure (esse prevengono dei reati, non ne sanzionano un comportamento realizzativo) e, con essa, la pertinente sottoposizione alle garanzie per tale materia previste, prima fra tutte quella concernente il c.d. “giusto processo” ax art. 6 CEDU, oltre al divieto di ne bis in idem di cui all’art.4, prot. 7, della Convenzione medesima.
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Il 4 febbraio viene varato il decreto legge n.4, recante istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita’ organizzata.
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Il 31 marzo viene varata la legge n.50 che converte, con modificazioni, il decreto legge n.4.
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Il 23 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.282 che dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, sollevata, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, dal Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, in composizione monocratica.
La Corte, nel caso di specie, riafferma la piena conformità al principio di tassatività e determinatezza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi“. Quanto alla prima, richiamando la precedente ordinanza n. 354 del 2003, per il Collegio va rilevato che, se considerata isolatamente, la stessa non appare qualificabile quale obbligo penalmente sanzionato, trattandosi di una prescrizione generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati. Tuttavia, se la si considera nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dall’art. 5 legge n. 1423 del 1956, e quale elemento di una fattispecie integrante il reato proprio di cui all’art. 9, secondo comma, della stessa legge, tale prescrizione assume un contenuto più preciso, «risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di “vivere onestamente” si concretizza e si individualizza».
Per la Corte inoltre va esclusa l’indeterminatezza della prescrizione di “rispettare le leggi“, in quanto la stessa si riferisce al dovere imposto al sottoposto alla misura preventiva di rispettare «tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano, cioè, di tenere o di non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia indice della già accertata pericolosità». Ad avviso della Corte, il carattere generale di tale obbligo, di per sé riguardante tutta la collettività, da un lato, non determina la genericità del contenuto della prescrizione in esame e, dall’altro, conferma l’esigenza di prescriverne il rispetto alle persone nei cui confronti sia già stato formulato, con le garanzie proprie della giurisdizione, il giudizio di grave pericolosità sociale.
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Il 13 agosto viene varata la legge n.136 recante Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia, che delega il Governo ad emanare il c.d. codice antimafia, con l’intento di riorganizzare in ottica maggiormente sistematica – laddove occorre integrandola – l’intera disciplina vigente in materia di normativa antimafia, misure di prevenzione, certificazioni antimafia e operazioni sotto copertura, con l’innesto di disposizioni innovative finalizzate a dare la stura a più incisivi strumenti di controllo degli appalti pubblici, di tracciabilità dei pertinenti flussi finanziari, di aggressione ai patrimoni mafiosi, anche giusta vieppiù incisiva e mirata azione della Direzione investigativa antimafia, oltre che di lotta all’ecomafia.
Se da un lato si staglia la delega al Governo per l’emanazione del c.d. codice antimafia, dall’’altro una prima parte del provvedimento reca una disciplina immediatamente precettiva in materia di tracciabilità dei flussi finanziari (att. 3) e di relative sanzioni (art. 6); di controllo degli automezzi adibiti al trasporto dei materiali (art. 4); di identificazione degli addetti nei cantieri (art. 5); di accertamenti fiscali e di obblighi di comunicazione delle variazioni patrimoniali gravanti sui soggetti sottoposti a misure di prevenzione o condannati per determinati reati (art. 7); di operazioni sotto copertura (anche per quanto concerne la pertinente disciplina processuale (art. 8); di reato di turbata libertà degli incanti previsto dall’art. 353 c.p. (art. 9); di introduzione del nuovo delitto di “turbata libertà del procedimento di scelta del contraente” ex nuovo art. 353-bis c.p. (art. 10); di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia e di esame a distanza dei collaboratori di giustizia (art. 11) e di Coordinamenti interforze provinciali (art. 12); di Stazione unica appaltante (att. 13); di sospensione dell’efficacia dei provvedimenti di revoca dei programmi di protezione e di somme corrisposte ai testimoni di giustizia (att. 14); di composizione del Consiglio generale per la lotta alla criminalità organizzata (art. 15).
La delega al Governo concerne anche la modificazione e l’integrazione della disciplina in materia di documentazione antimafia, che lambisce tanto il fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso quanto quello del c.d. procedimento di prevenzione.
2011
Il 6 settembre viene varato il decreto legislativo n.159, recante Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136, il cui art.120, comma 1, lettera a) abroga la legge 1423.56.
Il provvedimento si pone l’ardita finalità di operare una ricognizione il più possibile completa delle norme antimafia di natura tanto penale (sostanziale e processuale) quanto amministrativa, armonizzandole e coordinandole massime con la nuova disciplina in tema di Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, siccome recentemente istituita con il decreto legge 4 febbraio 2010, n. 4.
Il Governo – delegato all’uopo dal Parlamento – si dedica ad un’ampia opera di ricognizione e revisione dell’intera normativa in tema di misure di prevenzione, stante la complessità e la assoluta novità dei principi introdotti dalla più recente, pertinente normativa, che si intreccia con il precipitato di oltre cinquant’anni di evoluzione della materia in termini di regolamentazione talvolta, peraltro, tutt’affatto rapsodica. L’obiettivo è quello della razionalizzazione, della semplificazione e del coordinamento di tutta la normativa vigente ratione materiae, sulla scorta dei principi e criteri direttivi elaborati dal Parlamento e, taluni, riferibili a ciascuna singola misura di prevenzione.
Di particolare significatività l’art.8 alla cui stregua il provvedimento del tribunale che dispone la misura di prevenzione stabilisce la durata della misura medesima, che non può essere inferiore ad un anno né superiore a 5 (comma 1); qualora il tribunale disponga l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’articolo 6 (sorveglianza speciale, divieto di soggiorno, obbligo di soggiorno e così via), nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare (comma 2) e a tale scopo, qualora la misura applicata sia quella della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e si tratti di persona indiziata di vivere con il provento di reati, il tribunale prescrive di darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di un lavoro, di fissare la propria dimora, di farla conoscere nel termine stesso all’autorità di pubblica sicurezza e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità medesima (comma 3).
In ogni caso, ai sensi del comma 4 il Tribunale prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora e senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare armi, di non partecipare a pubbliche riunioni; può inoltre imporre, ai sensi del comma 5, tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale, e, in particolare, il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più regioni, ovvero, con riferimento ai soggetti di cui all’articolo 1, comma 1, lettera c), il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente da minori.
Qualora sia applicata la misura dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale o del divieto di soggiorno, può essere inoltre prescritto: 1) di non andare lontano dall’abitazione scelta senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza; 2) di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza preposta alla sorveglianza nei giorni indicati ed a ogni chiamata di essa (comma 6), ed in questo caso alla persona destinataria della misura di prevenzione viene consegnata una carta di permanenza da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza.
Particolarmente rilevante – in connessione proprio con l’art.8 – il successivo art. 75, comma 2, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. medesimo.
Significativo altresì l’art. 120, che abroga in modo espresso tutte le precedenti fonti normative di pertinenza, ormai confluite nelle nuove norme, con particolare riguardo alla legge 1423.56 e alla legge 575.65.
2013
Il 6 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.291 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza (e, dunque, la persistente “attualità”) della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura.
La Corte dichiara altresì, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 15 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza (e, dunque, la persistente “attualità”) della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura.
2014
Il 24 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.32923, Sinigaglia, chiamata a risolvere la questione se la mancata esibizione, a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza, della carta precettiva che il sorvegliato speciale deve portare con sé integri la contravvenzione o il delitto contemplati nell’art. 9 della legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, commi 1 e 2, d.lgs. 159 del 2011) oppure la contravvenzione prevista dall’art. 650 cod. pen..
Le SSUU si sforzano di individuare la “specificità” caratterizzante gli obblighi e le prescrizioni la cui violazione può configurare il reato in esame: si è così affermato che con l’obbligo si impone al destinatario un aliquid facere o non facere, mentre con la prescrizione si prevede un quomodo facere, nel senso che essa presuppone un obbligo, precisandone le modalità di adempimento.
Tale distinzione, seppure riferita a violazioni che il legislatore ha equiparato quoad poenam, consente per le Sezioni Unite di poter affermare, che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche previste dall’art. 5 legge n. 1423 del 1956 sono idonee ad integrare la condotta punibile ai sensi dell’art. 9 della stessa legge, ma solo quelle che si risolvono «nella vanificazione sostanziale della misura imposta».
Perché le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni siano rilevanti è necessario, quindi, che si tratti di «condotte eloquenti in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle (significative) misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano e connotano»: una elusione della misura che non arrivi alla relativa sostanziale vanificazione non dovrebbe essere ricompresa nell’ambito della norma incriminatrice prevista oggi dall’art. 75 d.lgs. 159 del 2011 e ieri dall’art. 9 cit.. A tali conclusioni si perviene richiamando espressamente i principi di offensività e di proporzionalità, in base ai quali si esclude la possibilità di «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto qualitativamente pericoloso».
Le Sezioni Unite – che nel caso ad esse sottoposto assumono come la mancata esibizione della carta precettiva configuri solo la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen. – ribadiscono la necessità di una «stretta correlazione e proporzione» tra la misura restrittiva e lo scopo perseguito, mostrando di tenere ben conto sul punto della pertinente giurisprudenza europea (Corte EDU, 06/04/2000, Labita c. Italia).
Tuttavia, il Collegio riconosce che nei confronti di categorie di persone ritenute pericolose vi possa essere un surplus di controllo e una maggiore severità repressiva, finendo così per ammettere che la violazione dei precetti del vivere onestamente e di rispettare le leggi possa, in astratto, costituire un «comportamento sintomatico della persistenza di un animus pravus e, quindi, di una prevedibile, futura condotta delittuosa».
In ogni caso, con questa sentenza il Collegio supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di “vanificazione” della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le “inottemperanze” del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità.
Con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche, il Collegio chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni medesime configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un “annullamento” di fatto della misura. La norma incriminatrice è posta a tutela dell’interesse all’autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell’ordine e della sicurezza pubblica, sicché deve escludersi ogni automatismo nella relativa applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato.
In sostanza, non ogni “inottemperanza” del sorvegliato speciale giustificherà la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che costituiscono indice di una volontà diretta ad eludere la misura di prevenzione personale. Del resto la Corte costituzionale ha da tempo indicato la necessità di operare una selezione delle condotte, negando la rilevanza di quelle che non siano in qualche modo sintomatiche della pericolosità già accertata in sede di giudizio di prevenzione (Corte cost. n. 27 del 1959).
Dal principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza da ultimo citata deve trarsi – conclude il Collegio – un canone generale di giudizio idoneo a “calibrare” sulla pericolosità del soggetto le singole prescrizioni.
2015
Il 22 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.26235 alla cui stregua va esclusa l’applicabilità dei canoni di cui alla sentenza Grande Stevens in tema sanzioni amministrative e penali e di ne bis in idem alla (diversa) materia delle misure di prevenzione, stante come queste ultime non abbiano natura, anche solo sostanzialmente, penale.
La medesima giurisprudenza della Corte EDU ha difatti sempre rappresentato come le misure di prevenzione abbiano la funzione di provvedimenti orientati ad impedire la commissione di atti criminosi, e non già a sanzionare la già intervenuta realizzazione dei medesimi.
2016
Il 3 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 4425 che si pone nel solco dell’orientamento giurisprudenziale che ammette l’applicabilità delle misure dì prevenzione ai c.d. colletti bianchi, stante il difetto di limiti alle tipologie di attività delittuose o di traffici delittuosi previste dal d.lgs, n. 159/2011, come tale capace di autorizzare l’irrogazione delle ridette misure ai soggetti pericolosi, qualunque sia l’attività delittuosa sottostante con cui si palesa la pertinente pericolosità, con contestuale possibilità di sequestrare e confiscare i patrimoni illecitamente accumulati, al cospetto della abitualità delle relative condotte.
* * *
*Il 16 febbraio esce la sentenza del Tribunale di Milano che si pone nel solco dell’orientamento giurisprudenziale che ammette l’applicabilità delle misure dì prevenzione ai c.d. colletti bianchi, stante il difetto di limiti alle tipologie di attività delittuose o di traffici delittuosi previste dal d.lgs, n. 159/2011, come tale capace di autorizzare l’irrogazione delle ridette misure ai soggetti pericolosi, qualunque sia l’attività delittuosa sottostante con cui si palesa la pertinente pericolosità, con contestuale possibilità di sequestrare e confiscare i patrimoni illecitamente accumulati, al cospetto della abitualità delle relative condotte.
2017
Il 23 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8921 che inaugura un nuovo orientamento, in consapevole contrasto con quello maggioritario precedente, onde chi appartiene ad una associazione mafiosa non può essere presunto, neppure fino a prova contraria (presunzione relativa), “attualmente pericoloso”, in forza della sola, relativa appartenenza appunto alla compagine criminosa di stampo mafioso, dovendosene piuttosto accertare la pericolosità sociale “attuale” in concreto.
Il codice antimafia – precisa la Corte – ha infatti previsto un unico regime applicativo delle misure di prevenzione, basato per tutti sulla medesima disciplina probatoria di cui all’art.6 del codice ridetto, onde al fine di applicare una misura di prevenzione occorre che il proposto appartenga ad una delle categorie di cui all’art.4 e, per l’appunto, sia per lui operabile la prognosi di cui all’art.6 ridetto, non potendosi dunque ritrarre dalla mera, intervenuta appartenenza ad una associazione di tipo mafioso la conclusione di immediata e diretta assoggettabilità alla misura di prevenzione medesima; che la pericolosità sociale “attuale” sia richiesta anche in questa peculiare fattispecie (appartenenti a sodalizi mafiosi) lo dimostrerebbero sia la sentenza della Corte costituzionale – che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.15 del codice antimafia 159.11 nella parte in cui esso non prevedeva l’obbligo di rivalutare, anche d’ufficio, la persistente attualità della pericolosità del proposto laddove l’esecuzione di una misura di prevenzione personale sia rimasta sospesa a causa del relativo stato di detenzione – sia il legislatore che, recependo le sollecitazioni della Corte, ha espressamente previsto il ridetto obbligo di rivalutazione “in concreto” della persistente ed “attuale” pericolosità sociale nei casi ivi indicati.
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Il 20 febbraio viene varato il decreto legge n.14, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città, i cui articoli 9 e 10 introducono nel sistema il c.d. DASPO urbano.
Alla stregua dell’art.9, comma 1, significativamente rubricato “misure a tutela del decoro di particolari luoghi”, fatto salvo quanto previsto dalla vigente normativa a tutela delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, e’ soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300; contestualmente all’accertamento della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalità di cui all’articolo 10, l’allontanamento dal luogo in cui e’ stato commesso il fatto.
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Il 23 febbraio esce la sentenza della Grande Camera della Corte EDU, De Tommaso c. Italia, con la quale i giudici di Strasburgo, investiti della questione relativa alla conformità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno agli artt. 5, 6 e 13 CEDU, nonché all’art. 2 Prot. 4 CEDU, esprimono un giudizio fortemente critico sulla “qualità” della legge n. 1423 del 1956, giudizio che, necessariamente, si estende al d.lgs. n. 159 del 2011, nella misura in cui questo recepisce i contenuti fondamentali della disciplina originaria.
Più in specie, con decreto dell’aprile 2008 il Tribunale di Bari, nell’accogliere la proposta del competente Questore, ha applicato al ricorrente (sig. Angelo de Tommaso) la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, giusta valorizzazione di precedenti penali e di polizia, nonché di elementi sintomatici di relativa pericolosità sociale (con particolare riguardo alla frequentazione della malavita locale ed alla mancanza di stabile lavoro). Per il Tribunale, il de Tommaso va annoverato fra i soggetti che, dediti abitualmente a traffici delittuosi, vivono coi relativi proventi.
Revocata poi dalla locale Corte di Appello la pertinente misura, il privato decide comunque di ricorrere alla Corte EDU lagnandosi della presunta violazione degli artt. 5, 6, 13 e 2 prot. 4 CEDU, con precipuo riferimento al diritto alla ‘libertà personale’, al ‘giusto processo”, del diritto ad un ‘ricorso effettivo’ ed alla ‘libertà di circolazione’.
La Corte europea, nell’occasione – sconfessando precedente, copiosa giurisprudenza orientata a riconoscere legittimità alle misure di prevenzione nel sistema italiano – nello stesso momento in cui assume ancora una volta la natura “non penale” delle misure di prevenzione ridette, riconosce l’estrema vaghezza e genericità del contenuto delle prescrizioni imposte all’interessato di «vivere onestamente e rispettare la legge», nonché di «non dare adito a sospetti» (riferimento quest’ultimo che è venuto meno nella nuova formulazione dell’art. 8 d.lgs. 159 del 2011). I giudici europei, oltre all’indeterminatezza della prescrizione di «vivere onestamente», assumono che il dovere di «rispettare le leggi», come interpretato dalla Corte costituzionale, si risolve in un riferimento “aperto” all’intero sistema giuridico italiano, che non fornisce alcuna indicazione delle norme la cui violazione sarebbe indice della già accertata pericolosità.
Nell’offrire un giudizio complessivamente negativo sulla legge n. 1423 del 1956, la Corte EDU insiste particolarmente sul concetto di legalità europea, ribadendo la propria giurisprudenza secondo cui il presupposto della conformità alla legge non deve essere inteso come riferito solo al fondamento legale (sul crinale formale) della misura, ma piuttosto alla qualità della legge, che deve essere accessibile alle persone interessate e prevedibile quanto ai relativi effetti. Infatti, i giudici escludono che le restrizioni alla libertà di movimento abbiano una base legale, in quanto né i destinatari (art. 1) né il contenuto delle misure di prevenzione (artt. 3 e 5) sono stati definiti con sufficiente precisione e chiarezza, concludendo che la legge del 1956 non rispetta il requisito di prevedibilità.
Sul requisito della prevedibilità la giurisprudenza della Corte europea ritiene che la qualificazione di una norma come “legge” necessiti di una formulazione dotata di sufficiente precisione, in modo da consentire ai cittadini di regolare i propri contegni e di prevedere, se necessario con appropriata consulenza e ad un livello che sia ragionevole in concreto, le conseguenze che possono derivare da una determinata condotta, pur riconoscendo che non possa pretendersi una eccessiva rigidità nella formulazione delle norme, in considerazione del fatto che la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutamento delle circostanze (Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia).
Nel giudizio complessivamente critico che la sentenza De Tommaso offre alla disciplina delle misure di prevenzione personali, la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi“, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011).
Si tratta di una valutazione che la Corte di Strasburgo ha operato sulla base di come tali disposizioni vengono applicate dal giudice nazionale, in rapporto ai diritti tutelati dalla CEDU, dal momento che è quest’ultima che il giudice europeo è chiamato ad adottare.
La Corte di Strasburgo assume dunque che le disposizioni in parola non soddisfano gli standard qualitativi – in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità – che deve possedere ogni norma che costituisca la base legale di un’interferenza nei diritti della persona riconosciuti dalla CEDU o dai relativi protocolli addizionali.
In particolare, la Corte afferma che «né la legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le “prove fattuali” o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione».
La Corte assume pertanto come la legge in questione non contenga «disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società» (paragrafo 117); e ribadisce che le disposizioni sulla cui base era stata adottata la misura di prevenzione che aveva attinto il ricorrente non indicano “… con sufficiente chiarezza la portata o la modalità di esercizio della amplissima discrezionalità conferita ai tribunali interni” e non sono “…. pertanto formulat[e] con sufficiente precisione in modo da fornire una protezione contro le ingerenze arbitrarie e consentire al ricorrente di regolare la propria condotta e prevedere con un sufficiente grado di certezza l’applicazione di misure di prevenzione» (paragrafo 118). Proprio tali vizi normativi determinano nel caso concreto, secondo la Corte, la lesione del diritto del ricorrente alla libertà di circolazione, riconosciuto dall’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU.
La medesima assume invece inammissibili le doglianze del ricorrente relative alla violazione dell’art. 5 CEDU, ribadendo, sulla scia della propria risalente giurisprudenza, che la sorveglianza di pubblica sicurezza non priva della libertà personale il soggetto, il quale continua a godere della possibilità di lasciare di giorno il domicilio e di mantenere relazioni col mondo esterno; e del pari inammissibili quelle relative alla presunta violazione dell’art. 6 CEDU, nella parte in cui codifica i principi del giusto processo penale, affermando, ancora una volta, che le misure di prevenzione non appartengono alla “materia penale” e, pertanto, non beneficiano delle pertinenti garanzie processuali; infine, ancora inammissibili quelle relative alla presunta violazione dell’art. 13 CEDU, assumendo come proprio l’evoluzione processuale della vicenda esaminata attesti la vigenza di un adeguato ed effettivo rimedio impugnatorio contro eventuali decisioni in malam partem.
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Il 7 marzo esce il decreto del Tribunale di Milano che sconfessa quanto affermato dalla Corte EDU nella sentenza de Tommaso, assumendo non vincolanti in via generale i principi ad essa sottesi, stante in primo luogo la “novità” della questione affrontata dalla Corte convenzionale e, parallelamente, attesa l’assenza di un “diritto consolidato” di matrice europea capace per l’appunto di vincolare il giudice nazionale in base ai criteri elaborati dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 49/2015.
Per il Tribunale va anche valorizzata la precedente giurisprudenza della Corte EDU laddove essa ha assunto a più riprese conforme alla CEDU il sistema italiano delle misure di prevenzione; lo stesso “diritto vivente” nazionale riconosce senza cedimenti di sorta la legittimità costituzionale e convenzionale delle norme pertinenti.
In calce alla sentenza de Tommaso, rammenta ancora il Tribunale, figurano ben 5 opinioni dissenzienti, tra cui quella del presidente della Corte, circostanza che impedisce di assumere come definitiva la soluzione accolta nella pronuncia.
Va poi rammentata per il Tribunale la nuova cornice sistematica entro cui vigono le attuali previsioni di pericolosità che sono alla base delle misure di prevenzione, cornice che concorre ormai a definire in termini più precisi la pertinente fattispecie rispetto al precedente quadro normativo scandagliato dai giudici di Strasburgo; pur avendo difatti l’art. 1 del d.lgs. 159/2011 ripreso gli elementi costitutivi della pericolosità ‘generica’ contenuti nella disciplina di cui alla L. 1423/1956, il nuovo contesto normativo aprirebbe invero, per il Tribunale, “nuovi spazi interpretativi sia ai giudici nazionali che a quello convenzionale”.
Peraltro, soggiunge il Tribunale, la vicende “de Tommaso” si appalesa tutt’affatto peculiare (con soluzione non estendibile ad altre fattispecie), essendo stata nel caso di specie la misura di prevenzione applicata sulla base di una supposta tendenza criminale piuttosto che su condotte specifiche.
La stessa Corte costituzionale – chiosa ancora il Collegio – non ha mancato di scandagliare, con esito positivo, la piena conformità a Costituzione degli obblighi di sorveglianza speciale.
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Il 14 marzo esce l’ordinanza della Corte d’Appello di Napoli che, a differenza del Tribunale di Milano, si colloca – condividendole – nel solco delle argomentazioni di cui alla sentenza della Corte EDU de Tommaso. Più precisamente, per il Collegio va assunta incompatibile la disciplina nazionale in tema di misure di prevenzione con la regolamentazione della CEDU, con conseguente presunta illegittimità costituzionale derivante dalla frizione con l’art.117 Cost.
Avendo la Corte EDU dichiarato che il contenuto descrittivo e precettivo degli artt. 1, 3 e 5 della legge 1423/1956 viola l’articolo 2 del protocollo addizionale n. 4 per difetto di precisione e prevedibilità, non si configura alcuna opzione interpretativa capace di adeguare le disposizioni delle norme ridette alla norma convenzionale, non potendo il giudice comune procedere ad una riformulazione complessiva delle disposizioni di legge in contestazione, riservata esclusivamente al Legislatore.
Per la Corte, va dunque sollevata questione di legittimità costituzionale sia delle disposizioni già censurate dalla Corte EDU, sia dell’art. 19 della L. n. 152/1975, che estende le misure di prevenzione patrimoniali (originariamente applicabili agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose) anche alle persone contemplate dall’art. 1, nn. 1 e 2, L. n. 1423/56.
Su quest’ultimo specifico punto il Collegio osserva come – laddove omettesse di denunciare (anche) l’illegittimità costituzionale della disciplina in materia di prevenzione patrimoniale – ciò porterebbe al paradossale assetto normativo onde persone non pericolose potrebbero essere destinatarie di misure di prevenzione patrimoniali, aggiungendo così alla violazione della Convenzione EDU anche la violazione dell’art. 42 della Costituzione e trasformando le misure di prevenzione patrimoniali in una vietata actio in rem (nei confronti del soggetto che ne risulti destinatario).
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*Il 28 marzo esce il decreto del Tribunale di Palermo che – sulla scia della giurisprudenza di merito del Tribunale di Milano – sconfessa quanto affermato dalla Corte EDU nella sentenza de Tommaso, assumendo non vincolanti in via generale i principi ad essa sottesi, stante in primo luogo la “novità” della questione affrontata dalla Corte convenzionale e, parallelamente, attesa l’assenza di un “diritto consolidato” di matrice europea capace per l’appunto di vincolare il giudice nazionale in base ai criteri elaborati dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 49/2015.
Per il Tribunale va anche valorizzata la precedente giurisprudenza della Corte EDU laddove essa ha assunto a più riprese conforme alla CEDU il sistema italiano delle misure di prevenzione; lo stesso “diritto vivente” nazionale riconosce senza cedimenti di sorta la legittimità costituzionale e convenzionale delle norme pertinenti.
In calce alla sentenza de Tommaso, rammenta ancora il Tribunale, figurano ben 5 opinioni dissenzienti, tra cui quella del presidente della Corte, circostanza che impedisce di assumere come definitiva la soluzione accolta nella pronuncia.
Va poi rammentata per il Tribunale la nuova cornice sistematica entro cui vigono le attuali previsioni di pericolosità che sono alla base delle misure di prevenzione, cornice che concorre ormai a definire in termini più precisi la pertinente fattispecie rispetto al precedente quadro normativo scandagliato dai giudici di Strasburgo; pur avendo difatti l’art. 1 del d.lgs. 159/2011 ripreso gli elementi costitutivi della pericolosità ‘generica’ contenuti nella disciplina di cui alla L. 1423/1956, il nuovo contesto normativo aprirebbe invero, per il Tribunale, “nuovi spazi interpretativi sia ai giudici nazionali che a quello convenzionale”.
Peraltro, soggiunge il Tribunale, la vicende “de Tommaso” si appalesa tutt’affatto peculiare (con soluzione non estendibile ad altre fattispecie), essendo stata nel caso di specie la misura di prevenzione applicata sulla base di una supposta tendenza criminale piuttosto che su condotte specifiche.
La stessa Corte costituzionale – chiosa ancora il Collegio – non ha mancato di scandagliare, con esito positivo, la piena conformità a Costituzione degli obblighi di sorveglianza speciale.
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Il 18 aprile viene varata la legge n.48 che converte, con modificazioni, il decreto legge n.14 sul c.d. DASPO urbano.
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*Il 28 aprile esce il decreto del Tribunale di Parma che – sulla scia della giurisprudenza di merito inaugurata dal Tribunale di Milano – sconfessa quanto affermato dalla Corte EDU nella sentenza de Tommaso, assumendo non vincolanti in via generale i principi ad essa sottesi, stante in primo luogo la “novità” della questione affrontata dalla Corte convenzionale e, parallelamente, attesa l’assenza di un “diritto consolidato” di matrice europea capace per l’appunto di vincolare il giudice nazionale in base ai criteri elaborati dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 49/2015.
Per il Tribunale va anche valorizzata la precedente giurisprudenza della Corte EDU laddove essa ha assunto a più riprese conforme alla CEDU il sistema italiano delle misure di prevenzione; lo stesso “diritto vivente” nazionale riconosce senza cedimenti di sorta la legittimità costituzionale e convenzionale delle norme pertinenti.
In calce alla sentenza de Tommaso, rammenta ancora il Tribunale, figurano ben 5 opinioni dissenzienti, tra cui quella del presidente della Corte, circostanza che impedisce di assumere come definitiva la soluzione accolta nella pronuncia.
Va poi rammentata per il Tribunale la nuova cornice sistematica entro cui vigono le attuali previsioni di pericolosità che sono alla base delle misure di prevenzione, cornice che concorre ormai a definire in termini più precisi la pertinente fattispecie rispetto al precedente quadro normativo scandagliato dai giudici di Strasburgo; pur avendo difatti l’art. 1 del d.lgs. 159/2011 ripreso gli elementi costitutivi della pericolosità ‘generica’ contenuti nella disciplina di cui alla L. 1423/1956, il nuovo contesto normativo aprirebbe invero, per il Tribunale, “nuovi spazi interpretativi sia ai giudici nazionali che a quello convenzionale”.
Peraltro, soggiunge il Tribunale, la vicende “de Tommaso” si appalesa tutt’affatto peculiare (con soluzione non estendibile ad altre fattispecie), essendo stata nel caso di specie la misura di prevenzione applicata sulla base di una supposta tendenza criminale piuttosto che su condotte specifiche.
La stessa Corte costituzionale – chiosa ancora il Collegio – non ha mancato di scandagliare, con esito positivo, la piena conformità a Costituzione degli obblighi di sorveglianza speciale.
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Il 5 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.40076, caso Paternò, che affronta la questione se la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 – che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. cit. – abbia ad oggetto anche le violazioni delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi»”.
La questione – premette la Corte – trova la propria ragione nel rilievo che assume la definizione delle condotte prese in considerazione dall’art. 75 cit., per verificarne la conformità ai principi di tipicità della fattispecie penale e a quelli di precisione, determinatezza e tassatività delle norme incriminatrici, al fine di individuare opzioni ermeneutiche costituzionalmente e convenzionalmente orientate, che, inoltre, consentano di prevenire possibili contrasti in seno alla giurisprudenza di legittimità. L’occasione per verificare la coerenza di una giurisprudenza di legittimità che, costantemente, ha ritenuto che la prescrizione di vivere onestamente rispettando le leggi integrasse il reato previsto dall’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ora trasfuso nel nuovo art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 – in perfetta linea di continuità normativa con la precedente fattispecie (cfr. Sez. 5, n. 49464 del 26/06/2013, Minnella, Rv. 257933) -, è offerta dalla recente sentenza della Corte EDU, GC, 23/02/2017, De Tommaso c. Italia, in rapporto alle affermazioni che, direttamente o indirettamente, possono afferire al reato previsto dall’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, oggetto del ricorso sottoposto alle SSUU.
L’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, che riproduce pressoché integralmente l’art. 9 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, è una norma penale di chiusura del sistema, posta a tutela delle misure di prevenzione personali. Il comma 1 prevede un’ipotesi contravvenzionale – con una pena da tre mesi ad un anno – che si riferisce alla violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale c.d. semplice; il comma 2, invece, contiene una più grave fattispecie delittuosa, che punisce con la reclusione da uno a cinque anni l’inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o con il divieto di soggiorno.
L’attuale formulazione corrisponde a quella introdotta con il decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, contenente misure urgenti contro il terrorismo internazionale; ma prima ancora l’art. 9 cit. era stato sottoposto ad una serie di interventi manipolativi: inizialmente, dall’art. 8 legge 14 ottobre 1974, n. 497, che è intervenuto sulla disposizione contravvenzionale introducendo l’ipotesi dell’inosservanza della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno; poi dall’art. 12 legge 13 settembre 1982, n. 646, che ha trasformato l’originaria contravvenzione in delitto, punito con una pena da due a cinque anni di reclusione; infine, dall’art. 23 d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, che ha previsto, tra l’altro, la possibilità di arresto anche fuori dei casi di flagranza.
Prima della riforma del 2005, la violazione delle prescrizioni determinate nel provvedimento del tribunale che aveva disposto l’applicazione della misura della sorveglianza speciale, non era punita dall’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ma dall’art. 12 della medesima legge, con l’effetto che il sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo del soggiorno, che violasse tale obbligo e le relative prescrizioni, rispondeva di due autonomi reati: quello previsto dall’art. 9, secondo comma, legge n. 1423 del 1956 (come sostituito dalla legge n. 356 del 1992), che puniva con la reclusione da uno a cinque anni la condotta consistente nell’inosservanza della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno; quello di cui all’art. 12, primo comma, della medesima legge, che puniva con l’arresto da tre mesi ad un anno l’inosservanza delle prescrizioni dirette alla persona sottoposta all’obbligo del soggiorno.
E’ con la citata normativa del 2005 – prosegue la Corte – che la norma penale in esame acquista l’attuale struttura: infatti, viene abrogato l’art. 12 legge n. 1423 del 1956 e le violazioni delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale, con obbligo o divieto di soggiorno, vengono trasferite nel secondo comma dell’art. 9 legge cit., con l’effetto di trasformare le condotte inottemperanti a tali prescrizioni in ipotesi delittuose. La violazione di un qualunque obbligo inerente alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, anche se diverso dal divieto di recarsi fuori del comune di soggiorno, integra l’ipotesi delittuosa e non più quella contravvenzionale. Solo le inosservanze agli obblighi commesse dal sorvegliato speciale non sottoposto all’obbligo vengono punite a titolo di contravvenzioni ai sensi dell’art. 9, primo comma, legge n. 1423 del 1956.
Il percorso normativo che si è sintetizzato – prosegue la Corte – evidenzia come il legislatore del 2005, nel riformare la delicata materia delle misure di prevenzione, abbia compiuto una scelta volta ad un deciso inasprimento del trattamento sanzionatorio delle condotte penalmente illecite riguardanti le inosservanze alla misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno; scelta che è stata ribadita con il codice antimafia del 2011, in cui si è riprodotto l’art. 9 cit., come modificato nel 2005, nell’attuale art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, replicando anche la previsione della possibilità di arresto fuori dei casi di flagranza.
In sostanza, il comma 2 dell’art. 75 punisce come delitto ogni tipo di inosservanza inerente alla sorveglianza speciale c.d. qualificata, sia che riguardi obblighi, sia che concerna prescrizioni. Tale equiparazione di condotte, che possono presentarsi in concreto con un differente grado di offensività, è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla sentenza n. 161 del 2009 della Corte costituzionale, che, riferendosi all’art. 9 cit., ha giustificato l’inasprimento sanzionatorio che è derivato da tale equiparazione, in quanto riguardante «soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee». In altri termini, si è ritenuto che il legislatore abbia correttamente esercitato la propria discrezionalità in maniera ragionevole, in un settore che si rivolge a soggetti ritenuti portatori di una particolare pericolosità criminale e nei cui confronti si giustifica la previsione di trattamenti sanzionatori severi in caso di violazioni di obblighi e di prescrizioni alle misure di prevenzione, anche al fine di garantire l’effettività dei controlli da parte dell’autorità di pubblica sicurezza.
Anche la giurisprudenza della Corte di cassazione ha avuto modo di sottolineare come il legislatore abbia cercato di rendere effettivo il controllo sui soggetti ritenuti pericolosi, «rendendo cogente l’obbligo di soggiorno» e neutralizzando «sul nascere le condotte devianti», giustificando il più grave trattamento sanzionatorio nella misura in cui è riferito a soggetti ritenuti portatori di una maggiore pericolosità rispetto a chi viene sottoposto alla sorveglianza speciale c.d. semplice (cfr. Sez. 1, n. 2217 del 13/12/2006, dep. 2007, Laurendino, Rv. 235899).
Per quanto riguarda il contenuto, prosegue la Corte, l’art. 75 è strutturato secondo la tecnica per relationem, attraverso l’integrale e indistinto richiamo agli “obblighi” e alle “prescrizioni“, che sono quelli contenuti nell’art. 8 del d.lgs. 159 del 2011 – che sostanzialmente riproduce l’art. 5 legge n 1423 del 1956 – dimostrando, da un lato, l’inscindibile nesso che lega tale norma incriminatrice con la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, dall’altro, lasciando all’interprete la verifica sull’ambito del richiamo, se cioè la norma si riferisca o meno a tutte le prescrizioni e obblighi indicati. Infatti l’art. 8 indica un intero catalogo di obblighi e di prescrizioni che il tribunale impone ogni qualvolta applichi la misura della sorveglianza speciale. Accanto alle prescrizioni contenute nel comma 3, che vengono imposte ai soggetti indiziati di «vivere con il provento di reati», con cui si invita il destinatario della misura a ricercare un lavoro, a fissare la propria dimora, a darne comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza e a non allontanarsene senza previo avviso alla medesima autorità, è prevista, nel successivo comma 4, una serie di prescrizioni che il tribunale deve “in ogni caso” disporre nei confronti del sorvegliato speciale.
E cioè: a) vivere onestamente; b) rispettare le leggi; c) non allontanarsi dalla dimora senza preavvisare l’autorità di pubblica sicurezza; d) non associarsi abitualmente a chi ha subito condanne o è sottoposto a misure di prevenzione o di sicurezza; e) non rincasare la sera più tardi e non uscire la mattina più presto di una data ora e senza comprovata necessità e comunque senza averne dato tempestiva notizia all’autorità di pubblica sicurezza; f) non detenere e non portare armi; g) non partecipare a pubbliche riunioni. Inoltre, nel caso in cui sia disposta la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno il tribunale può prescrivere le misure indicate nel comma 6 dell’art. 8, che impongono di non andare lontano dall’abitazione scelta senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza e di presentarsi alla medesima autorità nei giorni indicati ed a ogni chiamata di essa.
Infine (comma 5), è attribuita al tribunale la facoltà di ingiungere altre prescrizioni che reputi necessarie «avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», tra cui, in particolare, il divieto di soggiorno in uno o più comuni o province ovvero il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi frequentati abitualmente da minori (quest’ultimo divieto riguarda i soggetti di cui all’art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 159 del 2011).
Si tratta di una tipologia assai varia di prescrizioni e di obblighi, che la legge reputa funzionali per l’effettività della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, sia semplice che qualificata, fermo restando che la qualità soggettiva dell’agente costituisce il discrimine in caso di inosservanza, in quanto il sorvegliato “semplice” viene punito con la contravvenzione prevista dall’art. 75, comma 1, mentre la condotta del sorvegliato “qualificato“, che violi una di queste prescrizioni, è sanzionata con il delitto di cui al comma 2 del medesimo articolo.
Tra le condotte inottemperanti punite dal comma 2 dell’art. 75 sembrerebbero ricomprese, per effetto del richiamo ob relationem, anche le prescrizioni di “genere” relative al «vivere onestamente» e «rispettare le leggi», che si distinguono dalle prescrizioni “specifiche“, riferibili ad un facere direttamente indicato dalla norma – come ad esempio nel caso del divieto di allontanarsi dalla dimora, di detenere e di portare armi, di associarsi a determinate persone o all’obbligo di permanenza in casa -, proprio per la mancanza di determinatezza della condotta imposta. Nell’abrogato art. 5 legge n. 1423 del 1956 era contenuta una terza prescrizione di genere, consistente nel «non dare ragioni di sospetto», non riproposta nella legge del 2011.
Il contenuto generale di tali prescrizioni, prosegue la Corte, anche di alcune di quelle considerate “specifiche“, è stato sottoposto in passato all’esame della Corte costituzionale per contrasto con il principio di determinatezza, contrasto che è stato sempre escluso. Così, con riferimento alle prescrizioni di non associarsi a persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di sicurezza o di prevenzione e di non partecipare a pubbliche riunioni, la Corte costituzionale ha affermato che esse si informano ad un rigoroso criterio di necessità, come risulta dalle ristrette e qualificate categorie di individui cui la sorveglianza speciale si rivolge e dal fatto che tale misura può essere applicata solo dopo che siano risultate senza effetto le diffide del questore (sent. n. 27 del 1959). La Corte ha, inoltre, ribadito che le due prescrizioni «si ispirano alla direttiva fondamentale dell’attività di prevenzione, cioè tenere lontano l’individuo sorvegliato dalle persone o dalle situazioni che rappresentano il maggior pericolo».
Con l’ordinanza n. 354 del 2003 la Corte costituzionale è ancora intervenuta sulle prescrizioni, in particolare sulla previsione – ora non più contemplata – di «non dare ragioni di sospetto», distinguendo tra prescrizioni di specifiche e qualificate condotte, puntualmente descritte dalla norma, che, prevedendo precisi obblighi, assumono valore precettivo, e “prescrizioni di genere“, riconducibili al paradigma dell’honeste vivere, precisando che «sono anch’esse funzionali alla ratio essendi della sorveglianza speciale, ma non sono certo qualificabili alla stregua di specifici obblighi penalmente sanzionati». Alla luce di tale distinzione, la Corte ha ricondotto al paradigma dell’honeste vivere la prescrizione di “non dare ragione di sospetti“, quale proiezione esteriore del comportamento di chi osservi il più generale precetto, costituzionalmente imposto a chiunque, di “vivere onestamente“.
Più recentemente, la Corte costituzionale (sent. n. 282 del 2010) si è nuovamente pronunciata sulla conformità al principio di tassatività e determinatezza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi“. Quanto alla prima, richiamando la precedente ordinanza n. 354 del 2003, ha rilevato che, se considerata isolatamente, la stessa non appare qualificabile quale obbligo penalmente sanzionato, trattandosi di una prescrizione generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati. Tuttavia, se la si considera nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dall’art. 5 legge n. 1423 del 1956, e quale elemento di una fattispecie integrante il reato proprio di cui all’art. 9, secondo comma, della stessa legge, tale prescrizione assume un contenuto più preciso, «risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di “vivere onestamente” si concretizza e si individualizza».
La Corte ha, inoltre, escluso l’indeterminatezza della prescrizione di “rispettare le leggi“, in quanto la stessa si riferisce al dovere imposto al sottoposto alla misura preventiva di rispettare «tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano, cioè, di tenere o di non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia indice della già accertata pericolosità». Ad avviso della Corte, il carattere generale di tale obbligo, di per sé riguardante tutta la collettività, da un lato, non determina la genericità del contenuto della prescrizione in esame e, dall’altro, conferma l’esigenza di prescriverne il rispetto alle persone nei cui confronti è stato formulato, con le garanzie proprie della giurisdizione, il giudizio di grave pericolosità sociale.
Su un piano analogo – prosegue il Collegio – si è mossa anche la Corte di cassazione che, escludendo ogni ipotesi di deficit di determinatezza della norma, ha costantemente affermato che il delitto di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 – così come prima quello previsto dall’art. 9 legge n. 1423 del 1956 – è integrato da qualsiasi violazione degli obblighi e delle prescrizioni imposte con la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno. Secondo questa giurisprudenza il riferimento sia agli obblighi che alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale qualificata renderebbe manifesta la volontà del legislatore di sottoporre a un trattamento sanzionatorio più rigoroso tutte le infrazioni commesse da colui al quale, in ragione della relativa maggiore pericolosità, sia stata applicata la misura di prevenzione più grave (Sez. 1, n. 47766 del 06/11/2008, Lungari, Rv. 242748; Sez. 1, n. 8412 del 27/01/2009, Iuosio, Rv. 242975; Sez. 7, n. 11217 del 29/01/2014, Polimeni, Rv. 264477).
Inoltre, fatta salva qualche lontana decisione, è ormai stabile l’orientamento che ritiene sia la sussistenza del concorso formale, ex art. 81, primo comma, cod. pen., tra i reati comuni commessi dal sorvegliato speciale durante la sottoposizione alla misura e il reato proprio di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, sia la consumazione di quest’ultimo a seguito della commissione di un illecito amministrativo. Si è quindi affermata la sussistenza del concorso formale tra ogni singolo reato commesso dal sorvegliato speciale e la simultanea violazione dell’art. 9, legge n. 1423 del 1956, con riferimento alla violazione delle prescrizione di “vivere onestamente e rispettare le leggi“, in ragione della diversità dei beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici (Sez. 1, n. 26161 del 20/06/2012, Albini, Rv. 253090).
Alla luce di tale principio di diritto, è stato ribadito il concorso formale dell’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 con quello di cui all’art. 73 d.lgs. cit., relativo alla guida di un veicolo senza patente o con patente revocata, sospesa o negata (Sez. 6, n. 48465 del 20/11/2013, Grieco, Rv. 257712; Sez. 1, n. 17728 del 02/04/2014, Di Grazia, Rv. 259735; Sez. 6, n. 13427 del 17/03/2016, Pantaleo, Rv. 267214; Sez. 1, n. 1086 del 10/06/2016, Acerra, Rv. 268839). Il rischio di esiti irrazionali conseguenti all’accoglimento della soluzione del concorso formale è stato escluso, rilevando che, ove il sorvegliato speciale commetta uno dei reati specificamente previsti dalla norma, gli effetti sanzionatori restano mitigati dalla disciplina di cui all’art. 84 cod. pen., che esclude l’applicabilità del regime punitivo previsto per il concorso formale (Sez. 1, n. 26161 del 20/06/2012, Albini).
La sussistenza del reato di violazione dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi è stata ritenuta anche nel caso di improcedibilità del reato per difetto di querela (Sez. 1, n. 39909 del 18/10/2007, Greco, Rv. 237910; Sez. 1, n. 2933 del 11/10/2013, Mazzè, Rv. 258386) e nell’ipotesi di detenzione di sostanze stupefacenti prive di un sufficiente quantitativo di principio attivo (Sez. 1, n. 46876 del 12/11/2009, Brancato, Rv. 245672).
Come si è anticipato, precisa ancora il Collegio, il reato in questione è ritenuto integrato non solo dalle violazioni che configurano distinte fattispecie criminose, ma anche dalla consumazione di un illecito amministrativo: in questi casi la giurisprudenza assume che anche la commissione di siffatti illeciti costituisce inosservanza della prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi, con l’unico limite della «concreta lesione o messa in pericolo dell’interesse all’ordine e alla sicurezza pubblica tutelato dalla norma incriminatrice». Sono state ritenute condotte costituenti il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale la guida di un motociclo senza casco, la guida di autovettura priva di targa, la guida di ciclomotore con patente di guida revocata (cfr. Sez. 1, n. 30995, del 04/07/2012, Rizzo; Sez. 1, n. 16213 del 25/02/2010, Acri, Rv. 247481; Sez. 1, n. 40819 del 14/10/2010, Basoni, Rv. 248466).
Nella maggior parte dei casi, la prescrizione di “vivere onestamente” viene considerata congiuntamente a quella di “rispettare le leggi“, quasi si trattasse di due facce della stessa medaglia (ex plurimis: Sez. 1, n. 39909 del 18/10/2007, Greco, Rv. 237910; Sez. 1, n. 8496 del 05/02/2009, Giudice, Rv. 243453; Sez. 1, n. 46876 del 12/11/2009, Brancato, Rv. 245672; Sez. 1, n. 40819 del 14/10/2010, Basoni, Rv. 248466; Sez. 1, n. 26161 del 20/06/2012, Albini, Rv. 253090; Sez. 1, n. 2933 del 11/10/2013, Mazzè, Rv. 258386; Sez. 6, n. 13427 del 17/03/2016, Pantaleo, Rv. 267214; Sez. 1, n. 1086 del 10/06/2016, Acerra, Rv. 268839). Infatti, non si registrano decisioni che abbiano fatto riferimento esclusivo alla violazione della prescrizione dell’honeste vivere.
Rispetto ad una giurisprudenza di legittimità così monolitica, prosegue la Corte, deve segnalarsi la presenza di alcune decisioni, minoritarie e risalenti, formatesi in un contesto normativo diverso, prima delle modifiche del 1992 in materia di contrasto alla criminalità mafiosa, che hanno tentato di individuare le differenze tra i diversi obblighi e le prescrizioni, sostenendo, tra l’altro, che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche integrano le condotte punibili dal reato di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ma solo quelle che si risolvono nella «vanificazione sostanziale» della misura di prevenzione (in questo senso, Sez. 1, n. 793 del 20/03/1985, De Salvia; inoltre, cfr. Sez. 2, n. 279 del 05/02/1969, Suigo, che ha escluso l’integrazione del reato a seguito di violazioni delle prescrizioni generiche).
Peraltro, questa giurisprudenza è stata ripresa e sviluppata recentemente dalle Sezioni Unite che, chiamate a risolvere la questione se la mancata esibizione, a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza, della carta precettiva che il sorvegliato speciale deve portare con sé integri la contravvenzione o il delitto contemplati nell’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, commi 1 e 2, d.lgs. 159 del 2011) oppure la contravvenzione prevista dall’art. 650 cod. pen., si sono sforzate di individuare la “specificità” caratterizzante gli obblighi e le prescrizioni la cui violazione può configurare il reato in esame: si è così affermato che con l’obbligo si impone al destinatario un aliquid facere o non facere, mentre con la prescrizione si prevede un quomodo facere, nel senso che essa presuppone un obbligo, precisandone le modalità di adempimento (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia). Tale distinzione, seppure riferita a violazioni che il legislatore ha equiparato quoad poenam, ha consentito alle Sezioni Unite di poter affermare, che non tutte le violazioni delle prescrizioni generiche previste dall’art. 5 legge n. 1423 del 1956 sono idonee ad integrare la condotta punibile ai sensi dell’art. 9 della stessa legge, ma solo quelle che si risolvono «nella vanificazione sostanziale della misura imposta», ricollegandosi così a quel filone giurisprudenziale cui si è fatto prima riferimento.
Perché le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni siano rilevanti è necessario, quindi, che si tratti di «condotte eloquenti in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle (significative) misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano e connotano»: una elusione della misura che non arrivi alla relativa sostanziale vanificazione non dovrebbe essere ricompresa nell’ambito della norma incriminatrice prevista oggi dall’art. 75 d.lgs. 159 del 2011 e ieri dall’art. 9 cit.. A tali conclusioni la sentenza Sinigaglia perviene richiamando espressamente i principi di offensività e di proporzionalità, in base ai quali esclude la possibilità di «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a un soggetto qualitativamente pericoloso».
In questa materia le Sezioni Unite – che nel caso ad esse sottoposte hanno ritenuto che la mancata esibizione della carta precettiva configuri solo la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen. – hanno ribadito la necessità di una «stretta correlazione e proporzione» tra la misura restrittiva e lo scopo perseguito, mostrando di tenere ben conto della giurisprudenza europea (Corte EDU, 06/04/2000, Labita c. Italia). Tuttavia, la sentenza Sinigaglia riconosce che nei confronti di categorie di persone ritenute pericolose vi possa essere un surplus di controllo e una maggiore severità repressiva, finendo così per ammettere che la violazione dei precetti del vivere onestamente e di rispettare le leggi possa, in astratto, costituire un «comportamento sintomatico della persistenza di un animus pravus e, quindi, di una prevedibile, futura condotta delittuosa».
In ogni caso, questa sentenza supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di “vanificazione” della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le “inottemperanze” del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità.
Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un “annullamento” di fatto della misura. La norma incriminatrice è posta a tutela dell’interesse all’autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell’ordine e della sicurezza pubblica, sicché deve escludersi ogni automatismo nella relativa applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato.
In sostanza, non ogni “inottemperanza” del sorvegliato speciale giustificherà la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che costituiscono indice di una volontà diretta ad eludere la misura di prevenzione personale. Del resto la Corte costituzionale ha da tempo indicato la necessità di operare una selezione delle condotte, negando la rilevanza di quelle che non siano in qualche modo sintomatiche della pericolosità già accertata in sede di giudizio di prevenzione (Corte cost. n. 27 del 1959). Dal principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza da ultimo citata deve trarsi un canone generale di giudizio idoneo a “calibrare” sulla pericolosità del soggetto le singole prescrizioni.
Nel presente procedimento – chiosa a questo punto il Collegio – tali opzioni interpretative sono state in parte utilizzate dalla Procura generale presso la Corte che, nella memoria depositata, ha valorizzato i contenuti della sentenza Sinigaglia, assieme agli approdi della giurisprudenza costituzionale: si sostiene che per le prescrizioni c.d. generiche il riferimento vada fatto alle norme precettive, alla cui violazione l’ordinamento «ricolleghi l’applicazione di una sanzione penale o di una rilevante sanzione amministrativa (che superi la soglia riservata alle più banali infrazioni)»; in tali casi, le condotte devianti poste in essere dal sorvegliato speciale saranno perseguite e sanzionate «come segno eloquente della sua posizione di soggetto persistentemente e pervicacemente pericoloso per la società», purché abbiano concretamente manifestato la volontà di sottrarsi alle misure destinate ad elidere la relativa, potenziale pericolosità.
L’impostazione “evolutiva” seguita dalla sentenza Sinigaglia, così come valorizzata dalla Procura generale, tende a circoscrivere l’applicazione dell’art. 75 d.lgs. 159 del 2011 solo in presenza di condotte che danno luogo a reati o a gravi illeciti amministrativi, quali azioni sintomatiche della volontà di eludere la misura di prevenzione. Tuttavia, mentre una tale verifica funzionale è efficace rispetto alle prescrizioni specifiche, riferita alle prescrizioni generiche mostra alcuni limiti. Innanzitutto, insistendo sulla strumentalità della condotta inottemperante rispetto al contenuto del provvedimento applicativo della sorveglianza speciale e, quindi, sulla sintomaticità della condotta posta in essere per eludere la misura, si finisce per attribuire al giudice penale una forte discrezionalità nell’applicazione della fattispecie, che renderebbe ancora più incerta e imprevedibile la condotta contemplata dalla norma incriminatrice; inoltre, sarebbe caratterizzata da eccessiva discrezionalità sia l’individuazione dei reati – ad esempio, si porrebbe il problema se includervi anche quelli colposi – sia degli illeciti amministrativi, dovendosi distinguere quelli più gravi la cui violazione darebbe luogo al reato di cui all’art. 75 cit.. Ma, soprattutto, per il Collegio si tratta di una soluzione che non risolve il problema principale, che è quello del deficit di determinatezza del reato di cui all’art. 75 cit., in relazione alle violazioni delle prescrizioni generiche dell’honeste vivere e del rispettare la legge, problema posto in termini netti dalla sentenza De Tommaso della Corte EDU.
Con questa decisione – precisano le SSUU – i giudici di Strasburgo, investiti della questione relativa alla conformità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno agli artt. 5, 6 e 13 CEDU, nonché all’art. 2 Prot. 4 CEDU, hanno espresso un giudizio fortemente critico sulla “qualità” della legge n. 1423 del 1956, giudizio che, necessariamente, si estende al d.lgs. n. 159 del 2011, nella misura in cui questo recepisce i contenuti fondamentali della disciplina originaria.
Prescindendo da ogni approfondimento della pronuncia là dove nega fondamento legale alla misura applicata al proposto, riconoscendo la violazione della libertà di circolazione e di movimento, tutelata dall’art. 2 Prot. 4 CEDU, in questa sede si deve sottolineare che la Corte europea ha riconosciuto l’estrema vaghezza e genericità del contenuto delle prescrizioni imposte all’interessato di «vivere onestamente e rispettare la legge», nonché di «non dare adito a sospetti» (riferimento quest’ultimo che, come si è visto, è venuto meno nella nuova formulazione dell’art. 8 d.lgs. 159 del 2011). I giudici europei, oltre all’indeterminatezza della prescrizione di «vivere onestamente», hanno rilevato che il dovere di «rispettare le leggi», come interpretato dalla Corte costituzionale, si risolve in un riferimento “aperto” all’intero sistema giuridico italiano, che non fornisce alcuna indicazione delle norme la cui violazione sarebbe indice della già accertata pericolosità.
Nell’offrire un giudizio complessivamente negativo sulla legge n. 1423 del 1956, la Corte EDU ha insistito particolarmente sul concetto di legalità europea, ribadendo la propria giurisprudenza secondo cui il presupposto della conformità alla legge non deve essere inteso come riferito solo al fondamento legale della misura, ma piuttosto alla qualità della legge, che deve essere accessibile alle persone interessate e prevedibile quanto ai relativi effetti. Infatti, i giudici escludono che le restrizioni alla libertà di movimento abbiano una base legale, in quanto né i destinatari (art. 1) né il contenuto delle misure di prevenzione (artt. 3 e 5) sono stati definiti con sufficiente precisione e chiarezza, concludendo che la legge del 1956 non rispetta il requisito di prevedibilità.
Sul requisito della prevedibilità la giurisprudenza della Corte europea ritiene che la qualificazione di una norma come “legge” necessiti di una formulazione con sufficiente precisione, in modo da consentire ai cittadini di regolare la propria condotta e di prevedere, se necessario con appropriata consulenza e ad un livello che sia ragionevole in concreto, le conseguenze che possono derivare da una determinata condotta, pur riconoscendo che non possa pretendersi una eccessiva rigidità nella formulazione delle norme, in considerazione del fatto che la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutamento delle circostanze (Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia).
D’altra parte, la Corte costituzionale, anticipando il concetto di “prevedibilità” della legge espresso dalla giurisprudenza europea, ha chiarito che la sufficiente determinazione della fattispecie penale è funzionale tanto al principio di separazione dei poteri, quanto a quello di riserva di legge in materia penale (poiché evita che il giudice assuma un ruolo creativo nell’individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione dell’individuo, cui consente di conoscere le conseguenze giuridico-penali del proprio agire (sent. n. 364 del 1988). In sostanza il principio di determinatezza, implicitamente ricavabile dall’art. 25, secondo comma, Cost., è in funzione della «riconoscibilità ed intelligibilità del precetto penale in difetto dei quali la libertà e sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate» (sent. n. 185 del 1992).
Nel giudizio complessivamente critico che la sentenza De Tommaso ha dato alla disciplina delle misure di prevenzione personali, la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi“, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011). Si tratta di una valutazione che la Corte di Strasburgo ha operato sulla base di come tali disposizioni vengono applicate dal giudice nazionale, in rapporto ai diritti tutelati dalla CEDU, dal momento che è quest’ultima che il giudice europeo è chiamato ad adottare.
La sentenza in questione non ha determinato e non poteva determinare il significato della legge nazionale, in quanto, come ha chiarito la Corte costituzionale (sent. n. 49 del 2015), spetta al giudice comune l’interpretazione del diritto interno, tenendo conto della giurisprudenza europea.
Nel caso ora sottoposto al loro esame le Sezioni Unite assumono di essere chiamate ad una rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU e subordinata «al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme» (Corte cost., sentenze n. 349 e n. 348 del 2007). Ne consegue che solo una lettura “tassativizzante” e tipizzante della fattispecie può rendere coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, il che inevitabilmente comporta il superamento di una giurisprudenza di legittimità che, fino ad oggi, non mostra di essersi confrontata adeguatamente con tali problematiche.
La citata norma penale utilizza la tecnica del rinvio, richiamando, in modo indistinto, le prescrizioni e gli obblighi che sono indicati in una diversa disposizione (art. 8 d.lgs. cit.), dedicata al contenuto del provvedimento con cui il tribunale dispone la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, ma il richiamo «agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno» può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del «vivere onestamente» e del «rispettare le leggi».
Invero, per il Collegio è dubbio che queste ultime possano considerarsi vere e proprie prescrizioni, al pari di quelle menzionate nella stessa disposizione di cui all’art. 8 d.lgs. n. 159 del 2011, dal momento che non impongono comportamenti specifici, ma contengono un mero ammonimento “morale“, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice. Del resto, prosegue il Collegio, per quanto riguarda la prescrizione di «vivere onestamente» già la Corte costituzionale ne ha riconosciuto l’inidoneità ad essere considerata come un obbligo specifico penalmente sanzionato (ord. n. 354 del 2003; sent. n. 282 del 2010), sebbene tale affermazione sia stata riferita alla prescrizione valutata isolatamente.
D’altra parte, l’obbligo di rispettare le leggi si propone in termini talmente vaghi da presentare un deficit di determinatezza e di precisione che lo rende privo di contenuto precettivo. Si tratta di una prescrizione generale, che non indica alcun comportamento specifico da osservare nella misura in cui opera un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato: la formula legale che deriva dal richiamo contenuto nell’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011 alla prescrizione di rispettare le leggi non ha la struttura né la funzione di un’autentica fattispecie incriminatrice, dal momento che, da un lato, non consente di individuare la condotta o le condotte dal cui accertamento, nel caso concreto, derivi una responsabilità penale e, dall’altro, attribuisce uno spazio di incontrollabile discrezionalità al giudice.
In realtà, quanto al primo profilo, ciò che difetta per le SSUU è soprattutto la conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale. E non è un caso che la Corte EDU abbia stigmatizzato proprio l’imprevedibilità causata dal generico riferimento al rispetto di tutte le leggi e delle disposizioni la cui inosservanza sarebbe sintomatico indizio del pericolo per la società (sentenza De Tommaso c. Italia). Sotto l’altro profilo, anche l’interpretazione diretta a restringere la portata della norma alle sole violazioni delle norme penali e degli illeciti amministrativi di maggiore gravità non è in grado di ridimensionare la vasta discrezionalità che verrebbe riconosciuta al giudice nel “comporre” il contenuto della norma incriminatrice, dal momento che potrebbe farvisi rientrare l’inosservanza di condotte colpose, pur di rilievo penale, ovvero operarsi scelte arbitrarie sugli illeciti amministrativi da prendere in considerazione.
Le norme penali – precisa il Collegio – sono norme precettive, in quanto funzionali ad influire sul comportamento dei destinatari, ma tale carattere difetta alle prescrizioni di “vivere onestamente e di rispettare le leggi“, perché il loro contenuto, amplissimo e indefinito, non è in grado di orientare il comportamento sociale richiesto. L’indeterminatezza delle due prescrizioni in esame è tale che impedisce la stessa conoscibilità del precetto in primo luogo da parte del destinatario e poi da parte del giudice. Autorevole dottrina, proprio con riferimento al rapporto determinatezza-conoscibilità, ha osservato che qualora una sanzione penale venisse applicata in mancanza della possibilità di conoscere la norma precettiva, a causa della relativa indeterminatezza, si avrebbe una situazione in cui «il soggetto che subisce la pena risulterebbe in definitiva strumentalizzato dall’ordinamento a puri scopi di prevenzione generale mediante intimidazione, rivelandosi pertanto l’ordinamento totalmente insensibile a quelle esigenze di tutela della persona che sono espresse e realizzate dalla colpevolezza».
In sostanza, il rapporto che lega la determinatezza della norma penale alla relativa prevedibilità e conoscibilità finisce per influire sulla sussistenza stessa della colpevolezza, intesa come possibilità del destinatario di «essere motivato dal diritto». Il difetto di precettività insito nel generico obbligo di rispettare le leggi, che vale per ogni consociato, impedisce alla norma in questione di influire sul comportamento del destinatario, in quanto non sono individuate quelle condotte socialmente dannose, che devono essere evitate, e non sono prescritte quelle socialmente utili, che devono essere perseguite. In questa situazione di incertezza il sorvegliato speciale non è in condizione di conoscere e prevedere le conseguenze della violazione di una prescrizione che si presenta in termini così generali. D’altra parte, in presenza di un precetto indefinito l’ordinamento penale non può neppure pretenderne l’osservanza. Ne consegue che il delitto in esame è integrato solo ed esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche, che hanno un autonomo contenuto precettivo.
La rilettura ermeneutica, che in questa sede si offre del reato previsto dall’art. 75, comma 2, d.lgs. cit. e della relativa inconfigurabilità in rapporto alle prescrizioni generiche del vivere onestamente rispettando la legge, consente di evitare ogni valutazione circa la necessità di sollevare incidente di costituzionalità della fattispecie penale per l’indeterminatezza della formulazione del precetto sulla base dell’interpretazione della Corte EDU.
Se le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011, ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Invero, il discorso vale soprattutto per l’obbligo del rispettare le leggi, dal momento che la prescrizione dell’honeste vivere mai è stata considerata autonomamente, ma sempre congiuntamente con la prima e nel contesto delle altre prescrizioni. Ebbene, fino ad oggi la violazione dell’obbligo di rispettare le leggi è stato ritenuto reato autonomo, concorrente, ai sensi dell’art. 81, primo comma, cod. pen., con il reato comune commesso dal sorvegliato speciale qualificato, oppure se ne è riconosciuta la consumazione in relazione alla commissione di un illecito amministrativo. In altri termini, l’indeterminatezza del precetto è stata riempita facendo riferimento alla commissione di illeciti penali comuni o di illeciti amministrativi, con la conseguenza che il sorvegliato speciale viene punito due volte per il medesimo comportamento (con la sentenza n. 76 del 1970 la Corte costituzionale, in relazione all’art. 9 legge n. 1423 del 1956, ha escluso che tale duplicazione della pena sia in contrasto con l’art. 3 Cost.).
Una volta affermato che l’obbligo di rispettare le leggi non integra la norma incriminatrice, il sorvegliato speciale che avrà commesso un reato comune o un illecito amministrativo sarà punito solo per questi, non anche per il delitto di cui al secondo comma dell’art. 75 cit.. La commissione di tali illeciti, almeno di quelli penali, potrà tuttavia avere rilevanza per l’eventuale modifica della misura di prevenzione, ai sensi dell’art. 11 d.lgs. 159 del 2011.
Tale norma prevede che il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione può essere modificato, in senso più restrittivo, su richiesta dell’autorità proponente «quando ricorrono gravi esigenze di ordine e sicurezza pubblica o quando la persona sottoposta alla sorveglianza speciale abbia ripetutamente violato gli obblighi inerenti alla misura». La commissione di reati comuni da parte del sorvegliato speciale potrà essere valutata dal giudice come dimostrazione di un atteggiamento non rispettoso dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi, obbligo generico e indeterminato che non può integrare una fattispecie penale, ma può costituire un presupposto per l’aggravamento della sorveglianza speciale, nell’ambito di un giudizio di prevenzione che deve affermare se un soggetto è pericoloso alla luce della relativa, precedente condotta, confrontata con i nuovi elementi acquisiti a giustificazione dell’aggravamento richiesto (Sez. 1, n. 18224 del 09/01/2015, Concas; Sez. 1, n. 23641 del 11/02/2014, Mondini).
Pertanto, con riferimento alla questione principale oggetto del ricorso, deve per le SSUU essere enunciato il seguente principio di diritto: l’inosservanza delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi», da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011; essa può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione personale.
Può quindi ormai affrontarsi per il Collegio il merito del ricorso proposto. Il Paternò è stato ritenuto responsabile non solo del reato di lesioni volontarie, ma anche del reato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, perché, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, con obbligo di soggiorno, contravveniva alla prescrizione impostagli di vivere onestamente rispettando le leggi, commettendo il reato di lesioni personali. I motivi del ricorso non investono aspetti relativi all’affermazione di responsabilità, essendo limitati a contestare il trattamento sanzionatorio e, in particolare, la ritenuta incidenza della recidiva. Tali doglianze, che non sono inammissibili, sono comunque riferite al capo della sentenza relativo al reato di cui all’art. 75 cit., sicché il giudizio non deve ritenersi esaurito integralmente in ordine al capo di sentenza concernente la definizione del reato e può essere rilevata l’eventuale causa di non punibilità (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216236).
Facendo applicazione del principio enunciato, sorge l’obbligo dell’immediata declaratoria d’ufficio di non punibilità ai sensi dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., dovendosi affermare l’insussistenza del reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011, dal momento che si è escluso che la violazione alle prescrizioni del vivere onestamente e di rispettare le leggi integri il delitto in oggetto.
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Il 17 ottobre viene varata la legge n.161, recante modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e altre disposizioni, nonché delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate.
Si tratta di un ampio provvedimento normativo che – dopo svariati interventi di carattere episodico ed emergenziale – incide in modo sistematico sul sistema della prevenzione siccome scolpito nel codice antimafia del 2011, ampliando ancora la platea dei destinatari delle misure di prevenzione tanto personali quanto patrimoniali e provvedendo a nuovamente normare l’amministrazione dei beni dei prevenuti (con particolare riguardo a società ed aziende); particolarmente significativa la materia della c.d. tutela dei terzi titolari di diritti reali (di garanzia o di godimento) sui ridetti beni.
2018
Il 4 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.111 che risolve il contrasto di giurisprudenza in materia di “attualità” della pericolosità sociale di indiziati dell’appartenenza a cosche mafiose, con riguardo ad un’ipotesi nella quale gli indizi si riannodano ad elementi di fatto che risalgono a 7 anni prima (2011), e in riferimento alla quale tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello competenti hanno applicato la misura di prevenzione della sorveglianza sociale di PS senza motivare specificamente in ordine all’”attuale pericolosità sociale” del proposto.
Per il Collegio va premesso che, sulla scorta della legislazione vigente e, in particolare, del codice antimafia del 2011, dopo una prima fase di inquadramento criminologico del proposto alla misura di prevenzione, è necessario verificare la possibilità di formulare un autonomo giudizio di pericolosità soggettiva del proposto medesimo, finalizzata a giustificare l’applicazione nei relativi confronti della pertinente misura.
Muovendo da queste coordinate, prosegue il Collegio, l’applicazione della massima di esperienza che può desumersi dalla tendenziale stabilità del vincolo che caratterizza le associazioni mafiose implica necessariamente (ed in ogni caso) la verifica dei pertinenti e specifici presupposti di validità con riferimento alla precipua fattispecie in scandaglio, non potendosi genericamente desumere l’attualità della pericolosità sociale dalla ridetta, tendenziale stabilità del vincolo mafioso.
Anche sul crinale sistematico – a fronte della progressiva equiparazione procedimentale tra l’applicazione delle sanzioni penali (ex post) e quella delle misure di prevenzione (ex ante), che ha alla base il riconoscimento della natura in qualche modo afflittiva delle seconde (al pari delle prime), quand’anche incidenti sulla libertà di circolazione assai più che sulla libertà personale del relativo destinatario – non può che assumersi per la Corte ormai come soluzione obbligata la non bastevolezza della pregressa partecipazione ad associazioni mafiose quale supporto ad una presunta “attualità” e, dunque, permanenza di pericolosità del soggetto proposto, stante anche il netto ravvicinamento delle garanzie previste in fase di applicazione delle misure di prevenzione a quelle previste in fase di applicazione di misure cautelari o di pene.
Per le SSUU dunque solo in caso di circostanze di fatto che siano state oggetto di specifico accertamento è possibile accettare la regola di esperienza dalla quale normalmente viene ritratta la presunzione di stabilità ed attualità della pericolosità sociale del proposto, connessa con la natura e la tipologia del vincolo associativo (mafioso) del quale egli ha fatto parte o è stato indiziato di far parte in passato; tali specifiche circostanze di fatto sono da ricondursi in primo luogo ad una adeguata dimostrazione dell’appartenenza del proposto all’associazione mafiosa (che può essere stata, o meno, accertata con sentenza definitiva); alla natura “storica” di simile compagine criminale di appartenenza; alla tipologia della partecipazione, che può assumere diversi gradi e livelli in ragione dell’apporto concretamente fornito dal singolo proposto, di minore ovvero più ampia valenza in relazione alla vita del singolo sodalizio criminale.
In sostanza, per il Collegio è tutt’affatto legittimo procedere a presunzioni semplici nel contesto di “attualizzazione della pericolosità” del proposto alla misura di prevenzione, ma ciò solo laddove vengano previamente ed adeguatamente valorizzati specifici elementi di fatto che in qualche modo sostengano ed autorizzino tale presunzione in forza della natura strutturale dell’apporto fornito dal proposto alla compagine criminosa di appartenenza siccome affiorante dagli atti scandagliati.
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Il 6 aprile esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.3, che si occupa delle c.d. interdittive antimafia di cui all’art.67 del decreto legislativo 159.11, assumendo come la questione ad essa nel caso di specie sottoposta trovi soluzione nella definizione in termini di “incapacità” ex lege dell’effetto derivante dalla interdittiva antimafia ridetta sulla persona (fisica o giuridica) da essa considerata.
La giurisprudenza amministrativa – premette il Collegio – ha già avuto modo di affermare che l’interdittiva antimafia è provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. Come è stato puntualmente affermato, l’interdittiva antimafia costituisce “una misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016 n. 1743).
Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche (Cons. Stato, sez. III, 31 dicembre 2014 n. 6465). A tali fini, il provvedimento esclude che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge, ovvero ancora (come ricorre nel caso di specie) essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”.
Il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina dunque – chiosa ancora il Collegio – una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247). Si tratta di una incapacità giuridica prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti e conseguente all’adozione di un provvedimento adottato all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario.
Essa, precisa il Collegio, è:
– parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione, ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67 d. lgs. n. 159/2011);
– tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente (il Prefetto).
In tali sensi e, in particolare, in relazione al riconosciuto carattere “parziale” dell’incapacità, l’art, 67 d.lgs. n. 159/2011 ne circoscrive il “perimetro”, definendo le tipologie di rapporti giuridici in ordine ai quali il soggetto, colpito della misura, non può acquistare o perde la titolarità di posizioni giuridiche soggettive e, dunque, l’esercizio delle facoltà e dei poteri ad esse connessi.
Così ricostruito l’effetto prodotto dall’interdittiva antimafia sul soggetto di essa destinatario (in linea con l’ipotesi interpretativa da ultimo rappresentata dall’ordinanza di rimessione), anche la previsione di cui al comma 1, lettera g), dell’articolo 67 del ‘Codice delle leggi antimafia’, una volta correttamente interpretata, costituisce anch’essa – prosegue il Collegio – delimitazione dell’ambito della incapacità ex lege – come innanzi definita – nei confronti della Pubblica amministrazione e con riferimento ai rapporti con questa intercorrenti nell’ambito dell’attività imprenditoriale.
L’Adunanza ritiene che tale disposizione debba essere intesa nel senso di precludere all’imprenditore (persona fisica o giuridica) la titolarità della posizione soggettiva che lo renderebbe idoneo a ricevere somme dovutegli dalla Pubblica Amministrazione a titolo risarcitorio in relazione (come nel caso di specie) ad una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto.
Il Collegio assume – anche sulla scorta della propria precedente decisione n. 9 del 2012 – che l’espressione usata dal legislatore nell’articolo da ultimo citato e concernente il divieto di ottenere (o meglio, l’incapacità a poter ottenere), da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprenda anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa.
Come già affermato dalla richiamata sentenza n. 9 del 2012, “l’ampia clausola di salvaguardia contenuta nella citata prescrizione è idonea a ricomprendervi quelle . . . in cui la matrice indennitaria sia più immediatamente percepibile rispetto a quella compensativa sottesa ad ogni altra tipologia di erogazione”. D’altra parte, “non si vede perché nella suddetta ratio dovrebbero rientrare unicamente le erogazioni dirette ad arricchirlo (l’imprenditore colpito da interdittiva) e non anche quelle dirette a parzialmente compensarlo di una perdita subita sussistendo per entrambe il pericolo che l’esborso di matrice pubblicistica giovi ad un’impresa soggetta ad infiltrazioni criminali”.
Se è pur vero – prosegue il Collegio – che la precedente decisione dell’Adunanza Plenaria si riferisce specificamente ad erogazioni di matrice “indennitaria” e non “risarcitoria”, è altrettanto vero che si è ivi affermato – e si intende ribadire nella presente sede – come la finalità del legislatore è, in generale, quella di evitare ogni “esborso di matrice pubblicistica” in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali. In sostanza – ed è questa la ratio della norma – il legislatore intende impedire ogni attribuzione patrimoniale da parte della Pubblica Amministrazione in favore di tali soggetti, di modo che l’art. 67, comma 1, lett. g) del Codice delle leggi antimafia non può che essere interpretato se non nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso proveniente dalla P.A.. E tale finalità – in linea con quanto innanzi affermato in ordine agli effetti della interdittiva antimafia – è perseguita dal legislatore per il tramite di una tendenzialmente (temporanea) perdita, per l’imprenditore, della possibilità di essere titolare, nei confronti della Pubblica Amministrazione, delle posizioni giuridiche riferite alle ipotesi puntualmente indicate nell’art. 67 cit.
A fronte di quanto esposto, non può per il Collegio assumere rilievo in senso contrario l’argomento che sembrerebbe potersi trarre dalla disposizione citata, laddove, oltre al divieto di disporre “contributi, finanziamenti e mutui agevolati” (casi specificamente indicati), si ricomprendono nel divieto (in senso, per così dire, più “generale”) anche “altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”. L’argomento che fa leva sull’espressione “dello stesso tipo” – che indicherebbe una riconducibilità delle erogazioni al genus delle “provvidenze” e quindi escluderebbe le somme da corrispondersi a titolo di risarcimento – appare, come spesso nelle interpretazioni meramente letterali, poco persuasivo, essendo facilmente controvertibile.
Ed infatti, prosegue il Collegio alla ricostruzione interpretativa ora riportata, ben può opporsi che gli istituti espressamente contemplati dal legislatore (contributi, finanziamenti, mutui agevolati) rientrano tutti nella più ampia categoria delle obbligazioni pecuniarie pubbliche, di modo che lo “stesso tipo” entro il quale rientrano le “altre erogazioni” interdette, ben può essere inteso come il genus delle obbligazioni pecuniarie poste a carico della Pubblica Amministrazione, quale che ne sia la fonte e la causa.
L’avere inquadrato l’effetto prodotto dall’interdittiva antimafia in termini di “incapacità” rende possibile comprendere come non assuma rilievo, nel caso di specie, il problema della “intangibilità del giudicato”. Ed infatti, se il soggetto destinatario dell’interdittiva antimafia ha una particolare forma di incapacità ex lege, come innanzi ricostruita, il problema non è più rappresentato dalla intangibilità (o meno) del giudicato che sarebbe “vulnerato” dalla ritenuta impossibilità per la Pubblica amministrazione di corrispondere le somme al cui pagamento è stata condannata con la sentenza passata in giudicato. E ciò perché l’impossibilità di erogazione non consegue ad una “incisione” del giudicato, per così dire “sterilizzandone” gli effetti, bensì consegue alla incapacità del soggetto (che astrattamente sarebbe) titolare del diritto da esso nascente a percepire quanto spettantegli.
In altri termini, prosegue il Collegio, l’effetto dell’interdittiva non è quello di “liberare” la Pubblica Amministrazione dalle obbligazioni (risarcitorie) per essa derivanti dall’accertamento e condanna contenuti nella sentenza passata in giudicato; così come essa non incide sulla sussistenza del diritto di credito definitivamente accertato, né sull’actio judicati, una volta che tale diritto possa essere fatto valere da parte di chi ne ha la titolarità. Infatti, l’obbligazione risarcitoria della Pubblica Amministrazione, definitivamente accertata in sede giudiziaria, resta intatta ed indiscutibile; né può ipotizzarsi alcuna incisione del provvedimento amministrativo (e dei relativi effetti) sul giudicato.
L’interdittiva antimafia, dunque, non incide sull’obbligazione dell’Amministrazione, bensì sulla “idoneità” dell’imprenditore ad essere titolare (ovvero a persistere nella titolarità) del diritto di credito. Il soggetto colpito dalla misura interdittiva, che pure potrebbe astrattamente essere titolare dei diritti riconosciutigli dalla sentenza passata in giudicato, risulta tuttavia essere, per ragioni diverse ed esterne, incapace ad assumere o a mantenere (per il tempo di durata degli effetti dell’interdittiva) la titolarità non già dei soli diritti accertati con la sentenza, ma, più in generale, di tutte le posizioni giuridiche comunque riconducibili all’ambito delineato dall’art. 67 del Codice delle leggi antimafia. E, da ultimo, l’inidoneità ad essere (temporaneamente) titolare del diritto non può che comportare anche l’impossibilità di farlo valere nei confronti del debitore, in particolare postulando la tutela del credito in sede giurisdizionale.
Viceversa, una volta che venga meno l’incapacità determinata dall’interdittiva, quel diritto di credito, riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato, “rientra” pienamente nel patrimonio giuridico del soggetto, con tutte le facoltà ed i poteri allo stesso connessi, ivi compresa l’actio iudicati dal quale era temporaneamente uscito, e ciò non in quanto una “causa esterna” (il provvedimento di interdittiva antimafia) ha inciso sul giudicato, ma in quanto il soggetto che è stato da questo identificato come il titolare dei diritti ivi accertati torna ad essere idoneo alla titolarità dei medesimi. Né la titolarità del diritto ovvero la concreta possibilità di farlo valere, una volta “recuperata” la piena capacità giuridica, potrebbero risultare compromessi, posto che, come è noto, ai sensi dell’art. 2935 c.c. “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
In conclusione, l’Adunanza Plenaria enuncia i seguenti principi di diritto: a) il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto – persona fisica o giuridica – è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67 d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159; b) l’art. 67, co. 1, lett. g) del d. lgs. 6 settembre 2011 n. 159, nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa.
Alla luce di tutte le considerazioni sin qui esposte, il ricorso, in presenza di un evidente difetto di condizioni dell’azione – titolo e legittimazione ad agire (stante l’incapacità “sostanziale” del privato ricorrente) – (Cons. Stato, Ad. Plen. 25 febbraio 2014 n. 9, ed in senso conforme, Cass. civ., sez. un., 22 aprile 2013 n. 9685), deve essere per il Collegio dichiarato inammissibile.
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Il 4 ottobre viene varato il decreto legge n.113, recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che introduce modificazioni in tema di c.d. DASPO urbano.
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Il 01 dicembre viene varata la legge n.132 che converte con modificazioni il decreto legge n.113.
2019
Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.24 che, con motivazione articolata, si pronuncia su diverse disposizioni in materia di misure di prevenzione.
L’elevato numero di disposizioni censurate, tra loro fittamente intrecciate, esige – osserva preliminarmente la Corte – la precisazione dell’oggetto del giudizio ad essa sottoposto, da ricostruire a partire dai petita formulati nelle ordinanze di rimessione, sì da sgomberare subito il campo dalle (numerose) questioni inammissibili.
Cuore di tutte le questioni prospettate – osserva preliminarmente la Corte – è l’allegato difetto di precisione di due fattispecie astratte, previste dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, nella versione modificata dalla legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), poi riprodotte in termini pressoché identici nelle lettere a) e b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, il quale trova applicazione con riferimento alle proposte di misure di prevenzione depositate a partire dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo stesso (13 ottobre 2011).
Tali disposizioni consentono l’applicazione – da un lato – della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, e – dall’altro – delle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, a due categorie di destinatari: «coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi» (art. 1, numero 1, della legge n. 1423 del 1956, riprodotto in modo pressoché identico dall’art. 1, lettera a, del d.lgs. n. 159 del 2011), e «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» (art. 1, numero 2, della legge n. 1423 del 1956; art. 1, lettera b, del d.lgs. n. 159 del 2011).
Come si evince dal tenore complessivo delle ordinanze di rimessione, peraltro, le questioni sollevate concernono la legittimità costituzionale delle previsioni indicate nella sola parte in cui costituiscano il presupposto per l’applicazione delle menzionate misure di prevenzione personali e patrimoniali. Resta, pertanto, estraneo al vaglio odierno il quesito se le previsioni in parola possano legittimamente operare anche quale presupposto applicativo di altre misure tuttora di competenza dell’autorità di polizia (in particolare, foglio di via obbligatorio e avviso orale). Una simile questione, in effetti, non è stata sollevata dai giudici rimettenti; né avrebbe potuto esserlo, non essendo il tribunale l’autorità competente per l’applicazione di tali misure.
Precisato il thema decidendum, conviene per la Corte anteporre all’esame del merito delle censure alcune premesse generali sullo statuto di garanzia (costituzionale e convenzionale) delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali, nonché alcune premesse più specifiche sulle due fattispecie normative oggetto delle presenti questioni di costituzionalità.
Le misure di prevenzione personali – prende a spiegare la Corte – accompagnano la storia dell’ordinamento italiano sin dalla sua nascita. Cionondimeno, il loro preciso statuto costituzionale, rimasto incerto nei primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, non cessa ancor oggi di ingenerare controversie.
Le misure di prevenzione personali oggi organicamente disciplinate nel d.lgs. n. 159 del 2011 rappresentano, in effetti, il provvisorio approdo di una lunga evoluzione storica, le cui origini risalgono quanto meno alla legislazione di polizia ottocentesca, cristallizzatasi subito dopo l’unità d’Italia nella legge 20 marzo 1865, n. 2248 (per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia), allegato B, che già conferiva all’autorità di pubblica sicurezza il potere di disporre le misure dell’ammonizione, del domicilio coatto (o confino di polizia) e del rimpatrio con foglio di via obbligatorio nei confronti di persone ritenute pericolose per la società, senza che fosse – tuttavia – necessaria una loro condanna in sede penale.
Largamente utilizzate in epoca fascista come strumento di controllo e di repressione degli oppositori politici, tali misure – la cui disciplina era nel frattempo confluita nel regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico di pubblica sicurezza) – restarono in vita anche dopo l’avvento della Costituzione repubblicana, ponendo subito alla dottrina e alla stessa giurisprudenza la questione della loro compatibilità con la Carta costituzionale.
La Corte rammenta di essere stata già nel relativo primo anno di attività sollecitata a vagliare la legittimità della disciplina in materia di prevenzione da numerose ordinanze di rimessione provenienti da pretori chiamati a giudicare della responsabilità penale di soggetti imputati di avere violato le prescrizioni inerenti a misure (di prevenzione appunto) disposte dall’autorità di polizia. Con la sentenza n. 2 del 1956, fu dichiarata l’illegittimità della disciplina allora vigente in tema di esecuzione coattiva dell’ordine di rimpatrio disposto dal questore, mentre con la successiva sentenza n. 11 del 1956 a essere dichiarata illegittima fu la disciplina dell’ammonizione.
Nell’uno e nell’altro caso, la decisione si fondò sull’incompatibilità delle discipline in questione con la riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost. Sottolineò in particolare – chiosa ancora la Corte – la sentenza n. 11 del 1956 «che l’ordinanza di ammonizione ha per conseguenza la sottoposizione dell’individuo ad una speciale sorveglianza di polizia» e «che attraverso questo provvedimento si impone all’ammonito tutta una serie di obblighi, di fare e di non fare, fra cui, quello di non uscire prima e di non rincasare dopo di una certa ora, non è che uno fra gli altri che la speciale commissione prescrive»: effetti, tutti, integranti una significativa «restrizione» del diritto alla libertà personale tutelato dall’art. 13 Cost., e come tali sottratti – per volere dei costituenti – al potere esclusivo dell’autorità di polizia.
Il legislatore, prosegue la Corte si adeguò prontamente, già nel dicembre di quell’anno, alle pronunce della Corte, attraverso una nuova organica disciplina delle misure di prevenzione contenuta nella legge n. 1423 del 1956. Nella relativa versione originaria, la legge indicava cinque diverse categorie di destinatari delle misure medesime: oziosi e vagabondi; persone «notoriamente e abitualmente dedite a traffici illeciti»; «proclivi a delinquere e coloro che, per la condotta e il tenore di vita, devono ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti o con il favoreggiamento»; persone ritenute dedite allo sfruttamento della prostituzione, alla tratta delle donne, alla corruzione di minori, al contrabbando o al traffico di droga; nonché «coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume». Nei confronti di tutti costoro, la legge prevedeva che il questore potesse direttamente indirizzare una motivata diffida a cambiare condotta, nonché ordinarne il rimpatrio con foglio di via obbligatorio; mentre affidava al tribunale – in conformità al principio fissato dalla sentenza n. 11 del 1956 – la competenza a disporre la più grave misura della sorveglianza speciale, cui il tribunale stesso poteva aggiungere il divieto di soggiorno in uno o più comuni o province nonché, nei casi di particolare pericolosità, l’obbligo del soggiorno in un determinato comune.
Le misure previste dalla legge n. 1423 del 1956 sono state quindi estese dalla legge n. 575 del 1965, nelle relative successive modificazioni, agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso»; e la legge n. 152 del 1975 (la cosiddetta legge Reale) ne ampliò ulteriormente l’ambito di applicazione a una vasta area di soggetti indiziati di coinvolgimento in attività di tipo terroristico o eversivo, di appartenenza ad associazioni politiche disciolte o di ricostituzione del partito fascista, nonché a soggetti già condannati per violazioni della disciplina in materia di armi e da ritenersi, per il loro comportamento successivo, «proclivi» a commettere nuovi reati della stessa specie.
Nel 1980, giusto al culmine dell’emergenza terroristica che aveva nel frattempo investito il nostro Paese, due importanti sentenze – l’una della Corte EDU, l’altra della Corte costituzionale – richiamarono però nuovamente l’attenzione sulle esigenze di tutela dei diritti fondamentali dei destinatari delle misure in esame.
La sentenza della Corte EDU 6 novembre 1980, Guzzardi contro Italia, stabilì (al paragrafo 102) che l’applicazione della misura della sorveglianza speciale con ordine di soggiorno all’isola dell’Asinara disposta nei confronti del ricorrente, indiziato di appartenenza a un’associazione mafiosa ai sensi della legge n. 575 del 1965, non aveva soltanto limitato la relativa libertà di circolazione tutelata dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU (all’epoca non ancora ratificato dall’Italia), ma si era risolta – in ragione della particolare ristrettezza dello spazio cui il ricorrente era confinato, nonché della situazione di sostanziale isolamento personale in cui egli era costretto a vivere – in una vera e propria privazione della relativa libertà personale, ai sensi dell’art. 5 CEDU. Tale privazione non poteva, d’altra parte, considerarsi legittima, non ricorrendo alcuna delle eccezioni previste dal primo comma dello stesso art. 5 CEDU: secondo la Corte, il confino del ricorrente non poteva – in particolare – legittimarsi in quanto misura necessaria «a impedirgli di commettere un reato» ai sensi della lettera c) del comma 1 dell’art. 5 indicato, dal momento che una privazione di libertà disposta a tal fine avrebbe dovuto essere necessariamente funzionale a un successivo giudizio penale, celebrato davanti all’autorità giudiziaria, per uno specifico reato del quale il soggetto venisse accusato. Funzionalità che, evidentemente, non sussiste rispetto alle misure di prevenzione, la cui applicazione prescinde dalla necessità di formulazione di un’accusa penale.
Sul fronte interno, con la propria sentenza n. 177 del 1980 la Corte dichiarò incompatibile con il principio di legalità – ritenuto in quella occasione applicabile anche alle misure di prevenzione personali in forza sia dell’art. 13 Cost., sia dell’art. 25, terzo comma, Cost. – la previsione della loro applicabilità a coloro che «per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere», in ragione dell’intollerabile indeterminatezza di tale formula normativa, ritenuta tale da «offrire agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità».
La risposta del legislatore giunse, rammenta ancora il Collegio, qualche anno più tardi, con la legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), che da un lato eliminò la possibilità per il tribunale di ordinare l’obbligo di soggiorno in un Comune diverso da quello di residenza; e, dall’altro, riformulò le descrizioni normative contenute nell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, eliminando dal novero dei destinatari delle misure in questione i «vagabondi» e gli «oziosi», e precisando in ciascuna di esse che la riconduzione del soggetto alle categorie descritte dalla legge dovesse effettuarsi da parte del tribunale sulla base di «elementi di fatto» (e non già, dunque, sulla base di semplici voci o sospetti).
La legislazione degli anni successivi proseguì, peraltro, lungo una direttrice di progressivo ampliamento delle categorie dei potenziali destinatari delle misure in parola. Tali categorie sono, oggi, organicamente elencate nell’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 e successive modificazioni, ove sono confluite tutte le fattispecie in precedenza disseminate in più testi normativi di non sempre agevole coordinamento. All’interno di tale elenco si trova in particolare, alla lettera c), il riferimento alle residue tre fattispecie originariamente previste dalla legge n. 1423 del 1956, nella versione modificata dalla legge n. 327 del 1988, oggi testualmente riprodotta dall’art. 1 dello stesso d.lgs. n. 159 del 2011: fattispecie che continuano ad operare anche come presupposti delle misure di prevenzione tuttora di competenza del questore (foglio di via obbligatorio e avviso orale), oggi disciplinati dagli artt. 2 e 3 del decreto, e che al tempo stesso operano come possibili presupposti dell’applicazione delle misure di prevenzione di competenza del tribunale, alla stessa stregua di tutte le altre fattispecie elencate nell’art. 4.
Oltre alla verifica della riconducibilità del soggetto a una delle categorie oggi elencate nell’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 – chiosa ancora la Corte – presupposto comune dell’applicazione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, è la pericolosità del soggetto medesimo per la sicurezza pubblica (art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011). Al riscontro probatorio delle relative passate attività criminose, deve dunque affiancarsi una ulteriore verifica processuale circa la relativa pericolosità, in termini – cioè – di rilevante probabilità di commissione, nel futuro, di ulteriori attività criminose.
Il requisito della pericolosità per la sicurezza pubblica del destinatario delle misure di prevenzione personali accomuna le stesse alle misure di sicurezza disciplinate dal codice penale, dalle quali tuttavia le prime si differenziano in quanto non presuppongono l’instaurarsi di un processo penale nei confronti del soggetto. Sufficiente e necessario a legittimare l’applicazione di una misura di prevenzione personale è, infatti, che l’attività criminosa – descritta nelle varie fattispecie elencate oggi nell’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011, e il cui riscontro probatorio funge da base sulla quale sviluppare il giudizio in ordine alla pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica – risulti da evidenze che la legge indica ora come «elementi di fatto», più spesso come «indizi»; evidenze che debbono essere vagliate dal tribunale nell’ambito di un procedimento retto da regole probatorie e di giudizio diverse da quelle proprie dei procedimenti penali.
La ricostruzione storica che precede offre al Collegio le coordinate essenziali per chiarire quali siano le garanzie che, dal punto di vista costituzionale e convenzionale, circondano le misure di prevenzione personali. Anzitutto, la circostanza che, ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione personale, sono comunque necessari elementi che facciano ritenere pregresse attività criminose da parte del soggetto, non comporta che le misure in questione abbiano nella sostanza carattere sanzionatorio-punitivo, sì da chiamare in causa necessariamente le garanzie che la CEDU, e la stessa Costituzione, sanciscono per la materia penale. Imperniate come sono su un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato.
La stessa Corte EDU, prosegue il Collegio, nella recente sentenza che è all’origine delle presenti questioni di legittimità costituzionale, ha espressamente escluso che le misure di prevenzione personali sottoposte al relativo esame costituiscano sanzioni di natura sostanzialmente punitiva, come tali soggette ai vincoli che la Convenzione detta in relazione alla materia penale (Corte EDU, sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, paragrafo 143). Né la Corte costituzionale medesima, nelle varie occasioni in cui ha sinora avuto modo di pronunciarsi sulle misure di prevenzione personali, ha mai ritenuto che esse soggiacciano ai principi dettati, in materia di diritto e di processo penale, dagli articoli 25, secondo comma, 27, 111, terzo, quarto e quinto comma, e 112, Cost.
Nella sentenza de Tommaso, la Corte EDU ha, invece, affermato che le misure di prevenzione disciplinate nell’ordinamento italiano – dopo la scomparsa, nel 1988, dell’obbligo di soggiorno in un Comune diverso da quello di residenza, che aveva dato luogo alla condanna dell’Italia nella sentenza Guzzardi – costituiscono misure limitative della libertà di circolazione, sancita dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU; misure che, come tali, sono legittime in quanto sussistano le condizioni previste dal paragrafo 3 della norma convenzionale in questione (in particolare: idonea base legale, finalità legittima, “necessità in una società democratica” della limitazione in rapporto agli obiettivi perseguiti).
In direzione analoga si era mossa d’altra parte, da epoca ben precedente agli interventi della Corte EDU, anche la stessa Corte costituzionale, che – accanto ai non sempre costanti riferimenti all’art. 25, terzo comma, Cost. – ha sempre affermato, sin dalle relative prime sentenze del 1956 in materia, l’esecuzione delle misure di prevenzione di volta in volta sottoposte al proprio esame comportare una restrizione della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost.; restrizione che certamente consegue alle prescrizioni che ineriscono alla sorveglianza di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma, 2, del d.lgs. n 159 del 2011, le quali – anche laddove non sia disposto l’obbligo o il divieto di soggiorno – comportano, ad esempio, l’obbligo di fissare la propria dimora e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità, nonché il divieto di uscire o rincasare al di fuori di certi orari.
Conseguentemente, le misure in questione in tanto possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale, tra i quali vanno in particolare sottolineate la riserva assoluta di legge (rinforzata, stante l’esigenza di predeterminazione legale dei «casi e modi» della restrizione) e la riserva di giurisdizione.
Gli esiti cui è approdata la giurisprudenza costituzionale italiana, che in questa sede devono per la Corte essere riaffermati, finiscono così per attribuire un livello di tutela ai diritti fondamentali dei destinatari della misura della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, che è superiore a quello assicurato in sede europea. La riconduzione delle misure in parola all’alveo dell’art. 13 Cost. comporta, infatti, che alle garanzie (richieste anche nel quadro convenzionale) a) di una idonea base legale delle misure in questione e b) della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (proporzionalità che è requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo), debba affiancarsi l’ulteriore garanzia c) della riserva di giurisdizione, non richiesta in sede europea per misure limitative di quella che la Corte EDU considera come mera libertà di circolazione, ricondotta in quanto tale al quadro garantistico dell’art. 2 Prot. n. 4 CEDU.
Assai più recente – riprende la Corte – è stato l’ingresso nell’ordinamento italiano delle misure di prevenzione patrimoniali della confisca e del correlato sequestro. Se si prescinde da taluni pur significativi precedenti normativi, risalenti in parte alla legislazione del regime fascista e in parte all’epoca immediatamente successiva alla relativa caduta (precedenti, questi ultimi, sui quali ebbe a pronunciarsi anche la Corte, nelle sentenze n. 46 del 1964 e n. 29 del 1961), fu soltanto la legge 13 settembre 1982, n. 646, recante «Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia» (cosiddetta legge Rognoni-La Torre), a introdurre nella legge n. 575 del 1965 la disciplina di una nuova tipologia di confisca (art. 2-ter, comma 3) non dipendente da condanna penale, e i cui effetti erano destinati a essere anticipati da uno speciale sequestro (art. 2-ter, comma 2), in chiave di più efficace contrasto della criminalità mafiosa.
Il legislatore del 1982 scelse dunque di innestare questi nuovi istituti sull’impianto della legge del 1965, estendendo l’applicabilità delle misure di prevenzione personali previste dalla legge n. 1423 del 1956 agli indiziati di appartenenza alle associazioni mafiose. Tale collocazione sistematica determinò anche il complessivo assetto di disciplina delle nuove misure, che furono affidate al medesimo tribunale competente a disporre le misure di prevenzione personali, dalle quali la nuova confisca (e il relativo sequestro) ereditarono inizialmente presupposti e procedimento applicativo, salve naturalmente le peculiarità legate alla necessità di effettuare indagini patrimoniali per individuare i beni potenzialmente oggetto di ablazione patrimoniale.
Conseguentemente, anche queste misure furono configurate dal legislatore come del tutto indipendenti dal procedimento penale eventualmente aperto nei confronti del destinatario della proposta di misura di prevenzione patrimoniale, essendo piuttosto basate sui medesimi “indizi” che legittimavano l’applicazione nei loro confronti delle misure di prevenzione personali. A tali indizi la disciplina originaria del 1982 affiancava i seguenti ulteriori presupposti: ai fini del sequestro dei beni dell’indiziato, la sussistenza di «sufficienti indizi, come la notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati», dai quali si potesse ritenere che i beni dei quali il soggetto risultava disporre, anche indirettamente, «fossero il frutto di attività illecite o ne costituissero il reimpiego»; ai fini della loro definitiva confisca, la mancata dimostrazione dell’origine lecita dei beni già oggetto di sequestro.
Come appare evidente dalla semplice lettura dell’art. 2-ter, comma 3, della legge n. 575 del 1965, nel testo originario introdotto dalla legge Rognoni-La Torre, lo scopo fin dall’inizio sotteso a queste misure era – prosegue la Corte – quello di sottrarre alla criminalità organizzata beni e denaro di origine illecita (dimostrata attraverso un classico schema presuntivo), evitando al tempo stesso di subordinare l’ablazione patrimoniale alla necessità di dimostrare, nell’ambito di un processo penale, la precisa derivazione di ogni singolo bene o somma di denaro da un particolare delitto.
Sin dalle origini, peraltro, l’applicazione dei nuovi istituti non restò confinata all’ambito della criminalità di tipo mafioso, ma – per effetto del rinvio (ritenuto “mobile” dalla giurisprudenza prevalente) contenuto nell’art. 19 della legge n. 152 del 1975, che stabiliva l’applicabilità di tutte le disposizioni della legge n. 575 del 1965 a talune delle fattispecie previste dall’art. 1 della legge n. 1423 del 1956 – fu subito ritenuta estesa ai soggetti indicati quali destinatari di misure di prevenzione personali ai sensi delle fattispecie di “pericolosità generica” previste dalla legge n. 1423 del 1956, e in particolare alle due fattispecie che – con lievissime modificazioni – sono oggetto delle presenti questioni di legittimità costituzionale.
La concreta adozione delle nuove misure patrimoniali restò a lungo dipendente dalla contemporanea adozione di una misura di prevenzione personale a carico del soggetto interessato, la quale – a propria volta – presupponeva una valutazione relativa alla relativa attuale pericolosità sociale. Ciò condusse la Corte ad affermare, nel 1996, che «[d]al sistema legislativo vigente risulta dunque, come principio, che le misure di ordine patrimoniale non hanno la loro ragion d’essere esclusivamente nei caratteri dei beni che colpiscono. Esse sono rivolte non a beni come tali, in conseguenza della loro sospetta provenienza illegittima, ma a beni che, oltre a ciò, sono nella disponibilità di persone socialmente pericolose, in quanto sospette di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad altre alle prime equiparate […]. La pericolosità del bene, per così dire, è considerata dalla legge derivare dalla pericolosità della persona che ne può disporre» (sentenza n. 335 del 1996).
L’evoluzione legislativa successiva di queste nuove misure di prevenzione patrimoniali fu in particolare caratterizzata, per gli aspetti che qui rilevano: a) da un progressivo ampliamento del loro campo di applicazione, analogamente a quanto era accaduto per le misure di prevenzione personali; b) da una modificazione dello schema di accertamento presuntivo dell’origine illecita, che assegnò autonomo rilievo alla sproporzione dei beni rispetto al reddito dichiarato; e, soprattutto, c) dall’autonomizzazione del procedimento applicativo di tali misure rispetto a quello finalizzato all’applicazione di misure di prevenzione personali.
Già la legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazioni di pericolosità sociale) estese le misure in questione agli indiziati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti in materia di stupefacenti e a soggetti indiziati di vivere abitualmente almeno in parte, con il provento dei delitti di estorsione, sequestro di persona a scopo di estorsione, riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita o di contrabbando.
Ma furono soprattutto il decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125, e la successiva legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) a realizzare gradatamente una totale sovrapposizione dell’ambito di applicazione soggettiva delle misure di prevenzione patrimoniale rispetto a quelle personali; sovrapposizione poi destinata a trovare integrale conferma nell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, che richiama tutte le ipotesi previste dal precedente art. 4.
Nel frattempo, la legge 24 luglio 1993, n. 256 (Modifica dell’istituto del soggiorno obbligato e dell’articolo 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575) aveva modificato parzialmente i presupposti del sequestro di prevenzione, conferendo autonoma rilevanza al requisito della sproporzione dei beni da confiscare rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta: sproporzione che assurgeva, così, a ipotesi alternativa rispetto a quella originariamente prevista, in base alla quale il sequestro era consentito allorché si avesse motivo di ritenere che i beni stessi fossero il frutto di attività illecite o ne costituissero il reimpiego.
L’innovazione certamente più significativa, ai fini della definizione della natura delle misure di prevenzione in parola e del loro statuto di garanzia, consiste però per la Corte nella recente autonomizzazione del rispettivo procedimento applicativo rispetto a quello finalizzato all’applicazione delle misure di prevenzione personali. Tale evoluzione fu sostanzialmente attuata già con il d.l. n. 92 del 2008, il quale espressamente stabilì che le due tipologie di misure potessero essere richieste e applicate disgiuntamente, prevedendo altresì la loro applicazione anche in caso di morte del soggetto e la prosecuzione del procedimento nei confronti dei relativi eredi o comunque aventi causa, nell’ipotesi in cui la morte fosse sopraggiunta nel corso del procedimento.
La successiva legge n. 94 del 2009, modificando, con l’art. 2, comma 22, l’art. 10, comma 1, lettera c), numero 2), del d.l. 92 del 2008, completò tale percorso, chiarendo che le misure in questione potessero essere applicate «indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione». Principi, tutti, confluiti senza alterazioni significative nel d.lgs. n. 159 del 2011.
Il complesso quadro normativo che precede, derivante da una stratificazione di interventi a carattere occasionale, attuati senza un preciso disegno di carattere sistematico, consente purtuttavia di trarre – sulla base della recente giurisprudenza della stessa Corte e della Corte di cassazione – alcune conclusioni sulla ratio del sequestro e della confisca di prevenzione: conclusioni a loro volta essenziali al fine di individuare i principi costituzionali e convenzionali che tali misure chiamano in causa.
Il presupposto giustificativo della confisca di prevenzione – e pertanto dello stesso sequestro, che ne anticipa provvisoriamente gli effetti – è «la ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880). Come già osservato, una tale ratio risultava evidente in base al tenore originario dell’art. 3-bis, comma 2, della legge n. 575 del 1965, introdotto nel 1982; ma la conclusione non muta pur dopo le modifiche apportate alla norma ad opera della legge n. 256 del 1993, confluita sostanzialmente inalterata in parte qua negli articoli 20 e 24 del d.lgs. n. 159 del 2011, che disciplinano oggi il sequestro e la confisca di prevenzione.
La circostanza che la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o all’attività economica, da mero indicatore dell’origine illecita dei beni (come era nella disciplina originaria del 1982), sia stato elevato, a partire dal 1993, a requisito alternativo e autonomo rispetto alla dimostrazione dell’origine illecita stessa, non modifica la ratio delle misure in parola: la verifica giudiziale della sproporzione, infatti, continua ad avere senso in quanto idonea a fondare una ragionevole presunzione relativa all’origine illecita del bene, allorché contestualmente risulti la pregressa attività criminosa di colui il quale abbia la disponibilità del bene e – in sede di valutazione dei presupposti della confisca – non riesca a giustificarne la legittima provenienza.
Il sequestro e la confisca in parola – prosegue la Corte – condividono, a ben guardare, la medesima finalità sottesa alla confisca cosiddetta “allargata”, originariamente prevista dall’art. 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e oggi confluita nell’art. 240-bis del codice penale; misura che la Corte ha recentemente ritenuto radicarsi, per l’appunto, «sulla presunzione che le risorse economiche, sproporzionate e non giustificate, rinvenute in capo al condannato derivino dall’accumulazione di illecita ricchezza che talune categorie di reati sono ordinariamente idonee a produrre» (sentenza n. 33 del 2018). Tale presunzione (relativa) è fondata, essa pure, sul riscontro della sproporzione tra i beni da confiscare e il reddito o l’attività economica del soggetto – condannato per uno dei reati menzionati dallo stesso art. 240-bis cod. pen. – che di tali beni risulti titolare o abbia a qualsiasi titolo la disponibilità, e dei quali non riesca a giustificare l’origine lecita.
La confisca “di prevenzione” e la confisca “allargata” (e i sequestri che, rispettivamente, ne anticipano gli effetti) costituiscono dunque altrettante species di un unico genus, che la Corte – nella sentenza da ultimo citata – ha identificato nella «confisca dei beni di sospetta origine illecita» – ossia accertata mediante uno schema legale di carattere presuntivo –, la quale rappresenta uno strumento di contrasto alla criminalità lucrogenetica ormai largamente diffuso in sede internazionale.
Tale strumento è caratterizzato «sia da un allentamento del rapporto tra l’oggetto dell’ablazione e il singolo reato, sia, soprattutto, da un affievolimento degli oneri probatori gravanti sull’accusa», in funzione dell’esigenza di «superare i limiti di efficacia della confisca penale “classica”: limiti legati all’esigenza di dimostrare l’esistenza di un nesso di pertinenza – in termini di strumentalità o di derivazione – tra i beni da confiscare e il singolo reato per cui è pronunciata condanna. Le difficoltà cui tale prova va incontro hanno fatto sì che la confisca “tradizionale” si rivelasse inidonea a contrastare in modo adeguato il fenomeno dell’accumulazione di ricchezze illecite da parte della criminalità, e in specie della criminalità organizzata: fenomeno particolarmente allarmante, a fronte tanto del possibile reimpiego delle risorse per il finanziamento di ulteriori attività illecite, quanto del loro investimento nel sistema economico legale, con effetti distorsivi del funzionamento del mercato» (sentenza n. 33 del 2018).
In conformità a tale ratio, la giurisprudenza della Corte di cassazione, con riferimento tanto al sequestro e alla confisca di prevenzione quanto alla confisca “allargata”, ha da tempo intrapreso – come rammentato, ancora, dalla sentenza n. 33 del 2018 – un percorso volto a circoscrivere l’area dei beni confiscabili, limitandoli a quelli acquisiti in un arco temporale ragionevolmente correlato a quello in cui il soggetto risulta essere stato impegnato in attività criminose.
Rispetto, in particolare, al sequestro e alla confisca di prevenzione, le Sezioni unite sono pervenute a tale risultato chiarendo la necessità di accertare lo svolgimento di attività criminose da parte del soggetto con riferimento al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare (Cass., sez. un., n. 4880 del 2015): requisito, quest’ultimo, non scritto, ma discendente evidentemente dalla necessità di conservare ragionevolezza alla presunzione (relativa) di illecito acquisto dei beni, sulla quale il sequestro e la confisca di prevenzione si fondano. Tale presunzione, infatti, in tanto ha senso, in quanto si possa ragionevolmente ipotizzare che i beni o il denaro confiscati costituiscano il frutto delle attività criminose nelle quali il soggetto risultava essere impegnato all’epoca della loro acquisizione, ancorché non sia necessario stabilirne la precisa derivazione causale da uno specifico delitto.
Così chiarita la ratio delle misure in parola, resta per la Corte da stabilire quali siano i principi costituzionali e convenzionali che ne integrano lo specifico statuto di garanzia. La presunzione relativa di origine illecita dei beni, che ne giustifica l’ablazione in favore della collettività, non conduce necessariamente – come talvolta si sostiene – a riconoscere la natura sostanzialmente sanzionatorio-punitiva delle misure in questione; e non comporta, pertanto, la sottoposizione delle misure medesime allo statuto costituzionale e convenzionale delle pene.
In effetti, nell’ottica del sistema, l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina – come ben evidenziato dalla recente pronuncia, già menzionata, delle sezioni unite della Corte di cassazione – un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando «sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico. Non può, dunque, ritenersi compatibile con quella funzione l’acquisizione di beni contra legem, sicché nei confronti dell’ordinamento statuale non è mai opponibile un acquisto inficiato da illecite modalità» (Cass., sez. un., n. 4880 del 2015).
In presenza, insomma, di una ragionevole presunzione che il bene, di cui il soggetto risulti titolare o abbia la materiale disponibilità, sia stato acquistato attraverso una condotta illecita – presunzione a propria volta fondata sul puntuale riscontro, da parte del giudice, dei requisiti dettati dalla normativa in esame –, o a fortiori in presenza di prove dirette di tale origine illecita, il sequestro e la confisca del bene medesimo non hanno lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta; bensì, più semplicemente, quello di far venir meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico, o comunque di far sì (eventualmente attraverso la confisca per equivalente) che venga neutralizzato quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa presupposta, non potrebbe godere.
In assenza di connotati afflittivi ulteriori, la finalità dell’ablazione patrimoniale ha, in tale ipotesi, carattere meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell’illecita acquisizione del bene. Quest’ultimo potrà così, prosegue la Corte, essere sottratto al circuito criminale, ed essere invece destinato – quanto meno ove non sia possibile restituirlo a un precedente titolare, che ne fosse stato illegittimamente spogliato – a finalità di pubblico interesse, come quelle istituzionalmente perseguite dall’Agenzia nazionale dei beni confiscati.
D’altra parte, precisa ancora la Corte, nelle numerose occasioni in cui la Corte EDU ha sinora esaminato doglianze relative all’applicazione della confisca di prevenzione, mai è stata riconosciuta natura sostanzialmente penale a questa misura. È stato conseguentemente escluso che ad essa possano applicarsi gli artt. 6, nel suo “volet pénal”, e 7 CEDU; e si è invece affermato che la misura rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 1, Prot. addiz. CEDU, in ragione della relativa incidenza limitatrice rispetto al diritto di proprietà (ex multis, Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; decisione 15 giugno 1999, Prisco contro Italia; sentenza 22 febbraio 1994, Raimondo contro Italia).
Particolarmente significativa, nell’ambito della giurisprudenza della Corte EDU, appare d’altra parte la sentenza Gogitidze e altri contro Georgia del 2015, che ha ritenuto compatibile con la Convenzione una confisca specificamente rivolta ad apprendere beni di ritenuta origine illecita, nei confronti di pubblici ufficiali imputati di gravi reati contro la pubblica amministrazione e di loro prossimi congiunti: una confisca, più in particolare, operante sulla base di meccanismi presuntivi simili a quelli previsti nell’ordinamento italiano, e comunque in assenza di condanna del pubblico funzionario.
Nel procedere, in particolare, al vaglio di compatibilità della relativa disciplina con i principi dell’equo processo di cui all’art. 6 CEDU, la Corte ha negato che tale misura rappresenti una sanzione di carattere sostanzialmente punitivo, come tale soggetta ai principi che la Convenzione detta in materia di processo penale, e l’ha piuttosto qualificata come un’«azione civile in rem finalizzata al recupero di beni illegittimamente o inspiegabilmente accumulati» dal loro titolare (paragrafo 91); osservando, altresì, che la ratio di questa tipologia di confisca senza condanna è al tempo stesso, «compensatoria e preventiva», mirando essa, da un lato, a ripristinare la situazione che esisteva prima dell’acquisto illecito dei beni da parte del pubblico ufficiale; e, dall’altro, a impedire arricchimenti illeciti del soggetto, inviando il chiaro segnale agli ufficiali pubblici che le loro condotte illecite, anche laddove rimangano impunite in sede penale, non potranno assicurare loro alcun vantaggio economico (paragrafi 101-102).
Pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano peraltro misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU). Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui – segnatamente –: a) la relativa previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU); b) l’essere la restrizione “necessaria” rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addiz. CEDU), e pertanto proporzionata rispetto a tali obiettivi, ciò che rappresenta un requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell’individuo, alla luce dell’art. 3 Cost.; nonché c) la necessità che la relativa applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet civil”), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta.
Le specifiche questioni oggetto di esame in questa sede – prosegue la Corte tornando alle misure di prevenzione (anche) personali – concernono, come anticipato, la garanzia della previsione per legge tanto della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, quanto del sequestro e della confisca di prevenzione; e ciò in relazione a due delle fattispecie normative di cosiddetta “pericolosità generica” che traggono la loro origine nell’art. 1, numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluite nell’art. 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011. Nella prospettazione delle ordinanze di rimessione, tali fattispecie normative non sarebbero in grado di indicare con sufficiente precisione i presupposti delle misure in questione, sì da non consentire ai loro destinatari di poterne ragionevolmente prevedere l’applicazione.
Come emerge dalla ricapitolazione storica poc’anzi compiuta dalla Corte, la formulazione delle disposizioni censurate rappresenta il lascito, mai sostanzialmente modificato nell’arco di più di un secolo, di una produzione normativa ottocentesca che, nell’ambito della legislazione di polizia, aveva quali propri destinatari soggetti posti ai margini della società – vagabondi, oziosi, sospettati per furti di campagna – che venivano attinti da misure limitative della libertà personale o di circolazione, applicate direttamente dall’autorità di pubblica sicurezza.
Alla progressiva opera di giurisdizionalizzazione di tali misure – alla quale hanno contribuito tanto le pronunce della Corte medesima, quanto gli interventi del legislatore repubblicano – si è accompagnata una progressiva tipizzazione dei comportamenti assunti come presupposto delle misure di prevenzione (personali e, a partire dal 1982, patrimoniali), i cui destinatari iniziarono gradualmente ad essere individuati dal legislatore mediante il richiamo alle numerose tipologie specifiche di reato, tra cui quello di associazione mafiosa, che oggi sono confluite nell’elenco tassativo contenuto nell’art. 4 del d.l.gs. n. 159 del 2011.
Queste ultime, ormai numerosissime, fattispecie di cosiddetta pericolosità “qualificata” – che restano del tutto estranee al presente giudizio di legittimità costituzionale – sono rimaste tuttavia affiancate dalle più antiche fattispecie di pericolosità “generica”, che sono state solo parzialmente rimodulate a seguito dell’intervento della Corte nel 1980 e del legislatore nel 1988.
Nella già menzionata sentenza n. 177 del 1980, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 1 della legge n. 1423 del 1956 nella parte in cui includeva tra i destinatari della misura personale della sorveglianza speciale «coloro che […] per le manifestazioni cui abbiano dato luogo diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere». In quell’occasione, la Corte ha ritenuto inadeguata la «descrizione legislativa» della «fattispecie legale», sottolineando che «il principio di legalità in materia di prevenzione […], lo si ancori all’art. 13 ovvero all’art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura […] trovi il presupposto necessario in “fattispecie di pericolosità”, previste – descritte – dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata».
Come già rammentato, in seguito a tale pronuncia, il legislatore – con la legge n. 327 del 1988 – è intervenuto espungendo altresì dalla disposizione in esame il riferimento ai «vagabondi» e agli «oziosi», nonché introducendo il requisito, di carattere probatorio, degli «elementi di fatto».
Sono però sopravvissute nel testo legislativo, e sono di qui confluiti nel nuovo art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, le fattispecie – oggetto della presente censura di illegittimità costituzionale – relative ai soggetti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» e a «coloro […] che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose».
La legittimità di queste ultime disposizioni – prosegue la Corte – è stata di recente scrutinata, al metro del diritto internazionale dei diritti umani, dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza de Tommaso, del 23 febbraio 2017. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che le disposizioni in parola non soddisfino gli standard qualitativi – in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità – che deve possedere ogni norma che costituisca la base legale di un’interferenza nei diritti della persona riconosciuti dalla CEDU o dai relativi protocolli addizionali. In particolare, la Corte ha affermato che «né la legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le “prove fattuali” o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione». La Corte ha pertanto ritenuto che la legge in questione non contenesse «disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società» (paragrafo 117); e ha quindi ribadito che le disposizioni sulla cui base era stata adottata la misura di prevenzione che aveva attinto il ricorrente «non indicasse[ro] con sufficiente chiarezza la portata o la modalità di esercizio della ampissima discrezionalità conferita ai tribunali interni, e non fosse[ro] pertanto formulat[e] con sufficiente precisione in modo da fornire una protezione contro le ingerenze arbitrarie e consentire al ricorrente di regolare la propria condotta e prevedere con un sufficiente grado di certezza l’applicazione di misure di prevenzione» (paragrafo 118). Proprio tali vizi normativi hanno determinato nel caso concreto, secondo la Corte, la lesione del diritto del ricorrente alla libertà di circolazione, riconosciuto dall’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU.
La sentenza de Tommaso – prosegue a questo punto la Corte – è assunta quale punto di partenza delle censure formulate da tutte le ordinanze di rimessione, che denunciano la contrarietà all’art. 117, comma 1, Cost. in riferimento all’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU delle disposizioni in materia di misure di prevenzione personali sottoposte all’esame della Corte stessa. Muovendo poi dall’assunto che i medesimi requisiti di precisione, determinatezza e prevedibilità della base normativa enucleati dalla Corte europea valgano in linea generale anche rispetto alle misure limitative del diritto di proprietà, due degli odierni rimettenti ritengono che le disposizioni in parola, nella misura in cui siano invocate a fondamento di misure di prevenzione patrimoniali, violino altresì l’ulteriore garanzia convenzionale di cui all’art. 1 del Prot. addiz. CEDU, che tutela per l’appunto il diritto di proprietà, e si pongano pertanto in contrasto con lo stesso art. 117, prima comma, Cost.
Altre censure svolte dalle ordinanze di rimessione coinvolgono i parametri interni corrispondenti alle due garanzie convenzionali menzionate: gli artt. 13 e 25, terzo comma, Cost., per quanto riguarda le misure di prevenzione personali; l’art. 42 Cost. per quanto riguarda quelle patrimoniali.
Prima di esaminare il merito di queste censure, occorre per il Collegio ancora rammentare che, già in epoca immediatamente precedente alla sentenza de Tommaso, la giurisprudenza di legittimità aveva compiuto un commendevole sforzo di conferire, in via ermeneutica, maggiore precisione alle due fattispecie di “pericolosità generica” qui all’esame. Tale sforzo interpretativo è stato ripreso e potenziato successivamente alla pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di porre rimedio al deficit di precisione in quella sede rilevato. Questa lettura convenzionalmente orientata, talora indicata come “tassativizzante”, muove dal presupposto metodologico secondo cui la fase prognostica relativa alla probabilità che il soggetto delinqua in futuro è necessariamente preceduta da una fase diagnostico-constatativa, nella quale vengono accertati (con giudizio retrospettivo) gli elementi costitutivi delle cosiddette “fattispecie di pericolosità generica”, attraverso un apprezzamento di «fatti», costituenti a loro volta «indicatori» della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 1 febbraio 2018-31 maggio 2018, n. 24707; sezione seconda, sentenza 4 giugno 2015-22 giugno 2015, n. 26235; sezione prima, sentenza 24 marzo 2015-17 luglio 2015, n. 31209; sezione prima, sentenza 11 febbraio 2014-5 giugno 2014, n. 23641).
Con riferimento, in particolare, alle “fattispecie di pericolosità generica” disciplinate dall’art. 1, numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del 1956 e – oggi – dall’art. 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011 (disposizione, quest’ultima, alla quale per comodità si farà prevalentemente riferimento nel prosieguo), i loro elementi costitutivi sono stati dalla Corte di cassazione precisati nei termini seguenti.
L’aggettivo «delittuoso», che compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, viene letto nel senso che l’attività del proposto debba caratterizzarsi in termini di “delitto” e non di un qualsiasi illecito (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 19 aprile 2018-3 ottobre 2018, n. 43826; sezione seconda, sentenza 23 marzo 2012-3 maggio 2012, n. 16348), sì da escludere, ad esempio, che «il mero status di evasore fiscale» sia sufficiente a fondare la misura, ben potendo l’evasione tributaria consistere anche in meri illeciti amministrativi (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 6 dicembre 2016-9 febbraio 2017, n. 6067; sezione sesta, sentenza 21 settembre 2017-21 novembre 2017, n. 53003).
L’avverbio «abitualmente», che pure compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, viene letto nel senso di richiedere una «realizzazione di attività delittuose […] non episodica, ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto» (Cass., n. 31209 del 2015), in modo che si possa «attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate» (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 15 giugno 2017-9 gennaio 2018, n. 349), talora richiedendosi che esse connotino «in modo significativo lo stile di vita del soggetto, che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi» (Corte di cassazione, sezione seconda, sentenza 19 gennaio 2018-15 marzo 2018, n. 11846).
Il termine «traffici» delittuosi, di cui alla lettera a) del medesimo articolo, è stato in un caso definito come «qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti […]», risultandovi così comprese anche attività «che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento o l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili» (Cass., n. 11846 del 2018). In altra pronuncia, il termine è stato invece inteso come «commercio illecito di beni tanto materiali (in via meramente esemplificativa: di stupefacenti, di armi, di materiale pedopornografico, di denaro contraffatto, di beni con marchi o segni distintivi contraffatti, di documenti contraffatti impiegabili a fini fiscali, di proventi di delitti in tutte le ipotesi di riciclaggio) quanto immateriali (di influenze illecite, di notizie riservate, di dati protetti dalla disciplina in tema di privacy, etc.), o addirittura concernente esseri viventi (umani, con riferimento ai delitti di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), o di cui all’art. 600 cod. pen. e segg., ed animali, con riferimento alla normativa di tutela di particolari specie), nonché a condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite (usura, corruzione), ma comunque evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto […] da cui sia derivato una qualche forma di provento» (Cass., n. 53003 del 2017).
Il riferimento ai «proventi» di attività delittuose, di cui alla lettera b) della disposizione censurata, viene poi interpretato – chiosa ancora la Corte – nel senso di richiedere la «realizzazione di attività delittuose che […] siano produttive di reddito illecito» e dalle quale sia scaturita un’effettiva derivazione di profitti illeciti (Cass., n. 31209 del 2015)
Nell’ambito di questa interpretazione “tassativizzante”, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lettera a) quanto nella lettera b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, degli «elementi di fatto» su cui l’applicazione della misura deve basarsi – fa infine confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie. Pur muovendo dal presupposto che «il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione» (Cass., n. 43826 del 2018), si è precisato: che non sono sufficienti meri indizi, perché la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dall’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 per l’individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di «indiziati» (Cass., n. 43826 del 2018 e n. 53003 del 2017); che l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell’art. 28, comma 1, lett. b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Cass., n. 43826 del 2018); che occorre un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della relativa commissione da parte di quel soggetto (Cass., n. 11846 del 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015).
Le odierne questioni di legittimità costituzionale devono allora per la Corte assumere a proprio oggetto le disposizioni censurate nella lettura fornitane dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, al fine di verificare se tale interpretazione – sviluppatasi in epoca in larga misura successiva alla sentenza della Corte EDU de Tommaso – ne garantisca ora un’applicazione prevedibile da parte dei consociati.
In materia di responsabilità penale, invero, la Corte stessa ha da tempo sottolineato come «l’esistenza di interpretazioni giurisprudenziali costanti non valga, di per sé, a colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale» (sentenza n. 327 del 2008), ribadendo recentemente, in termini assai netti, come nessuna interpretazione possa «surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone “la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione” (sentenza n. 364 del 1988)» (sentenza n. 115 del 2018); e ciò in quanto «nei paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia» è indispensabile l’esistenza di un «diritto scritto di produzione legislativa» rispetto al quale «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018).
Tuttavia, allorché si versi – come nelle questioni ora all’esame della Corte – al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione. Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (ex multis, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte EDU, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte EDU, sezione prima, sentenza 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
Nell’esaminare, dunque, se la giurisprudenza della Corte di cassazione della quale si è poc’anzi dato conto sia riuscita nell’intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta da tutti i parametri costituzionali e convenzionali invocati, alle fattispecie normative in parola, occorre per il Collegio subito eliminare ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassatività processuale, concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalità al metro dei parametri già sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalità ora in esame.
Non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali «elementi di fatto») suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle “fattispecie di pericolosità generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate: requisiti consistenti – con riferimento alle ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011 – nell’essere i soggetti proposti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» e – con riferimento alla lettera b) – nel vivere essi «abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose».
La Corte ritiene a questo punto che, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza de Tommaso, risulti oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali «casi» – oltre che in quali «modi» – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.
La locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette per la Corte di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 della Corte medesima – di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura.
Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.
Ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà naturalmente aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011.
Quanto, invece, alle misure patrimoniali del sequestro e della confisca, i requisiti poc’anzi enucleati dovranno – in conformità all’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di cui si è poc’anzi dato conto – essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare. Dal momento che, secondo quanto autorevolmente affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, la necessità della correlazione temporale in parola «discende dall’apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita» (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880), l’ablazione patrimoniale si giustificherà se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare.
L’altra fattispecie di cui all’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011, appare invece per la Corte affetta da radicale imprecisione, non emendata dalla giurisprudenza successiva alla sentenza de Tommaso. Alla giurisprudenza, infatti, non è stato possibile riempire di significato certo, e ragionevolmente prevedibile ex ante per l’interessato, il disposto normativo in esame.
Invero, come poc’anzi evidenziato, sul punto convivono tutt’oggi due contrapposti indirizzi interpretativi, che definiscono in modo differente il concetto di «traffici delittuosi». Da un lato, ad esempio, la sentenza della Corte di cassazione, n. 11846 del 2018, fa riferimento a «qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti […]», ricomprendendovi anche attività «che si caratterizzano per la spoliazione, l’approfittamento o l’alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili». Dall’altro, e sempre a guisa d’esempio, la pronuncia della Corte di cassazione, n. 53003 del 2017, si riferisce al «commercio illecito di beni tanto materiali […] quanto immateriali […] o addirittura concernente esseri viventi (umani […] ed animali […]), nonché a condotte lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite […], ma comunque evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto […] da cui sia derivato una qualche forma di provento», osservando ulteriormente che «nel senso comune della lingua italiana […] trafficare significa in primo luogo commerciare, poi anche darsi da fare, affaccendarsi, occuparsi in una serie di operazioni, di lavori, in modo affannoso, disordinato, talvolta inutile, e infine, in ambito marinaresco, maneggiare, ma non può fondatamente estendersi al significato di delinquere con finalità di arricchimento».
Simili genericissime (e tra loro tutt’altro che congruenti) definizioni di un termine geneticamente vago come quello di «traffici delittuosi», non ulteriormente specificato dal legislatore, non appaiono in grado di selezionare, nemmeno con riferimento alla concretezza del caso esaminato dal giudice, i delitti la cui commissione possa costituire il ragionevole presupposto per un giudizio di pericolosità del potenziale destinatario della misura: esigenza, questa, sul cui rispetto ha richiamato l’attenzione non solo la Corte EDU nella sentenza de Tommaso, ma anche – e assai prima – la stessa Corte nella sentenza n. 177 del 1980.
Né siffatte nozioni di «traffici delittuosi», dichiaratamente non circoscritte a delitti produttivi di profitto, potrebbero mai legittimare dal punto di vista costituzionale misure ablative di beni posseduti dal soggetto che risulti avere commesso in passato tali delitti, difettando in tal caso il fondamento stesso di quella presunzione di ragionevole origine criminosa dei beni, che si è visto costituire la ratio di tali misure.
Pertanto, la descrizione normativa in questione, anche se considerata alla luce della giurisprudenza che ha tentato sinora di precisarne l’ambito applicativo, non soddisfa le esigenze di precisione imposte tanto dall’art. 13 Cost., quanto, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per ciò che concerne le misure di prevenzione personali della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno; né quelle imposte dall’art. 42 Cost. e, in riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., dall’art. 1 del Prot. addiz. CEDU per ciò che concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca.
Da ciò consegue – conclude la Corte – l’illegittimità costituzionale, in ragione del loro contrasto con i parametri appena indicati, di tutte le disposizioni cui si riferiscono le questioni ritenute ammissibili, nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011 («coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi»), restando assorbita la questione relativa all’art. 25, terzo comma, Cost. Tali disposizioni si sottraggono invece alle censure di illegittimità costituzionale in questa sede formulate, nel senso già precisato, nella parte in cui consentono di applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca, ai soggetti indicati nell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluito nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011 («coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»).
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Quello stesso 27 febbraio esce la sentenza “gemella” della Corte costituzionale n.25 che si occupa, più specificamente, della inosservanza – sul crinale astratto del dettato normativo, penalmente rilevante – delle prescrizioni “generiche” di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi“, da parte di chi sia stato reso destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, in rapporto al principio di tassatività.
Il Collegio premette come la Corte rimettente conosca bene il recente arresto giurisprudenziale costituito dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 aprile-5 settembre 2017, n. 40076 (cosiddetta “sentenza Paternò”), con la quale le Sezioni unite, innovando la precedente giurisprudenza, hanno affermato il principio di diritto onde l’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non integra la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, da cui conseguirebbe che la condotta di cui l’imputato ricorrente è stato ritenuto responsabile nel caso di specie non costituisce reato.
La stessa Corte rimettente non dubita dell’esattezza di questa più recente giurisprudenza, di cui la Corte d’appello, che ha emesso la sentenza impugnata con ricorso per cassazione, non ha potuto tener conto perché successiva e che può qualificarsi come attuale diritto vivente in ragione della provenienza dalle Sezioni unite, le cui pronunce sono ora assistite dal particolare vincolo processuale di cui all’art. 618, comma 1-bis, del codice di procedura penale (secondo cui, se una sezione della Corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso); sicché, nella specie – alla luce di tale giurisprudenza − non sussisterebbe il reato ai sensi dell’art. 75, comma 2, concorrente con il reato comune; però – osserva la medesima Corte rimettente – non si tratta di una sopravvenuta abolitio criminis per successione della legge nel tempo, ma di un’interpretazione giurisprudenziale che risulta essere più favorevole per l’imputato ricorrente.
La non assimilabilità di tale orientamento giurisprudenziale a uno ius superveniens fa sì che – secondo la Corte rimettente – non è possibile tenerne conto perché il ricorso oggetto di scandaglio nel merito, nella specie, muove solo censure manifestamente infondate, e quindi inammissibili, alla sentenza impugnata e, pertanto, è destinato a una pronuncia di inammissibilità; invece, laddove l’art. 75, comma 2, fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, si avrebbe una situazione assimilabile all’abolitio criminis, che sarebbe rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.
La stessa situazione si riproduce in sede di esecuzione della condanna passata in giudicato perché l’art. 673 cod. proc. pen. prevede la revoca della sentenza per abolizione del reato; rimedio questo non esperibile dal condannato deducendo una giurisprudenza sopravvenuta secondo cui il fatto per cui è stata pronunciata la condanna non costituisce reato; di qui la ritenuta rilevanza delle questioni, la Corte rimettente chiedendo una pronuncia di illegittimità costituzionale per poter rilevare d’ufficio che il fatto contestato come delitto ai sensi dell’art. 75, comma 2, non costituisce reato ed evitare così che si formi un giudicato non più emendabile in sede esecutiva e quindi ingiustamente pregiudizievole per l’imputato ricorrente.
Va condivisa l’affermazione della Corte rimettente secondo cui l’abolitio criminis – per ius superveniens o a seguito di pronuncia di illegittimità costituzionale – è cosa diversa dallo sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente di legittimità, che approdi all’esito (simile) di ritenere che una determinata condotta non costituisca reato. In un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato; l’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante, ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo.
La Corte (sentenza n. 230 del 2012) − in una situazione similare che vedeva la sopravvenienza di un orientamento delle Sezioni unite penali secondo cui non costituiva reato la condotta oggetto di una sentenza di condanna passata in giudicato, di cui era chiesta la revoca ex art. 673 cod. proc. pen. per abolizione del reato − ha sottolineato che, pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi a esso. E ha ribadito che «[a]l pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (eius est abrogare cuius est condere)».
In tal senso, pur con qualche distinzione, si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 ottobre 2015-23 giugno 2016, n. 26259). Inoltre, si è affermato che l’ordinamento nazionale «conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato» (sentenza n. 210 del 2013). E, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato da una pronuncia della Grande camera della Corte EDU, ha aggiunto che «il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che […] limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice»; a maggior ragione è allora rilevante un dubbio di legittimità costituzionale della norma incriminatrice in tutti i casi in cui il giudicato non si è ancora formato, ma sta per formarsi proprio in ragione della pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione che la Corte rimettente ritiene debba essere emessa, a meno che non sia accolta la questione di costituzionalità e sia dichiarata l’illegittimità della norma incriminatrice.
Risponde al canone di plausibilità l’ulteriore affermazione della Corte rimettente secondo cui nella strettoia processuale determinata da un ricorso manifestamente infondato, avviato pertanto a una pronuncia di inammissibilità, la Corte possa rilevare d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. l’abolitio criminis, ma non anche la sopravvenienza di una giurisprudenza che esclude la rilevanza penale della condotta per cui è stata pronunciata la sentenza di condanna, affermazione che trova le proprie radici in un risalente, ma sempre seguito, arresto delle Sezioni unite penali (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 22 novembre-21 dicembre 2000, n. 32) che, inaugurando un filone giurisprudenziale più volte ribadito, hanno affermato che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen.
Di questo principio si è fatta ripetuta applicazione soprattutto in caso di prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso. Più recentemente tale non rilevabilità d’ufficio ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. è stata affermata anche con riferimento alla prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 dicembre 2015-25 marzo 2016, n. 12602).
Dibattuta è la rilevabilità, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., della sopravvenuta introduzione di una causa di non punibilità, quale la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis cod. pen.), prevalentemente esclusa in caso di ricorso inammissibile (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 1° febbraio-28 febbraio 2018, n. 9204). Anche la rilevabilità della sopravvenuta abolitio criminis in caso di ricorso inammissibile, più volte affermata dalla giurisprudenza (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 maggio-18 ottobre 2016, n. 44088), non è del tutto pacifica (in senso contrario, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 14 aprile-28 settembre 2016, n. 40290). In questo contesto giurisprudenziale la valutazione che fa la Corte rimettente è certamente plausibile, anche se corre sul crinale scivoloso della distinzione tra manifesta infondatezza e mera infondatezza dei motivi di ricorso e della conseguente costituzione, o no, del rapporto processuale di impugnazione.
Solo se il ricorso fosse stato ammissibile, ancorché infondato, le questioni di costituzionalità avrebbero potuto essere risolte in via interpretativa e sarebbero risultate prive di rilevanza perché il giudice di legittimità ben avrebbe potuto rilevare che, secondo il mutato orientamento giurisprudenziale, la condotta contestata non costituiva reato (in tal senso, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 21 settembre 2017-21 giugno 2018, n. 28825). Invece, contenendo il ricorso solo censure manifestamente infondate, il giudice di legittimità non può rilevare d’ufficio l’insussistenza del reato secondo il nuovo orientamento giurisprudenziale e da ciò consegue la rilevanza – e quindi l’ammissibilità − delle questioni di costituzionalità dal momento che solo un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione incriminatrice consentirebbe al giudice di legittimità di annullare la sentenza impugnata limitatamente al concorrente reato di cui al censurato art. 75, comma 2, e quindi all’aumento di pena ai sensi dell’art. 81, primo comma, cod. pen.
Scendendo nel “merito” della questione di costituzionalità, la Corte osserva come il parametro nazionale evocato dalla Corte rimettente sia il principio di legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso sia punito come reato, da ciò discendendo il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. La Corte costituzionale (sentenza n. 282 del 2010) ha valutato la conformità a tale principio della fattispecie penale prevista dall’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, all’epoca vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito in legge 31 luglio 2005, n. 155, che disponeva nel comma 1 che il «contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno» e nel comma 2, allora censurato, che se «l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni».
Tra le prescrizioni della sorveglianza speciale la cui violazione poteva integrare il reato era già previsto – dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956 − l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. Tali disposizioni (l’art. 5 e l’art. 9) si ritrovano riprodotte negli stessi termini, in parte qua, nell’art. 8 e nel censurato art. 75 cod. antimafia.
La Corte ha ricordato che per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce; e, in particolare, ha ribadito che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (ex plurimis, sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995 e n. 122 del 1993); ha, quindi, concluso ritenendo che la prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi non violasse il principio di legalità in materia penale: da una parte, le «leggi» sono tutte le norme a contenuto precettivo, non solo quelle la cui violazione è sanzionata penalmente; d’altra parte, l’obbligo di «vivere onestamente» va «collocat[o] nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5» e quindi ha il valore di un monito rafforzativo di queste ultime senza un autonomo contenuto prescrittivo.
Dei due parametri convenzionali, evocati nell’ordinanza di rimessione, che però esprimono lo stesso canone di prevedibilità della condotta prevista dalla norma nazionale perché possa giustificarsi una limitazione della libertà personale, è stato preso in considerazione dalla sentenza de Tommaso della Corte EDU, in particolare, l’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione, nella parte in cui pone il principio di legalità con riferimento specifico alla libertà di circolazione che può subire solo le restrizioni «previste dalla legge». La Corte EDU ha ritenuto che «la loi n° 1423/1956 était libellée en des termes vagues et excessivement généraux. Ni les personnes auxquelles les mesures de prévention pouvaient être appliquées (article 1 de la loi de 1956) ni le contenu de certaines de ces mesures (articles 3 et 5 de la loi de 1956) n’étaient définis avec une précision et une clarté suffisantes. Il s’ensuit que cette loi ne remplissait pas les conditions de prévisibilité telles qu’elles se dégagent de la jurisprudence de la Cour».
Ossia il sistema nazionale delle misure di prevenzione – quanto ai presupposti soggettivi e al loro contenuto − è stato censurato per essere formulato «in termini vaghi ed eccessivamente ampi» tali da non rispettare il criterio della «prevedibilità», come enunciato dalla giurisprudenza di quella Corte. La quale in particolare − pur dando atto della (non collimante) interpretazione accolta dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 282 del 2010 con riferimento all’omologo principio di legalità dell’art. 25, secondo comma, Cost. − ha ritenuto, all’opposto, che gli obblighi di «vivere onestamente e rispettare le leggi» (oltre che di «non dare ragione alcuna ai sospetti», prescrizione questa non più rilevante perché non riprodotta nel citato art. 8 cod. antimafia) non fossero delimitati in modo sufficiente e che, pertanto, fosse violato il principio di prevedibilità della condotta da cui consegue la limitazione della libertà personale, segnatamente quello posto dall’art. 2 del Protocollo n. 4.
La pronuncia della Corte EDU – chiosa ancora il Collegio – è stata decisiva nell’orientare la puntualizzazione giurisprudenziale espressa dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, n. 40076 del 2017 (cosiddetta “sentenza Paternò”); le Sezioni unite penali si sono pronunciate con riferimento alla fattispecie penale di violazione delle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, del tutto analoga a quella oggetto dell’ordinanza di rimessione: il sorvegliato speciale, nel commettere un reato comune, aveva (con la stessa condotta) violato anche l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. La Corte di cassazione si confronta con la sentenza de Tommaso, avendo ben presente che – come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 239 del 2009) − compete al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla CEDU; considera, in particolare, che «la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011)».
La Corte procede quindi a una «rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU» e perviene alla conclusione che «il richiamo “agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno” può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi”».
La conclusione è che «le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011». Aggiungono le Sezioni unite: «ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale». Quindi, la giurisprudenza di legittimità ha già compiuto il processo di adeguamento e maggiore conformità ai principi della CEDU proprio con riferimento alla fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione: non sussiste il reato previsto dal censurato art. 75, comma 2, allorché la violazione degli obblighi e delle prescrizioni della misura della sorveglianza speciale consista nell’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi.
La convergenza delle Sezioni unite verso la pronuncia della Corte EDU – prosegue il Collegio – segna l’arresto ultimo del diritto vivente, ben posto in risalto dall’ordinanza di rimessione: l’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi, quale prescrizione della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, non integra la fattispecie di reato di cui al censurato art. 75, comma 2. Però – per quanto sopra ritenuto in ordine alla rilevanza e all’ammissibilità delle questioni – non si è di fronte a un’abolitio criminis per successione nel tempo della legge penale; ciò comporta che, proprio per l’affermata non riconducibilità dell’orientamento giurisprudenziale sopravvenuto a uno ius superveniens, sussiste non di meno una limitata area in cui occorre ancora domandarsi se la fattispecie penale suddetta, schermata solo dall’interpretazione giurisprudenziale, sia conforme, o no, al principio di legalità in materia penale, vuoi costituzionale che convenzionale.
Area questa costituita – come già sopra rilevato − sia dall’esecuzione del giudicato penale di condanna, sia dalla rilevabilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. in caso di ricorso per cassazione recante solo censure manifestamente infondate e quindi inammissibili. In questi stretti limiti si pone, in sostanza, la questione di costituzionalità come possibile completamento dell’operazione di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, già fatta dalle Sezioni unite nei limiti in cui l’interpretazione giurisprudenziale può ritagliare la fattispecie penale escludendo dal reato condotte che prima si riteneva vi fossero comprese.
L’interpretazione del giudice comune, ordinario o speciale, orientata alla conformità alla CEDU − le cui prescrizioni e principi appartengono indubbiamente ai vincoli derivanti da obblighi internazionali con impronta costituzionale (quelli con «vocazione costituzionale»: sentenza n. 194 del 2018) − non implica anche necessariamente l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto dell’interpretazione per violazione di un principio o di una previsione della CEDU, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. È ricorrente che gli stessi principi o analoghe previsioni si rinvengano nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia.
La Corte costituzionale ha già affermato che, quando viene in rilievo un diritto fondamentale, «il rispetto degli obblighi internazionali […] può e deve […] costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317 del 2009). È quanto si è verificato da ultimo (sentenza n. 120 del 2018) con riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia dalla Costituzione (art. 39) che dalla CEDU (art. 11). Non c’è però, nel progressivo adeguamento alla CEDU, alcun automatismo, come risulta già dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, stante, nell’ordinamento nazionale, il «predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» (sentenza n. 49 del 2015). Da una parte, la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce della Corte costituzionale sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011).
Inoltre, va verificato che il bilanciamento, in una prospettiva generale, con altri principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di sistema diversa – o comunque non necessariamente convergente − rispetto a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso di specie, della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU. Va infatti ribadito che, «[a] differenza della Corte EDU, questa Corte […] opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l’altro il «margine di apprezzamento» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).
Nella fattispecie in esame ricorrono entrambi i presupposti per completare, con riferimento alla norma oggetto delle questioni di costituzionalità, l’adeguamento alla CEDU in concordanza con quello già operato, in via interpretativa, dalla citata sentenza delle Sezioni unite. Sotto il primo profilo − anche se inizialmente tra i giudici di merito vi sono stati orientamenti non concordanti, in ragione soprattutto della circostanza che la sentenza della Corte EDU de Tommaso si presentava come un nuovo approdo giurisprudenziale (come riconosciuto in quella stessa sentenza: «La Cour note qu’à ce jour elle n’a pas eu à examiner en détail la prévisibilité de la loi n. 1423/1956»), recava plurime opinioni parzialmente dissenzienti e riguardava un caso in cui il rimedio impugnatorio interno aveva portato all’annullamento ex tunc della misura di prevenzione − la giurisprudenza di legittimità si è indirizzata nel senso di valutare tale sentenza come idonea a fondare l’interpretazione convenzionalmente orientata di cui si è detto (“sentenza Paternò” delle Sezioni unite).
Da ultimo, la Corte costituzionale (sentenza n. 24 del 2019) ha tenuto conto proprio della sentenza della Corte EDU e dell’esigenza di conformità al principio di prevedibilità, quale espresso da tale pronuncia, per dichiarare l’illegittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico) e degli artt. 4, comma 1, lettera c), e 16 cod. antimafia.
Sotto l’altro profilo, si ha che la valutazione di sistema all’interno dei parametri della Costituzione e il possibile bilanciamento con altri valori costituzionalmente tutelati non è affatto distonica, nella fattispecie, rispetto al pieno dispiegarsi dei parametri interposti. L’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati, che è al fondo della ratio delle misure di prevenzione e che si raccorda alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, come valore costituzionale, è comunque soddisfatta dalle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno.
Vi è poi da considerare all’opposto, prosegue la Corte, che la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell’obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le leggi» ha, da una parte, l’effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall’altra parte, comporta, ove la violazione dell’obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena, laddove l’art. 71 cod. antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura.
Può, pertanto, pervenirsi alla conclusione che la norma censurata viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell’art. 7 CEDU e in particolare nell’art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost.
Va dunque dichiarata per la Corte l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; va dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.
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Il 17 aprile esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16896 che affronta l’ulteriore questione di diritto se l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 – relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011 – si applichi anche quando il provvedimento che ha disposto la misura (cui è connesso il ridetto obbligo di comunicazione) sia divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione dell’obbligo ridetto.
La soluzione della questione prospettata – precisa la Corte – richiede la previa illustrazione delle disposizioni succedutesi nel tempo. Occorre, in primo luogo, precisare che: – nel caso in esame, la misura di prevenzione è stata applicata in forza dell’art. 1, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e che la legge 22 maggio 1975, n. 152, con l’art. 19, ha esteso l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956; – l’art. 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, nella relativa originaria formulazione, stabiliva che le persone sottoposte ad una misura di prevenzione disposta ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, e i condannati con sentenza definitiva per il delitto previsto dall’articolo 416-bis cod. pen., sono tenuti a comunicare per 10 anni, ed entro 30 giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, tutte le variazioni nella entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad un certo importo (stabilendo, altresì, un obbligo di comunicazione entro il 31 gennaio per le variazioni intervenute nell’anno precedente concernenti elementi di valore non inferiore ad un determinato limite e con esclusione dei beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani); – il termine decennale decorre dalla data del decreto, ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna, mentre gli obblighi previsti nel primo comma cessano quando la misura di prevenzione è revocata a seguito di ricorso in appello o in cassazione; – l’omessa comunicazione è sanzionata dall’art. 31 della stessa legge.
L’ambito di operatività della disposizione – prosegue il Collegio – era originariamente limitato ai soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, come si deduce dal fatto che il legislatore individua, quale soggetto destinatario delle comunicazioni concernenti le variazioni patrimoniali, il «nucleo di polizia tributaria che ha compiuto gli accertamenti di cui all’articolo 2-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575». Tale ultimo articolo, infatti, è stato introdotto dall’art. 14 della legge n. 646 del 1982 e faceva riferimento, nella relativa prima stesura, alle «persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad alcuna delle associazioni previste dall’articolo 1» e, successivamente, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990, ai «soggetti indicati all’articolo 1 nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno». L’art. 1 riguardava a propria volta, originariamente, «gli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose» e tale generico richiamo veniva successivamente puntualizzato mediante un più dettagliato riferimento agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso» (modifica apportata dalla legge n. 646 del 1982).
Le ulteriori, successive modifiche a tale disposizione – prosegue la Corte – non rilevano, per quel che ora interessa, in quanto la legge 19 marzo 1990, n. 55, con l’art. 11, ha sostituito il comma 1 dell’art. 30, legge n. 646 del 1982, indicando come soggette all’obbligo di comunicazione «le persone condannate con sentenza definitiva per il reato di cui all’articolo 416-bis del codice penale o già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, in quanto indiziate di appartenere alle associazioni previste dall’articolo 1 di tale legge» A quel tempo, pertanto, detto obbligo veniva chiaramente limitato, quanto ai soggetti sottoposti a misura di prevenzione, a quelli raggiunti da un provvedimento definitivo, specificando, altresì, che la misura considerata è quella applicata agli indiziati di appartenenza alle associazioni di tipo mafioso. Si tratta, dunque, di una puntualizzazione che ha individuato espressamente quei soggetti, destinatari degli obblighi di comunicazione, che già l’originaria stesura dell’articolo 30 consentiva di determinare attraverso i richiami ad altre disposizioni di cui si è già detto.
Un’ulteriore modifica del comma 1 dell’art. 30 è stata apportata dall’art. 7, comma 1, lett. b) della legge 13 agosto 2010 n. 136, prevedendo l’obbligo di comunicazione non soltanto per i soggetti già sottoposti, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione ai sensi della legge n. 575 del 1965, ma anche alle persone condannate, con sentenza definitiva, per taluno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen., ovvero per il delitto di cui all’articolo 12 –quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356.
Estendendone l’ambito di applicazione soggettivo, l’art. 30 veniva dunque adeguato ai contenuti del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e della legge 15 luglio 2009, n. 94, che avevano ampliato il novero dei possibili destinatari delle misure di prevenzione apportando modifiche all’art. 1 della legge n. 575 del 1965. La stessa legge n. 136 del 2010 conferiva anche una delega al Governo per l’emanazione di un codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, cui veniva data attuazione mediante il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha abrogato, con l’art. 120, le leggi n. 1423 del 1956 e 575 del 1965, lasciando intatta la legge n. 646 del 1982 (fatta eccezione per l’art. 16). L’art. 80 del citato decreto legislativo, infatti, fa salvo quanto già previsto dall’art. 30 della legge n. 646 del 1982, stabilendo che «le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria (ora nucleo di polizia economico finanziaria ai sensi dell’art. 35, comma 8, lett. a), d.lgs. 29 maggio 2017, n. 95, n.d.r.) del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Il termine di dieci anni decorre dalla data del decreto ovvero dalla data della sentenza definitiva di condanna. Gli obblighi previsti nel comma 1 cessano quando la misura di prevenzione è a qualunque titolo revocata».
Le sanzioni in caso di violazione dell’obbligo sono stabilite dall’art. 76, comma 7 del medesimo decreto. L’introduzione del menzionato art. 80 ha determinato uno scorporo dell’originaria fattispecie, la quale, per ciò che concerne i soggetti sottoposti a misura di prevenzione, è stata trasfusa nel decreto legislativo (artt. 80 e 76, comma 7), restando invece intatta negli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982 relativamente ai soggetti condannati con sentenza definitiva.
Dalla disamina delle richiamate disposizioni emerge dunque, precisa a questo punto la Corte, che fino all’intervento modificativo apportato dalla legge n. 136 del 2010 (entrata in vigore il 7 settembre 2010), l’ambito di operatività dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 era limitato ai soli soggetti condannati per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed ai destinatari di misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e solo successivamente è stata estesa agli altri soggetti di cui si è detto in precedenza.
Occorre osservare, a tale proposito, che nell’ordinanza di rimessione si afferma, non condividendosi quanto sostenuto dal Tribunale di Bologna nel provvedimento impugnato, che l’intervento modificativo ad opera della legge n. 136 del 2010 – pur avendo accresciuto i «reati/fonte» a seguito dell’abolizione della precisazione, circa la correlazione tra imposizione dell’obbligo e indizio di appartenenza alla organizzazione mafiosa, apportata dal legislatore del 1990 – avrebbe lasciato comunque intatto il testo dell’articolo 30, vigente tra il 2010 e il 2011, il quale continuava a fare riferimento ai destinatari di misura di prevenzione applicata ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, con la conseguenza che ciò non autorizzerebbe una interpretazione ampliativa (pur agganciata alla riemersa vigenza, dopo il decreto legge 92 del 23 maggio 2008, del testo originario dell’art. 19 legge n. 152 del 1975 in tema di applicabilità ai pericolosi semplici di talune disposizioni della legge n. 575 del 1965), stante il generale principio di tassatività e la tecnica descrittiva del presupposto di incriminazione. Si assume, in definitiva, che, per quanto riguarda le misure di prevenzione, l’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali sarebbe avvenuta nel 2011 con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159
Come si è detto in precedenza, l’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 30 rispondeva ad un esigenza di adeguamento della norma all’incremento, operato dal c.d. pacchetto sicurezza, dei possibili destinatari delle misure di prevenzione, poiché, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 10, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 e dall’art. 2, comma 4, della legge 15 luglio 2009, n. 94, l’art. 1 della legge 575/1965 stabiliva che le misure di prevenzione disposte dalla medesima legge 575/1965 potessero essere applicate – oltre che agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra, alla ‘ndrangheta o ad altre associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso – anche ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3 -bis, cod. proc. pen. e dall’art. 12 -quinquies, comma 1, del decreto-legge 306/1992 (trasferimento fraudolento di valori).
Con l’entrata in vigore della legge n. 136 del 2010, dunque, per effetto delle modifiche apportate, era stato realizzato uno stabile coordinamento tra le diverse disposizioni.
Considerata dunque, chiosa ancora la Corte, la successione delle varie modifiche che hanno interessato le richiamate disposizioni, vanno considerati i contenuti dei diversi orientamenti, segnalati dall’ordinanza di rimessione, circa l’incidenza dell’estensione dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali di cui si è detto. Si tratta di considerazioni che la giurisprudenza ha espresso con riferimento all’incremento del novero dei reati per i quali è richiesta la condanna definitiva, ma che, come rilevato nell’ordinanza di rimessione, assumono rilievo anche riguardo al corrispondente ampliamento delle ipotesi in cui è possibile l’applicazione delle misure di prevenzione.
Un primo orientamento (espresso da Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv. 256137) ha escluso la sussistenza del reato di cui all’art. 31 della legge n. 646 del 1982 nel caso in cui la condanna per il delitto presupposto (nella fattispecie, quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260 d.lgs. 152/06, ora 452 -quaterdecies cod. pen., introdotto ex novo dall’art. 7, comma primo, lett. b) della legge n. 136 del 2010) sia intervenuta prima dell’entrata in vigore della legge n. 136, ritenendo altresì non rilevante il fatto che i beni e le disponibilità oggetto dell’omessa comunicazione siano entrati nel patrimonio del condannato per il delitto presupposto in data successiva alla predetta normativa del 2010.
Nella richiamata decisione si assume che, in presenza delle condizioni di cui all’art. 30 della legge n. 646 del 1982, il termine decennale, decorrente, nel caso esaminato in quell’occasione, dalla sentenza definitiva di condanna, è elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria, in quanto integra e delimita l’ambito temporale «di sospetto e di attenzione» che il legislatore ha individuato nella relativa discrezionalità tecnica al fine di consentire un quadro dinamico ed aggiornato di controllo sulle variazioni patrimoniali, oltre un certo rilievo, soltanto di determinati soggetti (coloro i quali abbiano commesso uno dei reati tassativamente indicati nel catalogo delle violazioni del suindicato art. 30), con la conseguenza che esso deve essere accertato, nella relativa sussistenza, al tempo dell’entrata in vigore della norma penale che stabilisce la sanzione (7 settembre 2010, data dalla quale la violazione dell’art. 260 d.lgs. 152/06 era stata inserita nel novero dei reati presupposto).
Viene conseguentemente ritenuto contrastante con il disposto dell’art. 2 cod. pen. e dell’art. 25, comma secondo, Cost. il diverso orientamento, prospettato nel provvedimento poi annullato, ove veniva valorizzato il fatto che gli obblighi di comunicazione avrebbero dovuto comunque essere adempiuti dalla data di entrata in vigore della norma incriminatrice, tanto che, nella fattispecie, si erano considerati soltanto i movimenti patrimoniali successivi a tale data (anche Sez. 6, n. 6744 del 7/11/2013, dep. 2014, D’Angelo, Rv 258991 qualifica l’art. 30 della legge 646/82 quale norma integratrice del precetto penale, ancorché la sanzione per la relativa violazione sia contenuta nel successivo art. 31).
Un secondo indirizzo interpretativo pone, invece, in evidenza la natura di reato omissivo istantaneo del delitto in esame, la consumazione del quale deve essere collocata nel momento e nel luogo in cui le comunicazioni delle variazioni patrimoniali andavano effettuate, poiché ciò che rileva è la condotta omissiva di colui che, nel momento in cui non provvede alla comunicazione, si trovi nelle condizioni soggettive ed oggettive richieste dalla legge (Sez. 6, n. 37114 del 06/06/2012, Salvaggio, Rv. 253538. Nello stesso senso, Sez. 2, n. 28104 del 09/04/2015, Dangeli e altro, Rv. 264137, ove viene dato conto del diverso orientamento espresso dalla sentenza n. 41113/2013). La natura di reato omissivo istantaneo della violazione in esame era stata d’altronde già affermata in precedenti occasioni (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, Rv. 264164. V. anche Sez. 5, n. 3079 del 17/01/2005, Cesaro, Rv. 231417), peraltro, in un caso (Sez. 1, n. 2440 del 20/12/2007, dep. 2008, Nocera, Rv. 239209), richiamando analoghe conclusioni cui si era pervenuti in tema di omesso versamento di ritenute previdenziali (Sez. 1, n. 6850 del 04/12/1997, dep. 1998, Langeli, Rv. 209538; Sez. 3, n. 3985 del 24/11/2000, dep. 2001, Pignatti, Rv. 218321).
Va a questo punto rilevato per le SSUU come la natura del reato in esame sia stata presa in considerazione più volte dalla giurisprudenza di legittimità. Si è, in primo luogo, affermato che la legge 22 maggio 1975, n. 152, estendendo, con l’art. 19, l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575 anche alle persone indicate nell’articolo 1, numeri 1) e 2) della legge n. 1423 del 1956, ha operato una completa equiparazione tra soggetti pericolosi in quanto indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e soggetti pericolosi in quanto ritenuti abitualmente dediti a traffici delittuosi da cui traggono, almeno in parte, i mezzi di vita, attraverso l’estensione a questi ultimi della disciplina introdotta per i primi (lo ricorda, in particolare, Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, Delli Carri, Rv. 272311, richiamando i principi precedentemente espressi da Sez. 5, n. 38 del 12/01/1999, Galasso, Rv. 212341; Sez. 1, n. 950 del 23/02/1994, Russo, Rv. 196838; Sez. 1, n. 5166 del 29/11/1993, dep. 1994, Catalfamo, Rv. 196098). Si è anche chiarito (Sez. 6, n. 41113 del 18/09/2013, Giustozzi, Rv. 256137) che la condotta sanzionata, concernente la violazione dell’obbligo di comunicazione di variazioni patrimoniali da parte di persone condannate per uno dei delitti indicati nell’art. 30, non costituisce una pena accessoria del reato presupposto, stante la relativa autonomia rispetto a quest’ultimo, richiamandone la natura «sanzionatoria», ovvero «pregiudizievole», o ancora configurabile alla stregua di una «conseguenza giuridica negativa», dell’imposizione di comunicare ogni variazione patrimoniale che consegue di diritto alla condanna per il delitto di associazione mafiosa, e, dall’altro, che detto obbligo risponde ad esigenze di tutela e ad interessi del tutto analoghi a quelli posti a base dell’incriminazione cui è riferita la condanna a tale fine rilevante.
Il bene giuridico tutelato è stato individuato nell’ordine pubblico (Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, Rv. 264164; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, D’Aiello, Rv. 234248; Sez. 1, n. 45798 del 22/11/2001, Messina, Rv. 220377).
Quanto all’elemento soggettivo del reato, si è sostenuto (Sez. 6, n. 36659 del 17/06/2015, Anzalone, Rv. 264666) che il delitto in esame è integrato dal semplice dolo generico, sicché non è richiesto che l’autore agisca allo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni cui l’obbligo imposto si riferisce (conf. Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074; Sez. 5, n. 38098 del 29/5/2015, Clemente, Rv. 264998; Sez. 6, n. 33590 del 15/6/2012, Picone, Rv. 253199; Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro’, Rv. 247570; Sez. 2, n. 27196 del 18/05/2010, Curto, Rv. 247842). Risulta, inoltre, ormai consolidato l’orientamento secondo il quale il dolo non può escludersi in caso di variazioni patrimoniali documentate da atti pubblici (Sez. 5, n. 15220 del 18/02/2003, Gallico, Rv. 224379; Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, D’Aiello, Rv. 234248; Sez. 1, n. 12433 del 17/02/2009, Cannamela, Rv. 243486; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010, Iaconis, Rv. 246398; Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012, dep. 2013, Seidita, Rv. 254387; Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655) rispetto a quello che lo escludeva (Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, Le Pera, Rv. 221494; Sez. 6, n. 11398 del 05/02/2003, Libri e altro, Rv. 224007), specificando, peraltro, che l’incertezza derivante da tali contrastanti arresti giurisprudenziali non consente di invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale, poiché al contrario, tale situazione deve indurre ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga tale incertezza, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016, dep. 2017, Incardona, Rv. 269074. V. anche Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012, Picone, Rv. 253200; Sez. 6, n. 6744 del 07/11/2013, D’Angelo, Rv. 258991).
In particolare, la sentenza Picone dando conto dei diversi criteri – oggettivo, soggettivo e misto- elaborati dalla giurisprudenza di legittimità alla luce della sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale ha rilevato, sulla scorta del primo, ravvisabile nelle situazioni connotate da oscurità o contraddittorietà del testo legislativo, generalizzato caos interpretativo o assoluta estraneità del contenuto precettivo ai valori correnti nella società, che la norma in esame offre un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e non si discosta dai valori correnti nella società in misura tale da non trovare nessuna rispondenza nella c.d. sfera parallela laica, alla quale è noto che la legge prevede una serie di controlli e di cautele nei confronti dei soggetti condannati per reati di mafia.
L’operatività del criterio soggettivo, legato alle condizioni personali dell’agente che abbiano influito sulla conoscenza del precetto penale, come l’elevato deficit culturale, alla luce, ad esempio, della condizione di straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia, o l’incolpevole carenza di socializzazione è stata pure esclusa, così come l’applicabilità del parametro misto, comprensivo delle ipotesi in cui, in varia misura e con diverso spessore, operano entrambi i criteri, oggettivo e soggettivo, escludendo che l’esimente della buona fede possa essere integrata dal semplice comportamento passivo dell’agente, essendo, invece, necessario che egli si adoperi al fine di adeguarsi all’ordinamento giuridico, ad esempio, informandosi presso gli uffici competenti o consultando esperti in materia.
Il reato, inoltre, è stato qualificato come omissivo proprio «di pura creazione legislativa» (Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655) e, ricordando la differenza intercorrente con i reati omissivi propri «naturali», si è preso in considerazione l’elemento soggettivo, evidenziando come l’accertamento della coscienza e volontà della condotta debba effettuarsi considerando lo specifico contesto in cui il comportamento omissivo, meramente «formale», si è concretamente realizzato e le peculiarità scaturenti dagli specifici connotati che caratterizzano l’inosservanza dell’obbligo di fare imposto e rimasto inadempiuto, giungendo, sulla base di tali considerazioni, alla conclusione, in fattispecie relativa a misura cautelare reale, che il reato può ritenersi sussistente, quanto al relativo fumus, in presenza di una semplice condotta omissiva riconducibile ad un fatto volontario, residuando in capo all’autore del fatto omissivo un onere di allegazione di circostanze che valgano ad escludere, in termini di evidenza, la coscienza e volontà del fatto-reato.
Sulla base del tenore letterale dell’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011 e dell’art. 30 della legge n. 646 del 1982 (dopo le modifiche apportate dalla legge n. 55 del 1990) si è pure ritenuto (Sez. 5, n. 8768 del 23/01/2018, Delli Carri, Rv. 272311) che l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali decorre dal momento in cui la misura è diventata definitiva e non da quello in cui la stessa è posta in esecuzione, che può essere anche diverso e successivo. Tale obbligo, peraltro, sorge con riferimento a qualsiasi modifica dell’assetto patrimoniale non inferiore alla soglia individuata dalla legge e non limitata a quelle che comportano un effettivo incremento, assumendo rilievo anche quelle in apparenza ininfluenti sull’entità del patrimonio, in quanto costituite da elementi contrapposti che entrano in compensazione, ed anche di quelle passive, che comunque incidono sulla consistenza dei beni posseduti e, quindi, sulla composizione del patrimonio e valgono a segnalare perdite fittizie o illeciti trasferimenti di componenti attivi, sicché, oltre ai finanziamenti sotto qualsiasi forma, privati o pubblici ed i conti correnti, anche il mutuo, l’affidamento bancario ed il mutuo ipotecario restano soggetti all’obbligo di comunicazione (così, Sez. 6, n. 31817 del 22/04/2009, Elefante, Rv. 244404. Conf. Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011, Raso, Rv. 251724).
Va a questo punto considerata per la Corte anche la lettura delle disposizioni in esame offerta dalla Corte costituzionale, più volte chiamata a verificare la legittimità costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge n. 646 del 1982, dichiarando, in un primo tempo, manifestamente infondate le questioni proposte (ordinanze n. 442 del 2001 e n. 362 e 143 del 2002), considerando che le disposizioni scrutinate «costituivano esercizio, non manifestamente arbitrario o irragionevole, dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in tema di configurazione degli illeciti penali e di determinazione delle relative sanzioni» e dando conto del fatto che la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto conforme a Costituzione una interpretazione delle stesse che escludeva la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato quando la pubblicità sia comunque assicurata e, dunque, sia di per sé impossibile l’occultamento degli atti soggetti a comunicazione.
Con una successiva pronuncia (sent. n. 81 del 2014) veniva dato atto di un diverso indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo il quale il delitto deve ritenersi configurato anche nel caso in cui l’omessa comunicazione riguardi operazioni effettuate mediante atti pubblici, soggetti ad un regime di pubblicità, trattandosi di atti comunque non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente né ad opera del pubblico ufficiale rogante, né di altri.
Nella citata sentenza veniva altresì ricordata la natura di reato di pericolo presunto che la medesima giurisprudenza aveva attribuito al delitto in esame, attraverso il quale si è inteso garantire una effettiva e sollecita conoscenza, da parte del nucleo di polizia tributaria, delle variazioni patrimoniali relative a soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che le possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa), nonché l’obbligatorietà, per l’amministrazione, di una verifica, altrimenti solo eventuale (v., in tema, Sez. 1, n. 23213 del 19/05/2010, Calabro’, Rv. 247570; Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, Le Pera, Rv. 221494), specificando che l’elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, caratterizzato dalla mera cognizione della qualità di condannato o di sottoposto a misura di prevenzione del soggetto obbligato e del superamento della soglia di rilevanza dell’operazione, presupposti di fatto da cui sorge l’obbligo di comunicazione, senza che sia necessario il perseguimento del fine di occultamento delle informazioni, con l’ulteriore precisazione che l’ignoranza, da parte dell’interessato, della stessa esistenza dell’obbligo di comunicazione va ritenuta non scusabile, trattandosi di errore di diritto vertente su norma integratrice del precetto penale (in tal senso, v. Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015 – dep. 2016, Artale, Rv. 266381, con richiami ai precedenti).
Da ultimo (sent. n. 99 del 2017), considerando la legittimità costituzionale dell’art. 31 della legge n. 646 del 1982, laddove indica, come penalmente rilevante, anche l’omessa comunicazione relativa a variazioni patrimoniali compiute con atti pubblici, soggette a trascrizione nei registri immobiliari e a registrazione a fini fiscali, ritenute, per tale ragione, inoffensive, la Corte costituzionale, ribadendo quanto già osservato nella sentenza n. 81 del 2014, ha respinto tale assunto, richiamando, ancora una volta, la giurisprudenza di legittimità, la quale ha individuato le finalità della norma incriminatrice nel consentire l’esercizio di un controllo patrimoniale penetrante e analitico della polizia tributaria nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose al fine di accertare tempestivamente se le variazioni patrimoniali dipendano o meno dall’eventuale svolgimento di attività illecite, escludendo che tale scopo possa essere raggiunto per la pubblicità dell’atto dispositivo, che non implica una diretta e immediata informazione del nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale della persona obbligata alla comunicazione e non consente un constante monitoraggio, dovendosi anche escludere che gravi sul destinatario della comunicazione un onere di consultazione permanente di tutti i pubblici registri.
La Corte costituzionale ha comunque precisato come – sempre che non possa escludersi il dolo – spetti comunque al giudice di rilevare la offensività in concreto della condotta con riferimento al caso specifico, verificando se la singola omissione sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma, tenendo conto delle finalità che la stessa persegue.
Tanto premesso, le SSUU assumono a questo punto di condividere il secondo degli indirizzi interpretativi in precedenza richiamati. L’estensione ad altri soggetti, operata dalla legge 136\2010 degli obblighi di comunicazione è pacificamente indicativa di una scelta del legislatore di ampliare l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice. Occorre tuttavia stabilire se tale intervento abbia o meno inciso sulla struttura essenziale del reato, integrando il precetto penale ed a tale domanda deve darsi risposta negativa. Deve ritenersi che, riguardo al reato in esame, la selezione dei fatti penalmente rilevanti è stata operata dal legislatore facendo riferimento ai sottoposti a misura di prevenzione (o ai condannati con sentenza definitiva), posizione soggettiva preventivamente individuata, che resta indifferente ad eventuali modifiche normative riguardanti le preliminari condizioni per la relativa attribuzione, la quale, a sua volta, è conseguenza di un provvedimento giudiziale ormai definitivo, così come del tutto immutata resta l’essenza stessa del reato.
In altre parole, la condizione di sottoposto a misura di prevenzione (o condannato definitivo) è del tutto indipendente dal contenuto delle disposizioni che ne disciplinano l’applicazione, costituendo un mero presupposto per l’insorgenza degli obblighi comunicativi e rispetto al quale la fisionomia del reato e le finalità perseguite dal legislatore restano inalterate, poiché l’incidenza degli interventi normativi succedutesi nel tempo ha solo ridefinito l’ambito di operatività del precetto. La condotta sanzionata è, infatti, quella di chiunque, essendovi in quel momento tenuto, omette di comunicare, nei termini specificati, le variazioni patrimoniali eccedenti i limiti indicati e le modifiche apportate nel tempo hanno riguardato esclusivamente il presupposto per l’insorgenza dell’obbligo, intervenendo sulla individuazione dei soggetti tenuti alla relativa osservanza, lasciando però inalterata la struttura della fattispecie ed il giudizio di disvalore formulato dal legislatore.
Le finalità perseguite dal legislatore, lo si è detto, sono quelle di assicurare un capillare e continuativo controllo patrimoniale su soggetti ritenuti pericolosi al fine di verificare se le operazioni compiute siano correlate con attività illecite e ciò avviene mediante l’imposizione di un obbligo di comunicazione. Non si pone, conseguentemente, un problema di applicabilità dell’art. 2, comma quarto cod. pen., che presuppone una modifica della fattispecie incriminatrice che le richiamate disposizioni non hanno determinato.
Va a tale proposito rilevato che la giurisprudenza di legittimità è pervenuta, in diverse occasioni, a conclusioni analoghe, seppure alla luce delle specifiche caratteristiche delle disposizioni prese in esame nel caso trattato. In tema di infortuni sul lavoro, ad esempio, si è affermato che le disposizioni che disciplinano gli obblighi ai quali devono uniformarsi i soggetti cui è demandata la tutela della salute dei lavoratori non hanno una funzione integratrice del precetto penale, poiché si limitano ad individuare le persone cui è attribuito il compito di osservare e fare osservare le regole cautelari, sicché una rimodulazione degli obblighi dei vari soggetti non può avere, quale conseguenza, quella di rendere legittima una condotta precedentemente vietata al fine di valutare la responsabilità dell’imputato (Sez. 4, n. 2604 del 25/10/2006, dep. 2007, Cazzarolli, Rv. 235780)
Riguardo al delitto di cui all’art. 464 cod. pen. si è affermato che la legge sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice quanto all’individuazione solo dei valori di bollo, non pure dei casi in cui ne è richiesto l’uso, con la conseguenza che la modificazione o l’abrogazione della disciplina di tali casi non configura una successione di leggi penali ai sensi dell’ art. 2 cod. pen., in quanto la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dall’entrata in vigore della legge successiva o dall’emanazione del successivo provvedimento amministrativo di attuazione e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (Sez. 5, n. 18068 del 03/04/2002, Versace, Rv. 221917; conf. Sez. 5, n. 4634 del 18/12/2003, dep. 2004, Campicelli, Rv. 227454; Sez. 5, n. 26652 del 07/05/2004, Oliveri, Rv. 229880).
A conclusioni analoghe si era in precedenza pervenuti in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art. 17 della legge 4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel d.m. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal d.m. 25 gennaio 2001, osservando che la normativa secondaria richiamata nella rubrica di reato, successivamente abrogata, aveva avuto incidenza esclusivamente sulla portata del comando, modificato nel relativi contenuti a far data dal provvedimento innovativo, lasciando però inalterato il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il controllo sull’antigiuridicità della condotta andava effettuato sul perimetro dei divieti esistenti al momento del fatto (Sez. 3, n. 18193 del 12/3/2002, Pata V, Rv. 221943).
La necessaria distinzione tra norme integratici del precetto penale e quelle che non sono tali è stata posta in evidenza anche dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, P.G. in proc. Magera, Rv. 238197, che individua le prime come modificazioni mediate della norma incriminatrice, da trattare, alla stregua dell’art. 2 cod. pen. come una successione di norme penali. e Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv. 239398 che la richiama), mentre altre pronunce delle sezioni semplici, giunte sostanzialmente alle medesime conclusioni, hanno riguardato, ad esempio, la materia degli stupefacenti (Sez. 4, n. 17230 del 22/02/2006, Sepe, Rv. 234029), l’introduzione di armi in area protetta (Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011, Guttà, Rv. 250119), l’usura (Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi, Rv. 252194), la bancarotta (Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi, Rv. 266474); il reato di cui all’art. 16, comma 1, del decreto legislativo n. 96 del 2003 (Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv. 270335).
Resta da considerare – chiosa ancora il Collegio – che la soluzione interpretativa adottata non sembra porsi in contrasto con i principi stabiliti dalla Corte EDU con riferimento all’art. 7 della Convenzione e richiamati dalla Sezione rimettente sotto il profilo della concreta prevedibilità della sanzione (si richiama, a tale proposito, la sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21/10/2013). Invero, per le ragioni dianzi esposte, il precetto penale è chiaro nell’individuare, quali obbligati alle comunicazioni delle variazioni patrimoniali oltre una determinata soglia di valore, le persone sottoposte a misura di prevenzione (o a condanna), che restano soggette a tale obbligo per un periodo di tempo anch’esso specificato. L’inosservanza dell’obbligo è penalmente sanzionata. La fattispecie incriminatrice è pertanto sufficientemente definita (anche nei termini individuati dalle sentenze della Corte EDU Scoppola c. Italia del 17/9/2009 e De Tommaso c. Italia del 23/2/2017) e la mera condizione di soggetto sottoposto a misura di prevenzione richiede, conseguentemente, a fronte di tale previsione normativa, quantomeno una verifica della portata del precetto e delle eventuali conseguenze di una relativa inosservanza e ciò anche nel caso in cui gli effetti della misura siano cessati, essendo altrettanto chiaramente indicato dalla norma che l’obbligo di comunicazione permane per 10 anni.
Analogamente, deve escludersi che abbia avuto in qualche modo incidenza negativa la sussistenza del contrasto giurisprudenziale che ha condotto all’odierna decisione, essendo sufficiente richiamare quanto condivisibilmente ribadito in una recente pronuncia (Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi, Rv. 273876), richiamata anche nell’ordinanza di rimessione, osservando, dopo aver richiamato plurimi precedenti, che la non prevedibilità di una decisione giudiziale che ne preclude l’applicazione retroattiva deve certamente escludersi in una situazione di contrasto giurisprudenziale, in cui l’esito interpretativo, seppur controverso, è comunque presente, come avvenuto nel caso in esame, peraltro con un numero di decisioni decisamente contenuto.
Alla stregua di quanto precede, può per le SSUU enunciarsi il seguente principio di diritto: l’art. 80 del d.lgs. n. 159 del 2011, relativo all’obbligo, per i soggetti già sottoposti a misura di prevenzione personale ex lege n. 1423 del 1956, di comunicare le variazioni del proprio patrimonio, la cui omissione è penalmente sanzionata dall’art. 76, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, si applica anche quando il provvedimento che ha disposto la misura è divenuto definitivo in data anteriore all’introduzione di tale obbligo.
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Il 14 giugno viene varato il decreto legge n.53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, che interviene ancora una volta sul c.d. DASPO urbano.
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L’8 agosto viene varata la legge n.77 che converte con modificazioni il decreto legge n.53.
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Il 18 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.46595, chiamata a risolvere la questione di diritto se, ed in quali limiti, la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile, in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli artt. 8 e 75 d. Igs. n. 159 del 2011.
L’art. 75, comma 2, d. Igs. n. 159 del 2011 – osserva preliminarmente la Corte – punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni l’inosservanza degli obblighi e prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno. Gli obblighi e le prescrizioni sono dettati dal tribunale che dispone la misura di prevenzione: l’art. 8, comma 2 del d. Igs. n. 159, infatti, prevede che «qualora il tribunale disponga l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 6, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare»; il comma 4 elenca le prescrizioni che il tribunale deve dettare «in ogni caso», tra cui quella «di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza» e quella «di non partecipare alle pubbliche riunioni».
La rimessione alle Sezioni Unite – prosegue il Collegio – è stata disposta per le questioni interpretative concernenti la seconda prescrizione, ma i due ricorrenti sono stati condannati anche per la violazione della prima, di cui il Collegio afferma di voler trattare nella parte finale della presente sentenza. I commi 5 e 6 della norma permettono, inoltre, al tribunale di imporre altre prescrizioni al sorvegliato speciale: tutte quelle «che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale»; alcune di esse sono tipizzate dal legislatore. Il contenuto precettivo del reato di cui all’art. 75 cit., quindi, è costruito per relationem agli obblighi e alle prescrizioni previsti dall’art. 8 dello stesso decreto.
La norma in esame – che costituisce la integrale trasposizione della fattispecie originariamente prevista dall’art. 9, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 – è stata oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; tali pronunce, peraltro, non hanno valutato soltanto la fattispecie penale in sé, ma il complesso normativo relativo alle misure di prevenzione: quindi, la selezione dei destinatari della misura di prevenzione, l’individuazione e la natura delle prescrizioni e degli obblighi che possono o devono essere dettati, la loro sanzionabilità penale in base alla fattispecie incriminatrice in esame. Anche il legislatore è intervenuto su tali tematiche.
Si sono, quindi, limitate le categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione cancellando quella dei «proclivi a delinquere» (Corte Cost., sent. n. 177 del 1980) e quella di coloro che dovevano ritenersi «abitualmente dediti a traffici delittuosi» (Corte Cost., sent. n. 24 del 2019); il legislatore del 2011 non ha riprodotto, tra le prescrizioni che devono essere dettate in sede di applicazione della misura della sorveglianza speciale, quelle «di non dare ragioni di sospetto» e «di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione», previste dall’art. 5, comma terzo, legge n. 1423 del 1956; le Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò hanno escluso, in via interpretativa, che la fattispecie penale punisca anche la violazione dell’obbligo del sorvegliato speciale di portare con sé ed esibire la carta di permanenza (art. 8, comma 7 D. Igs. n. 159 del 2011), qualificando la condotta come violazione dell’art. 650 cod. pen. (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia, Rv. 260019), nonché la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi“; con la sentenza n. 25 del 2019 – chiosa ancora il Collegio – la Corte Costituzionale è intervenuta su tali ultime prescrizioni, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, commi 1 e 2 d. Igs. n. 159 del 2011 nella parte in cui puniscono come contravvenzione o come delitto la loro inosservanza.
Le diverse pronunce hanno affrontato, innanzitutto, il tema della precisione delle norme e della possibilità per l’interessato di conoscere e individuare le condotte vietate e di prevedere le decisioni giudiziarie. La tematica, peraltro, viene in rilievo sotto due profili: l’individuazione delle categorie di soggetti che possono essere sottoposti alle misure di prevenzione e la descrizione degli obblighi e delle prescrizioni dettate al sottoposto alla misura di prevenzione, la cui violazione è sanzionata penalmente. Le due sentenze della Corte Costituzionale già ricordate hanno espunto le categorie dei «proclivi a delinquere» e di coloro «che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi» proprio per la «radicale imprecisione» della descrizione normativa con la conseguente discrezionalità per gli operatori. In conseguenza dei due interventi, l’applicazione delle misure di prevenzione dovrebbe essere ormai limitata a persone effettivamente pericolose nonché in grado di prevedere, in conseguenza delle loro condotte, una decisione in questo senso.
Il secondo profilo – precisa la Corte – interessa in questa sede. La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò ha distinto tra le prescrizioni generiche e le prescrizioni specifiche, negando un reale contenuto precettivo delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi“, in quanto indeterminate e imprecise e non indicanti alcun comportamento specifico da osservare.
Una seconda tematica affrontata è quella del rispetto dei principi di offensività e di proporzionalità. Anche se le misure di prevenzione vengono applicate a soggetti effettivamente pericolosi, non tutte le violazioni delle prescrizioni dettate dal Tribunale possono essere penalmente sanzionate: le Sezioni Unite, Sinigaglia hanno evidenziato che, per essere penalmente sanzionate, le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni devono consistere in condotte «eloquenti, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno»; non è possibile, cioè, «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a soggetto qualitativamente pericoloso»: piuttosto, devono essere puniti soltanto quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità, quelle inosservanze che determinano un “annullamento” di fatto della misura. Sulla base di tali considerazioni, unite all’interpretazione testuale delle norme, è stato affermato che il mancato porto della carta di permanenza non integra il reato di cui all’art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011, ma la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen.
Una terza problematica, rammenta la Corte – contigua, ma non coincidente con la precedente – si interroga sulla legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelare altri diritti costituzionalmente riconosciuti. Proprio con riferimento al divieto di partecipare alle pubbliche riunioni, la Corte EDU, De Tommaso ha espresso preoccupazione per il fatto «che le misure previste dalla legge e applicate al ricorrente comprendono l’assoluto divieto di partecipare a riunioni pubbliche. La legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice».
Come osserva incidentalmente l’ordinanza di rimessione, il precetto viene criticato per la eccessiva ampiezza del divieto piuttosto che in rapporto al deficit di conoscibilità: mentre, quanto agli obblighi di vivere onestamente e di rispettare le leggi, la Corte EDU censura la norma che li prevede perché «non formulata in modo sufficientemente dettagliato e [perché] non chiarisce con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere applicate ad una persona», la «preoccupazione» espressa dalla Corte EDU con riferimento al divieto di partecipare a pubbliche riunioni riguarda soprattutto l’assolutezza della compressione della relativa libertà.
Non vi è dubbio che il riferimento finale alla «restrizione […] lasciata interamente alla discrezione del giudice» sembra evocare anche il vizio della incertezza del contenuto della prescrizione: si tratta, tuttavia, di un accenno non del tutto chiaro, tenuto conto, da una parte, che il tribunale che applica la misura di prevenzione non ha discrezionalità nel graduare la restrizione della libertà di partecipare alle riunioni pubbliche (che «deve in ogni caso prescrivere» ai sensi dell’art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011), dall’altra che – salva la tematica dell’interpretazione della nozione di “pubbliche riunioni” – la prescrizione, per essere concretamente applicabile, non necessita di ulteriori specificazioni (come, invece, avviene, ad esempio, per la prescrizione «di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una determinata ora», per la quale occorre la specificazione dell’orario nel decreto).
La Corte Costituzionale – prosegue il Collegio – è ripetutamente intervenuta sul complesso della normativa, come già anticipato, valutandola alla luce delle tre tematiche appena enucleate. Con la sentenza n. 27 del 1959, la Corte risolse in senso affermativo il quesito relativo alla compatibilità delle due prescrizioni in esame con il dettato costituzionale, pur in presenza di limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione, affermando che esse trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge. La Corte osservò che l’art. 13 della Costituzione riconosce la possibilità di restrizioni alla libertà personale, così come gli articoli 16 e 17 ammettono limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno e consentono il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. La Corte escluse che la riserva di legge prevista dalla Costituzione desse luogo ad una «potestà illimitata del legislatore ordinario» e, in qualche modo, delimitò la portata della pronuncia sotto due profili: la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti nelle ipotesi concrete giunte all’esame del giudice e il criterio di interpretazione delle norme in questione.
Affrontando il quesito «se […] nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili», la Corte riconobbe un ruolo specifico al giudice penale: «codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte»; il criterio interpretativo da adottare è, comunque, restrittivo: «al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi é sottoposto a misure detentive».
La legittimità della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni venne ribadita con la sentenza n. 126 del 1983, con la quale la Corte risolse positivamente i dubbi sulla determinatezza della norma e sul rispetto del principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione, negando anche la lesione del diritto di manifestazione del pensiero e di quello di associarsi liberamente in partiti.
La Corte ribadì che «spetta al giudice penale determinare i concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza». Con la sentenza n. 161 del 2009 la Corte ritenne che la modifica dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 operata dall’art. 14 del decreto- legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), con la previsione della pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza di tutti gli obblighi e le prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, non violasse il principio di proporzionalità della sanzione penale, poiché la pena riguardava soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, in quanto ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, con conseguente inidoneità di altre misure. Il rispetto del principio di proporzionalità venne ribadito con la sentenza n. 282 del 2010.
Nella stessa sentenza venne in rilievo il principio di tassatività e di determinatezza della norma penale: la Corte, dopo aver affermato la necessità di non valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma di collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce, osservò che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo»; sulla base di questi principi, escluse l’indeterminatezza delle prescrizioni.
Le due sentenze emesse a seguito della pronuncia della Corte EDU, De Tommaso hanno permesso alla Corte Costituzionale di riassumere e precisare i principi fin qui riportati. In particolare, le due pronunce hanno affrontato il tema della tassatività e della precisione delle fattispecie di pericolosità generica (sentenza n. 24 del 2019) e della legittimità della sanzione penale per la violazione delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» (sent. n. 25 del 2019).
Con riferimento alla prima questione, la Corte ha ritenuto che, al di fuori della materia penale, l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto può essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione, risultando essenziale che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
Quanto, invece, alla legittimità della sanzione penale per le violazioni delle prescrizioni generiche, la Corte, dando atto del giudizio negativo della Corte EDU, ha ritenuto necessario completare l’adeguamento della normativa alla CEDU operato, in via interpretativa, dalle Sezioni Unite, Paternò, osservando che l’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati «è comunque soddisfatta alle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno».
È già stato ricordato – prosegue il Collegio – il contenuto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. La prima rimarcava l’importanza dei principi di offensività e di proporzionalità per l’interpretazione delle norme che in questa sede rilevano: richiamando «i severi presidi costituzionali costituiti dagli artt. 13 e 25 della Carta Costituzionale» ed osservando che, così come chiarito dalla Corte Costituzionale, «le prescrizioni imposte al sorvegliato hanno la funzione di garantire la effettività della tutela preventiva, allo scopo di scongiurare (o, almeno, limitare) la commissione di futuri reati», la sentenza affermava che la sanzione penale nei confronti del sorvegliato che non si conformi alle direttive può riguardare solo «condotte “eloquenti”, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle significative misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano o connotano, misure la cui elusione comporterebbe quella sostanziale vanificazione di cui fa parola la sentenza De Silva» (richiamando un passaggio incidentale della sentenza Sez. 1, n. 793 del 20/3/1985, De Silva, Rv. 170592). Veniva richiamata anche la sentenza della Corte EDU, Labita c. Italia per confermare «la necessità di una stretta correlazione tra misura restrittiva – repressiva e scopo perseguito».
La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò riprendeva queste considerazioni, sottolineando che la sentenza SU, Sinigaglia supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di “vanificazione” della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le “inottemperanze” del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità.
Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche, la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un “annullamento” di fatto della misura. La norma incriminatrice è posta a tutela dell’interesse dell’autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell’ordine e della sicurezza pubblica, sicché deve escludersi ogni automatismo nella relativa applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato.
In sostanza, non ogni “inottemperanza” del sorvegliato speciale giustificherà la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che costituiscono indice di una volontà diretta ad eludere la misura di prevenzione personale. Del resto la Corte costituzionale ha da tempo indicato la necessità di operare una selezione delle condotte, negando la rilevanza di condotte che non siano in qualche modo sintomatiche della pericolosità già accertata in sede di giudizio di prevenzione (Corte cost. n. 27 del 1959). Dal principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza da ultimo citata deve trarsi un canone generale di giudizio idoneo a “calibrare” sulla pericolosità del soggetto le singole prescrizioni.
I due orientamenti evidenziati dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite si comprendono e si inseriscono nel quadro fin qui riassunto. Peraltro, si deve dare atto che, accanto ad essi, ne esiste un terzo, anch’esso assai recente, che afferma che, in base ad un’interpretazione convenzionalmente orientata del quadro normativo interno alla luce della sentenza della Corte EDU, De Tommaso, il giudice ha l’obbligo di indicare le ragioni per cui la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione del controllo della pericolosità sociale del prevenuto, al fine di evitare compressioni generalizzate di una libertà fondamentale, oggetto di presidio costituzionale (Sez. 1, n. 49731 del 06/06/2018, Sassano, Rv. 274456); in applicazione di tale principio, la Corte ha annullato senza rinvio per insussistenza del fatto la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 9, comma 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, in quanto recatosi ad assistere a comizi elettorali nonostante il divieto di partecipare a pubbliche riunioni contenuto nel decreto applicativo della misura.
La sentenza collega il pronunciamento della Corte EDU, De Tommaso ai provvedimenti nei quali la Corte Costituzionale aveva ritenuto che la concreta determinazione degli elementi di fatto che concorrono di volta in volta a realizzare la fattispecie del reato di violazione degli obblighi della sorveglianza speciale spetti al giudice penale, che deve tenere conto del carattere eccezionale delle limitazioni di libertà che incidono su diritti costituzionalmente presidiati; in effetti, devono essere vietati solo i contatti del sorvegliato che incrementano il rischio di pericolosità o che si pongono in continuità con il profilo che la misura di prevenzione intende controllare, mentre non devono essere vietate le attività in cui si risolve l’esercizio di diritti di spessore superprimario, di presidio costituzionale.
Nel caso giunto all’esame della Corte, la sentenza impugnata non forniva alcuna giustificazione delle ragioni di limitazione alla libertà del cittadino di partecipare a riunioni pubbliche e comizi elettorali, esercitando un diritto politico e democratico, né aveva chiarito perché, nel caso concreto, tale limitazione fosse necessaria per l’attuazione del controllo di pericolosità.
La sentenza Sez. 1, Lo Giudice afferma, in sostanza, che l’interpretazione ampia della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni – comprendendo tra le stesse «qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico, al quale abbia facoltà di accesso un numero indeterminato di persone, indipendentemente dal motivo della riunione» – risponde del tutto alle esigenze sopra enucleate: da una parte, il divieto è giustificato dalla necessità di un controllo adeguato del comportamento del sorvegliato speciale da parte degli organi di pubblica sicurezza, al fine di impedire o limitare possibili occasioni di incontro con altri soggetti nonché la commissione di reati, controllo reso difficoltoso dal numero elevato di persone; dall’altra non sussiste un problema di genericità della norma, atteso che la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni è espressamente prevista nel decreto applicativo e ad esso può essere attribuito un contenuto determinato e specifico, con valore precettivo; di conseguenza è rispettato anche il requisito della conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale.
Si deve rilevare, peraltro, che nel processo il ricorrente non aveva posto il tema dell’ampiezza della nozione di “pubbliche riunioni“: aveva, infatti, sostenuto che, poiché la seduta del Consiglio comunale alla quale Lo Giudice si era recato ad assistere non era stata tenuta per mancanza del numero legale, la “pubblica riunione” non vi era stata, nonostante il numero delle persone presenti davanti alle quali l’imputato aveva preso la parola. L’interpretazione della nozione di “pubbliche riunioni” adottata dalla sentenza Sez. 1, Lo Giudice conferma un orientamento già affermato da Sez. 1, n. 28964 del 11/3/2003, D’Angelo, Rv. 224925, con riferimento alla partecipazione del sorvegliato speciale ad una partita di calcio allo stadio, ribadito anche successivamente (Sez. 1, n. 15870 del 11/03/2015, Carpano, Rv. 263320; Sez. 1, n. 42283 del 24/10/2007, Pesce, Rv. 238113).
Come si comprende, prosegue la Corte, benché le sentenze Sez. 1, Pellegrini e Sez. 1, Sassano dispongano entrambe l’annullamento senza rinvio della condanna per insussistenza del fatto e benché ambedue richiamino le sentenze della Corte EDU, De Tommaso e Sezioni Unite, Paternò, i presupposti delle due decisioni risultano assai differenti.
In primo luogo la sentenza Sez. 1, Pellegrini è basata sulla inevitabile e inemendabile indeterminatezza del precetto di non partecipare alle pubbliche riunioni; al contrario, la sentenza Sez. 1, Sassano recepisce la giurisprudenza di legittimità e l’insegnamento della Corte Costituzionale per affermare – così come la sentenza Sez. 1, Lo Giudice – che il precetto è specifico e tassativo e che i giudici – sia in sede di applicazione della misura di prevenzione che in sede penale – non possiedono alcuna discrezionalità.
La sentenza Sez. 1, Pellegrini, in ragione dell’asserita indeterminatezza della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, la assimila a quelle di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” e, quindi, compie la medesima operazione ermeneutica delle Sezioni Unite, Paternò, ritenendola “prescrizione generica“; al contrario, la sentenza Sassano la ritiene specifica, ma adotta un’interpretazione in base alla quale, pur essendo il divieto di partecipare alle pubbliche riunioni indefettibile, per integrare il reato di cui all’art. 75, comma 2 d. Igs. n. 159 del 2011 la relativa violazione deve concretamente avere posto in pericolo il controllo di pericolosità del soggetto, che costituisce la finalità della misura di prevenzione: orientamento giustificato dalla circostanza che la prescrizione limita l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.
L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, prosegue ancora il Collegio, pur non menzionando espressamente la sentenza Sez. 1, Sassano, sembra aderire a questa seconda impostazione, che garantirebbe il rispetto del principio di offensività, permettendo di selezionare le condotte effettivamente pericolose e di non punire quelle inoffensive, tali da non giustificare la limitazione dei diritti costituzionalmente protetti.
La sentenza Sez. 1, Sassano riprende le indicazioni della sentenza Corte Cost. n. 27 del 1959, secondo cui il giudice penale ha un ruolo nella determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale e deve adottare un’interpretazione restrittiva alla luce del carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione; indicazione alla quale, come si è visto, fanno riferimento le sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. Ciò che contraddistingue questo orientamento è l’individuazione nel giudice penale “della violazione”, anziché in quello che applica la misura di prevenzione, dell’organo deputato a garantire il principio di offensività e l’adeguatezza delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale.
La sentenza SU, Sinigaglia trae dalla pronuncia n. 282 del 2010 della Corte costituzionale un criterio generale secondo cui le prescrizioni devono essere «calibrate» sulla pericolosità del soggetto, come «componenti integrate di un sottosistema di sicurezza calibrato ad personam»; tuttavia, una “selezione” era stata operata nel corso degli anni intervenendo sull’elenco delle prescrizioni la cui violazione è penalmente sanzionata: negando che la violazione dell’obbligo di portare con sé ed esibire la carta di permanenza integri il reato di cui all’art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011, negando valore precettivo alle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi, successivamente dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice con riferimento a tali prescrizioni ma, ancora prima, ad opera del legislatore, cancellando alcune delle prescrizioni che il Tribunale deve in ogni caso dettare in sede di applicazione della misura.
La sentenza Sez. 1, Sassano, al contrario, ritiene necessaria una valutazione in concreto del giudice penale in aggiunta a quella del giudice della prevenzione: il giudice penale dovrebbe, di volta in volta, argomentare in ordine alla “significatività” della violazione della prescrizione, dovrebbe «dire per quale ragione essa imposizione si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione dell’attuazione del controllo di pericolosità».
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale fin qui riassunto, è possibile – chiosano ormai le SSUU – rispondere alla questione di diritto sollevata con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite medesime.
L’orientamento espresso dalla sentenza Sez. 1, Pellegrini non può essere accolto. La ricognizione della normativa che fa riferimento alle “pubbliche riunioni“, svolta al fine di evidenziare la mancanza di una definizione univoca della nozione, non appare convincente sotto diversi profili. Di per sé, il fatto che un concetto assuma significati differenti (o parzialmente differenti) in diversi settori della normativa non costituisce una anomalia inaccettabile e si riscontra frequentemente; appare, quindi, improprio accostare normative differenti e rivolte a destinatari diversi. In ogni caso, la sentenza non verifica la possibilità di individuare una definizione di “pubblica riunione” che possa essere valida per tutte le norme evidenziate: se il problema è la conoscibilità della norma da parte del destinatario, occorre verificare se le diverse nozioni di “pubblica riunione” costituiscano o meno degli insiemi che presentano un’intersezione comune a tutti; in altre parole, era necessario accertare se esiste una nozione di “pubblica riunione” – ovviamente più ristretta – che tutte le norme contengono, espressamente o meno. Se tale nozione esiste, è possibile ritenere che i destinatari della prescrizione siano in grado di conoscerne il contenuto; non possano, cioè, avere dubbi sul fatto che in una situazione corrispondente a quella nozione ristretta essi stiano sicuramente partecipando ad una “pubblica riunione“.
Questa nozione ristretta e comune a tutte le norme menzionate esiste: è la riunione non occasionale di più persone in luogo pubblico. Ripercorrendo l’analisi delle norme menzionate dalla sentenza citata, si può rilevare, quanto all’art. 266, comma 3, cod. pen., che l’ipotesi di istigazione commessa in luogo pubblico e alla presenza di più persone è espressamente contemplata dal n. 2; quanto all’art. 18 T.U.L.P.S., che la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1958, dichiarando illegittima la norma nella parte in cui impone il preavviso della riunione al Questore anche per le riunioni non tenute in luogo pubblico, ha limitato l’obbligo solo a quelle tenute in luogo pubblico; quanto all’art. 4 legge 18 aprile 1975, n. 110, che il divieto di portare armi si applica certamente anche alle riunioni in luogo pubblico. Contrariamente a quanto sostiene la sentenza Sez. 1, Pellegrini, quindi, esiste una soluzione interpretativa che rende determinato il contenuto della norma incriminatrice, elimina l’eccessiva discrezionalità del giudice penale nell’applicazione della norma e permette la conoscibilità del precetto, così orientando il comportamento dei destinatari.
Inoltre – prosegue il Collegio – la sentenza, per sopperire al vizio di indeterminatezza, adotta una “interpretazione convenzionalmente orientata” con la quale sostanzialmente disapplica la previsione normativa senza sollevare una questione di legittimità costituzionale.
Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, la disapplicazione di una disposizione di legge interna da parte del giudice, perché ritenuta non conforme alle previsioni della CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, è illegittima, perché in contrasto con la stessa Costituzione. Alle norme della Convenzione EDU deve, invece, assegnarsi il rango di «fonti interposte», destinate ad integrare il parametro di cui all’art. 117 della Costituzione, il cui primo comma impone al legislatore di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Proprio perché si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato (accentrato) da parte del Giudice delle leggi.
Pertanto, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, non possa essere risolto in via interpretativa, va esclusa la possibilità di applicare direttamente la norma convenzionale interposta «obliterando il contrario disposto di una norma interna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, non mass. sul punto; Sez. U, n. 34472 del 19/04/2012, Ercolano, non mass. sul punto; Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 25328901, non mass. sul punto): in questo caso, dovrà essere sollevato l’incidente di costituzionalità, e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano.
Non si può dimenticare che la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato la legittimità della norma in questione; con la sentenza n. 126 del 1983, anche con riferimento alla possibile violazione del principio di legalità, ritenendo la prescrizione espressa in termini tassativi. Del resto, la censura mossa dalla Corte EDU, De Tommaso in ordine alla prescrizione in esame era di natura differente rispetto a quelle formulate per le prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi“.
In effetti, la prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni non può essere equiparata all’obbligo di portare la carta di permanenza e alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, oggetto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. Nel primo caso la decisione delle Sezioni Unite era basata sul dato formale della mancata inclusione dell’obbligo nelle prescrizioni, sul fatto che la previsione di legge è rivolta principalmente all’autorità che deve compilare e consegnare la carta di permanenza al soggetto e solo dopo al sottoposto e, ancora, sull’estraneità di quell’obbligo alla ratio della misura di prevenzione di sottoporre a sorveglianza particolare il soggetto al fine di prevenire la consumazione di reati.
Le Sezioni Unite, Paternò, invece, avevano escluso che gli obblighi di vivere onestamente e rispettare le leggi potessero considerarsi vere e proprie prescrizioni, aventi reale contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici, ma contenendo un mero ammonimento “morale” che, per di più, vale per ogni consociato: la norma, in definitiva, non individua condotte socialmente dannose che devono essere evitate né prescrive quelle socialmente utili che devono essere perseguite.
Invece il divieto di partecipare a pubbliche riunioni non grava su tutti gli associati; al contrario, la Costituzione tutela il contrario diritto di riunirsi, anche in luoghi aperti al pubblico. All’esistenza di un diritto corrisponde la possibilità di formulare un divieto, perché la condotta può essere delimitata oggettivamente, il concetto di “riunione” presupponendo una realtà fisica, concreta; in sostanza, si tratta di una prescrizione specifica e non generica. Per di più, la prescrizione è strettamente connessa alla finalità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, poiché la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficoltosa proprio la sorveglianza del sottoposto alla misura di prevenzione, che deve essere rafforzata soprattutto se si tratta di misura accompagnata dall’obbligo o divieto di soggiorno; quindi rende più facile e meno controllabile la consumazione di reati oppure l’incontro con soggetti pregiudicati o sottoposti a misure.
Benché la soluzione adottata con la sentenza Sez. 1, Pellegrini non possa, quindi, essere accolta, è condivisibile la critica in essa contenuta verso l’interpretazione accolta dalla giurisprudenza maggioritaria ribadita da Sez. 1, Lo Giudice, secondo cui il deficit di determinatezza della nozione di “pubbliche riunioni” può essere risolto alla luce della ratio della prescrizione: si tratta, effettivamente, di una inversione logico-giuridica per effetto della quale la ratio giustificatrice della fattispecie assurge ad elemento integrativo di quest’ultima. Il risultato di tale linea interpretativa è una nozione della prescrizione ampia e non ben delimitata, che lascia spazio alla discrezionalità del giudice penale e si disinteressa, in sostanza, del tema della conoscibilità della norma penale da parte del destinatario e della conseguente prevedibilità delle conseguenze della relativa condotta.
Come già anticipato, prosegue la Corte, una soluzione interpretativa che fornisca certezza alla nozione in esame e, quindi, al precetto penale esiste. La norma cui fare riferimento è l’art. 17 della Costituzione.
Dopo avere stabilito che «i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi», la norma costituzionale detta una separata disciplina per le riunioni in luogo aperto al pubblico e per quelle in luogo pubblico: mentre per le prime «non è previsto preavviso», delle seconde «deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Come si è visto, tale disciplina aveva permesso alla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 27 del 1959, di ritenere legittime le limitazioni alle libertà derivanti dall’applicazione delle misure di prevenzione e in particolare quella oggetto della presente sentenza. Se, quindi, la limitazione del diritto di riunione in ragione di una misura di prevenzione è costituzionalmente legittima solo se si tratta di “riunioni in luogo pubblico” – la Corte Costituzionale ritenne, evidentemente, che l’art. 17, terzo comma permetta alle autorità sia di vietare la riunione che di vietare ad una singola persona di partecipare alla riunione – è inevitabile e corretto ritenere che le “pubbliche riunioni” di cui all’art. 8, comma 4 d. Igs. n. 159 del 2011 altro non siano che le “riunioni in luogo pubblico” cui fa riferimento l’art. 17 della Costituzione.
Non a caso, in quella sentenza, la Corte Costituzionale denominava “pubbliche riunioni” quelle di cui all’art. 17 cit. Questa soluzione interpretativa risponde pienamente alle esigenze fin qui evidenziate: da una parte rende certo il contenuto della prescrizione penalmente sanzionata e, quindi, conoscibile dai destinatari; dall’altra elimina ogni discrezionalità del giudice penale nell’applicazione della norma; inoltre – anche tenendo conto delle osservazioni mosse dalla Corte EDU nella sentenza De Tommaso – riduce al minimo la compressione del diritto di riunione (tutelato a livello convenzionale dall’art. 11 CEDU); infine permette alla sanzione penale di colpire soltanto condotte sintomatiche della pericolosità del soggetto e che determinano un annullamento di fatto della misura, atteso che la partecipazione ad una riunione in luogo pubblico impedisce (o comunque, rende estremamente difficoltosa) la sorveglianza del soggetto.
Per quanto appena osservato, la soluzione interpretativa adottata rende superflua la soluzione proposta da Sez. 1, Sassano di una verifica obbligatoria da parte del giudice penale della concreta offensività della violazione della prescrizione. In effetti, si tratta di soluzione che appare forzata e non necessaria. A ben vedere, in conseguenza della riduzione del numero delle prescrizioni obbligatorie penalmente sanzionate ad opera del legislatore, dell’interpretazione delle Sezioni Unite Sinigaglia e Paternò e dell’intervento della Corte Costituzionale, l’art. 8, comma 4 d. Igs. 159 del 2011 ne prevede cinque (di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso, di non associarsi ai pregiudicati o sottoposti a misure, di rimanere la notte in casa, di non detenere e portare armi e di non partecipare a pubbliche riunioni), tutte significative rispetto alla finalità perseguita dal legislatore di consentire una sorveglianza sul soggetto pericoloso al fine di evitare la commissione di reati. Appare ragionevole, quindi, la sanzione penale della violazioni di quelle prescrizioni che il legislatore indica, appunto, come sintomo della pericolosità del soggetto e finalizzate ad annullare la sorveglianza speciale disposta dal tribunale.
Vi sono, però, «ipotesi estreme» – per richiamare l’espressione utilizzata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 27 del 1959 – in cui la violazione della condotta può perdere quel significato pregnante attribuitogli dal legislatore: la Corte, con riferimento alla prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, menzionava la partecipazione a funzioni di culto, ai comizi elettorali e alle riunioni sportive. Si deve notare, tuttavia, che la Corte non affermava tout court che la natura di manifestazione religiosa o di comizio elettorale della riunione pubblica rende lecita la partecipazione ad essa da parte del sorvegliato speciale; che, cioè, i diritti riconosciuti dagli artt. 19 e 48 della Costituzione prevalgono in ogni caso sui motivi di sicurezza che permettono di vietare al sorvegliato speciale la partecipazione a una pubblica riunione: piuttosto rimetteva al giudice penale di determinare i concreti elementi di fatto che concorrono a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi di sorveglianza speciale.
Il modello di valutazione adeguato, pertanto, non può che essere quello previsto dallo stesso art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011 per l’assenza nelle ore notturne dall’abitazione: la violazione sussiste se tale assenza interviene «senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all’autorità di pubblica sicurezza»; a carico del sorvegliato speciale che intende violare quella disposizione (o è costretto a farlo per necessità impreviste) sussiste un duplice onere: quello di avvisare preventivamente l’Autorità di pubblica sicurezza deputata al controllo e, in sede processuale, quella di evidenziare e fornire la prova delle necessità che lo avevano indotto ad uscire dall’abitazione nelle ore interdette o a ritardare il rientro. Anche per l’allontanamento dalla dimora occorre il preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza; quanto, invece, alla detenzione e al porto di armi, appare difficile ipotizzare una «ipotesi estrema» che consenta al giudice penale di ritenere la condotta priva di offensività.
Il modello si adatta anche alla prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni: il sorvegliato speciale, infatti, potrà chiedere al Tribunale l’autorizzazione a partecipare a quella riunione pubblica e, comunque, chiamato a rispondere della violazione della prescrizione, avrà l’onere di allegare e dimostrare che la relativa condotta era inoffensiva in quanto la partecipazione alla pubblica riunione era giustificata da motivi validi; in mancanza di tali allegazioni e tale prove non sembra vi sia spazio per il giudice penale di ritenere la condotta inoffensiva sulla base di una valutazione astratta: ad esempio, perché quella riunione pubblica era un comizio elettorale (al quale si può partecipare in quanto sostenitori di un partito o di un candidato ma anche per approfittare della folla per compiere reati o per incontrare pregiudicati).
Non si tratta di un vero e proprio onere probatorio, perché i motivi giustificanti la violazione potrebbero venire a conoscenza del giudice anche da altre fonti (ad esempio, la stessa polizia giudiziaria). Il giudice penale, in definitiva, non può essere chiamato a fornire una motivazione aggiuntiva della offensività della violazione della prescrizione: la valutazione è stata compiuta dal legislatore, che ha ritenuto necessarie quelle prescrizioni – ora limitate nel modo che si è visto – al fine di permettere quella sorveglianza che il tribunale, la cui decisione è soggetta ad impugnazione, ha ritenuto necessaria alla luce della pericolosità del soggetto; il giudice penale, piuttosto, potrà ritenere giustificata la partecipazione alla pubblica riunione se dagli atti emergeranno le specifiche circostanze cui si è accennato: in questo modo potrà operare la selezione delle condotte cui fanno riferimento le sentenze SU, Sinigaglia e Paternò.
L’interpretazione che in questa sede si adotta riduce sensibilmente la portata della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, escludendo che il divieto riguardi anche le riunioni in luoghi aperti al pubblico, anche se ad esse può partecipare un numero indeterminato di persone; esclude, quindi, le manifestazioni sportive in luoghi aperti al pubblico come stadi o palasport rispetto alle quali, peraltro, vige la autonoma normativa dettata dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive) che contempla anche la misura di prevenzione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive.
Ciò non comporta necessariamente un indebolimento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. In effetti, la ridotta estensione della prescrizione in oggetto non incide sulla possibilità, per il giudice che applica la misura di prevenzione, di imporre «tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale» (art. 8, comma 5, d. Igs. 159 del 2011). La previsione appena richiamata deve essere valorizzata in quanto permette al giudice della prevenzione di dettare prescrizioni specifiche con una motivazione adeguata che le giustifichi alla luce della pericolosità del soggetto e dei conseguenti pericoli per la società, non utilizzando, quindi, formule generali e stereotipate (nel caso in esame il decreto applicativo della sorveglianza speciale aggiungeva alla prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni le parole “o manifestazioni di qualsiasi genere“) che ripropongono inevitabilmente le tematiche già trattate in conseguenza della loro genericità.
Ovviamente – quando ciò sarà giustificato – la prescrizione aggiuntiva potrebbe riguardare anche la partecipazione a riunioni che non sono “pubbliche riunioni” nel significato ristretto che in questa sede è stato dalle SSUU attribuito all’espressione.
Il ricorso alle prescrizioni facoltative di cui all’art. 8, comma 5 d. Igs. n. 159 del 2011 ha il vantaggio di configurare la misura di prevenzione in maniera personalizzata sul soggetto, tenendo conto dei motivi che la giustificano; inoltre, permette un contraddittorio pieno già in sede di applicazione della misura, con le impugnazioni previste, con l’ulteriore conseguenza che anche il giudice penale potrà più facilmente valutare l’offensività di una violazione, essendo la prescrizione dettata in rapporto alla pericolosità del soggetto.
In definitiva, deve essere per le SSUU affermato il seguente principio di diritto: la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico.
La sentenza impugnata deve quindi, nel caso di specie, essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste limitatamente alla violazione della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni e la relativa pena di mesi quattro di reclusione deve essere eliminata nei confronti di entrambi gli imputati: in effetti, il palasport dove si svolge un incontro sportivo deve ritenersi “luogo aperto al pubblico“. Il criterio distintivo tra i luoghi pubblici e quelli aperti al pubblico è quello dell’accessibilità, già indicato dalle Sezioni Unite, Guardigli (Sez. U, n. 8 del 31/03/1951, Guardigli, Rv. 97110): è in luogo pubblico la riunione che si tenga in un luogo in cui ogni persona può liberamente transitare e trattenersi senza che occorra in via normale il permesso della autorità (ad es., piazza, strada); è in luogo aperto al pubblico la riunione che si tenga in luogo chiuso (ad es., cinema, teatro), ove l’accesso, anche se subordinato ad apposito biglietto di ingresso, è consentito ad un numero indeterminato di persone; è, invece, privata, la riunione che si tenga in luogo chiuso con la limitazione dell’accesso a persone già nominativamente determinate.
Il medesimo criterio – prosegue la Corte – è stato adottato anche recentemente, per ritenere il luogo di commissione del reato “aperto al pubblico“, con riferimento ai delitti di tolleranza abituale della prostituzione (Sez. 3, n. 29586 del 17/02/2017, C., Rv. 270251), di oltraggio a pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 595 del 21/11/2017 – dep. 2018, Piccioni, Rv. 271763) e di porto illegale di armi da fuoco (Sez. 5, n. 22890 del 10/04/2013, Ambrosio, Rv. 256949; Sez. 1, n. 16690 del 27/03/2008, Bellachioma, Rv. 240116).
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Il 19 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.46898 – a carattere spiccatamente processuale – che si pronuncia sul quesito se il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario sulle aziende richiesto ex art. 34 -bis, comma 6, del d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159, sia impugnabile con ricorso per cassazione, affermando piuttosto come tale diniego sia impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito.
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2020
Il 5 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4927 che richiama, ribadendolo, il principio di diritto – di recente puntualizzato in sede di legittimità da alcune decisioni che il Collegio condivide – secondo cui non integra gli estremi del reato di cui all’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011 la condotta del soggetto sottoposto, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che conduca senza patente – o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, un ciclomotore – non potendo tale mezzo essere ricondotto alla categoria dei motoveicoli contemplata dalla suddetta norma (Sez. 1, n. 6752 del 19/11/2018, dep. 2019, Miceli, Rv. 274803; Sez. 1 n. 58468 del 05/11/2018, Signorelli, Rv. 276152; v., fra le altre, anche Sez. 1, n. 38204 del 01/04/2019, Mazzù, n. m.; Sez. 1, n. 49473 del 16/07/2018, Grillo, n. m.). L’analisi letterale e l’inquadramento sistematico della norma danno ragione di tale approdo.
La disposizione incriminatrice contestata – precisa la Corte – sanziona con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni la condotta della persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che sia sorpresa alla guida di “un autoveicolo o motoveicolo“, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata. La nozione di “motoveicolo” riportata dall’art. 73 non è, tuttavia, tale che possa farsi rientrare in essa anche quella di “ciclomotore“, non autorizzando a tanto le norme definitorie di tali categorie estraibili dal Codice della strada.
L’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 285 del 1992, codice della strada, come modificato dalla legge n. 120 del 2010, stabilisce che, ai fini delle norme del suddetto codice, si intendono per veicoli tutte le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade, guidate dall’uomo. Poi, l’art. 47 d.lgs. cit. classifica i veicoli elencando: a) veicoli a braccia; b) veicoli a trazione animale; c) velocipedi; d) slitte; e) ciclomotori; f) motoveicoli; g) autoveicoli; h) filoveicoli; i) rimorchi; I) macchine agricole; m) macchine operatrici; n) veicoli con caratteristiche atipiche: tale elencazione individua, dunque, i ciclomotori e i motoveicoli come sottocategorie fra loro distinte.
L’art. 52 d.lgs. cit. definisce i “ciclomotori” come “veicoli a motore a due o tre ruote“, contraddistinti da: a) motore di cilindrata non superiore a 50 cc, se termico; b) capacità di sviluppare su strada orizzontale una velocità fino a 45 km/h. L’art. 53 stesso d.lgs. definisce i “motoveicoli” come “veicoli a motore, a due, tre o quattro ruote“, distinguendoli in varie specie, tra le quali è compresa quella dei “motocicli” (contigua a quella dei “ciclomotori“, in quanto costituisce l’unico tipo di “motoveicolo” a due ruote, ma distinta da essa), considerati come “veicoli a due ruote destinati al trasporto di persone, in numero non superiore a due, compreso il conducente” (lettera a).
Come ha evidenziato la prima delle decisioni richiamate (Sez. 1, n. 6752 del 19/11/2018, dep. 2019, cit.), nessuna modifica sostanziale alle disposizioni indicate è stata apportata dalle integrazioni determinate dall’art. 1, commi 2 e 3, del Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti 31 gennaio 2003 (pubblicato nel Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 123 del 29 maggio 2003), emanato in recepimento della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2002/24/CE del 18 marzo 2002, relativa all’omologazione dei veicoli a motore a due o tre ruote.
Anche sulla scorta di tale fonte, ciclomotori e motocicli restano distinti, rispettivamente, sotto le lettere a) e b). Alla lettera a) i ciclomotori sono classificati come veicoli a due ruote (categoria Lie) o veicoli a tre ruote (categoria L2e) aventi una velocità massima per costruzione non superiore a 45 km/h e caratterizzati: 1) nel caso dei veicoli a due ruote, da un motore: 1.1) la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cmc se a combustione interna, oppure 1.2) la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici; 2) nel caso dei veicoli a tre ruote, da un motore: 2.1) la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cmc se ad accensione comandata, oppure 2.2) la cui potenza massima netta è inferiore o uguale a 4 kW per gli altri motori a combustione interna, oppure 2.3) la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici. Alla lettera b) sono definiti i motocicli, ossia veicoli a due ruote, senza carrozzetta (categoria L3e) o con carrozzetta (categoria L4e), muniti di un motore con cilindrata superiore a 50 cmc se a combustione interna e/o aventi una velocità massima per costruzione superiore a 45 km/h.
In modo corrispondente, le differenze fra le suddette categorie di veicoli hanno avuto il loro riflesso sulla disciplina dell’abilitazione alla guida, quanto meno fino al 19 gennaio 2013, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 59 del 2011, il cui art. 3 ha integralmente sostituito le disposizioni delineate dall’art. 116 d.lgs. n. 285 del 1992. 3.2.1. Secondo la disciplina previgente, costituita dagli artt. 116 e 121 d.lgs. n. 285 del 1992, non si potevano guidare autoveicoli e motoveicoli – dunque, non anche i ciclomotori – senza avere conseguito la patente di guida e l’idoneità tecnica necessaria per il rilascio della patente medesima si conseguiva superando una prova di verifica delle capacità e dei comportamenti ed una prova di controllo delle relative cognizioni. Per guidare un motoveicolo di massa complessiva sino a 1,3 t. era previsto il conseguimento della patente di categoria Diversamente, per condurre un ciclomotore, il minore di età che aveva compiuto 14 anni doveva conseguire un titolo diverso dalla patente, costituito dal “certificato di idoneità alla guida … a seguito di specifico corso con prova finale, organizzato secondo le modalità di cui al comma 11 -bis“.
In tale assetto normativo, del tutto coerentemente, non si riteneva che potesse integrare il reato (allora) previsto dall’art. 116, comma 13, d.lgs. n. 285 del 1992, ma soltanto la violazione amministrativa sanzionata dall’art. 116, comma 13-bis, la guida di un ciclomotore con cilindrata fino a 50 cc. senza aver conseguito il prescritto certificato di idoneità (Sez. 4, n. 23631 del 19/4/2012, Geanta, Rv. 253129), mentre alla fattispecie penale era ricondotto il diverso caso di guida di un ciclomotore maggiorato nella cilindrata e, comunque, non corrispondente alle sue caratteristiche originarie, previste dall’art. 52 d.lgs. n. 285 del 1992, trattandosi di mezzo rientrante, di fatto, nella categoria dei motoveicoli di cui all’art. 53, per la conduzione del quale era prescritta la patente di categoria “A” (Sez. 4, n. 255 del 18/09/1997, dep. 1998, Fichera, Rv. 210156).
L’attuale disciplina, in vigore dal 19 gennaio 2013 per effetto del d.lgs. n. 59 del 2011, all’art. 116, comma 1, stabilisce, mutando parzialmente la prospettiva rispetto alla situazione precedente, che non si possono guidare ciclomotori, motocicli, tricicli, quadricicli e autoveicoli senza aver conseguito la patente di guida e, ove richieste, le abilitazioni professionali. Il complesso veicolare viene così ricondotto a unità tendenziale, in cui, diversamente dal regime previgente, per tutti i veicoli, compresi i ciclomotori, è previsto il conseguimento della patente di guida “conforme al modello UE” (art.116, comma 3): in pari tempo, però, il legislatore ha conservato le distinzioni derivanti dalle differenti caratteristiche tecniche dei veicoli stessi e dall’età dei conducenti, individuando diverse categorie di patenti abilitanti alla guida.
In particolare, mentre per i ciclomotori a due ruote (categoria Lie), con velocità massima di costruzione non superiore a 45 km/h, la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cmc se a combustione interna, oppure la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici, è prevista la patente “AM” (art. 116, comma 3, lett. a, n. 1), per i motocicli di cilindrata massima di 125 cmc, di potenza massima di 11 kW e con un rapporto potenza/peso non superiore a 0,1 kW/kg, è prevista la patente “Al” (art. 116, comma 3, lett. b, n. 1), per i motocicli di potenza non superiore a 35 kW con un rapporto potenza/peso non superiore a 0,2 kW/kg e che non siano derivati da una versione che sviluppa oltre il doppio della potenza massima, è prevista la patente “A2” (art. 116, comma 3, lett. c) e per i motocicli, ossia veicoli a due ruote, senza carrozzetta (categoria L3e) o con carrozzetta (categoria L4e), muniti di un motore con cilindrata superiore a 50 cmc, se a combustione interna e/o aventi una velocità massima per costruzione superiore a 45 km/h, è prevista la patente “A” (art. 116, comma 3, lett. d).
Assodato quanto precede, la Corte ritiene a questo punto che, alla stregua del quadro normativo di riferimento, il mero fatto dell’intervenuta previsione del conseguimento di una patente di guida anche per i conducenti di ciclomotori, con decorrenza dal 19 gennaio 2013 (quindi, vigente alla data di commissione del fatto ascritto a Cattareggia) non legittimi un’interpretazione in virtù della quale il soggetto che, sottoposto a misura di prevenzione in via definitiva, sia stato colto alla guida di un ciclomotore senza patente, possa essere chiamato a rispondere del reato previsto dall’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011.
In effetti, anche a seguito delle illustrate innovazioni normative, il conducente del ciclomotore, che si trovi nelle condizioni e tenga la condotta descritte nell’art. 73 cit., non deve rispondere del reato, perché il suddetto veicolo non può essere, comunque, ricondotto alla nozione di motoveicolo.
A corroborare, sempre sotto il profilo sistematico, tale conclusione vale rilevare per la Corte che l’art. 73 cit. non ha fatto altro che operare la ricognizione e l’attrazione nel testo unico dell’art. 6 legge n. 575 del 1965, norma, la quale, nel caso di guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, ai sensi dell’art. 82 e dell’art. 91 secondo e terzo comma, n. 2, d.P.R. n. 393 del 1959, comminava la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni, qualora si trattasse di persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a misure di prevenzione. La struttura di quella fattispecie penale rimandando alle norme integratrici dell’allora vigente “Testo unico sulla circolazione stradale” – fonte che, come da artt. 21 (che lo elencava, sotto la lettera d, tra le categorie dei veicoli) e 24 (che lo definiva come veicolo a due o tre ruote con cilindrata fino a 50 cc e capacità di sviluppare su strada piana una velocità fino a 40 km/h), già conosceva il concetto tecnico-giuridico di “ciclomotore“, distinguendolo da quello di “motoveicolo” (descritto dall’art. 25) – prevedeva, proprio in virtù di tale distinzione, solo per i motoveicoli il possesso della patente quale documento necessario per procedere alla corrispondente guida (art. 90, secondo comma, d.P.R. n. 393 del. 1959 cit.), laddove per il conducente del ciclomotore era sufficiente, a mente dell’art. 90, primo comma, d.P.R. cit., avere con sé un documento dal quale si potesse rilevare l’età del conducente.
Il chiaro riferimento, operato dalla norma, al duplice presupposto oggettivo (che si aggiunge a quello della definitività del provvedimento di prevenzione) della guida di un motoveicolo – categoria normativamente distinta da quella di ciclomotore – e del difetto di patente in capo al conducente sottoposto a misura di prevenzione definitiva – documento necessario per la guida dei motoveicoli, ma non per quella dei ciclomotori – costituiva l’evidente esito di una scelta legislativa volta a escludere per il conducente del ciclomotore le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 6 legge n. 575 del 1965. Il legislatore delegato del 2011, procedendo alla ricognizione delle norme vigenti in materia di misure di prevenzione, ha riprodotto l’art. 6 cit. nell’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011, senza alcuna sostanziale innovazione.
Peraltro, chiosa ancora la Corte, non è superfluo rilevare che, nella successione degli atti normativi emanati nel corso dell’anno 2011, il d.lgs. n. 159 del 2011 risale al 6 settembre 2011 (e la relativa entrata in vigore, per la parte che qui rileva, è del 13 ottobre 2011). Intanto, era stato emesso il 18 aprile 2011 il decreto legislativo n. 59 del 2011, fonte che ha previsto, a far data dal 19 gennaio 2013, la necessità del conseguimento della patente di guida (sia pure, con i minimi requisiti autorizzativi della categoria “AM“) per i conducenti dei ciclomotori.
Ebbene, è ineludibile per il Collegio osservare che, ove il d.lgs. n. 159 del 2011 avesse avuto l’obiettivo di rimodellare la fattispecie di cui all’art. 73 cit. recependo e coordinando la novità normativa introdotta nel Codice della Strada al fine di (estendere la punibilità della condotta sanzionata dall’art. 73 ai conducenti di ciclomotori, lo avrebbe fatto modificando i dati strutturali della fattispecie incriminatrice., essendo già nota la novità normativa riguardante la necessità di abilitazione (anche) per la guida dei ciclomotori. Ma ciò non è avvenuto.
L’esito di questo ragionamento è che tutti gli indici interpretativi rilevanti per chiarire l’ambito di applicazione dell’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011 inducono a concludere che, in mancanza di un intervento normativo, rimangono immutate le distinzioni riguardanti le categorie dei motoveicoli e dei ciclomotori, con l’effetto che la platea dei destinatari della norma incriminatrice in esame non può ritenersi suscettibile di ampliamento sulla scorta di un’esegesi sistematica spinta al punto tale da inserire nella relativa sfera di disciplina anche i conducenti dei ciclomotori per il solo fatto che pure per loro è ora necessario il conseguimento del titolo per l’abilitazione alla guida, ove poi il titolo manchi o sia revocato per l’effetto della misura di prevenzione.
Va, dunque, ritenuto che estendere l’applicazione dell’art. 73 cit. anche ai prevenuti che siano stati sorpresi alla guida di ciclomotori senza patente di guida sarebbe approdo contrario all’insuperabile divieto di analogia in malam partem in materia penale risultante dall’art. 1 cod. pen., dall’art. 14 disp. prel. cod. civ. e dall’art. 25 Cost. Nella prospettiva configurata, è da condividere senz’altro il rilievo che la depenalizzazione del reato di guida senza patente ex art. 116 cod. strada a seguito del d.lgs. n. 8 del 2016 non si estende all’ipotesi in cui la guida senza patente venga posta in essere da persona sottoposta a misura di prevenzione personale, in relazione a cui l’art. 73 del d.lgs. n. 159 del 2011 prevede un autonomo reato (Sez. 6, n. 8223 del 12/12/2017, dep. 2018, Cavallo, Rv. 272233); rilievo che va, secondo le considerazioni che precedono, specificato nel senso che esso non riguarda la guida del ciclomotore, poiché tale condotta è, nella disciplina vigente, estranea all’ambito di applicazione dell’art. 73 cit.
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Il 12 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 5501 che richiama il consolidato orientamento secondo cui è onere del giudice verificare «in concreto» la persistenza della pericolosità del proposto, soprattutto nei casi in cui sia decorso un apprezzabile periodo di tempo tra l’epoca dell’accertamento penale e il momento della formulazione del giudizio sulla prevenzione e quando tra la pregressa violazione della legge penale e tale ultimo giudizio si collochi un periodo detentivo tendente alla risocializzazione o comunque esente da ulteriori condotte sintomatiche di pericolosità.
Il Giudice di merito, dunque, deve procedere ai necessari accertamenti, fornendo giustificazione adeguata del perché ritenga che nella situazione concreta la pericolosità sociale che connotava il prevenuto prima del suo ingresso in carcere, sia ancora immutata, nonostante l’intervenuto stato detentivo, soprattutto nei casi in cui gli elementi posti a fondamento nel giudizio di prevenzione siano tutti precedenti all’insorgere dello stato detentivo. Tali accertamenti, di per sé doverosi, impongono un onere motivazionale ulteriore nei casi in cui, oltre allo stato detentivo, sussistano anche altri elementi successivi alla detenzione che depongano in senso favorevole al proposto.
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Il 26 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 7613 che fa il punto sul procedimento di applicazione delle misure di prevenzione personali. Come è noto, nel giudizio di prevenzione sono individuabili due fasi: una, preliminare, di tipo constatativo, finalizzata ad accertare l’inquadramento del proposto in una delle categorie di pericolosità espressamente «tipizzate» dal legislatore all’art. 1 e all’art. 4 dell’attuale d.lgs. n.159 del 2001; l’altra, eventuale – perché si svolge solo se la precedente si è conclusa positivamente, ovvero con l’iscrizione del proposto in una delle categorie tipizzate – di tipo «prognostico» in senso stretto, volta a formulare, in termini di «attualità», un giudizio di probabile e concreta reiterabilità di condotte illecite da parte del proposto, evidentemente correlate alla categoria di accertata appartenenza: in questo senso ben può dirsi che questa seconda valutazione è logicamente influenzata dai risultati della prima, nel senso che la prognosi negativa deve necessariamente tener conto della specifica inclinazione delinquenziale che ha determinato l’iscrizione del soggetto ad una categoria anziché ad un’altra.
Le due indicate fasi della complessa operazione valutativa attribuita al giudice della prevenzione sono fondate su standard probatori diversi: il giudizio constatativo impone una congrua ricostruzione di «fatti» idonei a determinare l’inquadramento (attuale o pregresso) del soggetto proposto in una delle categorie; il giudizio prognostico sulla pericolosità sociale, avendo ad oggetto il futuro comportamento del proposto, impone la valutazione della complessiva personalità del soggetto, risultante da ogni manifestazione sociale della sua vita sulla scorta di elementi obiettivamente identificabili e non rimessi all’arbitrario apprezzamento del giudicante.
Alla stregua della casistica giurisprudenziale, elementi rivelatori della pericolosità sono stati ritenuti, di volta in volta, l’associazione o la relazione del proposto con altri soggetti socialmente pericolosi come anche l’accertata predisposizione al delitto desumibile dalle condanne o dalle denunzie a suo carico ed i comportamenti illeciti e antisociali che rendano necessaria una particolare vigilanza da parte degli organi di pubblica sicurezza. Si tratta, comunque, di elementi fattuali e circostanze che il giudice della prevenzione deve autonomamente valutare per apprezzarne il carattere sintomatico ai fini di una prognosi di pericolosità che, dovendo essere il più possibile specifica ed individualizzata, richiede la convergenza di una pluralità di indici e la confutazione di quelli di segno contrario eventualmente allegati dalla difesa.
Il giudice della prevenzione, anche in sede di giudizio prognostico, deve compiere una autonoma valutazione strumentale alla precipua “ratio” dell’istituto delle misure di prevenzione, quali strumenti di carattere preventivo che l’ordinamento predispone ante delictum per esigenze di tutela della società; deve, di conseguenza, fondare la sua prognosi su precisi elementi di fatto e non può limitarsi a recepire acriticamente le valutazioni compiute da altre autorità giudiziarie, per di più, a fini diversi.
Il giudice, in altri termini, può legittimamente fondare il giudizio di attualità della pericolosità sociale sugli elementi fattuali e le circostanze valorizzate nei provvedimenti giudiziari anche diversi dalle sentenze, ma non può limitarsi a recepire le valutazioni contenute in atti giudiziari che non siano sintomatici di condotte espressive di pericolosità sociale, dovendo invece, prendere in esame gli elementi fattuali poste a fondamento delle valutazioni poste.
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Il 21 aprile esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 2545 onde l’emissione dell’ammonimento da parte del questore ha natura preventiva e può fondarsi su elementi istruttori idonei a rappresentare, in via prognostica, la potenziale pericolosità delle condotte prodromiche del reato di stalking. Invero, il comportamento molesto costituisce un minus – in prospettiva di progressione aggressiva – rispetto alla minaccia, già autonomamente suscettibile di tutela mediante lo strumento amministrativo contemplato dall’art.8, comma 1, d.l. n. 11/2009, convertito con L.38/2009, proprio al fine di evitare la degenerazione in condotte penalmente rilevanti nella cornice degli atti persecutori.
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Il 15 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 20954 onde il procedimento di cui all’art. 14, comma 2-ter, D.L.vo n. 159 del 6 settembre 2011 è stato introdotto nel cosiddetto Codice Antimafia dall’art. 4 della Legge 17 ottobre del 2017 n. 161.
Come è noto, essa ha introdotto l’obbligo del giudice di rivalutare l’attuale pericolosità sociale del soggetto che è stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nell’ipotesi in cui, la misura sia stata sospesa durante il tempo in cui l’interessato è stato sottoposto a detenzione per espiazione di pena.
Tale rivalutazione, alla quale il Tribunale deve procedere “anche di ufficio” – con il che ammettendosi che il procedimento possa avviarsi su istanza di parte – va effettuato “dopo la cessazione dello stato detentivo” e ad esso, per quanto compatibili, si applicano le disposizioni di cui all’art. 7 del medesimo D.L.vo 159/2011, intese a regolare le modalità della procedura, in particolare attraverso la previsione di una udienza che assicuri il contraddittorio tra le parti.
All’esito dell’accertamento, secondo quanto espressamente si prevede, il Tribunale può emettere solo due provvedimenti, aventi la forma del decreto:
– quello con il quale “ordina l’esecuzione della misura” di prevenzione, nel caso in cui ritenga che persista la pericolosità sociale del soggetto;
– quello con il quale “revoca” la misura di prevenzione nel caso opposto in cui ritenga “cessata” la pericolosità sociale dell’interessato.
Come si vede, la norma non prevede alcun intervento del Tribunale sulla durata della misura originariamente stabilita nel decreto impositivo rimasto sospeso a causa dell’intervenuta detenzione.
Siffatto intervento – che costituisce una “modifica” della misura – è, invece, espressamente previsto e reso possibile dall’art. 11, comma 2, D.L.vo 159/2011.
Tuttavia, tale procedimento è diverso da quello introdotto dall’art. 14, comma 2-ter dello stesso decreto.
Il procedimento ex art. 11, comma 2, del Codice Antimafia, infatti, presuppone una misura in corso di esecuzione e regola i casi nei quali, per l’appunto durante l’esecuzione della misura, si verifichino eventi tali da giustificare una revoca o una modifica della misura stessa, evidentemente anche in relazione al termine di durata.
Diverso è il caso laddove la misura non è in corso di esecuzione, per essere stata sospesa. In quest’ultima evenienza, a garanzia dell’interessato, il legislatore ha introdotto l’obbligo di una nuova verifica della pericolosità sociale, nell’attualità, nei termini di cui all’art. 14, comma 2-ter, D.L.vo 159/2011, per assicurare che la futura esecuzione della misura sia ancorata alla effettiva persistenza del presupposto fondamentale ed imprescindibile della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, che il lungo periodo di carcerazione, superiore a due anni, potrebbe avere eliso.
Solo una volta che sia stata accertata, in esito al procedimento ex art. 14 citato, la persistenza della pericolosità sociale e si sia, pertanto, ordinata, da parte del Tribunale, l’esecuzione della misura di prevenzione dopo l’intervenuta scarcerazione dell’interessato, quest’ultimo o la stessa autorità proponente potranno chiedere la revoca o la modifica secondo quanto prevede l’art. 11, comma 2, D.L.vo 159/2011.
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Il 14 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 28551 che, richiamando un indirizzo abbastanza consolidato, incidentalmente afferma che il provvedimento questorile può essere, a determinate condizioni, oggetto di disapplicazione ad opera del giudice penale chiamato a conoscere del reato la cui configurabilità è strettamente connessa alla legittimità del menzionato provvedimento. Si è infatti a tal proposito affermato che il divieto del questore di possedere o utilizzare il telefono cellulare quale apparato di comunicazione ricetrasmittente imposto ai soggetti destinatari di avviso orale, dalla cui inosservanza dipende la configurabilità del reato di cui all’art. 4, comma quarto, della legge n. 1423 del 1956, può essere disapplicato dal giudice penale qualora sia privo di specifica motivazione e non indichi le ragioni che hanno determinato l’emissione di tale prescrizione.
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Il 9 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione penale n. 31178, secondo cui il reato di cui all’art. 6, commi 2 e 6, legge n. 401 del 1989, è configurabile esclusivamente in caso di violazione dell’obbligo di presentarsi nel giorno e nell’ora indicati presso l’ufficio di polizia prestabilito, e si verificherà, quindi, se la mancata presentazione dell’imputato, nella specie, sia, stata determinata da un impedimento per malattia integrante forza maggiore o caso fortuito, procedendo alle acquisizioni istruttorie utili e non vietate dalla legge.
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Il 24 novembre esce la sentenza della I sezione del TAR Campania n. 1739, circa i presupposti, natura e funzione dell’informativa antimafia prevista all’art. 84 d.lgs. n. 159/2011.
Ad avviso della Corte, la predetta informazione antimafia è un provvedimento di natura cautelare e preventiva, espressione del bilanciamento tra tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e libertà di iniziativa economica. Essa costituisce una misura volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica amministrazione, diretta ad impedire che possa essere titolare di rapporti, specie contrattuali, con le Pubbliche Amministrazioni, un imprenditore che sia comunque coinvolto, colluso o condizionato dalla delinquenza organizzata.
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Il 24 novembre esce anche la sentenza della III sezione della Cassazione penale n. 32739, secondo cui, avendo riguardo al Daspo sportivo, il controllo di legalità del giudice deve riguardare l’esistenza di tutti i presupposti legittimanti l’adozione dell’atto da parte dell’autorità amministrativa, ed investire altresì la durata della misura che, se ritenuta eccessiva, può essere congruamente ridotta dal giudice della convalida. Di conseguenza, se il giudice deve effettuare un controllo sulla durata della misura, è evidente la necessità di una motivazione in proposito. Ciò, peraltro, è vieppiù vero se la durata della misura è fissata in misura superiore alla media tra minimo e massimo previsti dalla legge.
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L’11 dicembre esce la sentenza della sez. giurisdizionale della CGA n. 1134, alla stregua della quale, nei provvedimenti del giudice amministrativo, per tutelare la privacy dei soggetti interessati, i nominativi di alcune parti processuali possono essere oscurati a cura della Segreteria non solo omettendo i relativi dati, ma anche sostituendoli con pseudonimi, segni grafici o espressioni letterali, che ne impediscano la identificazione
Il c.d. tentativo di infiltrazione mafiosa, che costituisce il presupposto per l’adozione di un interdittiva antimafia, si concreta e si risolve nel tentativo, da parte di un c.d. “soggetto mafioso” – o di un soggetto “presunto mafioso” (in ragione di talune condanne e/o “pendenze” giudiziarie specificamente indicate dalla normativa di settore), o anche di un soggetto “presunto mafioso per contiguità” (in ragione della deliberata scelta di convivere con un soggetto mafioso o presunto tale) – di condizionare le scelte di una società o di un’impresa (2).
Ai sensi del codice antimafia (artt. 84, comma 4 e 91 comma 6) sono indici rivelatori o sintomatici della esistenza di infiltrazioni mafiose: a) la sussistenza di provvedimenti che “dispongono” o anche solamente che “propongano” una misura di prevenzione (art. 84, comma 4, lett. ‘b’); b) la sussistenza di provvedimenti che recano una “condanna” anche non definitiva, o che dispongono una misura cautelare (custodia cautelare o altre misure atte ed evitare pericolo di fuga, inquinamento di prove o reiterazione del reato) o che dispongono il (rinvio a) giudizio per taluno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis del codice di procedura penale, … », tra i quali vi è il reato di cui all’art. 416 bis del codice penale; c) la sussistenza di provvedimenti che recano una “condanna” anche non definitiva, o che dispongono una misura cautelare (custodia cautelare o altre misure atte ed evitare pericolo di fuga, inquinamento di prove o reiterazione del reato) o che dispongono il (rinvio a) giudizio per alcuni delitti fra i quali quello di “estorsione” e “associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 84, comma 4) (3).
Sussiste il presupposto del tentativo di infiltrazione mafiosa nel caso in cui sia stata dimostrata la sussistenza di relazioni di vicinanza (poco importa se per “deferenza”, “timore reverenziale” o “amicizia”) del soggetto interessato con soggetti acclaratamente appartenenti ad associazioni di stampo mafioso – relazioni risultanti da circostanze inequivocabilmente accertate, come quella di aver assunto in qualità di “dipendente” una loro stretta congiunta e di aver avviato e condotto con un altro di essi attività imprenditoriali, avendo così potuto beneficiare, o anche semplicemente ritenuto di poter beneficiare, delle indebite e convenienti interferenze della criminalità organizzata.
2021
L’11 gennaio esce la sentenza della III sezione del Consiglio di Stato n. 317/21 onde, ai fini dell’identificazione del tifoso violento, la valutazione discrezionale del questore finalizzata all’imposizione del divieto di partecipazione a manifestazioni sportive per il tifoso violento si deve basare su elementi gravi, precisi e concordanti, quali le indicazioni fornite alla polizia dai filmati estrapolati dagli impianti di videosorveglianza e la presenza di ferite in volto.
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Il 5 febbraio esce la sentenza della I-ter sezione del TAR Lazio n. 1483.
Ad avviso della Corte, è illegittimo l’invito rivolto dal Questore nei confronti di un soggetto, ex art. 75 comma 14° D.P.R. 309/90 – emesso a seguito di verbale di accertamento dei Carabinieri – a non fare più uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, nel caso in cui sia stata omessa la preventiva convocazione dell’interessato. In tal caso, infatti, deve ritenersi violato l’iter procedimentale previsto dalla medesima disposizione normativa, e ciò sul rilievo che la norma in esame, al comma 4, così dispone: “Entro il termine di quaranta giorni dalla ricezione della segnalazione, il prefetto, se ritiene fondato l’accertamento, adotta apposita ordinanza convocando, anche a mezzo degli organi di polizia, dinanzi a sé o a un suo delegato, la persona segnalata per valutare, a seguito di colloquio, le sanzioni amministrative da irrogare e la loro durata”.
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Il 16 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 6089 con riferimento alla prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni disposta in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.
Ad avviso della Corte, la suddetta prescrizione si riferisce esclusivamente alle riunioni «in luogo pubblico», con la conseguente esclusione delle riunioni in luoghi «aperti al pubblico», come, ad esempio, le manifestazioni sportive in luoghi come gli stadi o i palasport, rispetto alle quali, come è stato nel frangente osservato, vige la autonoma normativa dettata dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401, che contempla anche la misura di prevenzione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive.
Infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, si svolge «in luogo pubblico» la riunione che si tenga in un luogo in cui ogni persona può liberamente transitare e trattenersi senza che occorra, in via normale, il permesso dell’Autorità amministrativa (ad es., piazza, strada); mentre è in luogo «aperto al pubblico» la riunione che si tenga in un luogo chiuso (ad es., cinema, teatro), ove l’accesso, anche se subordinato alla disponibilità di un apposito biglietto di ingresso, è consentito a un numero indeterminato di persone; ed è, infine, «privata», la riunione che si tenga in un «luogo chiuso», l’accesso sia limitato a persone già nominativamente determinate.
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Il 16 marzo esce la sentenza della II sezione del TAR Puglia n. 469, secondo cui, sopo la revoca della patente, il decorso di tre annimlegittima la richiesta di un nuovo titolo di guida. La Prefettura, in particolare, deve riscontrare se sia stato adottato un provvedimento che abbia inciso sulla patente di guida e se sia trascorso il triennio previsto come ostativo per poter presentare una nuova istanza indirizzata al conseguimento della nuova patente.
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Il 29 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 16358, alla stregua della quale, qualora il destinatario del provvedimento del questore di convalida di Daspo abbia esercitato il diritto di difesa, attivando il contraddittorio cartolare, mediante il deposito di memoria scritta e il Giudice, successivamente, abbia convalidato il provvedimento questorile, deve escludersi la violazione di cui all’art. 178 comma 1 lett. c) c.p.p. per la mancata indicazione dell’ora di deposito del provvedimento di convalida
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Il 12 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 152, secondo cui vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 1, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 16 e 35 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione prima.
Data la comunanza delle disposizioni censurate, nonché l’identità di alcuni dei parametri costituzionali invocati e dei profili e delle argomentazioni utilizzate, i giudizi vanno riuniti e decisi con unica pronuncia.
In via preliminare, deve essere rigettata l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato nell’ambito del giudizio iscritto al reg. ord. n. 126 del 2020.
La difesa statale ritiene inammissibili le questioni per l’insufficiente motivazione in ordine alla loro rilevanza, in quanto sarebbe lacunosa la descrizione del procedimento principale e della situazione personale del ricorrente.
Il rimettente riferisce che il giudizio innanzi ad esso verte su una fattispecie di diniego di rilascio della patente di guida per il carattere ostativo della precedente applicazione di una misura di prevenzione. Il giudice a quo ritiene che la domanda di annullamento debba essere esaminata alla luce della disposizione censurata che – nel disciplinare il provvedimento di diniego del titolo – attribuisce al prefetto un potere di carattere automatico e vincolato. Solo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale consentirebbe di annullare il provvedimento impugnato.
Gli elementi descrittivi offerti risultano sufficienti a suffragare l’applicabilità della disposizione censurata ed il requisito della rilevanza del dubbio di costituzionalità (ex plurimis, sentenze n. 59 del 2021, n. 267, n. 224 e n. 32 del 2020, n. 199 e n. 105 del 2019, n. 22 del 2018; ordinanze n. 147 e n. 92 del 2020, n. 103 e n. 64 del 2019, n. 242 del 2018, n. 187 e n. 12 del 2017).
Va inoltre riconosciuta l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 1, cod. strada, in quanto sollevate dal giudice amministrativo.
Sebbene sul tema vi siano anche decisioni delle sezioni unite civili della Corte di cassazione diversamente orientate (da ultimo, ordinanza 19 novembre 2020, n. 26391), questa Corte ha già riconosciuto la rilevanza e l’ammissibilità, sotto il profilo della titolarità della giurisdizione del giudice a quo, di analoghe questioni sollevate dal giudice amministrativo in ordine alla legittimità dello stesso art. 120 cod. strada (sentenze n. 24 e n. 99 del 2020).
Il TAR per la Lombardia richiama tali precedenti di questa Corte e fornisce una non implausibile motivazione, idonea ad escludere che nella specie la giurisdizione del giudice amministrativo possa ritenersi ictu oculi manifestamente insussistente.
Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 1, cod. strada, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., non sono fondate.
L’art. 120 cod. strada, rubricato «Requisiti morali per ottenere il rilascio dei titoli abilitativi di cui all’articolo 116», al comma 1 menziona, tra i soggetti che «[n]on possono conseguire la patente di guida» anche «coloro che sono o sono stati sottoposti […] alle misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423», recante «Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità» (legge poi abrogata dall’art. 120, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136», che ha disciplinato ex novo le misure di prevenzione).
Nella categoria di coloro che non possono conseguire la patente di guida la disposizione censurata include, altresì, «le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309», recante «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza».
Occorre, preliminarmente, esaminare le premesse ermeneutiche su cui si fondano i quesiti formulati dal TAR Lombardia.
Come già accennato, i rimettenti escludono motivatamente che la disposizione censurata si presti a un’interpretazione adeguatrice, la quale estenda al diniego di rilascio i principi affermati da questa Corte in riferimento alla disciplina della revoca del titolo abilitativo.
Infatti, con sentenza n. 22 del 2018, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 2 del medesimo art. 120 cod. strada, «nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi di condanna per reati di cui agli artt. 73 e 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), che intervenga in data successiva a quella di rilascio della patente di guida – dispone[va] che il prefetto “provvede” – invece che “può provvedere” – alla revoca della patente».
Ciò in base alla considerazione che «[l]a disposizione denunciata – sul presupposto di una indifferenziata valutazione di sopravvenienza di una condizione ostativa al mantenimento del titolo di abilitazione alla guida – ricollega […] in via automatica, il medesimo effetto, la revoca di quel titolo, ad una varietà di fattispecie, non sussumibili in termini di omogeneità, atteso che la condanna, cui la norma fa riferimento, può riguardare reati di diversa, se non addirittura di lieve, entità». E anche in considerazione della contraddizione insita nel fatto che «agli effetti dell’adozione delle misure di loro rispettiva competenza (che pur si ricollegano al medesimo fatto-reato e, sul piano pratico, incidono in senso identicamente negativo sulla titolarità della patente) – mentre il giudice penale ha la “facoltà” di disporre, ove lo ritenga opportuno, il ritiro della patente, il prefetto invece ha il “dovere” di disporne la revoca».
Inoltre, con la successiva sentenza n. 24 del 2020, lo stesso comma 2 dell’art. 120 cod. strada è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, «nella parte in cui dispone[va] che il prefetto “provvede” – invece che “può provvedere” – alla revoca della patente di guida nei confronti di coloro che sono sottoposti a misura di sicurezza personale».
Anche in questo caso l’automatismo della revoca della patente da parte del prefetto è stato, infatti, ritenuto contrario ai principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, attesa la varietà (per contenuto, durata e prescrizioni) delle misure di sicurezza irrogabili, oltreché contraddittorio rispetto al potere riconosciuto al magistrato di sorveglianza, il quale, nel disporre la misura di sicurezza, “può” consentire al soggetto che vi è sottoposto di continuare – in presenza di determinate condizioni ‒ a fare uso della patente di guida.
Infine, con la sentenza n. 99 del 2020, l’art. 120, comma 2, cod. strada è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dei principi di uguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, nella parte in cui disponeva che il prefetto «provvede» – invece che «può provvedere» – alla revoca della patente di guida nei confronti dei soggetti che sono o sono stati sottoposti a misure di prevenzione.
Alla luce di queste pronunce, tutte riferite alla disciplina della revoca della patente di guida, ma in correlazione a distinte fattispecie in essa ricomprese, appare corretta la premessa dei rimettenti, circa l’impossibilità di una generale estensione, in via interpretativa, ai provvedimenti di diniego di rilascio dei principi affermati in riferimento ai casi di revoca del titolo.
D’altra parte, questa Corte ha già escluso che le ragioni che hanno comportato il superamento dell’automatismo della revoca prefettizia ad opera delle richiamate sentenze siano analogamente riferibili al diniego del titolo abilitativo di cui al comma 1 dell’art. 120 cod. strada.
Questa conclusione si fonda sul rilievo che «tale diniego riflette una condizione ostativa che, diversamente dalla revoca del titolo, opera a monte del suo conseguimento e non incide su alcuna aspettativa consolidata dell’interessato. Inoltre non ricorre, in questo caso, la contraddizione, che ha assunto decisivo rilievo in tema di revoca della patente, tra obbligatorietà del provvedimento amministrativo e facoltatività della parallela misura adottabile dal giudice penale in relazione alla medesima fattispecie di reato. Infine, diversamente da quanto presupposto dal giudice a quo, l’effetto ostativo al conseguimento della patente, previsto dalla disposizione censurata, non incide in modo “indifferenziato” sulla posizione dei soggetti condannati per reati in materia di stupefacenti. La diversa gravità del reato commesso, unitamente alla condotta del reo successiva alla condanna, assume, infatti, determinante rilievo ai fini del possibile conseguimento (anche dopo un solo anno nel caso di condanna con pena sospesa) di un provvedimento riabilitativo (ex artt. 178 e 179 del codice penale), che restituisce al condannato il diritto a richiedere la patente di guida» (sentenza n. 80 del 2019 e ordinanza n. 81 del 2020).
Questi stessi argomenti risultano estensibili alle questioni relative al diniego di rilascio del titolo a coloro che siano o siano stati sottoposti a misure di prevenzione.
Inoltre, con riferimento a queste ultime è prevista la possibilità di ottenere, sebbene dopo tre anni, la riabilitazione prevista dall’art. 70 del d.lgs. n. 159 del 2011. Essa comporta la cessazione degli effetti pregiudizievoli connessi alla misura, nonché dei divieti previsti dall’art. 67 dello stesso d.lgs. n. 159 del 2011. Anche rispetto a questa ulteriore condizione soggettiva, pertanto, l’ordinamento riconosce un differenziato rilievo della condotta e della personalità del soggetto, con una valutazione che assume rilevanza decisiva ai fini del possibile conseguimento della patente di guida.
Pertanto, i significativi elementi differenziali, che caratterizzano rispettivamente i provvedimenti di diniego di rilascio, di cui al comma 1 dell’art. 120 cod. strada, e quelli di revoca del titolo, giustificano, su un piano di non manifesta irragionevolezza, il diverso trattamento normativo, così escludendo la denunciata violazione dell’art. 3 Cost.
Rimane comunque auspicabile una nuova configurazione delle condizioni ostative del rilascio, nel senso di un migliore coordinamento sistematico delle distinte fattispecie, alla luce delle novità scaturite dalle precedenti decisioni di questa Corte.
Non sono fondate neppure le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 1, cod. strada, sollevate in riferimento agli artt. 4, 16 e 35 Cost.
Quanto alla dedotta violazione del diritto al lavoro, va escluso che tale diritto non sia, di per sé, esercitabile per il diniego della patente di guida. Inoltre, da tempo, la giurisprudenza di questa Corte ha posto in risalto che, poiché «nessuna norma costituzionale assicura indistintamente a tutti i cittadini il diritto di guidare veicoli a motore, non viola la Costituzione la legge ordinaria che consente l’esercizio del diritto solo a chi abbia certi requisiti: di modo che la patente, come è concessa caso per caso in applicazione d’una norma di legge ordinaria, così può essere tolta, in virtù di un’altra norma di legge ordinaria, senza che ne soffra la libertà di circolazione costituzionalmente garantita» (così la sentenza n. 6 del 1962, richiamata dalla sentenza n. 274 del 2016).
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare delle c.d. misure di prevenzione in generale?
- occorre muovere dal concetto stesso di “prevenzione”;
- si tratta di un concetto poliedrico dal punto di vista semantico, che può essere declinato in modo proteiforme anche in ambito giuridico, afferendo in generale alle tecniche di c.d. prevenzione “sociale”;
- una vocazione “preventiva” sul crinale teleologico la assume l’intero sistema normativo penale, tanto sostanziale quanto processuale, orientato come esso è ad una “prevenzione generale”, giusta minaccia in incertam personam della pena come risposta alla eventuale commissione di fatti inadempimento reato; e ad una “prevenzione speciale”, irrogando una pena o una misura di sicurezza a chi, per aver già commesso un fatto inadempimento reato, si sia palesato ex se pericoloso e come tale meritevole di essere recuperato con contestuale “messa in sicurezza” della società civile che da tale inadempimento reato abbia già subito un vulnus;
- quanto alle costruzioni normative specifiche a connotazione “preventiva”, esse muovono di regola da una visione “ex ante”, come tale orientata a non far commettere al destinatario delle pertinenti misure degli illeciti e, massime, degli illeciti penali;
- non mancano tuttavia (e anzi sembrano vieppiù frequenti) tecniche normative di tipo “successivo”, orientate alla costruzione di fattispecie incriminatrici con soglia di punibilità molto anticipata, di modo che si finisce col punire – muovendosi dunque ormai ex post – chi non solo non ha leso, ma ha financo meramente lambito la messa in pericolo dell’interesse giuridico che si intende proteggere; ciò forgiando fattispecie di reato di pericolo presunto, come accade in particolare per il settore delle contravvenzioni “anti-infortuni” nella materia lavoristica.
Cosa occorre rammentare delle c.d. misure di prevenzione in senso stretto, sul crinale della pertinente evoluzione storica?
- si tratta di provvedimenti di vario genere e foggia, accomunati dal fatto di essere applicabili a soggetti che non abbiano ancora commesso alcun fatto inadempimento reato, e dunque alcun fatto penalmente rilevante;
- tali soggetti vengono resi destinatari di simili misure preventive per essere considerati dall’ordinamento socialmente pericolosi, onde tale pericolosità va controllata dal sistema proprio al fine di scongiurare la commissione di fatti criminosi;
- si tratta di misure ante delictum o praeter delictum, la cui strutturale connotazione è appunto quella di prescindere dalla (previa) commissione di un fatto inadempimento reato da parte di chi le subisce, e la cui naturale funzione appare di tipo special preventivo, essendo rivolte a soggetti agenti ben individuati (senza orientarsi in incertam personam);
- esse compendiano provvedimenti di tipo variamente afflittivo, presentando dunque una generica componente conculcativa, applicata ex ante a fini di prevenzione sociale;
- più in specie, si tratta di misure talvolta restrittive della libertà personale di chi ne sia destinatario pur prescindendo dalla commissione da parte di quest’ultimo di un reato, sulla scorta di semplici indizi o sospetti di pertinente pericolosità, circostanza che da sempre fa ampiamente discutere in ordine alla pertinente “legittimità sostanziale”;
- l’affiorare sempre più pervasivo di fenomeni di c.d. criminalità collettiva e, in particolare, di criminalità mafiosa, ha tuttavia sospinto verso il progressivo ampliamento del c.d. diritto della prevenzione che è via via assurto a vero e proprio sistema normativo autonomo e a sé stante (parte della dottrina parla in proposito di precipua “identità dogmatica”) rispetto a quello penale, che pure ad esso aveva dato la stura, permanendo nondimeno punti di contatto massime sul crinale della concreta applicazione delle pertinenti misure, affidata al controllo del giudice penale;
- sul crinale storico, le tre fonti primarie da tenere a mente, avendo esse forgiato e via via ampliato il c.d. “sistema della prevenzione”, sono – in successione cronologica tra loro – la legge 1423.56, la legge 575.65 e la legge “Reale” 152.75; esse hanno subito progressive (almeno quanto, sovente, disorganiche) novelle orientate a declinare la prevenzione secondo le emergenze scaturenti dall’ampliarsi dei fenomeni di criminalità collettiva, tanto mafiosa (come palesano gli “aggiornamenti” operati dalla legge Rognoni – La Torre del 1982) quanto di stampo terroristico ed eversivo; la estemporaneità degli interventi normativi e la tecnica legislativa che li ha accompagnati (sovente densa di rinvii) ha complicato il quadro della disciplina prevenzionistica, anche in termini di concreta identificazione dei presupposti applicativi di ciascuna singola misura;
- la progressiva presa di coscienza del ruolo strategico che la “paralisi dei patrimoni” illecitamente costituiti riveste nella lotta alle mafie ed alla criminalità organizzata in generale ha fatto progressivamente aumentare l’importanza della prevenzione, con particolare riguardo a quella di tipo patrimoniale, attraverso la penetrante arma della confisca (preceduta dal sequestro); ne è conseguito un vieppiù ingente proliferare di norme afferenti tanto ai proventi da attività illecita – traffico di stupefacenti o di armi, sfruttamento della prostituzione, usura e racket, corruzione e così via – quanto ai proventi da attività in sé lecite, che costituiscano tuttavia lo strumento per “pulire” (così altrimenti sfuggendo alla confisca) denaro e valori derivanti dalle attività illecite;
- negli anni 2008-2009 il legislatore è in particolare intervenuto sul sistema della prevenzione finalizzata al contrasto della criminalità mafiosa, con finalità di sicurezza pubblica, massime giusta novellazione della c.d. Legge Reale 152.75; ne sono scaturiti in particolare la modifica dei soggetti promotori della proposta di applicazione di una misura di prevenzione (con peculiare legittimazione del direttore della DIA a svolgere indagini e a spiccare richiesta allorché stia procedendo nei confronti di terzi); un deciso ampliamento (soggettivo) del novero dei destinatari delle misure di prevenzione medesime ed una modifica dei presupposti (oggettivi) di applicazione della confisca; il conferimento di effetti precipui alla notifica della proposta di prevenzione; un novello criterio di individuazione del PM competente con riguardo alle udienze del procedimento di prevenzione; la possibilità di richiedere e di applicare anche disgiuntamente le misure di prevenzione personali e quelle patrimoniali, con possibilità in relazione a queste ultime (misure di prevenzione patrimoniali) di essere disposte anche in caso di morte del soggetto proposto, proseguendo la pertinente “azione” nei confronti di eredi ed aventi causa laddove il proposto medesimo deceda nel corso del procedimento applicativo;
- oltre ai mentovati interventi sulla Legge Reale, la riforma del 2008/2009 è intervenuta anche – in misura rapsodica quanto a testi normativi incisi, ma con l’intento di sistematizzare e sciogliere taluni dubbi ermeneutici – su altre disposizioni compendianti il c.d. “sistema della prevenzione”, ampliando il novero delle situazioni legittimanti l’applicazione delle pertinenti misure, modificando i requisiti finalizzati ad ottenere la riabilitazione di prevenzione, rimodulando in ottica di ampliamento i poteri di iniziativa del Direttore della DIA e, sul crinale patrimoniale, ampliando l’usbergo operativo della c.d. confisca per equivalente; nonché, soprattutto, sganciando l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali da quelle personali;
- segue una ulteriore stagione di riforme nel 2010/2011, che porta alla istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata ed al c.d. Piano straordinario contro le mafie, il cui sbocco è la legge delega del 2010 ed il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (oltre a nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia) del 2011;
- un nuovo intervento del Legislatore appartiene poi agli anni 2017/2019, con modifiche al codice antimafia, DASPO urbano e tutela della sicurezza pubblica in generale, senza peraltro che venga meno il sistema misto originario alla cui stregua all’applicazione delle misure di prevenzione procedono in parte l’Autorità amministrativa (di pubblica sicurezza appunto) ed in parte l’Autorità giudiziaria.
Come si atteggia il rapporto tra misure di prevenzione personali e Costituzione nella elaborazione dottrinale e – tradizionalmente – presso la Corte costituzionale ?
- tesi dottrinale in passato prevalente: pur in difetto di norme costituzionali specifiche, le misure di prevenzione devono assumersi pienamente ammissibili e compatibili con la Carta costituzionale, stante come tra i compiti che imprescindibilmente appartengono allo Stato si collochi quello di prevenire il compimento di reati, quale priorità anche di ordine logico rispetto al potere punitivo, necessariamente “successivo”; da questo punto di vista, le misure di prevenzione ed il sistema della prevenzione in genere vanno assunti oggetto di una “doverosità costituzionale” dello Stato, non potendosi altrimenti giustificare una norma come l’art.2 della Carta che, nel prevedere che i diritti inviolabili dell’uomo siano riconosciuti e garantiti, non può che auspicarne una tutela preventiva, come tale anteriore ad un pertinente, eventuale conculcamento; né manca una base costituzionale, da rintracciarsi in talune norme specifiche quali gli art.13 e 16 e 17 della Costituzione, laddove la particolare pericolosità del prevenuto, declinata nel prima della “sicurezza” come valore costituzionale, ne consente limitazioni della libertà personale (variamente declinabile);
- tesi dottrinale in passato recessiva, che tuttavia sta facendosi largo anche sulla scorta della giurisprudenza europea; in difetto di norme costituzionali specifiche, le misure di prevenzione devono assumersi assolutamente inammissibili ed incompatibili con la Carta costituzionale, muovendo già solo dal disposto dell’art.13 della Carta medesima laddove presidia – in modo tutt’affatto peculiare – il bene della libertà personale, considerata “inviolabile”; peraltro, l’art.13 Cost. non è norma che può fondare limitazioni della ridetta libertà personale in via preventiva, atteggiandosi a norma di carattere strumentale e “servente” rispetto alle finalità repressive (come tali, operanti ex post) di cui agli art.25 e 27 Cost.; in sostanza, mentre l’art.25 prevede pene e misure di sicurezza al cospetto di un reato (o, quanto meno, di un “quasi-reato”) già commesso, l’art.13 si limita a disciplinare i modi della limitazione della libertà personale per chi di tale reato sia additato come potenziale responsabile; in assenza di reato, e quanto meno di “delitto”, per questa tesi l’afflittività – talvolta assai incisiva – delle misure di prevenzione le rende delle vere e proprie “pene senza delitto” che l’Autorità competente applica quando non riesce a provare che taluno si sia macchiato di un crimine, sulla scorta di semplici sospetti, nel contesto di una giurisdizione che viene definita “senza fatto”, laddove campeggiano soggettive presunzioni ex lege di pericolosità sociale associate a fattispecie ove – lungi dal concreto atteggiarsi di una precipua vicenda, riconducibile ad una norma sanzionatoria – prevale l’indeterminato, il vago, l’imponderabile, con ovvi riflessi sul principio di tassatività e di offensività;
- il tutto a fronte di una tradizionale presa di posizione della Corte costituzionale orientata ad assumere generalmente non in frizione con la Carta il sistema della prevenzione, essendo esso posto a presidio dell’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti tra cittadini, stanti anche le previsioni degli articoli 13, 16 e 17 Cost., da un lato, ed una sorta di parallelismo con le misure di sicurezza (massime laddove disposte in presenza di un “quasi reato”; art.49 e 115 c.p.) dall’altro, fatti salvi – nondimeno – i due limiti garantistici “formali” della riserva di giurisdizione da un lato (occorre il controllo di un giudice) e del principio di legalità ex art.25 Cost., dall’altro, intesi quali canoni di presidio del privato cittadino essenziali ed interconnessi tra loro; ed il limite garantistico “sostanziale” della insufficienza di un mero sospetto quale presupposto applicativo delle singole misure, che deve invece rinvenirsi in comportamenti obiettivamente identificabili e verificabili dal giudice, anche al fine di scongiurare valutazioni arbitrarie ed incontrollabile del giudice medesimo;
- più nello specifico, la Corte costituzionale si mostra orientata ad un minor rigore al cospetto di misure di prevenzione a carattere patrimoniale rispetto a quelle che possono conculcare il valore persona e gli interessi a quest’ultima più immediatamente riconducibili (primo fra tutti la libertà fisica e di movimento); ciò sia per la maggiore incisività delle misure di prevenzione patrimoniali nella lotta a fenomeni di criminalità collettiva (come nel classico esempio delle compagini mafiose) e sia, dal punto di vista sistematico, per la (maggior) “copertura” costituzionale che sono in grado di assicurare, in particolare, gli articoli 41 e 42 della Carta, il primo in tema di limiti e controlli dettati all’iniziativa economica privata ed il secondo in tema di funzione sociale della proprietà e di potere ablativo pubblico per fini di interesse generale, quali strumenti di lotta alla distorsione in senso antisociale di patrimoni e di mercati.
Che tipo di atteggiamento assume la dottrina contemporanea dinanzi alle misure di prevenzione personali?
- da oltre 50 anni si assiste ad un atteggiamento molto critico della dottrina penalistica con riguardo alle misure di prevenzione personali, assunte come da un lato inutili e, dall’altro, financo criminogene sin dalla relativa comparsa successiva all’Unità d’Italia;
- si tratta di misure che operano ante delictum (prima della commissione di un fatto inadempimento reato) ovvero comunque praeter delictum (indipendentemente dalla commissione di un fatto inadempimento reato);
- il loro unico fondamento viene, con aspri strali, ravvisato nel sospetto e nella pericolosità del destinatario, concetti che sono assunti non avere alcuna solida base scientifica;
- nonostante questo, si assiste ad un continuo ampliarsi del novero dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali, oltre che – sul crinale oggettivo – dei divieti e degli obblighi che le connotano, come dimostra la più recente legislazione in tema di “sicurezza” (urbana, ovvero diretta a fronteggiare i pericoli connessi al fenomeno migratorio);
- viene considerato per lo più timido l’atteggiamento della giurisprudenza, anche della stessa Corte costituzionale la quale – pur avendo nel corso di alcune decine d’anni dichiarato non conformi alla Carta talune fattispecie prevenzionali – ciò ha sovente fatto limitatamente alle ipotesi più smaccatamente incostituzionali, muovendo dal presupposto onde “limitare” la libertà personale (ante o prater delictum) non equivale ad “escluderla” del tutto;
- qualcosa sembra tuttavia essere mutato dopo l’intervento della Corte EDU nel 2017 (sentenza de Tommaso), che ha innescato un più deciso intervento della giurisprudenza interna sia delle SSUU della Cassazione che della stessa Corte costituzionale in senso maggiormente garantista, facendo perno – massime – sul principio di legalità nella relativa declinazione in termini di: f.1) “base legale” sufficientemente chiara; f.2) prevedibilità delle sanzioni penali; f.3) connessa tassatività delle fattispecie criminose collegate alla violazione di obblighi e divieti previsti in una misura di prevenzione personale.
Cosa occorre rammentare del c.d. giudizio di pericolosità sociale?
- si tratta dell’indefettibile presupposto ai fini dell’applicabilità di una misura di prevenzione;
- esso si atteggia in modo radicalmente diverso nella materia delle misure di prevenzione personali, rispetto a quanto accade con riguardo alle misure di prevenzione patrimoniali per le quali ultime – a differenza di quanto affiorante dall’impianto originario della legge 575.65 – la pericolosità sociale del prevenuto non è più richiesta, per l’appunto, quale presupposto di applicazione della pertinente misura;
- è “socialmente pericoloso” e, come tale, potenziale destinatario delle (sole) misure di prevenzione personali chi si palesa tale sulla base di un giudizio che ne coinvolge l’intera personalità ed all’esito del quale si può affermare – con prognosi ex ante – la probabilità che questi realizzi comportamenti o comunque attività di natura antisociale;
- peraltro un soggetto che “è stato pericoloso” non potrebbe essere reso destinatario di una misura di prevenzione laddove non lo sia tuttora, stante l’imprescindibile canone della “attualità” che deve assistere la pericolosità sociale quale presupposto di applicazione di ciascuna misura di prevenzione;
- è dunque al momento in cui la misura viene applicata che vanno acclarati quegli specifici sintomi rivelatori della “potenzialità antisociale” di ciascun soggetto, che va come tale attenzionato non perché in passato era pericoloso (e quand’anche lo sia stato), ma perché tuttora si rivela tale;
- si parla in proposito di “attualità della pericolosità sociale”, che pone peculiari problemi quando si abbia a che fare con indiziati ad appartenere ad associazioni mafiose, confrontandosi storicamente 2 opposte opzioni ermeneutiche: f.1) orientamento anteriore al codice antimafia 159.11: chi appartiene ad una associazione mafiosa va presunto, fino a prova contraria (presunzione relativa), “attualmente pericoloso”, stante la relativa appartenenza appunto alla compagine criminosa di stampo mafioso, come dimostra in specie il dato criminologico onde le associazioni mafiose sono tali proprio, ed ontologicamente, perché in modo continuo, stabile e pervasivo esprimono capacità criminale su un dato territorio, in forza di una partecipazione degli affiliati di natura indissolubile; f.2) orientamento successivo al codice antimafia 159.11, fatto proprio nella sostanza dalle SSUU nel 2018: chi appartiene ad una associazione mafiosa non può essere semplicemente presunto, neppure fino a prova contraria (presunzione relativa), “attualmente pericoloso”, in forza della sola, relativa appartenenza appunto alla compagine criminosa di stampo mafioso, dovendosene piuttosto accertare la pericolosità sociale “attuale” in concreto; il codice antimafia ha infatti previsto un unico regime applicativo delle misure di prevenzione, basato sulla medesima disciplina probatoria di cui all’art.6 del codice medesimo, onde al fine di applicare una misura di prevenzione occorre che il proposto appartenga ad una delle categorie di cui all’art.4 e, per l’appunto, sia per lui operabile la prognosi di cui all’art.6 ridetto, non potendosi dunque ritrarre dalla mera, intervenuta appartenenza ad una associazione di tipo mafioso la conclusione di immediata e diretta assoggettabilità alla misura di prevenzione medesima; che la pericolosità sociale “attuale” sia richiesta anche in questa peculiare fattispecie (appartenenti a sodalizi mafiosi) lo dimostrerebbero sia la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.15 del codice antimafia 159.11 laddove esso non prevedeva l’obbligo di rivalutare, anche d’ufficio, la persistente attualità della pericolosità del proposto laddove l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa del relativo stato di detenzione, sia il legislatore del 2017 che, recependo le sollecitazioni della Corte, ha espressamente previsto il ridetto obbligo di rivalutazione “in concreto” della persistente ed “attuale” pericolosità sociale nei casi ivi indicati;
- il fatto che la pericolosità del soggetto proposto debba essere attuale rende dubbia l’applicabilità della misura di prevenzione a chi sia già detenuto; secondo la giurisprudenza maggioritaria, il fatto che il proposto stia già scontando una pena impedisce l’esecuzione della misura di prevenzione, ma non lambisce il giudizio di pericolosità, che anche con riguardo ad un soggetto detenuto va dunque valutato in concreto, potendoglisi applicare la misura anche in costanza di detenzione, mentre una volta che la pena sia stata espiata, la relativa funzione tendenzialmente rieducativa impone ancora di verificare il requisito della perdurante (e, dunque) attuale sussistenza di una pericolosità sociale che potrebbe essere venuta meno proprio in forza del ridetto processo rieducativo;
- la pericolosità attuale di un soggetto che abbia fatto parte di un clan mafioso non è incompatibile con il relativo status di collaboratore di giustizia, potendo quest’ultimo essere realmente un “pentito” del proprio passato ma anche, alternativamente, solo qualcuno che non riesce a sopportare di essere ristretto, ovvero che teme profondamente l’ambiente criminoso che lo annoverava prima del “pentimento”, circostanza che fa dire alla giurisprudenza come lo status di pentito non possa dirsi – per l’appunto – ex se incompatibile con la pericolosità sociale e, in ultima analisi, con le misure di prevenzione, dovendosi di volta in volta acclarare – in concreto – se la rottura con i vincoli associativi mafiosi sia stata reale o meramente fittizia;
- anche i c.d. “colletti bianchi” possono essere ormai assunti come “persone socialmente pericolose” alle quali applicare misure di prevenzione personali, come dimostra la più recente giurisprudenza orientata a rendere destinatari delle ridette misure dei sospettati – di volta in volta – di bancarotta, di evasione fiscale, di corruzione e così via;
- per quanto più specificamente concerne il giudizio di pericolosità, possono essere sufficienti anche dei meri indizi o sospetti gravanti sul proposto, essendo tuttavia imprescindibile che tali sospetti abbiano alla base non già mere congetture o illazioni, quanto piuttosto specifici fatti corroboranti, da intendersi quali circostanze e comportamenti specifici e concreti che possano essere fatti oggetto da un lato di dimostrazione e, dall’altro, di contestazione e di critica; sono utili all’uopo i rapporti di polizia (quando non contraddetti dalle prove in senso contrario offerte dalla difesa), i precedenti e le pendenze penali che coinvolgono il soggetto proposto; quello che è certo è che non occorre lambire uno spessore di accertamento tale da consentire di affermare una responsabilità penale del potenziale destinatario della misura (in termini di “gravità, precisione e concordanza” degli indizi utili all’uopo);
- in ordine ai rapporti tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, viene ammessa la possibilità di introdurre nel secondo (procedimento di prevenzione) elementi di prova già acquisiti nel primo (procedimento penale), onde fondare l’applicazione di una pertinente misura, a condizione che tali elementi vengano valutati in modo indipendente ed autonomo ai fini del precipuo giudizio di pericolosità proprio del procedimento di prevenzione; diversa è infatti la prospettiva di valutazione degli elementi istruttori nei due distinti procedimenti, che si connotano come tra loro distinti ed autonomi al punto che, qualora in presenza dei medesimi fatti che fondano un giudizio di prevenzione venga dato l’abbrivio anche ad un procedimento penale, il procedimento di prevenzione non subisce alcuna sospensione; altra epifania di questa autonomia tra i due giudizi (e tra le due tipologie di valutazioni che lo sottendono) è la circostanza onde un eventuale giudicato penale di assoluzione (quand’anche con formule ampiamente assolutorie come quella per cui il fatto non sussiste ovvero l’imputato non lo ha commesso) non vincola il “parallelo” giudice della prevenzione, escluso il solo caso in cui il procedimento di prevenzione si sia fondato esclusivamente sulla pendenza del giudizio penale esitato in assoluzione ridetta; si assume tuttavia in giurisprudenza non applicabile una misura di prevenzione a chi sia stato condannato in sede penale con pena condizionalmente sospesa, stante la prognosi favorevole formulata dal giudice penale nei confronti del condannato in occasione appunto della sospensione condizionale della pena.