Massima
La parabola percorsa dall’ergastolo nel corso della pertinente storia giuridica ne esalta le metamorfosi da condanna durissima, perenne e senza scampo a strumento di risocializzazione al pari delle altre pene, non potendosene escludere ormai – sulla scorta di sollecitazioni che ci giungono dal panorama europeo e soprattutto dalla Corte EDU – una configurabilità in termini di pena solo tendenzialmente “a vita” almeno quanto – seppure, del pari, tendenzialmente – (di pena) con foggia comunque “rieducativa” ai sensi dell’art.27, comma 3, Cost., come in misura esemplare testimonia la parabola del c.d. “ergastolo minorile”. Fuori dal coro si colloca ormai – nondimeno – la sola altalenante vicenda del giudizio abbreviato che, sinusoidalmente, è oggi ex novo precluso per crimini punibili “in perpetuo”.
Crono-articolo
La dottrina che si è occupata sul crinale storico dell’ergastolo ne ha messo in evidenza in primo luogo l’etimologia greca, dalla quale affiora la parola “officina” o “casa di lavoro”, rimandando ad un luogo di “reclusione” che ha in origine come protagonisti detenuti per debiti e schiavi; si tratta più in specie, nella declinazione romanistica, dell’ubicazione in cui il privato proprietario tiene in catene quegli schiavi a relativo arbitrio giudicati incorreggibili, e come tali detenuti ai “lavori forzati”.
I Romani conoscono anche, sul crinale pubblicistico, la c.d. damnatio ad metalla, ovvero la condanna alla miniera (“ai metalli”): una condanna ai lavori forzati perpetui in specie, per l’appunto, presso delle miniere; non mancano, a seconda del locus in cui la condanna deve essere eseguita, forme analoghe avvinte a determinate e specifiche opere pubbliche, come nel caso della “damnatio ad salinas”, in considerazione di realtà tipiche locali (nell’esempio fatto, di ascendenza marinara).
La damnatio ad metalla e le pene ad essa omogenee rappresentano un quid minus rispetto ai summa supplicia ed alla damnatio ad bestias, una “poena capitis” – quale peculiare tipo di condanna ad essere divorati vivi dalla fiere nelle arene – che i Romani riservano ai criminali della peggior sorte e di più basso rango, quand’anche non necessariamente i più pericolosi, oltre a quegli schiavi che abbiano commesso reati gravi nei confronti del proprio dominus. Si ricorre dunque alla damnatio ad metalla al cospetto di reati meno gravi, ovvero dei più gravi laddove assistiti da qualche attenuante, e tuttavia mai nei confronti di senatori, cavalieri e decurioni (ai quali, coeteris paribus, viene applicata piuttosto la deportatio).
Sanzione accessoria della damnatio ad metalla è la servitus poenae che sottrae al condannato la capacità giuridica ed implica, perso lo status libertatis, lo scioglimento dell’eventuale matrimonio, ogni bene venendo confiscato dallo Stato. Ne rappresenta una variante la damnatio ad opus metallicum, che ne differisce per taluni dettagli in termini di restrizione della libertà personale e perdita della cittadinanza.
Diodoro Siculo definisce la damnatio ad metalla come “inferno in Terra”, stante il relativo compendiare una forma di “schiavitù” che lascia al condannato uno scampolo di vita breve e doloroso, immerso nella fatica di un lavoro incessante, e che solo con Giustiniano si attenua un poco escludendo, ad esempio, la perdita dello status libertatis (onde il condannato resta formalmente un uomo libero, pur essendo costretto a lavorare per tutta la residua durata della relativa esistenza).
Esauritasi l’esperienza giuridica romanistica, per lungo tempo le fonti non parlano più di ergastolo, tenuto anche conto del difetto di un’efficiente organizzazione statale nel Medioevo e della conseguente inutilità di condanne ai lavori forzati; proprio nel Medioevo la Chiesa ed il diritto canonico mutuano, nondimeno, l’ergastolo come pena alla quale associano, in una con l’indefettibile segregazione perpetua, l’”ozio forzato” in luogo dei ben più tradizionali lavori.
Secondo un canone ricondotto al Concilio di Toledo del 675 d.C., i sacerdoti che abbiano emesso o eseguito condanne a morte o alla mutilazione, vengono rinchiusi in “ergastula” a far penitenza delle loro colpe per tutto il resto della vita, potendo avere quale unico conforto l’accostarsi alla comunione in punto di morte; altrettanto dispone un canone del successivo Concilio di Trebur dell’895 d.C. per i religiosi e le religiose che siano venuti meno al voto di castità.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, secondo il cui art.11, comma 1, la prima delle pene stabilite per i delitti è, per l’appunto, l’ergastolo, che il successivo art.12 qualifica pena “perpetua” da scontarsi in uno stabilimento speciale, dove il condannato rimane per i primi 7 anni in segregazione cellulare continua con l’obbligo del lavoro, mentre negli anni successivi è ammesso al lavoro insieme con altri condannati, con l’obbligo del silenzio.
La condanna all’ergastolo, stando al successivo art.31, ha per effetto – come anche del resto la reclusione superiore a 5 anni – l’interdizione perpetua del condannato dai pubblici uffici, mentre in forza dell’art.33, comma 1, il condannato all’ergastolo (o alla reclusione per un tempo maggiore dei 5 anni) è, durante la pena, in istato di interdizione legale, applicandoglisi – per l’amministrazione dei relativi beni – le disposizioni della legge civile sugli interdetti.
La condanna all’ergastolo priva inoltre il condannato (art.33, comma 2) della patria potestà, dell’autorità maritale e della capacità di testare, rendendo altresì nullo il testamento eventualmente confezionato prima della condanna.
La sentenza di condanna all’ergastolo viene poi stampata per estratto ed affissa nel Comune dove è stata pronunziata, in quello dove il delitto fu commesso ed in quello dove il condannato aveva l’ultima residenza (art.43).
L’ergastolo si atteggia dunque nel codice unitario a pena perpetua senza possibilità di conversione in pena temporanea (fatta tuttavia sempre salva la possibilità di ottenere la grazia), da scontarsi in stabilimenti speciali denominati “ergastoli“.
Esso viene comminato nelle fattispecie di attentato contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato (art. 104); di macchinazioni dirette a promuovere ostilità o guerre contro lo Stato italiano, ovvero a favorire le operazioni militari di uno Stato in guerra con lo Stato italiano, con intento raggiunto (art. 106); di attentato contro il Re, la Regina, il Principe ereditario, o il reggente durante la reggenza (art. 117); di parricidio (art. 366, n. 1); di omicidio con premetidazione (art. 336, n. 2); di omicidio per solo impulso di brutale malvagità, ovvero con gravi sevizie (art. 366, n. 5); di omicidio col mezzo dell’incendio, inondazione, sommersone o altro dei delitti contro l’incolumità pubblica (art. 366, n. 4); di omicidio per preparare, facilitare o consumare un altro reato, benché questo non sia avvenuto (art. 366, n. 5); di omicidio commesso immediatamente dopo un altro reato, per assicurarne il profitto o per non essersi potuto conseguire l’intento propostosi ovvero per occultare il reato o sopprimere le tracce o le prove, o altrimenti per procurare l’impunità a sé o ad altri (art. 366, n. 6).
1891
Il 01 febbraio viene varato il R.D. n.260, Regolamento generale degli Stabilimenti carcerari e dei riformatori giudiziari, che viene teoricamente assunto come modello da seguire nel relativo genere ma che praticamente, complice il grave stato di degrado degli stabilimenti carcerari conseguente anche ad una cronica carenza di fondi, vede sostanzialmente impedita non solo la relativa attuazione, ma anche la stessa pertinente sperimentazione.
Il regolamento classifica fra gli stabilimenti ordinari di pena, gli ergastoli (art. 3), a sistema di segregazione cellulare continua (notte e giorno: art. 10) e affidati a Direzioni speciali (art. 16); le donne scontano poi la pena dell’ergastolo in stabilimenti speciali (art. 239).
Il condannato all’ergastolo, giunto allo stabilimento di destinazione, viene sottoposto a visita medica, dopo la quale gli erano vengono i capelli, rasata la barba e gli viene fatto indossare l’abito dello stabilimento (art. 228). Il vestiario, uguale per tutti i condannati, si compone di pantaloni e giacca o camicia a righe irregolari color bianco e marrone, cravatta marrone e berretto. Il colore della prima fascia del berretto e del colletto della giacca o della camicia per gli uomini, quello delle cuffie per le donne e quello delle stoffe per i numeri di matricola, servono di distintivo per le pene ed sono di colore nero per i condannati, appunto, all’ergastolo.
Gli ergastolani, dopo un periodo di segregazione continua, possono andare al passeggio in comune, passeggio durante il quale sono tenuti ad osservare la regola del silenzio e a camminare in fila uno dopo l’altro alla distanza che viene loro ordinata. Non possono né uscire dalla fila, né fermarsi o sedersi senza avere ottenuto il permesso dagli agenti di custodia; tale permesso deve essere chiesto alzando la mano (art. 247).
Sempre i condannati all’ergastolo non possono essere addetti ai servizi domestici prima di avere scontato venti anni di pena (art. 279), il prezzo integrale del lavoro da essi compiuto dividendosi in decimi ed essendo loro assegnati 3/10 a titolo di gratificazione (art. 287). Durante il periodo della segregazione cellulare continua, gli ergastolani possono avere un colloquio l’anno e, compiuto questo periodo, ne possono avere uno ogni 6 mesi (art. 305); possono scrivere una lettera ogni 4 mesi (art. 317).
Terminato di scontare il periodo di segregazione cellulare continua e passati quindi alla segregazione (solo) notturna, i condannati all’ergastolo, come gli altri detenuti, vengono divisi in tre classi: di prova, ordinaria e di merito, distinte le une dalle altre per mezzo di un galloncino colorato (giallo, verde o bianco) cucito nella manica (art. 367). Nella classe di prova debbono rimanere 8 anni o 16 se recidivi (art. 378); quando passano alla classe di merito ed hanno scontato non meno di 20 anni di pena, possono essere proposti per la grazia (art. 387); possono tuttavia essere proposti anche prima quei condannati che abbiano compiuto azioni coraggiose o prestato servizi lodevoli (art. 388).
I condannati, che, dopo avere scontato la massima pena disciplinare, abbiano commesso gravi mancanze (art. 344 e 459), vengono rinchiusi in una casa di rigore; tuttavia i condannati all’ergastolo non possono esservi trasferiti se non dopo scontato il periodo della segregazione cellulare continua. In queste case di rigore i condannati vengono divisi in tre classi: di punizione, di prova e di riabilitazione; nelle prime due sono sottoposti alla segregazione cellulare continua con obbligo del lavoro; nella classe di prova gli ergastolani non possono scrivere che una lettera ogni 6 mesi e fare acquisto di sopravvitto solo 2 giorni la settimana non spendendo più di 20 centesimi alla volta.
Al di fuori di queste restrizioni speciali, i condannati all’ergastolo sono soggetti alle norme disciplinari e al trattamento comune a tutti i detenuti, siccome disciplinati dal Regolamento.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.17, comma 1, le pene principali stabilite per i delitti sono:1) la morte; 2) l’ergastolo; 3) la reclusione ; 4) la multa; per il successivo comma 2, le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono poi : 1) l’arresto; 2) l’ammenda.
Stando al successivo art.22, la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno (comma 1); il condannato all’ergastolo può tuttavia (discrezionalmente) essere ammesso al lavoro all’aperto (comma 2).
Per l’art.32, il condannato all’ergastolo è in stato di interdizione legale (comma 1), la condanna all’ergastolo importando anche la decadenza dalla patria potestà (comma 2); il successivo art.36 dispone la pubblicazione della condanna alla pena di morte, circostanza che in futuro – abolita la pena di morte – coinvolgerà per l’appunto l’ergastolo.
Molte sono poi le norme in cui l’ergastolo è parametro di commisurazione della pena, come esemplificativamente accade all’art.56 in tema di tentativo, onde (comma 2) il colpevole del delitto tentato è punito con la reclusione non inferiore a 12 anni, se la pena stabilita per la forma consumata è per l’appunto l’ergastolo; vi sono poi fattispecie nelle quali l’ergastolo è parametro di applicazione della legge penale italiana, come ad esempio nel caso dell’art.9, comma 1, alla cui stregua il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce la pena di morte o l’ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni, è punito appunto secondo la legge italiana medesima, laddove si trovi nel territorio dello Stato.
L’applicazione dell’ergastolo viene riservata alla commissione dei reati più gravi, come nel caso della strage di cui all’art.422, onde chiunque, fuori dai casi preveduti dall’art.285, al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità è punito, se dal fatto deriva la morte di più persone, con la morte (comma 1: in seguito, appunto con l’ergastolo), mentre se è cagionata la morte di una sola persona, si applica l’ergastolo, ed in ogni altro caso la reclusione non inferiore a 15 anni (comma 2).
Altrettanto può dirsi, sempre esemplificativamente, dell’epidemia ex art.438, onde chiunque cagiona (per l’appunto) un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo (comma 1) e se dal fatto deriva la morte di più persona, con la morte (che sarà assorbita dall’ergastolo stesso).
Più in generale, rilevano tutte le disposizioni di parte speciale nelle quali viene applicata dal codice la pena di morte, proprio per il fatto che essa verrà soppiantata in seguito dall’ergastolo: significativo in proposito l’art.276, recante “attentato contro il Re, il Reggente, la Regina, il Principe Ereditario e i Principi della Famiglia Reale” (che diverrà attentato al Presidente della Repubblica), onde chiunque attenta alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del Re o del Reggente è punito con la morte (comma 1); la stessa pena si applica se il fatto è diretto contro la vita, l’incolumità o la libertà personale della Regina o del Principe Ereditario (comma 2), mentre laddove la vittima sia un’altra persona della Famiglia Reale la pena è, nel caso di attentato alla vita, la reclusione non inferiore a 20 anni e, negli altri, casi, la reclusione non inferiore a 10 anni; se poi dal fatto deriva la morte della vittima, la pena è la morte nel caso in cui essa sia conseguenza dell’attentato alla pertinente vita e l’ergastolo in tutti gli altri casi (attentato alla incolumità o alla libertà personale).
1944
Il 10 agosto viene varato il decreto legislativo luogotenenziale n.224, recante abolizione della pena di morte nel Codice penale, secondo il cui art.1, comma 1, per i delitti preveduti nel codice penale è soppressa la pena di morte e, stando al successivo comma 2, quando nelle disposizioni del detto codice è comminata la pena di morte, in luogo di questa si applica la pena dell’ergastolo (che, dunque, la assorbe).
Dopo aver precisato (comma 3) che nel caso preveduto dall’art.72, comma 1, del codice penale (colpevole di più delitti ciascuno dei quali importa la pena dell’ergastolo) il condannato all’ergastolo, al termini del precedente comma 2, non può essere ammesso al lavoro all’aperto prima che abbia scontato almeno 1 anno di pena, la norma si “chiude” (comma 4) con la recisa affermazione onde nulla è innovato alle disposizioni dei codici penali militari e del decreto legislativo luogotenenziale 159.44, con conseguente residua operatività della pena di morte in ambito, per l’appunto, penale militare.
1948
Entra in vigore il 01 gennaio la Costituzione repubblicana che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante.
Più nel dettaglio per quanto di pertinenza ratione materiae, stando al comma 3 del ridetto art.27 le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Stando poi al successivo comma 4, non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.
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Il 22 gennaio viene varato il decreto legislativo n.21, recante disposizioni di coordinamento in conseguenza dell’abolizione della pena di morte.
Secondo il relativo art.1, comma 1, le disposizioni dei comma 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 224.44 sono estese ai delitti previsti dalle leggi speciali, diverse da quelle militari di guerra, con conseguente generalizzata abolizione della pena di morte (fatte salve, per l’appunto ed ancora una volta, le fattispecie di diritto penale militare di guerra).
Secondo il relativo comma 2, al colpevole di più delitti ciascuno dei quali importa la pena dell’ergastolo si applica la ridetta pena, con l’isolamento diurno per un periodo non inferiore ad 1 anno e non superiore a 5 anni.
Stando poi al successivo art.2, le disposizioni di cui al precedente art.1 si osservano anche per la pena di morte già inflitta con sentenza divenuta irrevocabile; l’art.3 abroga infine i comma 3 e 4 dell’art.1 del decreto luogotenenziale 224.44.
1950
Il 4 novembre viene firmata a Roma la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).
Di particolare rilievo ratione materiae l’art.3, rubricato significativamente “proibizione della tortura”, alla cui stregua nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.
Emblematico anche il successivo art.4, rubricato “proibizione della schiavitù e del lavoro forzato”, onde nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù (comma 1), né può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio (comma 2); non è tuttavia considerato «lavoro forzato od obbligatorio»:
(a) il lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta alle condizioni previste dall’articolo 5 della Convenzione o durante il periodo di libertà condizionale;
(b) il servizio militare o, nel caso degli obiettori di coscienza nei paesi dove l’obiezione di coscienza è considerata legittima, qualunque altro servizio sostitutivo di quello militare obbligatorio;
(c) qualunque servizio richiesto in caso di crisi o di calamità che minacciano la vita o il benessere della comunità;
(d) qualunque lavoro o servizio facente parte dei normali doveri civici.
Infine, stando al successivo art.5, rubricato “diritto alla libertà e alla sicurezza”, ogni persona ha diritto appunto alla libertà e alla sicurezza, valori dunque che vanno conciliati (comma 1), nessuno potendo essere privato della libertà se non nei casi analiticamente previsti dallo stesso art. 5 – che tendono per l’appunto a conciliare il valore della libertà con quello della sicurezza di tutti e di ciascuno – e nei modi previsti dalla legge.
1955
Il 4 agosto viene varata la legge n.848, con la quale l’Italia ratifica la CEDU.
1962
Il 25 novembre viene varata la legge n.1634, recante modificazioni alle norme del Codice penale relative all’ergastolo e alla liberazione condizionale.
Il relativo art.1 sostituisce il primo capoverso dell’art.22 del codice penale, stabilendo che il condannato all’ergastolo può essere ammesso al lavoro all’aperto (e contestualmente abrogando il secondo e il terzo capoverso dell’art.22 ridetto).
Importante l’art.2, che novella gli articoli 72, 177 e 177 del codice penale.
Più in particolare, ai sensi del nuovo art. 72 (concorso di reati che importano l’ergastolo e di reati che importano pene detentive temporanee), al colpevole di più delitti, ciascuno dei quali importi la pena dell’ergastolo, si applica la ridetta pena con l’isolamento diurno da 6 mesi a tre anni (comma 1); nel caso di concorso di un delitto che importa la pena dell’ergastolo con uno o più delitti che importano pene detentive temporanee per un tempo complessivo superiore a 5 anni, si applica la pena dell’ergastolo con l’isolamento diurno per un periodo di tempo da 2 a 18 mesi (comma 2); l’ergastolano condannato all’isolamento diurno partecipa tuttavia all’attività lavorativa (comma 3).
Significativa la novella all’art.176 in tema di liberazione condizionale: stando al nuovo comma 3, il condannato all’ergastolo può essere ammesso, per l’appunto, alla liberazione condizionale, quando abbia scontato almeno 28 anni di pena. Stando poi al nuovo art.177, comma 2, decorso tutto il tempo della pena inflitta, ovvero 5 anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale se trattasi di condannato all’ergastolo, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca, la pena resta estinta e sono revocate le misure di sicurezza personali, ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento succesivo.
Il successivo art.3 infine, con norma transitoria, dispone poi che il condannato all’ergastolo che abbia subito la condanna prima del ripristino delle attenuanti generiche ex art.2 del decreto legislativo luogotenenziale 288.44 può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia effettivamente scontato almeno 25 anni di pena.
1974
L’11 aprile viene varato il decreto legge n.99, recante provvedimenti urgenti sulla giustizia penale, secondo il cui art.7 – nel contesto di una riforma ispirata peraltro da un intento di maggior favore per il reo – il giudizio di prevalenza o di equivalenza fra le due categorie di circostanze viene esteso anche a quelle inerenti alla persona del colpevole, tra le quali la giurisprudenza ha sempre compreso la diminuente della minore età, per consentire, fra l’altro, specie per i reati contro il patrimonio, la possibilità di far ritenere prevalente l’attenuante della minore età ed escludere, quando essa ricorra, tutte le aggravanti.
Da questa modifica – pur dettata da un intento di adeguatezza in concreto della pena – scaturisce nondimeno una conseguenza deteriore, forse non voluta (perché gli ideatori della riforma non se la sono probabilmente neppure prefigurata) ravvisabile nel caso del minore imputato di un reato punibile con l’ergastolo a causa della presenza di circostanze aggravanti che comportano appunto la pena dell’ergastolo e che possono essere ritenute prevalenti e quindi ormai tali – ai sensi dell’art.69 del codice penale siccome novellato dalla riforma – da escludere l’incidenza della attenuante dell’art.98 del codice penale, che viceversa in precedenza sarebbe stata comunque applicabile (escludendo così la possibilità di irrogazione di detta pena perpetua nei confronti del minore).
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Il 7 giugno viene varata la legge n.220 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.99
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*Il 22 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.264, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 27, comma terzo, della Costituzione.
L’ordinanza di rimessione, rammenta il Collegio, muove dal seguente testuale presupposto: la Costituzione, oltre a disporre che le pene siano sempre umane, “evidenzia la necessità che le pene abbiano quale funzione e fine il riadattamento alla vita sociale“; orbene, funzione (e fine) della pena non é certo il solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile.
A prescindere sia dalle teorie retributive secondo cui la pena é dovuta per il male commesso, sia dalle dottrine positiviste secondo cui esisterebbero criminali sempre pericolosi e assolutamente incorreggibili, non vi é dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano, non meno della sperata emenda, alla radice della pena.
E ciò basta alla Corte per concludere che l’art. 27 della Costituzione, usando la formula “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato“, non ha proscritto la pena dell’ergastolo (come avrebbe potuto fare), quando essa sembri al legislatore ordinario, nell’esercizio del relativo potere discrezionale, indispensabile strumento di intimidazione per individui insensibili a comminatorie meno gravi, o mezzo per isolare a tempo indeterminato criminali che abbiano dimostrato la pericolosità e l’efferatezza della loro indole.
L’ordinanza prosegue: “sembra che l’ergastolo sia in contrasto con la morale esigenza di tutela e con il senso di umanità al quale debbono ispirarsi le pene, essendo obbligatoria per i condannati a tale pena l’esplicazione di un’attività lavorativa. Infatti, al condannato che non adempie all’obbligo del lavoro sono applicabili misure coercitive, disciplinari, che non appaiono certo ispirate ai fondamentali principi di umanizzazione della pena“.
Deve subito dirsi – chiosa la Corte – che il lavoro, ben lungi dall’essere in contrasto con la morale esigenza di tutela e rispetto della persona, é gloria umana, precetto religioso per molti, dovere e diritto sociale per tutti (art. 4 Cost.) e reca sollievo ai condannati che lavorando, anche all’aperto, come consente l’art. 22 c.p. nel nuovo testo risultante dalla novella del novembre 1962, godono migliore salute fisica e psichica, conseguono un compenso e si sentono meno estraniati dal contesto sociale.
Il fatto che, secondo regolamenti carcerari, al condannato abile al lavoro che per riottosità o protervia lo rifiuti, siano eventualmente applicabili misure disciplinari, non attiene alla legittimità costituzionale dell’art. 22 del codice penale.
Rimane infine da considerare che l’istituto della liberazione condizionale disciplinato dall’art. 176 c.p. – nel testo modificato dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 – consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile senza che possano ostarvi le relative, precarie condizioni economiche: invero, rammenta la Corte, contrariamente a quanto assume il giudice a quo, la concessione della liberazione condizionale é subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili sempreché il condannato abbia la possibilità di provvedervi, che altrimenti potrà dimostrare di trovarsi nell’impossibilità di adempierle senza subire alcun pregiudizio.
Di particolare rilievo é peraltro – rammenta il Collegio – la sentenza n. 204 del 1974 della Corte che ha dichiarato l’illegittimità della norma che attribuiva al Ministro della giustizia la facoltà di concedere la liberazione condizionale. Questa pertanto sarà concessa non più in relazione a scelte discrezionali del potere politico, ma in base ad una decisione dell’autorità giudiziaria (cui l’interessato avrà diritto di rivolgersi) che con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale accerterà se il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.
1975
Il 26 luglio viene varata la legge n.354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, che segna un deciso cambio di passo in termini di tendenza rieducativa della pena, con particolare riguardo ai detenuti ed internati.
Secondo il relativo art.1, il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona (comma 1); tale trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose; negli istituti devono essere poi mantenuti l’ordine e la disciplina (comma 2).
Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari (comma 3), i detenuti e gli internati dovendo essere chiamati o indicati con il loro nome (comma 4).
Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva (comma 5) e nei relativi confronti deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi; il trattamento va attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti (comma 6).
Secondo il successivo art.20, negli istituti penitenziari deve essere favorita in ogni modo la destinazione al lavoro dei detenuti e degli internati (comma 1); lavoro penitenziario che, tuttavia, non ha carattere afflittivo e va remunerato (comma 2).
Stando poi all’art.6, comma 2, i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti, circostanza che fa assumere ormai abrogata la previsione dell’isolamento notturno, stante la generalizzata applicazione della norma ad ogni tipo di pena reclusiva, senza che vi sia nulla di specifico per l’ergastolo.
1983
Il 21 settembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.274 che dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l’ammissione alla liberazione condizionale; dichiara invece inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma secondo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento all’art. 27 della Costituzione, con l’ordinanza del 26 novembre 1980 della Sezione di sorveglianza della Corte d’appello di Firenze.
Per la Corte più in specie la questione relativa all’art. 54 della legge n. 354 del 1975 va assunta fondata.
La denunciata norma é univocamente interpretata dalla Corte di cassazione nel senso che la riduzione di pena ivi prevista non possa venir concessa ai condannati all’ergastolo (esclusi dalla liberazione anticipata) nemmeno ai soli fini dell’ammissione alla liberazione condizionale, conteggiando, cioè, il relativo abbuono nel quantum di pena scontata, all’uopo prescritto dal terzo comma dell’art. 176 del codice penale, nel testo sostituito dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634.
A sostegno dell’accolta interpretazione vien fatto riferimento all’espressione adoperata in quest’ultima disposizione, che per tale ipotesi – a differenza dalle altre previste nello stesso art. 176 – richiede che il condannato all’ergastolo abbia “effettivamente” scontato almeno ventotto anni. Trattasi dunque – se ne conclude – di una norma speciale, che deroga, per precisa scelta di politica criminale, alla norma generale dettata dal quarto comma dell’impugnato art. 54.
Ma le scelte del legislatore – riprende la Corte – non si sottraggono al sindacato della Corte medesima, inteso a verificarne la compatibilità con i precetti della Costituzione. In proposito occorre ricordare che la legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario, enunciando i principi direttivi ai quali deve ispirarsi il “trattamento penitenziario“, afferma, in armonia con il dettato del terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, che nei confronti dei condannati ed internati dev’essere attuato, secondo un criterio d’individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti, un trattamento rieducativo che tenda al “reinserimento sociale” degli stessi (art. 1); e nel disciplinare la “individualizzazione del trattamento“, la stessa legge promuove la “collaborazione dei condannati e degl’internati alle attività di osservazione e di trattamento” (art. 13).
In siffatta prospettiva il primo comma del denunciato art. 54 della legge medesima, prevede che possa venir concessa “al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione“, una “riduzione di pena” (di venti giorni per ciascun semestre di pena detentiva scontata) “ai fini del suo più efficace reinserimento nella società“. Il conseguito beneficio può operare per il condannato su due distinti piani, non necessariamente connessi: e cioé, sia ai fini della relativa “liberazione anticipata“, allorché l’ammontare della pena irrogata venga a coincidere con la somma degli abbuoni e del periodo scontato; sia ai fini della relativa ammissione alla “liberazione condizionale“, in quanto, considerando la pena detratta come pena scontata, si attingano più presto i periodi minimi richiesti dai primi due commi dell’art. 176 del codice penale.
In questa seconda ipotesi, prosegue il Collegio, – fermo il presupposto della liberazione condizionale, concedibile solo al condannato che abbia tenuto, durante il tempo di esecuzione della pena, un comportamento tale da far ritenere sicuro il relativo “ravvedimento” – la possibilità di acquisire una riduzione della pena incentiva e stimola nello stesso soggetto la propria attiva collaborazione all'”opera di rieducazione“.
Così, nel premiare il comportamento del condannato, che é invogliato a partecipare all’opera della propria rieducazione e ad assecondarla rendendola meno difficile e più efficace, la riduzione della pena si raccorda sul piano teleologico con il presupposto della liberazione condizionale, e cioè con il risultato della rieducazione medesima, sollecitando e corroborando il ravvedimento del condannato ed il conseguente suo reinserimento nel corpo sociale.
Finalità questa, che il vigente ordinamento penitenziario, in attuazione del precetto del terzo comma dell’art. 27 della Costituzione, persegue per tutti i condannati a pena detentiva, ivi compresi gli ergastolani. Il che é fatto palese dalla estensione in loro favore dell’istituto della liberazione condizionale, operata dalla citata legge n. 1634 del 1962: a proposito della quale fu enunciato, nella relazione governativa che accompagnava la presentazione alla Camera dei deputati del disegno di legge, il proposito di “completare ed integrare, con speciale riferimento all’ergastolo, la progressiva umanizzazione della pena, rendendo più concreta e funzionale anche nell’ergastolo l’azione intesa alla rieducazione del condannato“.
La recuperabilità sociale del condannato all’ergastolo, mediante la possibilità della relativa liberazione condizionale, segnava perciò nella nostra legislazione penale una svolta di evidente rilievo: che fu sottolineata anche dalla Corte, la quale, nel dichiarare, con la sentenza n. 264 del 1974, non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 27, comma terzo, della Costituzione, dell’art. 22 del codice penale, che prevede appunto la pena dell’ergastolo, faceva perno, tra l’altro, proprio sull’ammissibilità alla liberazione condizionale, in quanto essa “consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile“.
Venuti meno, d’altro canto, per effetto dell’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 54, disposta dall’art. 5 della legge 12 gennaio 1977, n. 1, i casi in cui, per determinati delitti di particolare gravità (rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione), non poteva venir concesso il beneficio della riduzione della pena, il raccordo tra questo istituto e quello della liberazione condizionale opera con carattere di generalità per tutti i condannati a pena detentiva temporanea.
Rispetto ai quali, pertanto, appare ingiustificata ed arbitraria l’esclusione dal vantaggio derivante dal raccordo medesimo – in ragione dei comuni presupposti e delle comuni finalità attuative del comma terzo dell’art. 27 della Costituzione – dei condannati all’ergastolo. I quali, dunque, pur non potendo venire ammessi alla liberazione anticipata (essendo l’ergastolo per definizione una pena senza una scadenza che sia possibile anticipare), devono poter egualmente fruire, verificandosene ovviamente i presupposti, della riduzione della pena prevista dall’art. 54, ai soli fini dell’applicazione del terzo comma dell’art. 176 del codice penale (sulla liberazione condizionale).
Va, conclusivamente dichiarata per la Corte la illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, del denunciato art. 54, nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l’ammissione alla liberazione condizionale.
Per quanto invece concerne l’altra questione, va rilevato per il Collegio che essa investe l’art. 50, comma secondo, della legge n. 354 del 1975, “in quanto non prevede l’applicabilità del beneficio della semilibertà ai condannati alla pena dell’ergastolo“, in riferimento all’art. 27 della Costituzione (sia pure attraverso l’erroneo richiamo fatto dall’ordinanza di rimessione al secondo anziché al terzo comma).
La norma denunciata dispone che il condannato può essere ammesso al regime di semilibertà soltanto dopo l’espiazione di almeno metà della pena. Secondo il giudice a quo l’uso di tale espressione esclude “indirettamente” dal beneficio il condannato all’ergastolo, in quanto la prescritta condizione della espiazione di “almeno metà della pena” non può ovviamente ricorrere là dove la pena, essendo “perpetua” (art. 22 del codice penale), adegua la relativa durata alla stessa imprevedibile durata della vita del condannato, e perciò non si estende in un predeterminato arco temporale, del quale possa esser calcolata la “metà“.
Nel ravvisare in tale esclusione una violazione della finalità rieducativa della pena, sancita dall’invocato precetto costituzionale, il giudice a quo sostanzialmente chiede che la dichiarazione della illegittimità costituzionale si concreti in una “integrazione” della norma, ammettendo il condannato all’ergastolo al regime di semilibertà “con l’inserimento di condizioni temporali particolari ovviamente diverse da quelle previste dalla legge ed applicabili alle sole pene temporanee“.
Prospettata nei cennati termini, la questione si appalesa al Collegio inammissibile. Si chiede, invero, alla Corte di apprestare una particolare disciplina, determinando quanta parte della pena dovrebbe essere stata già espiata dal condannato all’ergastolo perché possa esser presa in considerazione la relativa ammissione al regime di semilibertà.
Ma provvedere su una siffatta domanda implicherebbe una scelta discrezionale che eccede i poteri della Corte. Va, dunque, dichiarata – alla stregua della pronuncia resa in analoga occasione con la sentenza n. 137 del 1981 – la inammissibilità della proposta questione.
1986
Il 10 ottobre viene varata la legge n.663, meglio nota come legge Gozzini, recante modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, che rivede in modo a tratti consistente il c.d. “ordinamento penitenziario”:
1988
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, il cui art. 442, comma 2, prevede espressamente la sostituzione della pena dell’ergastolo, all’esito del giudizio abbreviato, con quella della reclusione di anni 30; dando così per presupposta l’ammissibilità del rito anche per i reati puniti con tale pena.
La Commissione redigente del progetto preliminare, dopo ampia discussione, ha ritenuto di proporre tale soluzione (poi accolta dal Governo), nonostante il silenzio serbato sul punto dalla legge delega, al fine di «consentire il maggiore spazio possibile al giudizio abbreviato, tenuto conto del fatto che esso è richiesto dall’imputato, il quale – nella logica del processo accusatorio – può anche rinunziare alla garanzia rappresentata dalla partecipazione popolare nei giudizi di Corte di assise» (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni); e aveva conseguentemente ritenuto di determinare nella misura fissa di 30 anni di reclusione la pena conseguente alla scelta del rito per il caso di condanna, non potendo applicarsi, rispetto alla pena perpetua, il criterio indicato dalla stessa legge delega della diminuzione di un terzo della pena.
1991
Il 23 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n. 176, con la quale la Corte dichiara illegittimo l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che «[a]lla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta» per violazione dell’art. 76 Cost. (eccesso di delega).
La legge delega prevede infatti unicamente, per il giudizio abbreviato, il criterio della diminuzione di un terzo della pena, evidentemente inapplicabile ai reati puniti con l’ergastolo.
Il venir meno di tale disposizione, dichiarata incostituzionale, non può che determinare – secondo quanto espressamente affermato dalla Corte – l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai «processi concernenti delitti punibili con l’ergastolo».
* * *
Il 13 maggio viene varato il decreto legge n.152, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa, il cui art.1, comma 1, introduce nella legge 354.75 in tema di ordinamento penitenziario l’art.4 bis sul c.d. ergastolo “ostativo”, destinato a subire plurime modifiche oltre che molteplici interventi della Corte costituzionale.
La norma viene rubricata “accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”; stando al relativo comma 1, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI della legge sull’ordinamento penitenziario possono essere concessi – ove si tratti di condannati per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art.416 bis del codice penale (mafia) ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti di cui agli articoli 416 bis e 630 del codice penale e all’art.74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con D.p.R. 309.90 – solo se siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata o eversiva.
Quando poi si tratta di condannati per i delitti di cui agli articoli 575, 628, comma 3, 629, comma 2, c.p., e all’art.73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art.80, comma due, del ridetto T.U. 309.90 in materia di stupefacenti, i benefici suddetti possono essere concessi solo se non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva.
Stando al successivo comma 2, ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato, ed in ogni caso trascorsi 30 giorni dalla richiesta delle ridette informazioni, al comitato provinciale in parola potendo essere chiamato a partecipare anche il direttore dell’istituto penitenziario presso il quale il condannato è detenuto.
Alla stregua del successivo comma 3, quando il comitato ritenga sussistenti particolari esigenze di sicurezza, ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti non locali o extranazionali, ne dà comunicazione al giudice ed il termine di cui al comma 2 viene prorogato di ulteriori 30 giorni al fine di acquisire elementi ed informazioni da parte dei competenti organi centrali.
Viene poi introdotto sempre nella legge n.354.75, tra gli altri, anche un articolo 58-ter, rubricato “persone che collaborano con la giustizia”, alla cui stregua determinate disposizioni dell’ordinamento penitenziario – segnatamente, gli articoli 21, comma 1, 30-ter comma 4 e 50, comma 2 – concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati dall’art.4-bis, comma 1, non si applicano a coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati (comma 1); tali condotte di collaborazione vanno accertate dal tribunale di sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il PM presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione.
Di particolare rilievo ratione materiae l’art. 2 del decreto che, per l’ammissione alla liberazione condizionale dei condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4 -bis, commi 1, 1 -ter e 1 -quater, I. n. 354 del 1975 (e, dunque, anche per soggetti condannati all’ergastolo), impone gli stessi requisiti previsti dal menzionato art. 4 -bis per l’accesso ai benefici penitenziari, e quindi, per quelli di cui al comma 1, la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 -ter della stessa legge.
1992
Il 17 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.2977 la quale, risolvendo le incertezze interpretative emerse nella prassi all’indomani della pronuncia della Corte costituzionale in tema di ergastolo e giudizio abbreviato, afferma l’inammissibilità del giudizio abbreviato conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dover valere in ogni caso in cui l’imputazione enucleata nella richiesta di rinvio a giudizio concerna un reato «punibile» con l’ergastolo.
Ciò anche laddove il giudice ritenga – in ragione della sussistenza di circostanze attenuanti – doversi in concreto applicare una pena diversa.
* * *
L’8 giugno viene varato il decreto legge n.306, intervenuto subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, che produce in ambito penitenziario un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del 1993).
L’art. 15 del provvedimento, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, apporta infatti decisive modifiche all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975.
Per quel che più direttamente interessa ratione materiae, nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla c.d. prima “fascia” di gravità, si stabilisce che l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata).
Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l’accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalità organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l’intervenuta rescissione di quei collegamenti.
Si passa da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione).
La nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, o il relativo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della pertinente valenza “rescissoria” del legame con il sodalizio criminale.
Si coniuga a ciò – assumendo, in fatto, un rilievo preminente – l’obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o “contigui” ad associazioni criminose, che appare come strumento essenziale per la lotta alla criminalità organizzata.
Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la presunzione assoluta che i collegamenti con l’organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato, con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti.
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Il 7 agosto viene varata la legge n. n. 356 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.306.
1993
Il 6 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.140 che – in tema di ergastolo applicabile a imputati minorenni – dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 22, 98, 65 e 69 del codice penale, sollevate dal Tribunale per i minorenni di Catania, in composizione di giudice per l’udienza preliminare, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 10, primo comma, 27, terzo comma e 31, secondo comma, della Costituzione.
1994
Il 28 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.168 che dichiara in primis l’illegittimità costituzionale degli artt. 17 e 22 del codice penale nella parte in cui non escludono l’applicazione della pena dell’ergastolo al minore imputabile.
La pronuncia dichiara altresì, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87:
- a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che nei confronti del minore imputabile sia applicabile la disposizione del primo comma dello stesso articolo 69 in caso di concorso tra la circostanza attenuante di cui all’art. 98 del codice penale e una o più circostanze aggravanti che comportano la pena dell’ergastolo, nonché nella parte in cui prevede che nei confronti del minore stesso siano applicabili le disposizioni del primo e del terzo comma del citato art. 69, in caso di concorso tra la circostanza attenuante di cui all’art. 98 del codice penale e una o più circostanze aggravanti che accedono ad un reato per il quale è prevista la pena base dell’ergastolo;
- b) l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui, in caso di concorso di più delitti commessi da minore imputabile, per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a 24 anni, prevede la pena dell’ergastolo.
Così ancora è da dirsi per la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” (ONU, New York, 10 dicembre 1948), secondo cui (punto 25) “la maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza“; per la “Dichiarazione dei diritti del fanciullo” (ONU, New York, 20 novembre 1959), in cui si prevede (principio secondo) che “il fanciullo deve beneficiare di una speciale protezione e godere di possibilità e facilitazioni, in base alla legge e ad altri provvedimenti, così da essere in grado di crescere in modo sano e normale sul piano fisico, intellettuale, morale, spirituale e sociale“. Analoghi concetti sono espressi nelle “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile” (ONU, New York, 29 novembre 1985; c.d. Regole di Pechino), le quali prevedono (punto 3) che “un minore è un ragazzo o una persona che nel rispettivo sistema legale può essere imputato per un reato, ma non è penalmente responsabile come un adulto“, che (punto 5) “il sistema della giustizia minorile deve avere per obbiettivo la tutela del giovane ed assicurare che la misura adottata nei confronti del giovane sia proporzionale alle circostanze del reato o all’autore dello stesso” ed ancora (punto 17) che, nell’ambito del processo, la decisione “deve essere sempre proporzionata non soltanto alle circostanze e alla gravità del reato, ma anche alle condizioni e ai bisogni del soggetto che ha delinquito come anche ai bisogni della società“, che “la tutela del minore deve essere il criterio determinante nella valutazione del suo caso” e che “la pena capitale non è applicabile ai reati commessi da minori“. Analogamente infine – prosegue il Collegio – è da dirsi per la Convenzione di New York “sui diritti del fanciullo” del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, che, oltre a riaffermare i principi enunciati in precedenza, prescrive all’art. 37 che “nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Né la pena capitale né l’imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore a diciotto anni“; ed inoltre che “la detenzione o l’imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa ed avere la durata più breve possibile“.
Il carattere consequenziale della dichiarazione di incostituzionalità che investe l’art. 69 del codice penale, va ad incidere così sul meccanismo della comparazione delle circostanze ai limitati effetti di quella principale cui è esclusivamente finalizzata e non può dar luogo, come si è già rilevato in premessa, a quegli effetti eccedenti le finalità del quesito rilevati nella sentenza n. 140 del 1993.
* * *
Il 13 ottobre viene varata la legge n.589, recante abolizione della pena di morte nel codice penale militare di guerra, secondo il cui comma 1 per i delitti previsti dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, la pena di morte è per l’appunto abolita ed è sostituita dalla pena massima prevista dal codice penale (e, dunque, dall’ergastolo).
Il comma 2 abroga poi l’art.241 del codice penale militare di guerra e tutte le disposizioni dello stesso codice e delle leggi militari di guerra che fanno riferimento alla pena di morte.
Trattandosi, nondimeno, di legge ordinaria, la pena di morte potrebbe astrattamente essere reinnestata nell’ordinamento in ambito penale militare, stante il vigente disposto dell’art.27, comma 4, Cost.
1997
Il 4 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.161 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, primo comma, ultimo periodo, del codice penale, nella parte in cui non prevede che il condannato alla pena dell’ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio ove ne sussistano i relativi presupposti.
L’art. 177 del codice penale, il cui primo comma é dedicato alla disciplina della revoca della liberazione condizionale, trae origine – principia la Corte – dall’art. 17 del codice penale del 1889, che per la prima volta introdusse in Italia l’istituto della liberazione condizionale e di questa disciplinò i presupposti (art. 16).
Esso ricalcava tutto il sistema del detto articolo 17, nel quale figuravano, come presupposti della revoca, la commissione di un reato che importi pena restrittiva della libertà personale o, alternativamente, l’inadempimento delle condizioni imposte al condannato, e, come conseguenze della revoca stessa, il divieto di computare nella pena residua il periodo trascorso in liberazione condizionale e il divieto di ammissione ad una nuova liberazione condizionale.
Questo sistema era relativo, tanto nel codice del 1889 quanto nella formulazione originaria del codice vigente, ai soli condannati a pena detentiva temporanea, non essendo allora considerata l’ammissibilità alla liberazione condizionale per i condannati alla pena dell’ergastolo. Viceversa, per i condannati all’ergastolo, l’ammissione alla liberazione condizionale fu prevista dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 (Modificazioni alle norme del codice penale relative all’ergastolo e alla liberazione condizionale) e ribadita con l’art. 8 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), la quale ultima ridusse il periodo di esecuzione della pena richiesto per l’ammissibilità al beneficio da ventotto a ventisei anni.
Con quest’ultima legge – prosegue la Corte – veniva inoltre disciplinato in modo più favorevole ai condannati l’istituto denominato “liberazione anticipata“, già introdotto con l’art. 54 dell’ordinamento penitenziario del 1975 per i condannati che nell’espiazione della pena abbiamo dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, ai fini del loro più efficace reinserimento nella società (questa la prima formulazione dell’art. 54).
Veniva infatti elevato a quarantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata il periodo massimo di detrazione e veniva sancita la detrazione di pena anche per i condannati all’ergastolo. Quest’ultima modificazione consacrava anche formalmente, sul piano legislativo, la pronuncia resa dalla Corte con sentenza n. 274 del 1983, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo il suddetto art. 54 dell’ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l’ammissione alla liberazione condizionale“.
Per effetto di tali modificazioni il periodo minimo di durata della pena effettivamente scontata perchè il condannato all’ergastolo potesse essere ammesso alla liberazione condizionale, stabilito nel 1962 in anni 28 e ridotto nel 1986 ad anni 26, veniva a poter essere diminuito, in caso di fruizione delle riduzioni proprie della liberazione anticipata, in modo assai consistente.
Riassunti come sopra i precedenti legislativi relativi all’ammissione alla liberazione condizionale dei condannati all’ergastolo, oggetto, con gli altri presupposti generali dell’istituto stesso, dell’art. 176 del codice penale, deve ricordarsi per il Collegio come anche l’art. 177 dello stesso codice, concernente la revoca, abbia conosciuto, nel corso dei decenni successivi al 1930, modificazioni ad opera del legislatore, decisioni di parziale illegittimità costituzionale e messe a punto della giurisprudenza ordinaria, segnatamente della giurisprudenza di legittimità.
Le modificazioni legislative, intervenute ad opera dell’art. 2 della menzionata legge 25 novembre 1962, n. 1634, hanno rappresentato soltanto un allineamento alle modificazioni introdotte con la stessa disposizione nell’articolo 176: sospensione, in caso di ammissione alla liberazione condizionale, della misura di sicurezza detentiva a cui eventualmente il condannato a pena detentiva temporanea sia stato sottoposto, e, nel secondo comma, previsione di un termine (cinque anni) per la liberazione definitiva del condannato all’ergastolo a seguito di esperimento positivo del periodo di liberazione condizionale.
L’intervento della Corte si concretò invece nella declaratoria di illegittimità costituzionale di una delle due proposizioni dell’ultimo periodo del primo comma, e precisamente del comma suddetto “nella parte in cui, in caso di revoca della liberazione condizionale, non consente al tribunale di sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare, tenendo conto del tempo trascorso in libertà condizionale, nonchè delle restrizioni di libertà subite dal condannato e del suo comportamento in tale periodo” (sentenza n. 282 del 1989). Ovviamente detta sentenza si riferiva soltanto alle pene detentive temporanee.
Infine é da considerarsi rilevante l’intervento compiuto dalla giurisprudenza di legittimità su uno dei due presupposti alternativamente previsti per la revoca, e precisamente sul presupposto attinente alla “trasgressione agli obblighi inerenti alla libertà vigilata, disposta ai termini dell’articolo 230 n. 2“.
Con alcune sentenze dell’ultimo decennio – rammenta il Collegio – la Corte di cassazione ha statuito che ai fini di stabilire l’esistenza di una trasgressione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata “non é sufficiente la mera segnalazione degli organi di polizia incaricati della sorveglianza, ma occorre accertare in primo luogo la volontarietà del fatto, dovendosi ovviamente escludere le infrazioni incolpevoli, ed in particolare, poi, se la violazione degli obblighi inerenti la libertà vigilata sia di tale gravità da investire tutto il regime di vita al quale il liberato é stato sottoposto e da costituire sicuro elemento per ritenere, con giudizio penetrante e completo tradotto in adeguata motivazione, la insussistenza nella realtà di quel ravvedimento, sicchè il liberato sia immeritevole dell’anticipato reinserimento nella vita sociale“.
Con questi interventi la Corte di cassazione, svolgendo opera interpretativa guidata da criteri di razionalità e di aderenza alle finalità degli istituti in questione, veniva incontro non solo ad un voto formulato sin dai tempi delle prime revisioni del codice penale vigente, ma anche ad una chiara presa di posizione incidentale (sorretta peraltro da una serie di analitiche proposizioni) della Corte, che nella ricordata sentenza n. 282 del 1989 aveva ricordato le critiche all’automatismo della revoca, qualificando tale automatismo come “frutto di una visione ingiustificatamente punitiva” di tale istituto.
Tale il quadro normativo e giurisprudenziale nel quale si deve collocare per la Corte la presente decisione, la quale riguarda – così come richiesto dall’ordinanza del giudice a quo – entrambi i casi di revoca della liberazione condizionale: quello determinato dalla commissione di un “delitto o contravvenzione della stessa indole” e quello determinato dalla “trasgressione agli obblighi della libertà vigilata, disposta a’ termini dell’art. 230, n. 2” del codice penale.
Della compatibilità della pena dell’ergastolo con la funzione rieducativa assegnata alla pena in generale dall’art. 27, comma terzo, della Costituzione, e più in generale della pena dell’ergastolo, la Corte rammenta che ebbe ad occuparsi più di una volta.
Con la sentenza n. 264 del 1974, la Corte, chiamata a riesaminare la legittimità dell’ergastolo, espose a sostegno della infondatezza della questione vari argomenti, tra i quali assume indubbiamente valore preminente quello incentrato sulla legge 25 novembre 1962, n. 1634 che ammise la liberazione condizionale anche per i condannati a detta pena.
Scrisse allora la Corte che “l’istituto della liberazione condizionale disciplinato dall’art. 176 cod.pen. – modificato dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634 – consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile senza che possano ostarvi le sue precarie condizioni economiche: invero… la concessione della liberazione condizionale é subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili, semprechè il condannato abbia la possibilità di provvedervi, che altrimenti potrà dimostrare di trovarsi nell’impossibilità di adempierle senza subire alcun pregiudizio“.
E questa posizione fu rinforzata, nella sentenza stessa, con il dare rilievo alla precedente sentenza n. 204 dello stesso anno 1974, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma attributiva della facoltà di concedere la liberazione condizionale al Ministro della giustizia (art. 43 r.d. 28 maggio 1931, n. 602), conseguentemente attribuendosi la facoltà stessa all’autorità giudiziaria “che con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale accerterà se il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento“.
Questi motivi furono ripetutamente ripresi in decisioni successive, tra le quali spicca la sentenza n. 274 del 1983, nella quale – a premessa della estensione del già ricordato istituto della riduzione di pena, che va sotto il nome di ‘liberazione anticipata’, ai condannati all’ergastolo – può leggersi che la finalità rieducativa voluta dall’art. 27, terzo comma, della Costituzione si riferisce senza ombra di dubbio anche a detti soggetti e che ciò “é fatto palese dalla estensione in loro favore dell’istituto della liberazione condizionale, operata dalla legge n. 1634 del 1962“: a proposito della quale – prosegue la sentenza – fu enunciato, nella relazione governativa che accompagnava la presentazione alla Camera dei deputati del disegno di legge, il proposito di “completare ed integrare, con speciale riferimento all’ergastolo, la progressiva umanizzazione della pena, rendendo più concreta e funzionale anche nell’ergastolo l’azione intesa alla rieducazione del condannato“.
La recuperabilità sociale del condannato all’ergastolo, mediante la possibilità della relativa liberazione condizionale, segnava perciò – chiosa ancora il Collegio – nella nostra legislazione penale una svolta di evidente rilievo: una svolta sottolineata anche dalla Corte, la quale, nel dichiarare, con la ricordata sentenza n. 264 del 1974, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 del codice penale, sollevata in riferimento all’art. 27, comma terzo, della Costituzione, faceva perno, tra l’altro, proprio sulla intervenuta ammissione della liberazione condizionale, in quanto essa “consente l’effettivo reinserimento dell’ergastolano nel consorzio civile“.
Alla stregua di queste premesse – prosegue il Collegio – non può non essere rilevata la illegittimità costituzionale della disposizione che, vietando per i condannati all’ergastolo la riammissione alla liberazione condizionale, li esclude in modo permanente ed assoluto dal processo rieducativo e di reinserimento sociale.
La pena dell’ergastolo, per il relativo carattere di perpetuità, si distingue dalle altre pene restrittive della libertà personale; oltre a comportare, per chi vi é sottoposto, una serie di conseguenze, di tipo interdittivo e di tipo penitenziario, che sono, in tutto o in parte, estranee alle altre pene. Ma questo relativo connotato di perpetuità non può legittimamente intendersi, alla stregua dei principi costituzionali, come legato, sia pure dopo l’esperimento negativo di un periodo trascorso in liberazione condizionale, ad una preclusione assoluta dell’ottenimento, ove sussista il presupposto del sicuro ravvedimento, di una nuova liberazione condizionale.
Il mantenimento di questa preclusione nel nostro ordinamento equivarrebbe, per il condannato all’ergastolo, ad una relativa esclusione dal circuito rieducativo, e ciò in palese contrasto – come già si é visto – con l’art. 27, comma terzo, della Costituzione, la cui valenza é stata già più volte affermata e ribadita, senza limitazioni, anche per i condannati alla massima pena prevista dall’ordinamento italiano vigente.
Se la liberazione condizionale é l’unico istituto che in virtù della relativa esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o più esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale.
Certamente, in concreto, il condannato all’ergastolo potrà dalla competente autorità giudiziaria essere ritenuto non meritevole della riammissione al beneficio della liberazione condizionale; e l’autorità stessa potrà graduare anche nei tempi la nuova ammissione, tenuto conto sia della prova data dal detenuto durante la detenzione sia della prova data durante i precedenti periodi trascorsi in libertà vigilata, prendendo ovviamente in considerazione anche la concreta gravità delle violazioni che ebbero a dar luogo alla revoca.
Ma questa possibilità di non riammissione o di riammissione dilazionata nel tempo non equivale ad una esclusione totale per divieto di legge.
A quest’ultimo proposito, e cioé in relazione ai presupposti di una nuova concessione del beneficio della liberazione condizionale al condannato all’ergastolo nei cui confronti precedenti concessioni siano state revocate, é necessaria per la Corte qualche precisazione ulteriore.
L’ordinanza del giudice a quo si occupa espressamente di questo tema quando scrive che la normativa che deriverebbe dalla sentenza di accoglimento prospettata alla Corte costituzionale non richiederebbe integrazione alcuna. Si potrebbe cioè discutere se debbano valere “le stesse regole dettate per la rinnovazione della istanza dopo il provvedimento di rigetto, con una equiparazione a questo del provvedimento di revoca“, mentre per le altre condizioni di ammissibilità “non vi é ragione che non debbano valere le stesse condizioni richieste per la ammissione al beneficio, come accade, ad esempio, per la semilibertà dopo una precedente revoca“.
Inoltre l’ordinanza stessa aggiunge che dovrà essere valutato seriamente, nel merito, il ravvedimento del condannato in presenza dell’insuccesso della prima concessione; e che in tale quadro dovranno essere valutate anche le ragioni della revoca, la cui gamma “é assai ampia e può andare da situazioni di gravità relativa ad altre di gravità estrema“.
Ora, quanto al problema dei termini da osservare in vista di una nuova ammissione alla liberazione condizionale, é evidente che non é dato alla Corte – essa lo rammenta – alcun potere di intervento, spettante soltanto, nel rispetto dei presupposti e dei limiti costituzionali, ad una eventuale iniziativa legislativa. In particolare non sembra possibile estendere in modo automatico i presupposti temporali fissati dalle leggi vigenti per la riproposizione della domanda del condannato dopo che é stata respinta una relativa domanda diretta ad ottenere la liberazione condizionale: diverse sono infatti le due situazioni, anche se una certa analogia tra le stesse non può essere negata.
A carico di chi sia incorso nella revoca del beneficio, può rilevarsi che l’esperienza fatta in concreto ha segnato in modo negativo l’effettività del relativo ravvedimento, mentre, a favore, non si può dimenticare che il lungo periodo precedentemente trascorso in carcere lo aveva fatto ritenere meritevole del beneficio, diversamente da colui al quale il beneficio aveva dovuto essere negato.
Solo una penetrante valutazione condotta dal tribunale di sorveglianza, competente ai sensi dell’art. 70 dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni), potrà portare a concludere per la maggiore rilevanza delle valutazioni concernenti l’uno o l’altro periodo (quello trascorso in detenzione e quello trascorso in libertà vigilata), tenuto ovviamente conto anche della prova data dal condannato nel periodo di privazione della libertà personale successivo alla revoca.
In assenza di un intervento legislativo sul punto, il termine richiesto dalla legge vigente per la riproposizione della domanda respinta potrebbe essere per il giudice un utile punto di riferimento.
Altrettanto deve dirsi per le altre condizioni per la nuova ammissione al beneficio successivamente alla revoca. Varranno ovviamente anche qui i parametri propri dell’istituto della liberazione condizionale, fissati nell’art. 176 del codice penale, che nell’ultima sua redazione esige che durante l’esecuzione della pena sia stato tenuto dal condannato “un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento“.
Ovviamente, in caso di condannato che, come nella fattispecie qui considerata, abbia già usufruito di un periodo di liberazione condizionale in libertà vigilata, dovrà il tribunale tener conto anche di tale periodo; e in questo contesto di valutazioni rientrerà anche un esame delle ragioni che dettero luogo alla revoca e della loro maggiore o minore gravità. Su tutto dovrà operare il rispetto della finalità rieducativa, intesa come reinserimento del reo nella società, secondo le formule più volte adottate dalla Corte in questa materia (v. particolarmente, anche per la liberazione condizionale del condannato all’ergastolo, la sentenza n. 274 del 1983).
1999
Il 16 dicembre viene varata la legge n.479 – recante modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale; modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario; disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), la cosiddetta “legge Carotti”.
Il relativo art.30 ripristina– nel contesto di una più generale modifica dei tratti strutturali del giudizio abbreviato – la possibilità di accesso a tale rito per i delitti puniti con l’ergastolo, aggiungendo un secondo periodo al comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., con cui reitera l’originaria soluzione dei compilatori del codice, prevedendo che «[a]lla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta».
2000
Il 23 novembre viene varato il decreto legge n.341, recante interpretazione autentica dell’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei processi per reati puniti con l’ergastolo, secondo il cui art.7 «[n]ell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno».
Viene poi aggiunto allo stesso art. 442, comma 2, cod. proc. pen. un terzo periodo, dal seguente tenore letterale: «[a]lla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
In seguito a tali novelle, il giudizio abbreviato torna ad operare anche per i reati punibili con la pena dell’ergastolo, dando luogo – in caso di condanna – alle pene previste dall’art. 442, comma 2, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen., in sostituzione, rispettivamente, dell’ergastolo senza isolamento diurno e dell’ergastolo con isolamento diurno.
2001
Il 10 gennaio viene varata la legge n. 4 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.341.
* * *
Il 20 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.273 che – in materia di c.d. reati ostativi e liberazione condizionale – dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, e 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Sassari.
La collaborazione con la giustizia – principia la Corte – in funzione di requisito per l’ammissione al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge sull’ordinamento penitenziario, é stata inserita dall’art. 15 del decreto-legge n. 306 del 1992 nel primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis, in precedenza introdotto nel medesimo ordinamento penitenziario dall’art. 1 del decreto-legge n. 152 del 1991.
Per quanto riguarda in particolare la liberazione condizionale, l’art. 2 del decreto-legge n. 152 del 1991 stabilisce che i condannati per i delitti indicati dall’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario possono esservi ammessi solo in presenza dei presupposti previsti dal medesimo comma per la concessione dei benefici ivi indicati.
Il presupposto interpretativo a cui implicitamente aderisce il giudice rimettente, ritenuto condivisibile dalla Corte perché conforme alla giurisprudenza di legittimità (v. sentenze n. 68 del 1995 e n. 39 del 1994), si basa sulla natura formale del rinvio all’art. 4-bis contenuto nell’art. 2 del decreto-legge n. 152 del 1991, così da comportare che la collaborazione con la giustizia, successivamente introdotta nella norma richiamata, opera anche quale condizione per l’ammissione alla liberazione condizionale.
Ciò premesso, riprende la Corte, l’aspetto centrale della questione ad essa sottoposta investe la sfera di applicazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.: se, cioè, il principio di irretroattività della legge penale sia circoscritto alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché la specie e la durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito – come ritiene il giudice a quo – anche alle norme che disciplinano le modalità di espiazione della pena detentiva.
L’interpretazione data dal rimettente al principio di irretroattività della legge penale, a prescindere dalla relativa esattezza, impone dunque per il Collegio, in via preliminare, di accertare se le norme censurate abbiano comportato una modificazione della disciplina sostanziale della liberazione condizionale.
L’istituto della liberazione condizionale (artt. 176 e 177 cod. pen.), già presente nel testo originario del codice penale tra le cause di estinzione della pena, é stato oggetto di successive modifiche, che hanno consentito di superare la logica esclusivamente premiale a cui era ispirato – nell’ambito di una concezione prevalentemente retributiva della pena medesima – e di renderlo coerente con il principio della funzione rieducativa, enunciato dall’art. 27, terzo comma, Cost., e con gli istituti dell’ordinamento penitenziario del 1975 rivolti al raggiungimento di tale finalità.
Particolare rilievo assume il requisito del <<sicuro ravvedimento>>, introdotto dalla legge 25 novembre 1962, n. 1634, in sostituzione delle <<prove costanti di buona condotta>>, in linea con le valutazioni sul venir meno della pericolosità sociale e sugli esiti del percorso rieducativo che caratterizzano l’esecuzione delle pene detentive; situazioni e comportamenti che, sia pure con diverse formulazioni, figureranno poi quali condizioni per l’ammissione alle misure alternative e agli altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario.
Il principio del finalismo rieducativo della pena viene così a permeare anche il “vecchio” istituto della liberazione condizionale, di cui risulta ormai evidente l’attrazione nella logica del trattamento del condannato e la sostanziale assimilazione alle misure alternative alla detenzione disciplinate dall’ordinamento penitenziario (cfr. da ultimo sentenze n. 138 del 2001, n. 418 del 1998, nonchè n. 188 del 1990 e n. 282 del 1989).
Alla stregua dell’attuale formulazione dell’art. 176 cod. pen., riprende la Corte, l’aver tenuto durante il tempo di esecuzione della pena un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento é appunto il presupposto su cui si basa la valutazione che il condannato non é più socialmente pericoloso e che ne legittima la liberazione, sia pure con sottoposizione alla misura di sicurezza della libertà vigilata.
L’ammissione alla liberazione condizionale, attribuita dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, alla competenza del tribunale di sorveglianza, presuppone dunque un giudizio prognostico favorevole, da effettuarsi sulla base di criteri di valutazione non dissimili da quelli dettati per verificare le varie condizioni cui é subordinata la concessione delle misure alternative alla detenzione e degli altri benefici penitenziari.
Innestandosi su questo schema di valutazione prognostica, l’art. 1 del decreto-legge n. 152 del 1991, che ha introdotto l’art 4-bis dell’ordinamento penitenziario, e l’art. 2 del medesimo decreto-legge avevano previsto che nei confronti dei condannati per tutti i delitti indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis la rottura o la mancanza dei collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva fosse requisito necessario per l’ammissione ai benefici previsti dal medesimo art. 4-bis, nonché per la liberazione condizionale, non potendosi ipotizzare, in assenza di siffatta “rottura“, il venir meno della pericolosità del condannato e un esito positivo del percorso di rieducazione e di recupero sociale.
L’art. 15 del decreto-legge n. 306 del 1992, modificando il comma 1 dell’art. 4-bis, ha poi dettato una disciplina particolare dei parametri in base ai quali formulare il giudizio sulla sussistenza dei requisiti di ammissione alla liberazione condizionale, al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione nel caso di condannati per i delitti elencati dal primo periodo del comma modificato.
Tali delitti sono infatti, o possono ritenersi, espressione tipica di una criminalità connotata da livelli di pericolosità particolarmente elevati, in quanto la loro realizzazione presuppone di norma, ovvero per la comune esperienza criminologica, una struttura e una organizzazione criminale tali da comportare tra gli associati o i concorrenti nel reato vincoli di omertà e di segretezza particolarmente forti.
A differenza di quanto si verifica per gli altri delitti, anche gravi, indicati dal medesimo art. 4-bis, ma che non implicano necessariamente l’apporto di una organizzazione criminale così strutturata, con riferimento ai delitti elencati nel primo periodo del comma 1 il decreto-legge n. 306 del 1992 ha stabilito che la collaborazione con la giustizia é un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini della prova che il condannato ha reciso i legami con l’organizzazione criminale di provenienza.
Al riguardo, rammenta ancora la Corte, nella relazione presentata in Senato in sede di conversione del decreto-legge n. 306 del 1992 (atto n. 328) si rileva come le nuove norme abbiano inteso esprimere che, <<attraverso la collaborazione, chi si é posto nel circuito della criminalità organizzata può dimostrare per facta concludentia di esserne uscito>>, e che tale scelta é in armonia con il principio della funzione rieducativa della pena, <<perché é solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volontà di emenda che l’intero ordinamento penale deve tendere a realizzare>>.
Il legislatore ha dunque preso atto del peculiare significato che assume la collaborazione con la giustizia al fine di accertare la rottura dei collegamenti con le organizzazioni criminali di provenienza (v. sentenza n. 357 del 1994, nonché le successive nn. 68 e 504 del 1995 e n. 445 del 1997) e ne ha tratto il criterio di valutazione fissato dalla disposizione censurata.
In questa prospettiva, in relazione all’esecuzione delle pene detentive per i delitti indicati dal comma 1, primo periodo, dell’art. 4-bis, la collaborazione con la giustizia – già rilevante nell’ordinamento sul terreno del diritto penale sostanziale (v., ad esempio, art. 630, quinto comma, cod. pen.; art. 74, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309; art. 8 del decreto-legge n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991) – assume, non irragionevolmente, la diversa valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, che a propria volta é condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale ed i risultati del percorso di rieducazione e di recupero del condannato, a cui la legge subordina, ricorrendo a varie formulazioni sostanzialmente analoghe, l’ammissione alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario.
Coerentemente con tale impostazione, chiosa ancora il Collegio, anche per quanto concerne la liberazione condizionale il legislatore del 1992 ha ritenuto che non sia possibile dimostrare l’uscita dal circuito della criminalità organizzata e, quindi, il sicuro ravvedimento del condannato se non in presenza della collaborazione con la giustizia.
L’atteggiamento di chi non si adoperi <<per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori>> o per aiutare <<concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati>> (art. 58-ter dell’ordinamento penitenziario) é valutato come indice legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e, quindi, della mancanza del sicuro ravvedimento del condannato.
Presunzione peraltro vincibile, posto che, con riferimento al principio di cui all’art. 27 Cost. (per cui vedi sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995, n. 306 del 1993), la Corte rammenta di aver ritenuto che l’oggettiva impossibilità o l’inesigibilità della collaborazione non é di ostacolo, in costanza di elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, alla concessione dei benefici penitenziari (v. sentenze n. 68 del 1995 e n. 357 del 1994).
Si deve quindi concludere per il Collegio che la disciplina censurata non comporta una modificazione degli elementi costitutivi della liberazione condizionale e, quindi, rimane estranea alla sfera di applicazione del principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., risolvendosi in un criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il <<sicuro ravvedimento>> del condannato.
2002
Il 3 maggio viene adottato e aperto alla firma dal Consiglio d’Europa il Protocollo Addizionale n. 13 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Secondo il relativo art.1, recante abolizione della pena di morte, la pena di morte è appunto abolita; nessuno sarà condannato a tale pena e a nessuno sarà applicata tale pena. Stando poi al successivo art.2, recante “divieto di deroga”, nessuna deroga alle disposizioni del Protocollo potrà essere fatta in forza dell’art. 15 della Convenzione.
2003
Il 24 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.135, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Firenze.
Il Tribunale di sorveglianza di Firenze sottopone al giudizio della Corte l’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui, in assenza della collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, non consente al condannato alla pena dell’ergastolo per uno dei delitti indicati nella disposizione censurata di essere ammesso alla liberazione condizionale.
Il rimettente afferma che secondo la giurisprudenza prevalente la collaborazione con la giustizia è condizione anche per l’ammissione al beneficio della liberazione condizionale (stante la natura mobile del rinvio operato dall’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203, all’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario) e che il condannato non si trova in una situazione di collaborazione inesigibile alla stregua della sentenza n. 68 del 1995, né in una situazione in cui potrebbe essere ammesso alla liberazione condizionale per avere raggiunto prima dell’entrata in vigore della disciplina censurata un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto (sentenza n. 445 del 1997).
Ciò posto, il giudice a quo rileva che l’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario, precludendo l’ammissione alla liberazione condizionale dei condannati all’ergastolo che non collaborano con la giustizia, rende effettivamente perpetua la pena nei loro confronti, escludendoli in via permanente dal processo rieducativo, in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost.
Ad avviso del rimettente, la disciplina impugnata determinerebbe una situazione del tutto analoga a quella scrutinata dalla Corte con la sentenza n. 161 del 1997, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, primo comma, ultimo periodo, del codice penale, nella parte in cui non prevede che il condannato alla pena dell’ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio ove ne sussistano i relativi presupposti, perché tale disciplina determinava appunto una esclusione permanente e assoluta dal processo rieducativo, in violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost.
E’ opportuno precisare per la Corte che, successivamente all’ordinanza di rimessione, il comma 1 dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario è stato integralmente sostituito dall’art. 1 della legge 23 dicembre 2002, n. 279; ma per quanto rileva ai fini della presente questione, l’intervento legislativo non ha modificato la disciplina censurata, in quanto si è limitato a recepire il contenuto delle sentenze della Corte costituzionale n. 357 del 1994 e n. 68 del 1995, ammettendo il condannato ai benefici penitenziari anche nelle situazioni in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità rende comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia.
Fatta questa premessa, per il Collegio la questione sottopostale nel caso di specie va assunta infondata.
Diversamente da quanto mostra di ritenere il rimettente, precisa il Collegio, la preclusione all’ammissione alla liberazione condizionale che discende dalla disciplina censurata non è equiparabile al divieto che era previsto dall’art. 177, primo comma, cod. pen. prima dell’intervento della sentenza n. 161 del 1997.
L’art. 177, primo comma, cod. pen. è stato dichiarato illegittimo con la menzionata sentenza in quanto, nel prevedere che in caso di revoca della liberazione condizionale conseguente alla commissione di un delitto o di una contravvenzione della stessa indole, ovvero alla trasgressione degli obblighi inerenti alla libertà vigilata, la posizione del condannato non poteva essere riesaminata ai fini di una nuova ammissione al beneficio, dettava un divieto assoluto e definitivo, come tale incompatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.
Al contrario, la preclusione prevista dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta.
La giurisprudenza costituzionale in tema di collaborazione impossibile, irrilevante o comunque oggettivamente inesigibile è significativamente volta ad escludere qualsiasi automatismo degli effetti nel caso in cui la mancata collaborazione non possa essere imputata ad una libera scelta del condannato. Nelle sentenze n. 306 del 1993, n. 357 del 1994, n. 68 del 1995 la Corte ha appunto individuato varie ipotesi di impossibilità di prestare un’utile collaborazione (perché fatti e responsabilità sono già stati completamente accertati, ovvero perché la posizione marginale nell’organizzazione criminale non consente di conoscere fatti e compartecipi al livello superiore, ipotesi che, come detto, sono ora tutte normativamente previste).
La Corte rammenta poi di avere chiarito, proprio in tema di liberazione condizionale, che <<ancorare alla collaborazione la stessa astratta possibilità di fruire di fondamentali strumenti rieducativi, ha un senso solo ove […] si versi in ipotesi di “collaborazione oggettivamente esigibile“, giacché un comportamento che il legislatore presupponga come condizionante l’applicazione di istituti costituzionalmente rilevanti, non può che essere frutto di una libera scelta dell’interessato e, quindi, essere in sé naturalisticamente e giuridicamente “possibile”>> (sentenza n. 89 del 1999).
Alla luce di tali principi, non vi è dubbio per la Corte che la disciplina censurata non impedisce in maniera assoluta e definitiva l’ammissione alla liberazione condizionale, ma àncora il divieto alla perdurante scelta del soggetto di non collaborare con la giustizia; scelta che è assunta dal legislatore a <<criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il “sicuro ravvedimento” del condannato>> (sentenza n. 273 del 2001).
A condizione, beninteso, che la scelta se prestare o meno la collaborazione sia oggettivamente e giuridicamente possibile, nei termini sopra precisati; termini che lo stesso rimettente afferma di aver verificato, escludendo che il condannato versi in una situazione di collaborazione inesigibile e segnalando, in particolare, che avrebbe potuto e dovuto <<dire assai di più di quanto non ha detto>>.
Conclusivamente per la Corte, la disciplina censurata, subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia, che è rimessa alla scelta del condannato, non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio, e non si pone, quindi, in contrasto con il principio rieducativo enunciato dall’art. 27, terzo comma, Cost.
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Il 01 luglio entra in vigore il Protocollo Addizionale n. 13 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, sulla abolizione della pena di morte.
2007
Il 2 ottobre viene varata la legge costituzionale n.1, recante modifica all’articolo 27 della Costituzione, e concernente l’abolizione della pena di morte, che viene dunque sradicata dal sistema italiano anche a livello costituzionale.
Ciò anche al fine di consentire la ratifica del Protocollo Addizionale n. 13 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, sulla abolizione appunto della pena di morte.
2008
Il 12 febbraio esce la sentenza della Grande Camera della Corte EDU, Kafkaris c. Cipro che affronta un caso in cui il ricorrente assume la relativa condanna all’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata quale trattamento inumano e degradante contrario all’art. 3 Cedu.
La Corte – muovendo dalla constatazione onde, affinché un trattamento o una punizione assumano una consistenza afflittiva tale da cadere sotto il divieto di cui alla norma convenzionale ridetta, è necessario che essi superino quel minimo di sofferenza e umiliazione che è connaturato al fatto stesso di essere sottoposti a un trattamento o a una punizione – ritiene alfine che la pena dell’ergastolo non potesse essere considerata in sé contraria al divieto dell’art. 3.
Uno dei fattori per valutare tuttavia se tale forma di sanzione costituisca un ill-treatment suscettibile di essere inquadrato nell’alveo dell’art. 3 Cedu – precisato nondimeno il Collegio – è la configurabilità di concrete speranze di liberazione anticipata per il condannato.
In sostanza, per la Corte laddove l’ergastolo sia – di diritto o di fatto – “riducibile”, esso non può assumersi violare l’art. 3 (cfr. § 95-108).
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Il 29 aprile esce la sentenza della Corte EDU, Garagin c. Italia che assume l’ergastolo rimanere compatibile con l’articolo 3 della CEDU.
Per la Corte: «(…) il condannato all’ergastolo può essere liberato, e dal testo dell’articolo 176 del CP. Ai sensi di tale disposizione, il condannato all’ergastolo che abbia tenuto un comportamento tale da mostrare un sincero ravvedimento, può essere liberato dopo avere scontato ventisei anni di carcere. Dopo avere scontato ventisei anni di carcere può anche essere ammesso al regime di semi-libertà (articolo 50 c. 5 della legge n. 354 del 1975 (…), in Italia le pene perpetue sono (…) de jure e de facto riducibili. Dunque, non si può dire che il ricorrente non abbia alcuna prospettiva di liberazione né che il suo mantenimento in carcere, fosse anche per una lunga durata, sia in sé costitutivo di un trattamento inumano e degradante.»
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Il 15 ottobre viene varata la legge n.179 recante autorizzazione alla ratifica ed esecuzione del Protocollo Addizionale n. 13 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, sulla abolizione della pena di morte.
2013
Il 9 luglio esce la sentenza della Grande Camera della Corte EDU, Vinter ed altri contro Regno Unito, che inizia un percorso “europeo” di progressiva riparametrazione della pena.
La Corte rammenta come secondo la sentenza della camera, qualsiasi pena nettamente sproporzionata sia contraria all’articolo 3 della Convenzione. Questo è anche il parere espresso dalle parti nelle loro osservazioni presentate dinanzi alla camera e alla Grande Camera che , da parte sua, approva e fa propria la conclusione della camera assumendo anche, insieme a quest’ultima, che solo in casi rari ed eccezionali sarà soddisfatto il criterio della netta sproporzione.
Nella giurisprudenza della Corte – prosegue il Collegio – è stabilito chiaramente che la scelta di un determinato regime di giustizia penale fatta da uno Stato, ivi compreso il riesame della pena e le modalità di liberazione, non è soggetta in linea di principio al controllo europeo da essa esercitato, purché il sistema adottato non contravvenga ai principi della Convenzione (Kafkaris, § 99).
Inoltre, come fa notare la Corte d’appello nella sentenza R v. Oakes and others, le questioni inerenti alla natura equa e proporzionata della pena danno luogo a dibattiti razionali e a disaccordi cortesi. Pertanto, agli Stati contraenti deve essere riconosciuto un margine di apprezzamento per determinare la durata adeguata delle pene della reclusione per i vari reati.
Come la Corte ha dichiarato, essa non è tenuta a dire quale debba essere la durata della reclusione per questo o quel reato né quale debba essere la durata della pena, detentiva o di altro tipo, che una persona condannata da un tribunale competente dovrà scontare (T. c. Regno Unito [GC], n. 24724/94, § 117, 16 dicembre 1999; V. c. Regno Unito [GC], n. 24888/94, § 118, CEDU 1999-IX, e Sawoniuk c. Regno Unito (dec.), n. 63716/00, CEDU 2001-VI).
Per gli stessi motivi, prosegue la Corte, gli Stati contraenti devono rimanere liberi anche di infliggere pene perpetue agli adulti autori di reati particolarmente gravi come l’omicidio: farlo non è di per sé vietato dall’articolo 3 né da altre disposizioni della Convenzione e non è incompatibile con quest’ultima (Kafkaris, § 97).
Ciò è ancora più vero nel caso di una pena non obbligatoria ma pronunciata da un giudice indipendente che abbia valutato globalmente le circostanze attenuanti e aggravanti del caso di specie.
Tuttavia, come la Corte ha affermato anche nella sentenza Kafkaris, infliggere a un adulto una pena perpetua non riducibile può sollevare una questione dal punto di vista dell’articolo 3 (ibidem). Da questo principio – prosegue il Collegio – derivano due punti particolari, ma connessi, che la Corte ritiene necessario sottolineare e riaffermare.
In primo luogo, il semplice fatto che una pena della reclusione a vita possa in pratica essere scontata integralmente non la rende una pena non riducibile. Una pena riducibile de jure e de facto non solleva alcuna questione dal punto di vista dell’articolo 3 (Kafkaris, § 98).
Al riguardo, la Corte ci tiene a sottolineare che non si pone alcuna questione dal punto di vista dell’articolo 3 se, ad esempio, un condannato all’ergastolo che, in virtù della legislazione nazionale, può teoricamente ottenere una liberazione chiede di essere scarcerato ma la relativa richiesta viene respinta in quanto costituisce ancora un pericolo per la società. In effetti, la Convenzione impone agli Stati contraenti l’adozione di misure volte a tutelare il pubblico dai reati violenti e non vieta loro di infliggere a una persona condannata per un reato grave una pena di durata indeterminata che permetta di mantenerla in detenzione quando ciò sia necessario per la tutela del pubblico (si vedano, mutatis mutandis, T. c. Regno Unito, § 97, e V. c. Regno Unito, § 98).
Del resto, chiosa la Corte, impedire a un delinquente di commettere altri reati è una delle «funzioni fondamentali» di una pena detentiva (Mastromatteo c. Italia [GC], n. 37703/97, § 72, CEDU 2002-VIII; Maiorano e altri c. Italia, n. 28634/06, § 108, 15 dicembre 2009, e, mutatis mutandis, Choreftakis e Choreftaki c. Grecia, n. 46846/08, § 45, 17 gennaio 2012). Ciò si verifica in particolare nel caso dei detenuti riconosciuti colpevoli di omicidio o di altri reati gravi contro la persona. Il semplice fatto che essi siano forse già rimasti per molto tempo in carcere non attenua minimamente l’obbligo positivo di tutelare il pubblico che incombe sullo Stato: quest’ultimo può adempiere allo stesso mantenendo in detenzione i condannati all’ergastolo per tutto il tempo in cui rimangono pericolosi (si veda, ad esempio, la sentenza Maiorano e altri).
In secondo luogo, per decidere se, in un determinato caso, la pena perpetua possa risultare non riducibile, la Corte cerca di stabilire se si possa affermare che un detenuto condannato all’ergastolo abbia delle possibilità di essere liberato. Laddove il diritto nazionale offre la possibilità di rivedere la pena perpetua al fine di commutarla, sospenderla, porvi fine o liberare il detenuto con la condizionale, le esigenze dell’articolo 3 sono soddisfatte (Kafkaris, § 98).
Vari motivi spiegano che, per rimanere compatibile con l’articolo 3, una pena perpetua deve offrire sia una possibilità di liberazione che una possibilità di riesame.
Ne consegue per il Collegio che nessuno può essere detenuto se non vi sono motivi legittimi inerenti alla pena che giustifichino la detenzione. Come hanno affermato la Corte d’appello nella sentenza Bieber e la camera nella sentenza resa nella presente causa, gli imperativi di repressione, dissuasione, tutela del pubblico e reinserimento rientrano tra i motivi idonei a giustificare una detenzione. In materia di reclusione perpetua, molti di questi coesistono nel momento in cui viene pronunciata la pena.
Tuttavia, chiosa la Corte, l’equilibrio tra gli stessi non è per forza immutabile e potrà evolversi durante l’esecuzione della pena. Ciò che costituiva la giustificazione primaria della detenzione all’inizio della pena potrebbe non esserlo una volta che sia stata scontata una buona parte di essa. È solo attraverso un riesame dei motivi che giustificano il mantenimento in detenzione in una fase appropriata dell’esecuzione della pena che possono essere correttamente valutati i fattori suddetti.
Inoltre, prosegue la Corte, una persona condannata all’ergastolo senza alcuna prospettiva di liberazione né possibilità di far riesaminare la sua pena perpetua rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, per quanto eccezionali possano essere i suoi progressi per correggersi, la sua pena rimane immutabile e non soggetta a controllo. La punizione, del resto, rischia di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo: quanto più vive il detenuto, tanto più lunga sarà la sua pena.
In tal modo, anche quando l’ergastolo è una punizione meritata alla data in cui viene inflitta, col passare del tempo esso non garantisce più una sanzione giusta e proporzionata, per riprendere i termini utilizzati dal Lord Justice Laws nella sentenza Wellington.
Inoltre, come ha ammesso la Corte costituzionale federale tedesca in una causa relativa all’ergastolo, sarebbe incompatibile con le disposizioni della Legge fondamentale che riconosce la dignità umana che, in maniera coercitiva, lo Stato privi una persona della propria libertà senza dargli almeno una possibilità di recuperarla un giorno. Tale constatazione ha portato l’alta giurisdizione a concludere che le autorità carcerarie avevano il dovere di favorire il reinserimento dei condannati all’ergastolo e che questo costituiva un imperativo costituzionale per qualsiasi società che si fonda sulla dignità umana. Del resto, essa ha precisato, successivamente, in una causa relativa a un criminale di guerra, che tale principio si applicava a tutti i condannati all’ergastolo, indipendentemente dalla natura dei reati commessi, e che prevedere la possibilità di una liberazione soltanto per le persone inferme o in punto di morte non era sufficiente.
Considerazioni analoghe – chiosa a questo punto la Corte – devono essere applicate nell’ambito del sistema della Convenzione, la cui essenza stessa, come ha spesso affermato la Corte medesima, è il rispetto della dignità umana (si vedano, tra altre, Pretty c. Regno Unito, n. 2346/02, § 65, CEDU 2002-III, e V.C. c. Slovacchia, n. 18968/07, § 105, CEDU 2011).
Di fatto, il diritto europeo e il diritto internazionale supportano oggi chiaramente il principio secondo cui a tutti i detenuti, compresi quelli che scontano pene perpetue, deve essere data la possibilità di correggersi e la prospettiva di essere liberati se vi riescono.
La Corte rammenta di avere già avuto occasione di rilevare che, se la repressione rimane una delle finalità della reclusione, le politiche in materia di pena in Europa pongono l’accento sull’obiettivo di reinserimento che persegue la detenzione, in particolare verso la fine delle pene detentive di lunga durata (si vedano, ad esempio, Dickson, § 75, e Boulois c. Lussemburgo [GC], n. 37575/04, § 83, CEDU 2012, e gli altri riferimenti citati).
Le norme europee in materia penitenziaria sono lo strumento giuridico del Consiglio d’Europa che esprime con maggiore chiarezza tale principio: la regola n. 6 dispone che ogni singola detenzione deve essere gestita in modo da favorire il reinserimento nella società delle persone private della libertà, e la regola n. 102.1 prevede che il regime carcerario dei detenuti condannati deve essere concepito in modo tale da permettere loro di condurre una vita responsabile ed esente dal reato.
Inoltre, prosegue la Corte, gli strumenti pertinenti del Consiglio d’Europa dimostrano anzitutto che l’imperativo di reinserimento vale anche per i detenuti condannati all’ergastolo e inoltre che, quando tali detenuti si correggono, devono anch’essi poter sperare di beneficiare di una liberazione condizionale.
La regola n. 103 delle norme penitenziarie europee prevede che, nell’ambito del regime carcerario dei detenuti condannati, devono essere stabiliti dei programmi individuali di esecuzione della pena che prevedano anche una preparazione alla liberazione. La regola n. 103.8 aggiunge espressamente che un programma di questo tipo deve essere previsto anche per i condannati all’ergastolo.
La risoluzione 76(2) del Comitato dei Ministri raccomanda che il caso di tutti i detenuti – compresi quelli condannati all’ergastolo – sia esaminato non appena possibile per determinare se possa essere accordata loro una liberazione condizionale. Essa raccomanda inoltre che il riesame delle pene perpetue abbia luogo entro 8 – 14 anni di reclusione e sia ripetuto periodicamente.
La Raccomandazione 2003(23), riguardante la gestione, da parte delle amministrazioni penitenziarie, dei condannati all’ergastolo e degli altri detenuti che scontano pene di lunga durata, sottolinea che i condannati all’ergastolo devono beneficiare di una preparazione costruttiva ai fini della loro liberazione, e in particolare devono potere, a tale scopo, progredire all’interno del sistema carcerario. Essa aggiunge espressamente che i condannati all’ergastolo devono avere la possibilità di beneficiare di una liberazione condizionale (si vedano, in particolare, i paragrafi 2, 8 e 34 della raccomandazione e il paragrafo 131 del rapporto allegato a quest’ultima).
La Raccomandazione 2003(22), riguardante la liberazione condizionale, precisa anch’essa che tutti i detenuti devono avere la possibilità di beneficiare di una liberazione condizionale e che i condannati all’ergastolo non devono essere privati in assoluto della speranza di una liberazione (paragrafo 4.a della raccomandazione e paragrafo 131 dell’esposizione dei motivi).
Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha espresso opinioni simili, da ultimo nel relativo rapporto sulla Svizzera.
Peraltro, prosegue la Corte, la prassi degli Stati contraenti riflette tale volontà di agire in favore del reinserimento dei condannati all’ergastolo e nel contempo di offrire loro una prospettiva di liberazione. È quanto emerge dalla giurisprudenza delle giurisdizioni costituzionali tedesca e italiana in materia di reinserimento e di pene perpetue e dagli altri elementi di diritto comparato prodotti dinanzi alla Corte. Tali elementi dimostrano che la maggior parte degli Stati contraenti non pronunciano mai condanne a pene perpetue o, se lo fanno, prevedono un meccanismo speciale, integrato alla legislazione in materia di fissazione della pena, che garantisce un riesame delle pene perpetue dopo un termine fisso, in generale dopo venticinque anni di reclusione.
Nel diritto internazionale, chiosa ancora il Collegio, si ritrova questa stessa volontà di reinserire i condannati a pene perpetue e di offrire loro la prospettiva di essere un giorno liberati. Le Regole minime per il trattamento dei detenuti impongono alle autorità carcerarie di ricorrere a tutti i mezzi disponibili per garantire ai delinquenti un rientro in società. Anche altre norme si riferiscono espressamente al reinserimento.
Parimenti, l’articolo 10 § 3 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici dispone espressamente che il sistema penitenziario ha lo scopo fondamentale di correggere e riqualificare socialmente i detenuti. È quanto ha sottolineato il Comitato dei diritti dell’uomo nella relativa Osservazione generale sull’articolo 10, che insiste sul fatto che nessun sistema penitenziario deve essere basato unicamente sulla repressione.
Infine, la Corte prende nota delle disposizioni pertinenti dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, al quale sono parti 121 Stati, tra cui la maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa, e che prevede nell’articolo 110 § 3 il riesame delle pene perpetue dopo venticinque anni di reclusione, e poi periodicamente.
L’importanza di tale disposizione è sottolineata dall’esposizione, all’articolo 110 §§ 4 e 5 dello stesso Statuto e nelle regole 223 e 224 del Regolamento di procedura e di prova della CPI, delle garanzie procedurali e materiali dettagliate alle quali tale riesame deve essere improntato.
Tra i criteri di riduzione della pena vi sono la questione di stabilire se il comportamento in carcere del detenuto dimostri che egli disapprova il reato commesso, e metta in evidenza le relative possibilità di risocializzazione (regola 223 a) e b)
Per i motivi sopra esposti, la Corte considera che, per quanto riguarda le pene perpetue, l’articolo 3 debba essere interpretato nel senso che esige che esse siano riducibili, ossia sottoposte a un riesame che permetta alle autorità nazionali di verificare se, durante l’esecuzione della pena, il detenuto abbia fatto dei progressi sulla via del riscatto tali che nessun motivo legittimo relativo alla pena permetta più di giustificare il relativo mantenimento in detenzione.
La Corte sottolinea tuttavia e ad un tempo che, tenuto conto del margine di apprezzamento che deve essere accordato agli Stati contraenti in materia di giustizia penale e di determinazione delle pene, essa non ha il compito di imporre la forma (amministrativa o giudiziaria) che un tale esame deve assumere. Per lo stesso motivo essa non deve stabilire in quale momento si debba procedere a un tale esame.
Ciò premesso, la Corte constata anche che, dagli elementi di diritto comparato e di diritto internazionale prodotti dinanzi ad essa, risulta che vi è una netta tendenza in favore della creazione di un meccanismo speciale che garantisca un primo riesame entro un termine massimo di 25 anni da quando la pena perpetua è stata inflitta, e poi, successivamente, dei riesami periodici. Di conseguenza, laddove il diritto nazionale non prevede la possibilità di un tale riesame, una pena dell’ergastolo effettivo contravviene alle esigenze derivanti dall’articolo 3 della Convenzione.
Anche se il riesame richiesto è un evento che, per definizione, può avvenire soltanto dopo che sia stata pronunciata la pena, un detenuto condannato all’ergastolo effettivo non deve essere obbligato ad attendere di aver passato un numero indeterminato di anni in carcere prima di poter lamentare la mancata conformità delle condizioni di legge alle quali la relativa pena è riconducibile con le esigenze dell’articolo 3 in materia.
Ciò contravverrebbe per il Collegio non solo al principio della certezza del diritto ma anche ai principi generali relativi alla qualità di vittima, nell’accezione di questo termine che si ricava dall’articolo 34 della Convenzione. Inoltre, nel caso in cui la pena è non riducibile ai sensi della legislazione nazionale alla data in cui è stata pronunciata, non sarebbe logico aspettarsi che il detenuto cooperi per il proprio reinserimento senza sapere se, in una data futura non conosciuta, sarà o meno istituito un meccanismo che permetta di prevedere la propria liberazione in considerazione degli sforzi da lui compiuti per il reinserimento.
Un detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di sapere, sin dall’inizio della pena, cosa deve fare perché sia esaminata una relativa, possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili. Egli ha il diritto, in particolare, di conoscere il momento in cui il riesame della propria pena avrà luogo o potrà essere richiesto. Pertanto, quando il diritto nazionale non prevede alcun meccanismo né alcuna possibilità di riesame delle pene dell’ergastolo effettivo, la conseguente incompatibilità con l’articolo 3 decorre dalla data in cui la pena è stata inflitta e non in una fase successiva della detenzione.
Resta a questo punto per la Corte da determinare se, considerati gli elementi sopra esposti, le pene dell’ergastolo effettivo pronunciate contro i ricorrenti nel caso di specie soddisfino alle esigenze dell’articolo 3 della Convenzione.
La Corte osserva anzitutto che essa non è convinta più di quanto lo fosse la camera (si veda il paragrafo 94 della sentenza di quest’ultima), delle ragioni fornite dal Governo (inglese) per spiegare la decisione di non includere un riesame dopo 25 anni nella legislazione attualmente in vigore in Inghilterra e in Galles in materia di ergastolo, ossia la legge del 2003. Essa ricorda che un tale riesame, benché di competenza dell’esecutivo, esisteva nel regime precedente.
Il Governo spiega che, se il riesame dopo 25 anni non è stato ripreso nella legge del 2003, ciò è dovuto al fatto che una delle finalità di tale testo era affidare a dei giudici le decisioni riguardanti la durata della reclusione da fissare con scopi di repressione e di dissuasione. Tuttavia, la necessità di far decidere a dei giudici indipendenti sull’opportunità di ordinare l’ergastolo effettivo è assolutamente distinta da quella di far riesaminare tale pena in una fase successiva allo scopo di verificare se essa rimanga giustificata da motivi legittimi inerenti alla pena medesima.
Inoltre, prosegue la Corte, dato che lo scopo dichiarato di tale emendamento legislativo era quello di escludere in maniera assoluta l’esecutivo dal processo decisionale in materia di pene perpetue, sarebbe stato più logico, invece di sopprimerlo completamente, prevedere che il riesame dopo 25 anni dovesse essere ormai condotto in un contesto interamente giudiziario piuttosto che, come prima, da parte dell’esecutivo sotto il controllo del giudice.
Inoltre, la legislazione che disciplina oggi le possibilità di liberazione per i condannati all’ergastolo manca per la Corte di chiarezza. È vero che l’articolo 30 della legge del 1997 attribuisce al ministro il potere di liberare i detenuti di tutte le categorie, compresi quelli che scontano una pena dell’ergastolo effettivo. È anche vero che, nell’esercizio di tale potere – così come avviene quando esercita qualsiasi altro potere che gli conferisce la legge –, il ministro è anche tenuto ad agire conformemente alla Convenzione (si veda l’articolo 6 § 1 della legge sui diritti umani).
Come sostiene il Governo nelle proprie osservazioni dinanzi alla Corte, si potrebbe dunque vedere nell’articolo 30 non solo un potere di liberazione conferito al ministro ma anche un obbligo per lui di esercitare tale potere e di liberare tutti i detenuti il cui mantenimento in detenzione risulti incompatibile con l’articolo 3, ad esempio perché non vi siano motivi legittimi inerenti alla pena che permettano di giustificare una tale misura.
Questa è, del resto, la lettura dell’articolo 30 alla quale la Corte d’appello ha proceduto nella sentenza Bieber e che la stessa Corte ha confermato nella sentenza Oakes (si veda, in particolare, il paragrafo 49, in cui vengono ripresi i paragrafi 48 e 49 della sentenza Bieber, con il passaggio nel quale la Corte d’appello osservava che, se il ministro utilizzava con moderazione il potere derivante dall’articolo 30, nulla gli impediva di farne uso in modo tale da garantire il rispetto richiesto dell’articolo 3 della Convenzione).
Una tale lettura dell’articolo 30, idonea a offrire alcune prospettive legali di liberazione ai detenuti condannati all’ergastolo effettivo, sarebbe in linea di principio conforme alla sentenza resa dalla Corte nella causa Kafkaris. Nel caso dei ricorrenti, se si potesse stabilire con un sufficiente grado di certezza che il diritto nazionale attualmente vigente è orientato in tal senso, le loro pene non potrebbero essere considerate non riducibili e le loro cause non metterebbero in evidenza alcuna violazione dell’articolo 3.
Tuttavia, la Corte ritiene di dover esaminare la legislazione così come essa è attualmente espressa nelle ordinanze pubblicate o nella giurisprudenza e come applicata nella pratica ai detenuti condannati all’ergastolo effettivo. Resta tuttavia il fatto che, malgrado la sentenza resa dalla Corte d’appello nella causa Bieber, il ministro non ha modificato la politica restrittiva da lui espressamente enunciata per quanto riguarda le situazioni nelle quali intende esercitare il potere conferitogli dall’articolo 30.
Nonostante la lettura di tale disposizione fatta dalla Corte d’appello, l’ordinanza dell’amministrazione penitenziaria rimane in vigore e prevede che la liberazione sarà ordinata solo in alcuni casi, che sono elencati in maniera esaustiva e non citati come esempio: il detenuto deve essere affetto da una malattia incurabile in fase terminale o da una grave invalidità e che siano rispettate altre condizioni (bisogna che sia stabilito che il rischio di recidiva è minimo, che il mantenimento in detenzione ridurrebbe l’aspettativa di vita del detenuto, che sono state adottate delle disposizioni adeguate per curare quest’ultimo fuori dal carcere e che una liberazione anticipata sarebbe veramente nell’interesse del detenuto o della relativa famiglia).
Si tratta per la Corte di condizioni estremamente restrittive. Anche a voler supporre che un detenuto condannato all’ergastolo effettivo possa soddisfarle, la Corte ritiene che la camera abbia correttamente dubitato che la scarcerazione per motivi umanitari che può essere accordata alle persone affette da una malattia incurabile in fase terminale o da un grave handicap fisico possa essere considerata una vera liberazione se si limita a permettere all’interessato di morire a casa sua o in un ospizio piuttosto che tra le mura di un carcere.
Di fatto, la Corte è del parere che una tale liberazione per motivi umanitari non corrisponda a quanto previsto dall’espressione «prospettiva di scarcerazione» utilizzata nella sentenza Kafkaris. Le disposizioni dell’ordinanza in questione non sarebbero di per sé conformi a tale sentenza e non sarebbero dunque sufficienti per soddisfare alle esigenze dell’articolo 3.
Per di più, prosegue il Collegio, l’ordinanza dell’amministrazione penitenziaria si presume essere rivolta sia ai detenuti che alle autorità carcerarie. Tuttavia, essa non contiene precisazioni fatte a titolo di riserve dalla Corte d’appello nella sentenza Bieber, e citate a sostegno dal Governo nelle relative osservazioni dinanzi alla Corte per quanto riguarda gli effetti della legge sui diritti umani e dell’articolo 3 della Convenzione sull’esercizio da parte del ministro del potere di scarcerazione conferitogli dall’articolo 30 della legge del 1997.
In particolare, l’ordinanza non indica la possibilità – offerta dalla legge sui diritti dell’uomo – che hanno i detenuti condannati all’ergastolo, anche all’ergastolo effettivo, di chiedere, in un determinato momento durante l’esecuzione della loro pena, la scarcerazione per motivi legittimi inerenti alla stessa. Per questo motivo, se ci si basa sulle osservazioni del Governo per quanto riguarda il diritto nazionale applicabile, si può temere che l’ordinanza dell’amministrazione penitenziaria dia ai detenuti condannati all’ergastolo effettivo – che sono direttamente interessati dalla stessa – solo un quadro parziale delle condizioni eccezionali che possono portare il ministro ad esercitare il potere conferitogli dall’articolo 30.
Pertanto, considerata la mancanza di chiarezza che caratterizza attualmente lo stato del diritto nazionale applicabile ai detenuti condannati all’ergastolo effettivo, la Corte non può sottoscrivere la tesi del Governo secondo la quale l’articolo 30 della legge del 1997 può essere considerato una via di diritto appropriata e adeguata che i ricorrenti potrebbero esercitare qualora cercassero di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo relativo alla pena che giustifichi il loro mantenimento in detenzione, e che pertanto tale mantenimento è contrario all’articolo 3 della Convenzione.
Attualmente, nessuno può dire se, qualora gli fosse sottoposta una richiesta di liberazione formulata a titolo dell’articolo 30 da parte di un detenuto che sconta una pena dell’ergastolo effettiva, il ministro seguirebbe la propria politica restrittiva attuale, enunciata nell’ordinanza dell’amministrazione penitenziaria, o se si svincolerebbe dal contenuto apparentemente esaustivo di tale testo per applicare il criterio del rispetto dell’articolo 3 enunciato nella sentenza Bieber.
Certamente, qualsiasi rifiuto di liberazione opposto dal ministro sarebbe impugnabile per mezzo del controllo giurisdizionale e lo stato del diritto potrebbe essere chiarito nell’ambito di tale procedura, ad esempio mediante l’abrogazione e la sostituzione dell’ordinanza da parte del ministro o con l’annullamento della stessa da parte del giudice. Rimane comunque il fatto che tali eventualità non bastano per ovviare all’attuale mancanza di chiarezza per quanto riguarda lo stato del diritto nazionale che prevede le possibilità eccezionali di scarcerazione dei detenuti condannati all’ergastolo effettivo.
Pertanto, riprende la Corte, in considerazione del contrasto tra il contenuto molto generico dell’articolo 30 (interpretato dalla Corte d’appello in modo conforme alla Convenzione, come esige il diritto del Regno Unito in applicazione della legge sui diritti umani) e della lista esaustiva delle condizioni poste dall’ordinanza dell’amministrazione penitenziaria, e ancora dell’assenza di un meccanismo speciale che permetta di riesaminare le pene dell’ergastolo effettivo, la Corte non è convinta che, al momento, le pene perpetue inflitte ai ricorrenti possano essere definite riducibili ai fini dell’articolo 3 della Convenzione.
Essa conclude dunque che le esigenze di tale disposizione in materia non siano state rispettate nei confronti di nessuno dei tre ricorrenti.
2017
Il 16 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7428, che rammenta come nel caso di specie si ricorra innanzi ad essa, da parte dell’interessato, per denunciare l’illegittimità del gravato provvedimento in quanto asseritamente illegittimo per violazione di legge in relazione all’art. 117 Cost..
Deduce in particolare la difesa ricorrente – rammenta la Corte – che non avrebbe tenuto conto il G.E. che, nella specie, X sta espiando la pena dell’ergastolo per reati di cui all’art. 4-bis 0.P., per i quali è esclusa l’ammissione ai benefici penitenziari e la possibilità di un relativo, futuro reiserimento sociale ancorché dopo aver scontato un congruo periodo detentivo.
Richiama la difesa – rammenta ancora la Corte – la sentenza CEDU 9.7.2013, Vinter c. Regno Unito, che ha affermato il contrasto con l’art. 3 della CEDU dell’ergastolo senza possibilità di liberazione allorché si comprovi e dimostri un cambiamento nella persona del condannato e relativi progressi nel percorso riabilitativo; l’ergastolo ostativo in espiazione da parte del detenuto ricorrente nella specie si appaleserebbe pertanto contrario all’art. 27 della Cost. ed all’art. 3 della CEDU, giacché soltanto in costanza di una relativa attività collaborativa il P. potrà avere accesso alle misure alternative al carcere previste dalla legge Gozzini.
Il quadro ora sintetizzato – chiosa ancora la Corte richiamando le difese del condannato – ha per corollario il principio giuridico onde, in assenza di collaborazione, per il condannato all’ergastolo la pena da espiare è il carcere a vita; di qui i profili di illegittimità ridetti in considerazione, altresì, del dato che la collaborazione come innanzi richiesta dalla legge può essere impossibile, può essere pericolosa e non è coerente con i principi innanzi richiamati.
Con argomentata requisitoria scritta – rammenta ancora la Corte – il P.G. in sede ha concluso per il rigetto della impugnazione.
Il ricorso viene assunto dal Collegio infondato.
La stessa difesa ricorrente – nel censurare la coerenza dell’ergastolo c.d. ostativo, in espiazione cioè per condanne relative a reati contemplati dall’art. 4-bis 0.P., con i principi della Costituzione repubblicana e con quelli della CEDU sulla umanità della pena e sulla relativa funzione rieducativa – non manca difatti di rilevare che la eventuale rideterminazione di tale pena con quella temporale debba comunque sottostare ad alcuni decisivi accertamenti al fine di verificare, in concreto, il positivo processo di risocializzazione del detenuto.
Orbene, prosegue la Corte, nel caso venuto all’esame, siffatto accertamento non risulta nemmeno prospettato, di guisa che il principio di diritto invocato dalla difesa e da essa rimesso alla delibazione del G.E. come presupposto della invocata decisione manca a propria volta della necessaria premessa, ovvero l’applicabilità al caso dedotto per essere ormai rieducato e comunque in via di risocializzazione il detenuto P.
A parte ciò – prosegue il Collegio – va comunque contrastata la lettura difensiva del sistema delineato dall’ordinamento penitenziario vigente e va altresì rammentato che il terzo comma dell’art. 176 c.p. prevede la possibilità di liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo che abbia scontato almeno 26 anni di pena.
Ed infatti la questione di legittimità costituzionale del cosiddetto ergastolo ostativo è stata già dichiarata infondata dalla Corte costituzionale (v. sent. n. 135 del 2003 e ivi richiamate), proprio sul rilievo che in caso di provato ravvedimento il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale anche per i cosiddetti reati ostativi, in relazione ai quali la collaborazione e la perdita di legami con il contesto di criminalità organizzata da cui era scaturito il reato altro non sono che indici legali di tale sicuro ravvedimento.
In base ad osservazioni analoghe anche la Corte EDU – rammenta il Collegio – ha più volte riconosciuto la compatibilità con la convenzione di sistemi, quali il nostro, che ammettendo pure a certe condizioni la liberazione condizionale, non negano in radice il diritto alla speranza.
2019
Il 12 aprile viene varata la legge n.33, recante di nuovo inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo.
In particolare, l’art. 1, comma 1, lettera a), di tale legge introduce il comma 1-bis dell’art. 438 cod. proc. pen., il quale espressamente stabilisce che «[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo».
L’art. 3 della legge parallelamente abroga il secondo e il terzo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., introdotti rispettivamente dalla legge Carotti e dal d.l. n. 341 del 2000, come convertito, eliminando così le pene eventualmente applicabili in luogo dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno) in esito al giudizio abbreviato.
Infine, l’art. 5 della legge stabilisce che le nuove disposizioni «si applicano ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore» della legge medesima.
* * *
Il 13 giugno esce la significativa sentenza della I sezione della Corte EDU, Marcello Viola c. Italia, che assume il regime dell’ergastolo “ostativo” – laddove il rifiuto di collaborare con la giustizia del condannato ne implichi la presunzione assoluta di pericolosità sociale – incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione europea e con il principio della dignità umana.
Proprio dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione il ricorrente – chiosa la Corte – denuncia la pena dell’ergastolo che gli è stata inflitta in quanto la stessa non è riducibile e non gli offre alcuna possibilità di beneficiare della liberazione condizionale, il che sarebbe contrario alle condizioni poste da tale disposizione.
Sulla base degli articoli 3 e 8 della Convenzione, egli lamenta inoltre una incompatibilità del regime penitenziario con l’obiettivo di correzione e di reinserimento dei detenuti.
La Corte rammenta a questo punto, preliminarmente, di essere libera di qualificare giuridicamente i fatti di causa e non è vincolata dalla qualificazione attribuita a tali fatti dai ricorrenti (si vedano, tra altre, Guerra e altri c. Italia, 19 febbraio 1998, § 44, Recueil des arrêts et décisions 1998 I, Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, § 48, 17 settembre 2009, e Radomilja e altri c. Croazia [GC], nn. 37685/10 e 22768/12, § 126, 20 marzo 2018).
Per questo motivo, tenuto conto della formulazione delle doglianze del ricorrente, la Corte decide di esaminarle unicamente sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione, che recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
Il Governo (italiano) afferma – precisa il Collegio – che il ricorrente non può essere considerato vittima ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, in quanto, a relativo parere, alle autorità non è imputabile alcuna violazione dei diritti dell’interessato riconosciuti dalla Convenzione.
La Corte ritiene nondimeno che l’eccezione sollevata dal Governo sia strettamente legata alla questione se la pena dell’ergastolo alla quale il ricorrente è stato condannato sia de iure e de facto riducibile, e dunque al merito della doglianza relativa alla violazione dell’articolo; di conseguenza, essa decide di unirla al merito.
Il Governo solleva – ricorda ancora la Corte – anche un’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, ritenendo che il ricorrente lamenti, in sostanza, di non essere stato riconosciuto innocente dai giudici nazionali. Afferma inoltre che l’interessato ha erroneamente presentato al magistrato di sorveglianza una domanda di liberazione condizionale mentre, per dichiararsi innocente, avrebbe avuto a disposizione un mezzo di ricorso interno specifico e appropriato, ossia la richiesta di revisione della sentenza definitiva emessa nella pertinente causa, ai sensi degli articoli 629 e seguenti del codice di procedura penale.
Il Governo rimprovera dunque al ricorrente di non avere esercitato il ricorso specificamente previsto da tale codice.
Il ricorrente – prosegue la Corte – contesta la tesi del Governo, e sostiene che le relative affermazioni riguardano chiaramente il fatto, da lui dedotto, che il sistema nazionale non offre alcuna possibilità di riduzione della pena per i condannati all’ergastolo per uno dei reati di cui all’articolo 4 bis. L’ergastolo costituirebbe, dunque, una pena non riducibile de jure e de facto, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
Sempre il ricorrente indica che la relativa domanda al magistrato di sorveglianza era volta ad ottenere un riesame delle esigenze in ordine alla pena che giustificavano il mantenimento in detenzione. Ora, a relatiov parere, in assenza di collaborazione con la giustizia, il magistrato di sorveglianza non può tenere conto del percorso di correzione del condannato e determinare se siano stati compiuti dei progressi.
Per quanto riguarda la dedotta innocenza, il ricorrente afferma che si tratta di un sentimento personale, una convinzione intima che riguarda la relativa sfera privata, e che è l’espressione di un aspetto della propria identità e dignità di essere umano. Secondo lui, il fatto di proclamare la propria innocenza, pertanto, deve essere percepito unicamente come uno degli elementi che gli impediscono di collaborare con la giustizia.
Il ricorrente conclude – chiosa ancora il Collegio – che l’unico mezzo di ricorso interno di cui disponeva per permettere alle autorità nazionali di porre rimedio alle violazioni dedotte, era presentare al magistrato di sorveglianza una domanda di liberazione condizionale.
La Corte a questo punto osserva anzitutto che la domanda di revisione di una sentenza è un rimedio straordinario che può essere presentato contro una decisione penale definitiva di condanna. Essa rammenta di avere già dichiarato che i ricorrenti non sono tenuti ad avvalersi di questo tipo di rimedi straordinari ai fini del rispetto della regola di cui all’articolo 35 § 1 della Convenzione (Sofri e altri c. Italia (dec.), n. 37235/97, CEDU 2003 VIII, Prystavska c. Ucraina (dec.), n. 21287/02, CEDU 2002 X).
Essa sottolinea che, inoltre, le situazioni che permettono di chiedere la revisione sono rigidamente inquadrate: contrasto nell’accertamento dei fatti tra due sentenze di condanna definitive; revocazione di una sentenza civile o amministrativa che abbia deliberato su una questione pregiudiziale; esistenza di nuove prove che giustifichino l’assoluzione del condannato; condanna pronunciata a seguito di falso in atto pubblico, di falso in giudizio o alla perpetrazione di un altro reato.
Ora, nella fattispecie, la Corte osserva che il caso del ricorrente non rientra in nessuna di queste situazioni. In effetti, l’interessato denuncia, dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione, la relativa impossibilità di beneficiare della liberazione condizionale a causa della non riducibilità della pena dell’ergastolo che gli è stata inflitta, e il fatto che egli proclami la relativa innocenza è solo uno degli elementi di cui si avvale.
Pertanto, la Corte considera che il ricorrente abbia correttamente adito il magistrato di sorveglianza, ossia l’istanza competente per ordinare la liberazione condizionale e ogni altra forma di sospensione della pena delle persone condannate, allo scopo di ottenerne la liberazione. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte medesima respinge dunque l’eccezione del Governo.
Tenuto conto degli elementi di cui dispone, la Corte considera che la doglianza del ricorrente relativa all’articolo 3 sollevi a questo punto, rispetto alla Convenzione, importanti questioni di fatto e di diritto che richiedono un esame sul merito; peraltro, la Corte ha deciso di unire al merito l’eccezione del Governo relativa alla qualità di «vittima» del ricorrente: essa conclude allora nel senso onde il ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e, constatando che lo stesso non incorre in altri motivi di irricevibilità, lo dichiara ricevibile.
Venendo dunque al merito della questione sottopostale, rammenta la Corte come il ricorrente indichi che il sistema italiano prevede due tipi di condanne all’ergastolo: quella «ordinaria», disciplinata dall’articolo 22 del CP, permette una sospensione della pena dopo che siano stati scontati 26 anni di reclusione, e quella non riducibile, detta «ergastolo ostativo», prevista dall’articolo 4 bis.
Egli precisa che questo articolo prevede un divieto di accordare la liberazione condizionale e di dare accesso ai benefici penitenziari che si fonda su una presunzione legale inconfutabile di pericolosità, ossia la persistenza del legame tra il condannato e l’associazione criminale mafiosa di appartenenza. Soltanto una collaborazione effettiva con la giustizia permetterebbe di escluderlo.
Il ricorrente dichiara che, a causa dell’esistenza della circostanza aggravante legata all’assunzione del ruolo di capo del clan mafioso e di istigatore delle attività dello stesso, attribuitagli in occasione della pertinente condanna, il giudice non potrà mai considerare la relativa collaborazione come «impossibile» o «irrilevante» Egli sostiene di trovarsi senza alcuna prospettiva di liberazione né possibilità di far riesaminare la pena dell’ergastolo che gli è stata inflitta: secondo lui, a prescindere dal relativo comportamento in carcere, la punizione subita rimane immutabile e non suscettibile di controllo, in quanto il giudice competente in materia di riesame non può valutare i risultati del relativo percorso di ravvedimento.
Il ricorrente aggiunge – prosegue il Collegio – che la coercizione che deve subire, oltre ad essere contraria alla relativa intima convinzione di essere innocente, e dunque alla propria libertà morale, lo pone di fronte a un dilemma: accettare il rischio di mettere in pericolo la propria vita e quella dei familiari esponendo se stesso e questi ultimi alle rappresaglie tipiche della logica mafiosa, o rifiutare di collaborare e rinunciare a qualsiasi forma di liberazione.
Il ricorrente afferma poi che la collaborazione con la giustizia non può costituire una «prospettiva di liberazione» per motivi inerenti alla pena ai fini dell’articolo 3 della Convenzione. A questo proposito, egli argomenta che il sistema italiano obbliga il condannato a collaborare con la giustizia, poiché un’eventuale rifiuto escluderebbe a priori quest’ultimo da qualsiasi percorso di reinserimento e da qualsiasi possibilità di avere accesso alla liberazione condizionale. A relativo parere, questo meccanismo presenta forti similitudini con il dispositivo messo in discussione nella causa Trabelsi c. Belgio (n. 140/10, §§ 134-139, CEDU 2014 (estratti)).
Inoltre, il ricorrente afferma che l’automatismo previsto dalla legislazione italiana favorisce in misura eccessiva le esigenze di politica criminale a scapito degli imperativi penitenziari di reinserimento, pregiudicando in tal modo la dignità umana di ciascun detenuto. A relativo parere, tale meccanismo lo ha bloccato nel proprio crimine, e non permette di prevedere la relativa uscita dall’ambiente carcerario se non in una logica strumentale (che si traduce, per l’interessato, nel fatto di offrire la propria collaborazione totale), ignorando il pertinente percorso di rieducazione.
Per quanto riguarda infine gli obiettivi di correzione e di reinserimento dei detenuti derivanti dai principi stabiliti dalla Corte (Murray, §§ 102-104, e Khoroshenko c. Russia [GC], n. 41418/04, § 121, CEDU 2015), il ricorrente afferma che il dispositivo controverso implica una presunzione inconfutabile di non riabilitazione e di persistenza della pericolosità in caso di mancanza di collaborazione. La possibilità di operare per il proprio reinserimento sociale ne risulterebbe pertanto privata di qualsiasi efficacia e questa prospettiva, oltre a esporlo a una situazione di angoscia estrema, lo priverebbe di qualsiasi possibilità di influire con il proprio comportamento sul percorso di reinserimento nella società.
Anche la relativa capacità di autodeterminazione sarebbe colpita. Lo Stato italiano non rispetterebbe il proprio obbligo positivo di garantirgli una possibilità di lavorare sul relativo reinserimento.
Per quanto riguarda la procedura della liberazione condizionale, il ricorrente afferma che, per tutto il periodo della propria detenzione, ha sempre avuto una condotta positiva, sia a livello comportamentale che a livello rieducativo, e che in tal modo ha partecipato con successo alle attività di reinserimento. Egli indica che, non essendo mai stato oggetto di sanzioni disciplinari, ha accumulato più di cinque anni di «liberazione anticipata» (al 30 dicembre 2013) a causa della relativa partecipazione alle attività proposte dall’amministrazione penitenziaria, e precisa di non poterne tuttavia beneficiare in quanto sottoposto al regime dell’articolo 4 bis.
Il ricorrente afferma, inoltre, che i relativi progressi in carcere sono stati notati dal tribunale di sorveglianza di L’Aquila, nella ordinanza che ha posto fine al regime del «41 bis».
Tuttavia, anche se presenta elementi concreti a sostegno della propria domanda di liberazione, egli non potrà mai ottenere un esame di tali elementi, né nell’ambito della procedura di liberazione condizionale né in quello relativo alle domande di permessi premio. Pertanto, il ricorrente lamenta che la procedura di riesame non soddisfa le esigenze procedurali imposte dalla giurisprudenza della Corte in materia (Murray, §§ 99).
Per quanto riguarda, infine, il potere di grazia presidenziale, il ricorrente afferma che nessun condannato all’ergastolo previsto dall’articolo 4 bis è mai stato graziato dal Presidente della Repubblica.
Nelle proprie osservazioni ex adverso – prosegue a questo punto il Collegio – il Governo rammenta anzitutto il contesto particolare dell’applicazione dell’articolo 4 bis affermando che, a causa dell’estrema gravità dei reati in questione, per i quali l’elemento mafioso sarebbe caratterizzato dalla solidità del legame e dalla relativa stabilità nel tempo, il regime in questione chiede di dimostrare in maniera tangibile, mediante la collaborazione con le autorità, l’esito positivo del percorso di rieducazione in carcere e, nel contempo, la «dissociazione» dall’ambiente criminale.
In altre parole, per il governo convenuto il detenuto interessato deve essere in grado di dimostrare, alla fine del proprio percorso di risocializzazione, di avere rigettato i «valori criminali», contribuendo alla «disintegrazione» dell’associazione mafiosa e al ripristino della legalità.
Il Governo dichiara inoltre che vi è una profonda differenza tra il regime del 41 bis e quello previsto dall’articolo 4 bis. A questo proposito, indica che, nel caso di specie, il magistrato di sorveglianza ha posto fine al regime speciale previsto dall’articolo 41 bis ritenendo che il ricorrente non avesse più la capacità di mantenere i contatti con l’organizzazione criminale dal carcere, mentre, essendo sottoposto all’articolo 4 bis, l’interessato sarebbe tenuto ad apportare la prova positiva della rottura di qualsiasi legame con l’organizzazione criminale di appartenenza.
Il Governo – chiosa ancora il Collegio – ritiene che questa distinzione sia fondamentale, a maggior ragione in quanto il clan mafioso, di cui il ricorrente è stato riconosciuto essere uno dei capi storici, sarebbe ancora molto attivo a Taurianova, come dimostrerebbero le ordinanze di custodia cautelare emesse nei confronti di membri di detto clan o l’arresto della moglie dell’interessato il 12 dicembre 2017.
Per quanto riguarda la natura della pena dell’ergastolo regolata dall’articolo 4 bis, il Governo, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana e della Corte di cassazione, afferma che la stessa rimane de jure e de facto riducibile. Infatti, secondo il Governo, il condannato all’ergastolo può depositare una domanda di liberazione condizionale dinanzi al magistrato di sorveglianza, basandosi sui risultati del proprio percorso di rieducazione e della propria collaborazione con l’autorità giudiziaria. Secondo il Governo, il sistema offre in tal modo una prospettiva concreta al condannato all’ergastolo, permettendo, da una parte, che quest’ultimo possa avere accesso ai benefici penitenziari in caso di collaborazione «impossibile» o «irrilevante» (il Governo ha fornito un elenco molto dettagliato di decisioni che fanno giurisprudenza su questo aspetto) e, dall’altra, riconducendo alla libera scelta dell’interessato di collaborare, e non a un automatismo legale, la possibilità di ottenere gli stessi benefici.
Sempre secondo il Governo, chiosa ancora la Corte, una tale collaborazione è, per il legislatore, l’indicatore oggettivo del rigetto dei «valori criminali» e della «dissociazione» dal gruppo mafioso di appartenenza. Questo giustificherebbe la scelta del legislatore di dare preminenza alle esigenze di prevenzione generale e di protezione della società.
Il Governo afferma poi che, nella fattispecie, la procedura di riesame ha permesso di prendere in considerazione i progressi del ricorrente nel relativo percorso di correzione, e indica che i giudici aditi hanno potuto determinare se l’interessato avesse fatto progressi tali che nessun motivo legittimo inerente alla pena giustificasse più il relativo mantenimento in detenzione. Il Governo afferma altresì che il ricorrente ha avuto e ha tuttora l’opportunità di collaborare con l’autorità giudiziaria allo scopo di fornire la prova inconfutabile della relativa completa riabilitazione.
Il Governo afferma inoltre che il sistema interno prevede altri due rimedi alternativi alla domanda di liberazione condizionale: la domanda di grazia presidenziale, prevista dall’articolo 174 del CP, e la domanda di sospensione dell’esecuzione della pena per motivi di salute, prevista dagli articoli 147 e 148 dello stesso codice.
Per quanto attiene alla prospettiva di liberazione per motivi inerenti alla pena, il Governo contesta l’analisi fatta dal ricorrente della sentenza Trabelsi, che riguardava principalmente l’assenza di criteri oggettivi e prestabiliti in merito alla procedura di riesame prevista nel sistema statunitense. Secondo il Governo, la legislazione italiana prevede invece una procedura di riesame della pena dell’ergastolo fondata su criteri chiari e oggettivi. Gli effetti della collaborazione con la giustizia sarebbero anch’essi chiaramente stabiliti dall’articolo 58 ter del CP e noti in anticipo ai condannati.
Il Governo – rileva ancora la Corte – argomenta che il sistema italiano garantisce ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità di operare per il loro reinserimento, in applicazione dell’obbligo positivo derivante dagli articoli 3 e 8 della Convenzione. L’obiettivo di reinserimento sarebbe perseguito dalla legge sull’ordinamento penitenziario, anche per i condannati all’ergastolo cosiddetto ostativo, per mezzo dell’individualizzazione del trattamento penitenziario (sostegno continuo agli interessi culturali, umani e professionali dei detenuti, soppressione degli ostacoli allo sviluppo personale e promozione della risocializzazione).
In conclusione, il Governo sostiene che il legislatore non ha fatto altro che aggiungere una condizione ulteriore per i condannati alla pena dell’ergastolo di cui all’articolo 4 bis. A relativo parere, una volta soddisfatta questa condizione, che il detenuto è libero di rispettare collaborando con le autorità, quest’ultimo può aspirare alla liberazione condizionale e ai benefici penitenziari. Il sistema italiano, pertanto, secondo il Governo è compatibile con l’articolo 3 della Convenzione.
Gli accademici e gli esperti riuniti sotto il coordinamento dell’università di Milano – la cui posizione viene a questo punto scandagliata dalla Corte EDU – rammentano anzitutto l’evoluzione della legislazione in materia: l’articolo 4 bis, inizialmente previsto per permettere ai collaboratori di giustizia di avere accesso ai benefici penitenziari in maniera preferenziale rispetto agli altri detenuti, ossia prima che sia trascorso il termine normalmente previsto, è stato modificato dal decreto-legge n. 306 dell’8 giugno 1992, a seguito dell’attentato contro il giudice G. Falcone e la relativa scorta, nel senso di una trasformazione della «collaborazione» in elemento necessario all’accesso alla liberazione condizionale e ai benefici penitenziari.
La terza parte richiama poi la giurisprudenza della Corte per dedurne che, se un trattamento o una pena non possono mai essere contrari al principio di «dignità umana», a prescindere dal loro effetto dissuasivo, il fatto di non tenere conto della possibilità di «non collaborare» e di non rispondere pregiudica la dignità dell’individuo e il relativo diritto all’autodeterminazione.
Secondo questo terzo interveniente, prosegue il Collegio, l’automatismo legislativo, che vede il detenuto «non collaborativo» escluso da qualsiasi beneficio, introduce una presunzione inconfutabile di pericolosità, legata ad una categoria ampia ed eterogenea di delitti che la dottrina indica con l’espressione «diritto penale d’autore». La presunzione di pericolosità sociale non potrebbe, in pratica, essere ribaltata da nessun giudice.
Per questa terza parte, anche il regime della pena dell’ergastolo effettivo contrasta con i principi di individualizzazione e di progressività del trattamento penitenziario: l’ergastolo ostativo impedisce qualsiasi progresso del detenuto «non-collaborativo» nel relativo percorso di reinserimento graduale nella società.
Il centro di documentazione «L’altro diritto onlus» – prosegue ancora la Corte – indica per parte sua anzitutto che, secondo i dati forniti nel 2016 dal Ministero italiano della Giustizia, sul numero totale di condannati all’ergastolo, il 72,5 % (ossia 1.216 individui) erano detenuti per uno dei delitti di cui all’articolo 4 bis (ergastolo ostativo).
Secondo questo terzo interveniente, introducendo la «collaborazione con la giustizia» come condizione preliminare per qualsiasi valutazione del percorso di reinserimento del condannato, il sistema nazionale è in contrasto con il diritto di autodeterminazione di quest’ultimo. Il detenuto non è in grado di determinare la propria esistenza in carcere e di avere un’influenza sull’esecuzione della sua pena, in quanto il giudice non tiene conto del relativo comportamento e delle relative azioni in assenza di collaborazione.
Inoltre, la pena dell’ergastolo sarebbe contraria all’obbligo positivo dello Stato di organizzare un sistema penitenziario che favorisca la rieducazione e il reinserimento dei detenuti.
Il centro di documentazione «L’altro diritto onlus» espone infine che l’alternativa tra la collaborazione e la non collaborazione obbliga il detenuto condannato all’ergastolo a scegliere tra, da una parte, la propria dignità (la propria capacità di determinare il proprio percorso di uscita, che deve passare attraverso la collaborazione) e, dall’altra, la propria vita o la propria incolumità e quella dei suoi famigliari (dato il rischio di rappresaglie dell’ambiente mafioso). Su quest’ultimo punto, in particolare, il centro precisa, basandosi sull’osservazione diretta di condannati all’ergastolo che ha incontrato, che il motivo principale del rifiuto di collaborare sta nel timore per il detenuto di mettere in pericolo la propria persona o quella dei suoi famigliari.
Ancora, per parte sua la Rete europea per la ricerca e l’azione nel contenzioso penitenziario (RCP) considera come il criterio di «non-collaborazione» non possa essere considerato un motivo legittimo inerente alla pena e che, in ogni caso, la procedura di riesame in Italia non soddisfi i requisiti previsti dalla Convenzione.
In particolare, afferma che la giurisprudenza interna attesta l’esistenza di un esame quasi binario (collaborazione o non collaborazione), che il magistrato di sorveglianza sarebbe obbligato a compiere, ben lungi dal controllo in concreto delle esigenze inerenti alla pena che giustificano il mantenimento in detenzione. Inoltre, l’RCP invita la Corte a esaminare due questioni che ritiene dovrebbero chiarire la propria giurisprudenza: la prima è relativa all’affermazione dell’esigenza di un controllo giurisdizionale rigoroso, che presenti garanzie procedurali analoghe alle garanzie esistenti in materia di libertà personale; l’altra inerente alla previsione di un vero e proprio «diritto al reinserimento sociale», esigenza dettata dai principi di effettività (il che permetterebbe alla Corte di chiarire gli obblighi degli Stati) e di sussidiarietà (il che porterebbe il giudice nazionale a vigilare sul rispetto delle disposizioni della Convenzione a livello interno).
Fatto questo lungo scandaglio delle posizioni delle parti, la Corte EDU giunge ormai a presentare le proprie valutazioni.
I principi pertinenti in materia di pene dell’ergastolo, di reinserimento e di liberazione condizionale – rammenta – sono stati esposti dettagliatamente nella sentenza Vinter (§ 103– 122, con i riferimenti alla sentenza Kafkaris c. Cipro [GC], n. 21906/04, CEDU 2008), e recentemente sintetizzati nelle sentenze Murray (§§ 99-100) e Hutchinson c. Regno Unito [GC] (n. 57592/08, §§ 42-45, 17 gennaio 2017).
La Corte osserva anzitutto che, nella presente causa, il ricorrente non lamenta una netta sproporzione della pena dell’ergastolo alla quale è stato condannato (si vedano, tra altre, Matiošaitis e altri c. Lituania, n. 22662/13 e altri 7, § 157, 23 maggio 2017, e Vinter, § 102), ma la dedotta non riducibilità de jure e de facto di tale pena.
La Corte osserva inoltre che la presente causa si distingue dalle cause in materia di ergastolo presentate in precedenza contro l’Italia, nelle quali è stata chiamata a esaminare la pena dell’ergastolo di cui all’articolo 22 del CP.
Nella decisione Garagin c. Italia ((dec.) n. 33290/07, 29 aprile 2008; si veda anche Scoppola c. Italia (dec.), n. 10249/03, 8 settembre 2005), essa ha dichiarato che l’ergastolo rimane compatibile con l’articolo 3 della Convenzione, esprimendosi in questi termini: «(…) il condannato all’ergastolo può essere liberato, e dal testo dell’articolo 176 del CP. Ai sensi di tale disposizione, il condannato all’ergastolo che abbia tenuto un comportamento tale da mostrare un sincero ravvedimento, può essere liberato dopo avere scontato ventisei anni di carcere. Dopo avere scontato ventisei anni di carcere può anche essere ammesso al regime di semi-libertà (articolo 50 c. 5 della legge n. 354 del 1975 (…), in Italia le pene perpetue sono (…) de jure e de facto riducibili. Dunque, non si può dire che il ricorrente non abbia alcuna prospettiva di liberazione né che il suo mantenimento in carcere, fosse anche per una lunga durata, sia in sé costitutivo di un trattamento inumano e degradante.»
Inoltre, nella sentenza Vinter, la Corte rammenta di essersi fondata tra l’altro sul diritto interno italiano – legislazione e giurisprudenza della Corte costituzionale – per affermare che la prassi degli Stati contraenti riflette la volontà di agire in favore del reinserimento dei condannati all’ergastolo e nel contempo di offrire loro una prospettiva di liberazione.
La Corte osserva che, nel caso di specie, il regime applicabile alla reclusione perpetua è il risultato dell’applicazione combinata dell’articolo 22 del CP sopra citato con gli articoli 4 bis e 58 ter della legge sull’ordinamento penitenziario. Questa categoria specifica di pena perpetua è definita, a livello interno «ergastolo ostativo».
Osserva ancora il Collegio che le suddette disposizioni prevedono un trattamento penitenziario differenziato che ha l’effetto di impedire che siano accordati la liberazione condizionale e l’accesso agli altri benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione (ad eccezione della «liberazione anticipata») se la condizione necessaria di collaborazione con la giustizia non è soddisfatta. In effetti, se per tutte le misure che favoriscono il reinserimento progressivo del condannato all’ergastolo, previsto dall’articolo 22 del CP, il legislatore ha previsto alcune condizioni di accesso (buona condotta, partecipazione al progetto di riadattamento, progressione del percorso di trattamento, prova positiva dell’emenda) in funzione della misura richiesta, nell’articolo 4 bis è stata posta una condizione specifica che ostacola la concessione da parte del giudice nazionale delle misure di sospensione.
La Corte osserva ancora che il contenuto di questa collaborazione è regolato dall’articolo 58 ter: il condannato deve fornire alle autorità elementi decisivi che permettano di prevenire le ulteriori conseguenze del reato o agevolare l’accertamento dei fatti e l’identificazione dei responsabili di reati. Il condannato è dispensato da questo obbligo se tale collaborazione può essere definita «impossibile» o «irrilevante» e se dimostra la rottura di qualsiasi legame attuale con il gruppo mafioso.
La Corte osserva ancora, analogamente al ricorrente e al Governo, che, a causa dell’esistenza della circostanza aggravante legata al fatto di avere svolto il ruolo di capo all’interno del gruppo mafioso di appartenenza, ritenuta a proprio carico, la collaborazione dell’interessato non può essere definita «impossibile» o «irrilevante» ai sensi della legislazione vigente e della giurisprudenza della Corte di cassazione.
Perciò, allo scopo di determinare nel caso di specie se la pena perpetua detta «ergastolo ostativo» sia de jure e de facto riducibile, ossia se offra una prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame (si veda, tra molte altre, Hutchinson), la Corte afferma che si concentrerà sull’unica opzione aperta al ricorrente: collaborare nell’ambito delle attività di indagine e azione penale condotte dalle autorità giudiziarie per avere una possibilità di chiedere e ottenere la propria liberazione.
La Corte osserva a questo punto che le circostanze relative alla situazione in questione sembrano distinguersi dai fatti all’origine della causa Öcalan c. Turchia (n. 2) (nn. 24069/03 e altri 3, §§ 200-202, 18 marzo 2014). In effetti, in questa causa, il contrasto tra l’ordinamento giuridico turco e l’articolo 3 della Convenzione derivava dal dispositivo legislativo allora in vigore. Questo vietava al ricorrente, a causa della relativa condizione di condannato alla pena dell’ergastolo aggravato per avere commesso un reato contro la sicurezza dello Stato, di chiedere, in un determinato momento nel corso dell’esecuzione della condanna, la propria liberazione per motivi legittimi in ordine alla pena.
Si trattava di un effetto automatico della legge in questione, che escludeva qualsiasi possibilità di ottenere il riesame della pena ed era legato alla natura del reato ascritto al ricorrente.
La Corte osserva che, nella presente causa, la legislazione interna non vieta, in maniera assoluta e con effetto automatico, l’accesso alla liberazione condizionale e agli altri benefici propri del sistema penitenziario, ma lo subordina alla «collaborazione con la giustizia».
In effetti, chiosa ancora il Collegio, la situazione propria al ricorrente, derivante dall’articolo 4bis, si situa in questo modo tra quella del condannato all’ergastolo ordinario, prevista dall’articolo 22 del CP, la cui pena è riducibile de jure e de facto, e quella del detenuto a cui è preclusa dal sistema, a causa di un ostacolo giuridico o pratico, qualsiasi possibilità di liberazione, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
La Corte prende nota delle affermazioni del Governo secondo le quali l’articolo 4bis ha lo scopo di chiedere ai condannati la dimostrazione tangibile della loro «dissociazione» dall’ambiente criminale e dell’esito positivo del percorso di risocializzazione, attraverso una collaborazione utile con la giustizia volta alla «disintegrazione» dell’associazione mafiosa e al ripristino della legalità (si veda anche la Corte costituzionale).
L’obiettivo di politica criminale sotteso alla disciplina del 4 bis è pertanto chiaramente definito, come del resto anticipato nella sentenza n. 306/1993 della Corte costituzionale: il legislatore ha espressamente privilegiato le finalità di prevenzione generale e di protezione della collettività, chiedendo ai condannati per i delitti in questione di dare prova di collaborazione con le autorità, uno strumento considerato fondamentale nella lotta contro il fenomeno mafioso.
Secondo il Governo, prosegue il Collegio, è questa specificità del fenomeno che ha portato all’esigenza di prevedere un regime della reclusione perpetua diverso dal regime ordinario previsto dall’articolo 22 del CP.
A proposito del fenomeno mafioso, la Corte ritiene utile fare riferimento alle osservazioni del Governo e alla sentenza della corte d’assise di Palmi in cui vengono menzionati la specificità dell’associazione per delinquere di tipo mafioso e il patto concluso tra i relativi membri, che si caratterizza per il fatto di essere particolarmente solido e continuativo.
Essa rinvia anche alla sentenza della Corte di cassazione n. 46103 del 7 novembre 2014, nella quale questa giurisdizione ha rammentato che il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, un reato permanente, presuppone l’esistenza di un vasto programma criminale, proiettato verso il futuro e senza alcuna limitazione temporale. Secondo l’Alta giurisdizione, lo stato di reclusione di un membro di un’associazione mafiosa non implica la cessazione automatica della relativa partecipazione all’associazione in questione. La conclusione che ne trae la Corte di cassazione è che la «permanenza» del reato di cui all’articolo 416 bis è compatibile con l’inattività dell’associato o con lo stato silente dell’associazione, cosicché il rapporto associativo cessa solo nel caso oggettivo di cessazione della consorteria o nei casi soggettivi di decesso, rottura del legame individuale o esclusione da parte degli altri associati.
L’articolo 4 bis prevede dunque una presunzione di pericolosità del condannato legata al tipo di reato ascrittogli. Questa pericolosità e il legame con l’ambiente criminale di origine non spariranno unicamente a causa della reclusione. La Corte osserva che, secondo il Governo, è per questo motivo che la disposizione in questione chiede al condannato di dimostrare concretamente, con la propria collaborazione, che ha rotto con l’ambiente criminale di appartenenza, il che starebbe anche ad indicare l’esito positivo del processo di risocializzazione.
La Corte rammenta a questo punto di avere affermato che la scelta di un determinato regime di giustizia penale fatta da uno Stato, ivi compreso il riesame della pena e le modalità di liberazione, non è soggetta in linea di principio al controllo europeo da essa esercitato, purché il sistema adottato non contravvenga ai principi della Convenzione (Vinter, sopra citata). Essa ha anche dichiarato che, se la repressione rimane una delle finalità della reclusione, le politiche in materia di pena in Europa pongono ormai l’accento sull’obiettivo di reinserimento che persegue la detenzione, anche nel caso di detenuti condannati all’ergastolo, e in particolare verso la fine di una pena detentiva di lunga durata (Dickson, § 75, con il riferimento ai paragrafi 28- 36).
Il principio di reinserimento è rispecchiato nelle norme internazionali ed è attualmente riconosciuto nella giurisprudenza della Corte (Murray, § 102, con i riferimenti ivi citati).
A livello interno, la Corte osserva che, a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 313 del 1990, la giurisprudenza di questa alta giurisdizione sulla funzione della pena dimostra il ruolo centrale della risocializzazione, che deve accompagnare la pena dalla relativa formulazione normativa astratta alla relativa esecuzione concreta: la Corte costituzionale ha affermato che quest’ultima deve orientare l’azione del legislatore, del giudice del processo, del magistrato di sorveglianza e delle autorità penitenziarie.
Queste prime considerazioni portano la Corte a esaminare la questione centrale che si pone nel caso del ricorrente, ossia se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella pertinente applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della sua pena.
La Corte osserva che il sistema penitenziario italiano si basa sul principio della progressione trattamentale del detenuto, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre effetti positivi sul condannato e promuovere il relativo, pieno reinserimento nella società. Mano a mano che fa progressi in carcere, ammettendo che ne faccia, al condannato viene offerta dal sistema la possibilità di beneficiare di misure progressive (che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale) che lo accompagnino nel proprio «percorso verso l’uscita».
Si tratta di una declinazione della funzione di correzione della detenzione evocata nella sentenza Murray (§ 101).
La Corte rammenta inoltre di avere affermato che il principio della «dignità umana» impedisce di privare una persona della propria libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il relativo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà. Essa ha precisato che «un detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di sapere (…) cosa deve fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili» (Vinter, § 122). Essa ha anche dichiarato che le autorità nazionali devono dare ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità reale di reinserirsi (Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, nn. 15018/11 e 61199/12, § 264, CEDU 2014 (estratti)).
Si tratta chiaramente di un obbligo positivo di mezzi, e non di risultato, che implica di garantire per questi detenuti l’esistenza di regimi penitenziari che siano compatibili con l’obiettivo di correzione e che permettano loro di fare progressi in questa direzione (Murray, § 104). A questo proposito, la Corte ha precedentemente concluso che tale obbligo era stato disatteso in cause nelle quali erano il regime o le condizioni di detenzione ad impedire la correzione dei detenuti (Harakchiev e Tolumov, § 266).
La Corte prende atto della posizione, nel caso di specie, del Governo, che sostiene che l’ostacolo rappresentato dall’assenza di «collaborazione con la giustizia» non è il risultato di un automatismo legislativo, che priverebbe in modo assoluto il ricorrente di qualsiasi prospettiva di liberazione, ma piuttosto la conseguenza di una scelta individuale. Il ruolo centrale attribuito alla volontà del condannato, che sarebbe l’unico artefice del proprio destino, costituisce uno degli argomenti principali del Governo, che si fonda peraltro sulla giurisprudenza della Corte costituzionale.
La Corte dichiara di prendere atto anche della tesi del ricorrente che, da parte sua, afferma che il fatto di collaborare con le autorità comporterebbe per lui o per i propri famigliari un rischio di esposizione a rappresaglie da parte dell’organizzazione mafiosa e si scontrerebbe con la propria intima convinzione secondo la quale egli è innocente.
Egli critica anche la logica strumentale del sistema che fa dipendere la possibilità di uscita dal fatto di offrire la propria totale collaborazione.
Ora, se è vero che il regime interno offre al condannato la scelta se collaborare o meno con la giustizia, la Corte dubita della libertà di tale scelta, così come dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato. Senza volere analizzare la fondatezza dell’espressione di innocenza del ricorrente – il che, del resto, assume non essere di propria competenza –, la Corte constata che quest’ultimo ha solo affermato che, per non andare contro la propria intima convinzione e per non dover subire reazioni violente da parte dei relativi ex associati, egli ha deciso di non collaborare con la giustizia.
Su questo aspetto è opportuno ricordare per il Collegio le dichiarazioni della terza parte «L’altro diritto onlus» relative alla relativa attività di osservazione diretta di detenuti condannati all’ergastolo previsto dall’articolo 4 bis. Secondo questo terzo interveniente, il motivo principale del rifiuto di collaborare con la giustizia consisterebbe nel timore per i detenuti condannati per reati di tipo mafioso di mettere in pericolo la loro vita o quella dei loro famigliari.
La Corte ne deduce che la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata soltanto dalla persistenza dell’adesione ai «valori criminali» e al mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza. Del resto, ciò è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 306 dell’11 giugno 1993, nella quale detta Corte ha affermato che l’assenza di collaborazione non indicava necessariamente il mantenimento di legami con l’organizzazione mafiosa.
Inoltre, la Corte osserva, analogamente a quanto ha fatto la Corte costituzionale in questa stessa sentenza, che ci si potrebbe ragionevolmente trovare di fronte alla situazione in cui il condannato collabora con le autorità senza che, in ogni caso, il suo comportamento rispecchi una correzione da parte sua o la relativa «dissociazione» effettiva dall’ambiente criminale, avendo l’interessato agito in tal modo al solo scopo di ottenere i vantaggi previsti dalla legge.
Constata il Collegio che, se altre circostanze o altre considerazioni possono spingere il condannato a rifiutarsi di collaborare, o se la collaborazione può eventualmente essere proposta a uno scopo meramente opportunistico, l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al percorso reale di rieducazione del ricorrente.
Essa osserva infatti che, considerando la collaborazione con le autorità come l’unica dimostrazione possibile della «dissociazione» del condannato e della relativa correzione, non si tiene conto degli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, non è escluso che la «dissociazione» dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione la giustizia.
La Corte rammenta a questo punto, come sopra esposto, che il sistema penitenziario italiano offre una serie di occasioni progressive di contatto con la società – che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale, passando attraverso i permessi premio e la semilibertà, finalizzati a favorire il processo di risocializzazione del detenuto. Ora, il ricorrente non ha beneficiato di queste occasioni progressive di reinserimento sociale.
La Corte osserva ancora che questa constatazione è vera anche se i rapporti di osservazione del ricorrente in ambiente carcerario, presentati a sostegno della domanda di liberazione condizionale, hanno indicato una evoluzione della personalità dell’interessato giudicata positivamente. Parimenti, essa osserva che, pur essendo stata emessa in un quadro giuridico diverso, l’ordinanza del magistrato di sorveglianza di L’Aquila che ha posto fine al regime del «41 bis» indicava i risultati positivi del percorso di risocializzazione del ricorrente.
La Corte constata, per di più, che il ricorrente ha dichiarato di non essere mai stato sottoposto a sanzioni disciplinari e di avere accumulato dalla condanna, in ragione della partecipazione al programma di reinserimento, circa cinque anni di liberazione anticipata, ma che, a causa dell’assenza di collaborazione da parte sua, non può beneficiare in pratica della deduzione di pena ottenuta.
La Corte ritiene che la personalità di un condannato non rimanga fissata al momento in cui il reato è stato commesso, ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come prevede la funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità (Murray, § 102).
Rammenta altresì che, per questo motivo, il condannato ha il diritto di sapere cosa deve fare perché sia esaminata una propria possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili (Vinter e altri, § 122, e Trabelsi, §§ 115 e 137).
Nel caso di specie, la Corte ritiene che l’assenza di «collaborazione con la giustizia» determini una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione (si vedano, tra altre, Harakchiev e Tolumov, § 264, e Matiošaitis e altri, § 177). Questi rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, la relativa pena rimane immutabile e non soggetta a controllo, e rischia altresì di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo (Vinter, § 112).
La Corte osserva infatti che il ricorrente si trova nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo in ordine alla pena che giustifichi il relativo mantenimento in detenzione, e che pertanto tale mantenimento è contrario all’articolo 3 della Convenzione, in quanto, mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, il regime vigente riconduce in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna.
Inoltre, la Corte sottolinea che la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della pertinente condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena (Murray, § 100, con la giurisprudenza ivi citata). L’intervento del giudice è limitato alla constatazione del mancato rispetto della condizione di collaborazione, senza poter effettuare una valutazione del percorso individuale del detenuto e della relativa evoluzione sulla strada della risocializzazione.
Questa è peraltro la portata della valutazione del tribunale di sorveglianza di L’Aquila nel caso in questione. Quest’ultimo ha respinto la richiesta di liberazione condizionale del ricorrente, rilevando la mancanza di collaborazione con la giustizia senza procedere ad una valutazione degli eventuali progressi che il ricorrente sosteneva di aver compiuto dalla propria condanna.
La Corte riconosce a questo punto che i reati per i quali il ricorrente è stato condannato riguardano un fenomeno particolarmente pericoloso per la società. Rileva, inoltre, che l’introduzione dell’articolo 4 bis è il risultato della riforma del regime penitenziario del 1992, avvenuta in un contesto di emergenza in cui il legislatore è dovuto intervenire, dopo un episodio estremamente significativo per l’Italia, in una situazione particolarmente critica.
Tuttavia, la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti. Pertanto, la natura dei reati addebitati al ricorrente è priva di pertinenza ai fini dell’esame del presente ricorso dal punto di vista del suddetto articolo 3 (Öçalan, §§ 98 e 205, con la giurisprudenza ivi citata). Peraltro, la Corte ha affermato che la funzione di risocializzazione ha lo scopo ultimo di prevenire la recidiva e proteggere la società (Murray, § 102).
Va ricordato che la Corte medesima, in una causa riguardante la durata della custodia cautelare, e quindi sul terreno dell’articolo 5 della Convenzione, ha richiamato il principio secondo cui «una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria» (Pantano c. Italia, n. 60851/00, § 69, 6 novembre 2003). Questa affermazione lo è ancor più sul terreno dell’articolo 3 della Convenzione, dato il carattere assoluto di questa disposizione, che non è soggetta ad alcuna eccezione (si veda, tra molte altre, Trabelsi, § 118).
La Corte rileva, ad abundantiam, che a livello nazionale sembra svilupparsi la recente tendenza di rimettere in discussione la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, come evidenziano la sentenza della Corte Costituzionale n. 149 dell’11 luglio 2018, l’ordinanza di rinvio della Corte di Cassazione alla Corte Costituzionale in merito alla legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, nonché due recenti progetti di riforma dell’articolo 4 bis di origine governativa.
Per quanto riguarda infine le affermazioni del Governo, secondo le quali il sistema interno prevede altri due rimedi per ottenere il riesame della pena, ossia la domanda di grazia presidenziale e la domanda di sospensione della pena per motivi di salute, la Corte rammenta la propria giurisprudenza pertinente nel caso di specie secondo la quale la possibilità per un detenuto che sconta una pena perpetua di beneficiare di una grazia o di una scarcerazione, per motivi di umanità inerenti a un cattivo stato di salute, a una invalidità fisica o all’età avanzata, non corrisponde a ciò che ricomprende l’espressione «prospettiva di liberazione» utilizzata a partire dalla sentenza Kafkaris (§ 127; si vedano anche Öcalan, § 203, e László Magyar c. Ungheria, n. 73593/10, §§ 57 e 58, 20 maggio 2014).
In particolare, la Corte osserva ancora che, nella propria sentenza n. 200 del 18 maggio 2006, la Corte costituzionale ha dichiarato che il potere di grazia presidenziale risponde a finalità puramente umanitarie e serve a temperare la rigidità della legge penale. Per quanto riguarda le domande di sospensione della pena per motivi di salute, esse corrispondono a ciò che la Corte ha definito come «un riesame limitato a motivi umanitari» (Hutchinson, § 43, Vinter, § 127, e Matiošaitis e altri, § 173).
Peraltro, la Corte prende nota dell’affermazione del ricorrente secondo la quale nessun detenuto condannato all’ergastolo disciplinato dall’articolo 4 bis ha mai beneficiato di una decisione di grazia presidenziale. A questo riguardo, il Governo non ha fornito alcun esempio di condannato alla pena perpetua di questo tipo che abbia ottenuto una sospensione della pena in virtù di una grazia presidenziale (si vedano Bodein c. Francia, n. 40014/10, § 59, 13 novembre 2014, e, a contrario, Kafkaris, § 103).
La Corte rammenta – concludendo sul punto – che la dignità umana, che si trova al centro stesso del sistema messo in atto dalla Convenzione, impedisce di privare una persona della relativa libertà in maniera coercitiva senza operare nel contempo per il pertinente reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà (Vinter, § 113).
Alla luce dei principi sopra menzionati, e per i motivi sopra esposti, la Corte considera che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente, in applicazione dell’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, detta «ergastolo ostativo», limiti eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della relativa pena. Pertanto, tale pena perpetua non può essere definita riducibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte rigetta perciò l’eccezione del Governo relativa alla qualità di vittima del ricorrente e conclude che le esigenze dell’articolo 3 in materia non sono state rispettate.
Ciò premesso, essa ritiene tuttavia che la constatazione di violazione pronunciata nella presente causa non possa essere intesa nel senso di dare al ricorrente una prospettiva di liberazione imminente (si vedano, tra altre, Harakchiev e Tolumov, § 268, e László Magyar, § 59).
Ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, rammenta a questo punto il Collegio, : «1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. 2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione.»
La Corte rammenta in proposito che, come interpretato alla luce dell’articolo 1 della Convenzione, l’articolo 46 ridetto crea per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico non soltanto di versare agli individui interessati le somme accordate loro a titolo di equa soddisfazione, ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali che si rendono necessarie per porre fine ai problemi all’origine delle constatazioni da essa operate e agli effetti degli stessi (Scozzari e Giunta c. Italia [GC], nn. 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDU 2000 VIII, e László Magyar, § 70).
Per agevolare il rispetto da parte dello Stato membro dei propri obblighi derivanti dall’articolo 46, la Corte può, in via eccezionale, prevedere di indicare il tipo di misure individuali o generali auspicabili allo scopo di porre fine alla situazione di violazione constatata (Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, §§ 189-194 e il suo dispositivo, CEDU 2004 V, Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], § 148, e Stanev c. Bulgaria [GC], n. 36760/06, § 255, CEDU 2012).
La presente causa mette in luce per il Collegio un problema strutturale che fa sì che un certo numero di ricorsi sono attualmente pendenti dinanzi alla Corte. In prospettiva, essa potrebbe dare luogo alla presentazione di molti altri ricorsi relativi alla stessa problematica.
La Corte ribadisce che la presunzione inconfutabile di pericolosità, prevista in materia di ergastolo per i reati di cui all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, derivante dall’assenza di collaborazione con la giustizia, rischia di privare i condannati per tali reati di qualsiasi prospettiva di liberazione e della possibilità di ottenere un riesame della pena.
La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il relativo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la propria liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili.
La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della «dissociazione» dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente.
Gli Stati contraenti godono – chiosa ancora il Collegio – di un ampio margine di apprezzamento per decidere la durata adeguata delle pene detentive per determinati reati, e il semplice fatto che una pena dell’ergastolo possa, in pratica, essere scontata nella relativa totalità non la rende non riducibile (László Magyar, § 72). Di conseguenza, la possibilità di riesame della reclusione perpetua implica la possibilità per il condannato di chiedere una liberazione, ma non di ottenere necessariamente la scarcerazione se continua a costituire un pericolo per la società.
Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione, prosegue il Collegio, «Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
Il ricorrente chiede la somma di 50.000 euro (EUR) per il danno morale che ritiene di avere subito. Il Governo contesta tale richiesta, e ritiene che la situazione di danno dedotto derivi dal fatto che il ricorrente non ha ancora portato a termine il proprio percorso di rieducazione e che, in assenza di prova positiva della rottura di qualsiasi legame con l’organizzazione mafiosa, che dipenderebbe da una scelta fatta deliberatamente dall’interessato, quest’ultimo rappresenti sempre una minaccia per la sicurezza pubblica.
Il Governo aggiunge che le eventuali sofferenze legate alla condizione di detenuto incarcerato a vita del ricorrente non sono suffragate da documenti medici che giustifichino un tale importo. Infine, in subordine, il Governo chiede alla Corte di dichiarare che la constatazione di violazione costituisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente.
La Corte ritiene che, alla luce delle circostanze del caso di specie, la constatazione di violazione dell’articolo 3 della Convenzione alla quale è giunta costituisca un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale che il ricorrente possa avere subito (si veda, tra molte altre, Matiošaitis e altri, § 199). Essa non accorda pertanto alcuna somma a questo titolo.
Concludendo, la Corte respinge, all’unanimità, l’eccezione del Governo relativa alla qualità di «vittima» del ricorrente; dichiara all’unanimità il ricorso ricevibile; dichiara, con sei voti contro uno, che vi è stata una violazione dell’articolo 3 della Convenzione; dichiara, con sei voti contro uno, che la constatazione di una violazione fornisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dal ricorrente; dichiara, con sei voti contro uno, a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, secondo le modalità definite in motivazione, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, la somma di 6.000 EUR (seimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per le spese; b) che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali; respinge infine, all’unanimità, la domanda di equa soddisfazione per il resto.
* * *
Il 4 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.253 che – sulla scia della giurisprudenza della Corte EDU, ma limitatamente ai c.d. permessi premio – dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
La medesima pronuncia dichiara anche, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
Per la Corte, sebbene presentino profili di parziale differenziazione nei percorsi argomentativi, le due ordinanze di rimessione innanzi ad essa censurano la stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali, i relativi giudizi dovendo perciò essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.
In via preliminare, va confermata per il Collegio l’ordinanza dibattimentale allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato inammissibili tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei giudizi principali.
Sempre in via preliminare, devono essere correttamente definiti il thema decidendum e i termini delle questioni di legittimità costituzionale portate all’attenzione della Corte medesima dalle ordinanze di rimessione di cui al caso di specie.
In primo luogo, nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, la parte S. C. ha prospettato, nell’atto di costituzione, anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Trattasi, però, di censura che il collegio rimettente non ha inteso proporre nell’atto di promovimento. Secondo la propria costante giurisprudenza, rammenta la Corte, non possono essere presi in considerazione ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle parti oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione; e ciò, sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di costituzionalità (ex multis, da ultimo, sentenze n. 226, n. 206, n. 141, n. 96 e n. 78 del 2019).
In secondo luogo, prosegue il Collegio, le questioni di legittimità costituzionale sollevate non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia.
Questo sarebbe stato l’oggetto delle presenti questioni se le ordinanze di rimessione avessero censurato – oltre che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – anche la previsione contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto.
Le questioni di legittimità costituzionale ora in esame attengono, invece, non alla condizione di chi ha subito una condanna a una determinata pena, bensì a quella di colui che ha subito condanna (all’ergastolo, in entrambi i giudizi a quibus) per reati cosiddetti ostativi, in specie i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis cod. pen., e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.
Infatti, è portato all’attenzione di questa Corte l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., ai sensi del quale la condanna per i delitti che esso elenca – si tratti di condanna a pena perpetua oppure a pena temporanea – impedisce l’accesso ai benefici penitenziari, e in special modo al permesso premio, in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. (secondo cui l’utile collaborazione, anche dopo la condanna, consiste nell’essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nell’aiutare concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati).
I giudici a quibus, per parte loro, hanno “costruito” le questioni di legittimità costituzionale modellandole sulle fattispecie portate alla loro attenzione, nelle quali la richiesta di accesso al permesso premio riguardava due condannati alla pena dell’ergastolo, per i delitti prima specificati. Ma la Corte dichiara di non dover risolvere tali specifici giudizi, bensì pronunciarsi sulla disposizione di legge censurata, decidendo questioni di legittimità costituzionale rilevanti in quei giudizi.
Tali questioni riguardano perciò l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto recante una disciplina da applicarsi a tutti i condannati, a pena perpetua o temporanea, per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa e di “contesto mafioso”. Per tutti costoro, infatti, la disposizione censurata dai rimettenti richiede la collaborazione con la giustizia quale condizione per l’accesso alla valutazione, in concreto, circa la concedibilità dei benefici penitenziari.
Infine, chiosa la Corte, nei processi a quibus si fa questione della sola possibilità di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non di altri benefici.
Coerentemente con tale circostanza, i dispositivi di entrambe le ordinanze di rimessione precisano che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. è censurato nella sola parte in cui esclude che i condannati per i reati descritti, che non collaborano con la giustizia, possano essere ammessi alla fruizione dello specifico beneficio di cui all’art. 30-ter ordin. penit.
Del resto, non solo i rimettenti limitano le proprie censure alla impossibilità – determinata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – di accedere al permesso premio, ad esclusione, perciò, di qualunque riferimento agli altri benefici penitenziari; ma è lo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ad elencare distintamente i benefici che non possono essere concessi ai detenuti per determinati reati (nonché agli internati, la cui posizione non è in discussione nel presente giudizio) che non collaborano con la giustizia: sicché unicamente del permesso premio si fa per la Corte questione.
Entrambe le ordinanze, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., censurano l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto introduce una presunzione assoluta di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato – per i reati precisati – che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit.
Proprio in virtù di tale presunzione, assoluta in quanto non superabile se non dalla collaborazione stessa, la disposizione attualmente vigente fa sì che le richieste di un tale detenuto di accedere allo specifico beneficio del permesso premio debbano dichiararsi in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del magistrato di sorveglianza (in disparte i casi di collaborazione impossibile o irrilevante).
Se tutto ciò sia conforme ai parametri costituzionali evocati è, in definitiva, il thema decidendum posto dalle presenti questioni di legittimità costituzionale.
Ancora in via preliminare, deve essere per la Corte vagliata l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato con specifico riferimento al giudizio instaurato dall’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia. Lamenta, in particolare, l’Avvocatura dello Stato che il rimettente non avrebbe indicato le specifiche ragioni che motivano la scelta del detenuto di non collaborare con la giustizia.
Il giudice a quo, in effetti, pur dando atto che la condotta collaborativa costituisce manifestazione del distacco del detenuto dal gruppo criminale di riferimento, ritiene che non possa per ciò solo dirsi che tale condotta «sia davvero l’unica “prova legale esclusiva di ravvedimento”, perché sono plurime le ragioni che possono indurre un condannato a non collaborare». Tra queste ragioni enumera, trattandone in astratto e in via di mera ipotesi: «il rischio per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla concessione di un beneficio».
L’Avvocatura lamenta proprio il carattere ipotetico e astratto di tali ragioni, sottolineando come il reclamante nel giudizio a quo non abbia mai addotto alcuna di queste motivazioni per giustificare la propria mancata collaborazione. Dal che deriverebbe, appunto, il difetto di rilevanza delle questioni sollevate, poiché, anche nel caso di una pronuncia di accoglimento, una tale decisione non spiegherebbe effetti nel processo a quo.
L’eccezione tuttavia per la Corte non è fondata.
Sostiene il rimettente che solo se la Corte accogliesse le questioni – “smontando” il carattere assoluto della presunzione di pericolosità del detenuto che non collabora, e permettendo così che la prova dell’avvenuto distacco dal sodalizio criminale sia fornita altrimenti – il magistrato di sorveglianza, investito della richiesta di accesso al beneficio, potrebbe allora, in concreto, verificare le vere ragioni che hanno condotto il detenuto alla scelta di non collaborare.
Questa affermazione si pone in effetti, chiosa la Corte, nel solco della giurisprudenza costituzionale in tema di rilevanza, ove (ex plurimis, sentenze n. 20 del 2016, n. 46 e n. 5 del 2014, n. 294 del 2011) è ricorrente l’affermazione secondo cui, per l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa (da ultimo, sentenza n. 170 del 2019).
Del resto, anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (messa in risalto, tra le pronunce più recenti, dalla sentenza n. 77 del 2018) e di una più efficace garanzia della conformità a Costituzione della legislazione (profilo valorizzato, da ultimo, nella sentenza n. 174 del 2019), il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione (sentenza n. 20 del 2018).
Soprattutto con specifico riferimento alle presenti questioni, prosegue la Corte, va considerato che, secondo la disposizione censurata, il giudice è chiamato a fare applicazione di una disciplina che predetermina l’esito del processo, nel senso dell’inammissibilità della richiesta di accesso al beneficio del permesso premio da parte del condannato non collaborante. Invece, nell’ipotesi di accoglimento delle sollevate questioni, il giudice a quo dovrebbe decidere secondo una diversa regola di giudizio, attingendola dalla disciplina di riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata incostituzionale. E quand’anche l’esito del giudizio a quo sia il medesimo – la non concessione del permesso premio – la pronuncia della Corte influirebbe di certo sul percorso argomentativo che il rimettente dovrebbe a questo punto seguire per decidere sulla richiesta del detenuto (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010, nonché, con riferimento alle questioni relative alle cosiddette norme penali di favore, sentenze n. 394 del 2006, n. 161 del 2004 e n. 148 del 1983).
Venendo al merito, la Corte ritiene opportuno scrutinare in primo luogo le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, in quanto, riferendosi alla posizione del condannato sia per partecipazione all’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., sia per reati di “contesto mafioso”, la decisione su di esse potrebbe assorbire quelle sollevate dalla Corte di cassazione esclusivamente in riferimento al condannato per questi ultimi delitti.
Le questioni sono assunte dal Collegio fondate, nei termini di seguito precisati.
«Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo una linea di progressivo inasprimento, l’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del 1995), riversando così tali ragioni all’interno dell’ordinamento penitenziario e dell’esecuzione della pena.
Nella prima versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito – l’art. 4-bis ordin. penit. prevedeva due distinte “fasce” di condannati, a seconda della riconducibilità, più o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata o eversiva.
Per i reati “di prima fascia” – comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico – l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario era possibile, alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».
Per i reati “di seconda fascia” (omicidio, rapina ed estorsione aggravate, nonché produzione e traffico di ingenti quantità di stupefacenti: «delitti, questi, per i quali le connessioni con la criminalità organizzata erano, nella valutazione del legislatore, meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del 2018) si richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio – l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.
Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni stabilivano, quale ulteriore requisito per l’ammissione a specifici benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena più elevato dell’ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia, secondo la nuova previsione dell’art. 58-ter ordin. penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991, come convertito, aveva introdotto nella legge penitenziaria del 1975.
In questa prima fase dunque, precisa la Corte, il trattamento di maggior rigore per i condannati per reati di criminalità organizzata veniva realizzato su due piani, fra loro complementari. Come spiega la sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto generale per l’applicabilità di alcuni istituti di favore, la necessità di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle “fasce” di condannati) l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; dall’altro, si postulava, attraverso l’introduzione o l’innalzamento dei livelli minimi di pena già espiata, un requisito specifico per l’ammissione ai singoli benefici, fondato sulla necessità di verificare per un tempo più adeguato l’effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell’area della criminalità organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell’intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta collaborativa».
Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del 1993).
L’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apporta decisive modifiche all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Per quel che più direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla prima “fascia”, si stabilisce che l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata).
Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l’accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalità organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l’intervenuta rescissione di quei collegamenti.
Ancora la sentenza n. 68 del 1995: si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)».
Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014, la nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, o il relativo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della pertinente valenza “rescissoria” del legame con il sodalizio criminale.
Si coniuga a ciò – assumendo, in fatto, un rilievo preminente – l’obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o “contigui” ad associazioni criminose, che appare come strumento essenziale per la lotta alla criminalità organizzata.
Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la presunzione assoluta che i collegamenti con l’organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato, con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti.
Infine, recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. estende la possibilità di accesso ai benefici ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. In tutte le ipotesi dianzi indicate occorre, peraltro, che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
La presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, così introdotta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – prosegue la Corte – è assoluta, nel senso che non può essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa. Quest’ultima, per i condannati per i delitti ricordati, è l’unico elemento che può consentire l’accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. È così introdotto un trattamento distinto rispetto a quello che vale per tutti gli altri detenuti.
In questi specifici termini deve essere precisata la precedente giurisprudenza della Corte, che ha sostenuto non potersi qualificare questa disciplina come «“costrizione” alla delazione», poiché spetta al detenuto adottare o meno quel comportamento (sentenza n. 39 del 1994).
A ben guardare, l’inaccessibilità ai benefici penitenziari, per il detenuto che non collabora, non è un vero automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità della disposizione censurata. L’inaccessibilità ai benefici penitenziari è insomma una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo» (sentenza n. 135 del 2003).
Purtuttavia, precisa la Corte, la presunzione della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata, che incombe sul detenuto non collaborante, è assoluta, perché non può essere superata da altro, se non dalla collaborazione stessa. E, come si chiarirà, è proprio questo carattere assoluto a risultare in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
Nella sentenza n. 306 del 1993, che la Corte rammenta di aver pronunciato a breve distanza dall’entrata in vigore della disciplina introdotta dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, si riconosce che il requisito della collaborazione, quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari, «è essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale», adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza collettiva.
Sottolineando che la scelta legislativa costituiva risposta alla necessità di contrastare una criminalità organizzata «aggressiva e diffusa», la sentenza non condivide la tesi, sostenuta nella relazione alla legge di conversione del d.l. n. 306 del 1992, secondo cui la decisione di collaborare è la sola ad esprimere con certezza la «volontà di emenda» del condannato, sicché essa assumerebbe una valenza anche “penitenziaria”, non estranea al principio della funzione rieducativa della pena («è solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volontà di emenda che l’intero ordinamento penale deve tendere a realizzare»: così la relazione presentata in Senato in sede di conversione del d.l. n. 306 del 1992 – atto n. 328).
Su questo profilo, la sentenza sottolineò che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non può essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura “penitenziaria”, giacché la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il relativo contrario (la mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento o “emenda”, secondo una lettura “correzionalistica” della rieducazione: «non può non convenirsi con i giudici a quibus quando sostengono che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione».
Sono argomenti, questi ultimi, considerati, sia pur con riferimento a un diverso beneficio, dalla Corte EDU nella già ricordata sentenza Viola, nelle parti espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, ove viene sottoposta a critica una disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli.
Quel che più conta, la sentenza n. 306 del 1993 – pur dichiarando, tra l’altro, non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost. – osservò che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione.
Queste ultime valutazioni vanno per la Corte sviluppate, e conducono oggi all’accoglimento delle questioni sollevate, nei termini di seguito chiariti.
Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.
Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari.
In un primo senso, chiarisce la Corte, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante.
In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.
In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.
Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato – attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna – elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena.
La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.
Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, è costruita per il Collegio una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri detenuti.
Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già individuata, sia dalla Corte medesima (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434).
La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria.
Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della relativa, tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa.
Il valore “premiale” della collaborazione – che rende immediatamente accessibili tutti i benefici, senza necessità di raggiungere le soglie di pena previste ordinariamente – si giustifica sia considerando che essa è ragionevole indice del presumibile abbandono dell’originario sodalizio criminale, sia in virtù della determinante utilità che ha mostrato sul piano del contrasto alle organizzazioni mafiose.
Del resto, nel più ampio contesto del comportamento intramurale, la collaborazione assume rilievo, oltre che come dimostrazione della rottura con il circuito criminale, anche ai fini della complessiva valutazione dell’iter rieducativo.
Invece, precisa la Corte, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., l’assenza di collaborazione con la giustizia dopo la condanna non può tradursi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facoltà di non prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato.
Come configurata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la mancata collaborazione infligge ulteriori conseguenze negative, che non hanno diretta connessione con il reato commesso, ma derivano unicamente, appunto, dal rifiuto del detenuto di prestare la collaborazione in parola, nella sostanza aggravando le condizioni di esecuzione della pena già inflittagli al termine del processo.
In disparte ogni considerazione – su cui insiste il rimettente – circa il rilievo del diritto al silenzio nella fase di esecuzione della pena (la giurisprudenza costituzionale ha affermato che esso è corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. e «si esplica in ogni procedimento secondo le regole proprie di questo»: sentenza n. 165 del 2008; ordinanze n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002), la Corte assume di non potersi esimere dal rilevare che l’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., anche in nome di prevalenti esigenze di carattere investigativo e di politica criminale, opera una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., che certo l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto.
Garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio nemo tenetur se detegere, la libertà di non collaborare, in fase d’esecuzione, si trasforma infatti – quale condizione per consentire al detenuto il possibile accesso all’ordinario regime dei benefici penitenziari – in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.
Ciò per la Corte non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
In secondo luogo, per il Collegio contrasta con l’art. 27, terzo comma, Cost. la circostanza che la richiesta di ottenere il permesso premio debba essere in limine dichiarata inammissibile, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto.
Il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento. Esso consente «al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di libertà» (sentenza n. 188 del 1990), mostrando perciò una «funzione “pedagogico-propulsiva”» (sentenza n. 504 del 1995, poi sentenze n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sentenza n. 227 del 1995).
La giurisprudenza della Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006).
La presunzione assoluta in esame impedisce proprio tale verifica secondo criteri individualizzanti, non consentendo nemmeno – come sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Perugia – di valutare le ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio.
In definitiva, l’inammissibilità in limine della richiesta del permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada.
Ciò – precisa la Corte – non è consentito dall’art. 27, terzo comma, Cost.
In terzo luogo, la giurisprudenza della Corte sottolinea che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982).
In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.
Nel presente caso, chiosa il Collegio, la generalizzazione che fonda la presunzione assoluta consiste in ciò: se il condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso” non collabora con la giustizia, la mancata collaborazione è indice (non superabile se non dalla collaborazione stessa) della circostanza per cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto all’organizzazione criminale di riferimento.
Sono ben note – rammenta la Corte – le ragioni di una tale generalizzazione. L’appartenenza ad una associazione di stampo mafioso implica un’adesione stabile ad un sodalizio criminoso, di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (in materia cautelare, sentenze n. 48 del 2015, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011; ordinanza n. 136 del 2017).
Tali ragioni sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo.
Nonostante ciò, nella fase cautelare, in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., la presunzione di sussistenza di esigenze cautelari è relativa, perché può essere vinta dall’acquisizione di elementi dai quali risulti che tali esigenze non sussistono (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.).
Se tali esigenze tuttavia sussistono, esse si presumono – con presunzione questa volta iuris et de iure – non fronteggiabili con misure diverse dalla custodia in carcere (sentenza n. 265 del 2010, ordinanza n. 136 del 2017), non solo per le peculiari connotazioni del sodalizio criminale, ma anche perché la valutazione è svolta quasi nell’immediatezza del fatto o, comunque, in un momento non lontano dalla relativa, supposta commissione.
Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio.
È certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche a distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale quella che – in particolare, ma non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia – è espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, che – precisa il Collegio – non è ovviamente qui in discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone proprio l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017).
Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002).
Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione.
Con assorbimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione (miranti a distinguere tra la posizione dell’affiliato e quella del condannato per reati di “contesto mafioso”), ne deriva perciò, in lesione dell’art. 3 Cost., l’irragionevolezza – nonché, anche sotto questo profilo, il contrasto con la funzione rieducativa della pena – di una presunzione assoluta di pericolosità sociale che, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del contesto esterno di riferimento.
Nel caso di specie però, prosegue la Corte, trattandosi del reato di affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato dalle specifiche connotazioni criminologiche prima descritte, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.
Ciò giustifica che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi.
Quali siano questi elementi, riprende la Corte, è la stessa evoluzione del medesimo art. 4-bis ordin. penit. a mostrare con evidenza.
Come già detto, prima dell’introduzione del decisivo requisito della collaborazione con la giustizia, l’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito, già stabiliva, per i reati della “prima fascia” (comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico), che l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario fosse possibile alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, cioè solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».
Era quindi disegnato, per questi reati, un sistema fondato su di «un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa» (sentenza n. 68 del 1995).
Di un tale regime, anche la versione attualmente vigente dell’art. 4-bis, ordin. penit. mantiene traccia testuale, al comma 1-bis. Infatti, come pure si è detto, tale comma estende la possibilità di accesso ai benefici penitenziari ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, impossibile od «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. Ma, ancora, per tutte le ipotesi appena indicate occorre che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
L’acquisizione di simili elementi appartiene come si vede, prosegue la Corte, alla stessa logica cui è improntato l’art. 4-bis ordin. penit. e consente alla magistratura di sorveglianza, attraverso un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia, di svolgere d’ufficio una seria verifica non solo sulla condotta carceraria del condannato nel corso dell’espiazione della pena, ma altresì sul contesto sociale esterno in cui il detenuto sarebbe autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente ed episodicamente (ordinanza n. 271 del 1992).
In particolare, l’art. 4-bis, comma 2, ordin. penit., prevede che, ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 (perciò, anche del permesso premio), la magistratura di sorveglianza decide non solo sulla base delle relazioni della pertinente autorità penitenziaria ma, altresì, delle dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente.
È fondamentale aggiungere – prosegue la Corte – che, ai sensi del comma 3-bis del medesimo art. 4-bis, tutti i benefici in questione, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza: ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 dicembre 2016, n. 51878) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
In tale contesto, l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale) non solo è criterio già rinvenibile nell’ordinamento (sentenze n. 40 del 2019 e n. 222 del 2018) – nel caso di specie, nella stessa disposizione di cui è questione di legittimità costituzionale (sentenza n. 236 del 2016) – ma è soprattutto criterio costituzionalmente necessario (sentenza n. 242 del 2019) per sostituire in parte qua la presunzione assoluta caducata, alla stregua dell’esigenza di prevenzione della «commissione di nuovi reati» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009) sottesa ad ogni previsione di limiti all’ottenimento di benefici penitenziari (sentenza n. 174 del 2018).
L’acquisizione in parola è, d’altra parte, fattore imprescindibile, ma non sufficiente.
Il regime probatorio rafforzato qui richiesto, incalza il Collegio, deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali. Si tratta, del resto, di aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit., finisca per essere vanificato.
Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro rispristino – grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione (come stabilisce la costante giurisprudenza di legittimità maturata sul comma 1-bis dell’art. 4-bis, ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile o inesigibile: ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 13 agosto 2019, n. 36057, 8 luglio 2019, n. 29869 e 12 ottobre 2017, n. 47044).
La magistratura di sorveglianza deciderà, sia sulla base di tali elementi, sia delle specifiche informazioni necessariamente ricevute in materia dalle autorità competenti, prima ricordate; con la precisazione che – fermo restando l’essenziale rilievo della dettagliata e motivata segnalazione del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale (art. 4-bis, comma 3-bis, ordin penit.) – se le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo, incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno (in tal senso, già Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 maggio 1992, n. 1639).
Va pertanto dichiarata, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non prevede che – ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste – possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
Precisa a questo punto che con la presente sentenza, in relazione ai reati indicati, è perciò sottratta all’applicazione del meccanismo “ostativo” previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio, di cui all’art. 30-ter del medesimo ordin. penit.
Ciò è conforme al perimetro delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici a quibus, nonché alla connotazione peculiare del permesso premio, che lo distingue dagli altri benefici pure elencati nella disposizione censurata.
Come si è chiarito, prosegue a questo punto la Corte, le due ordinanze di rimessione hanno portato all’attenzione pertinente i reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, cioè quelli che hanno costituito parte del nucleo originario della previsione censurata.
Ma, come pure si è accennato, l’assetto delineato dai provvedimenti dei primi anni Novanta del secolo scorso è stato progressivamente modificato, nel tempo, da una serie di riforme, che, da un lato, hanno mutato l’architettura complessiva dell’art. 4-bis ordin. penit. e, dall’altro, ne hanno ampliato progressivamente l’ambito di operatività, con l’innesto di numerose altre fattispecie criminose nella lista dei reati “ostativi”.
In virtù di varie scelte di politica criminale, non sempre tra loro coordinate, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti, l’art. 4-bis ordin. penit. ha così progressivamente allargato i propri confini, finendo per contenere, attualmente, una disciplina speciale relativa, ormai, a un «complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 188 del 2019, n. 32 del 2016, n. 239 del 2014). E il comma 1 della disposizione, in particolare, presume l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata dei condannati per questo ampio elenco di reati, disegnando per tutti costoro un particolare regime carcerario, che non consente in radice l’accesso ai benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia.
Peraltro, nella disposizione in esame, accanto ai reati tipicamente espressivi di forme di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, anche reati che non hanno necessariamente a che fare con tale criminalità, ovvero che hanno natura mono-soggettiva: infatti, nel comma 1 dell’art. 4-bis, figurano i reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di violenza sessuale di gruppo (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori», convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38), di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione», convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici»).
In questo contesto, chiosa la Corte, l’intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa deve riflettersi sulle condizioni predisposte dal primo comma della norma censurata, in vista dell’accesso al permesso premio dei condannati per tutti gli altri reati di cui all’elenco.
Se così non fosse, deriverebbe per il Collegio dalla presente sentenza la creazione di una paradossale disparità, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza.
Ed anzi, la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma dell’art. 4-bis, ordin. penit. dell’intervento compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di “contesto mafioso” finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta.
In definitiva, i profili di illegittimità costituzionale relativi al carattere assoluto della presunzione attingono per la Corte, tanto la disciplina, in questa sede censurata, applicabile ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, quanto l’identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. per i detenuti per gli altri delitti in esso contemplati.
Stante dunque l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va per la Corte dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
2020
Il 18 giugno esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.18518 che assume rilevante e non manifestamente infondata – con riferimento agli artt.3, 27 e 117 della Costituzione – la questione di legittimità costituzionale degli artt.4 bis comma 2, e 58 ter della legge n.354/75 e dell’art.2 d.l. n.152/1991 convertito nella legge 203/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste (c.d. ergastolo ostativo), che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
Il ricorrente si duole nel caso di specie – rammenta la Corte – che il Tribunale non abbia preso in esame il merito della propria richiesta per la preclusione derivante dalla disposizione normativa che, in assenza di collaborazione con la giustizia, non consente alla magistratura di sorveglianza di valutare la ricorrenza dei presupposti per la concedibilità della liberazione condizionale in favore dei condannati per reati rientranti nel catalogo di cui all’art. 4 -bis, comma 1, I. n. 354 del 1975.
Ripropone così il tema, censurando la decisione di manifesta infondatezza della questione anche alla luce delle recenti evoluzioni della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale.
Il dubbio di costituzionalità – precisa la Corte – ha ad oggetto la disposizione di cui all’art. 2 d. I. n. 152 del 1991, conv. con modif. dalla legge n. 203 del 1991, che, per l’ammissione alla liberazione condizionale dei condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4 -bis, commi 1, 1 -ter e 1 -quater, I. n. 354 del 1975, impone gli stessi requisiti previsti dal menzionato art. 4 -bis per l’accesso ai benefici penitenziari, e quindi, per quelli di cui al comma 1, la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 -ter della stessa legge o, in alternativa, l’accertamento della impossibilità o della inesigibilità della collaborazione.
Il Tribunale – chiosa la Corte – ha ricordato che in passato ebbe a rigettare varie istanze del ricorrente, volte all’accertamento della impossibilità della collaborazione finalizzato alla concessione di permessi premio. Con la prima delle ordinanze il Tribunale escluse che in riferimento alla condanna per il delitto di concorso in omicidio, aggravato ai sensi dell’art. 7 I. n.203 del 1991, di cui alla sentenza di condanna del 24 giugno 2005 della Corte di assise di Palermo, confermata in appello e divenuta irrevocabile il 9 febbraio 2007, potesse parlarsi di un ruolo partecipativo di X marginale; o che potesse affermarsi che le relative conoscenze del fatto e del contesto criminale di riferimento fossero limitate. E aggiunse che il giudizio di cognizione non era approdato ad un integrale accertamento, residuando la possibilità di un’utile collaborazione. Con le successive ordinanze si limitò a prendere atto dell’assenza di elementi sopravvenuti capaci di far superare la preclusione derivante dal primo rigetto.
L’ordinanza impugnata, pertanto, non ha valutato il merito della richiesta, in ragione, se così può dirsi, di una doppia preclusione: quella derivante dalle precedenti decisioni di inammissibilità dell’istanza di accertamento dell’impossibilità/inesigibilità della collaborazione; e quella, principale, conseguente all’assenza di un requisito necessario – data la natura del delitto oggetto della condanna in esecuzione – per l’accesso ai benefici penitenziari e, per quel che ora interessa, alla liberazione condizionale: la collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter I. n. 354 del 1975 o, in sua vece, l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione.
Il soggetto X – riprende la Corte – come si trae dalle indicazioni dell’ordinanza impugnata, sta espiando la pena dell’ergastolo con isolamento diurno per anni uno, in forza di un provvedimento di cumulo in cui sono comprese tre sentenze di condanna.
Una prima, della Corte di assise di appello del 29 aprile 1988, divenuta irrevocabile il 28 aprile 1989, che ha inflitto la pena di anni trenta di reclusione per i reati di omicidio, tentato omicidio, detenzione e porto illegale di armi, anche clandestine, lesioni personali e rapina aggravata; una seconda, del 16 luglio 2004 della Corte di appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 17 gennaio 2007, che ha irrogato la pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione per il reato di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso, commesso fino al 3 maggio 2000 in Partinico; una terza, del 24 giugno 2005 della Corte di assise di Palermo, divenuta irrevocabile il 9 febbraio 2007, che ha irrogato la pena dell’ergastolo con isolamento diurno per anni uno, per il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 I. n. 203 del 1991 e per reati concernenti la violazione delle disposizioni sulle armi.
Quest’ultima condanna – riprende il Collegio – assume esclusivo rilievo nella vicenda in esame, perché ha inflitto la pena dell’ergastolo per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, secondo la formula utilizzata dall’art. 4-bis, comma 1, ord. pen. nel definire, almeno in parte, la categoria di reati cd. ostativi.
Già con l’ordinanza del 14 maggio 2013 il Tribunale rilevò che tale condanna esauriva il tema d’interesse ai fini della richiesta di permesso premio e di accertamento incidentale dell’impossibilità della collaborazione, avendo ritenuto integralmente espiate le pene irrogate con le altre due sentenze di condanna comprese nel cumulo.
Va quindi evidenziato per la Corte che, come si trae dall’ordinanza impugnata, la pena dell’ergastolo è in esecuzione dal 23 novembre 1999 e che X ha ottenuto la liberazione anticipata per complessivi giorni 2655. Secondo quanto previsto dall’art. 54 I. n. 354 del 1975, agli effetti del computo della misura di pena espiata per l’ammissione ai benefici, ivi compresa la liberazione condizionale, si considera scontata la parte di pena detratta per liberazione anticipata, regola questa che si applica anche ai condannati all’ergastolo.
Si rileva pertanto che, al momento della impugnata decisione e quindi al 17 settembre 2019, il ricorrente aveva espiato 19 anni, 9 mesi e 26 giorni di reclusione, con in più, ai fini del computo del periodo di pena espiata, i giorni di liberazione anticipata, e quindi con una complessiva espiazione di oltre ventisette anni di pena detentiva; e che il termine minimo di ventisei anni, imposto dall’art.176 cod. pen. per l’accesso alla liberazione condizionale di un condannato all’ergastolo, era già ampiamente decorso anche alla data di proposizione della richiesta, ossia al 10 marzo 2019.
Dell’altro requisito per la concessione della liberazione condizionale, ossia del sicuro ravvedimento, il Tribunale di sorveglianza non si è ovviamente occupato a causa della preclusione all’esame del merito. La nozione di sicuro ravvedimento – precisa la Corte – è stata messa a fuoco dalla giurisprudenza di legittimità, che ha dato conto della consistente differenza qualitativa dalla ordinaria buona condotta carceraria, statuendo che “implica comportamenti positivi da cui poter desumere l’abbandono delle scelte criminali, tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato” – Sez. 1, n. 486 del 25/09/2015, dep. 2016, Caruso, Rv. 265471 -.
Il ricorrente, come risulta agli atti, ha addotto di aver preso parte in modo proficuo all’opera di rieducazione, di cui si ha conferma dai provvedimenti di liberazione anticipata; di essersi avvalso con profitto delle possibilità di lavoro e di studio offerte dai programmi di trattamento operativi nei vari Istituti di detenzione; di aver conseguito il titolo di agronomo e di essere stato inserito, con risultati positivi, in un progetto agricolo; di aver frequentato assiduamente corsi di studio e di aver partecipato a concorsi letterari con riconoscimento di premi.
Ha poi richiamato i contenuti della relazione di sintesi in cui – secondo quanto prospettato – si dà atto della rivisitazione critica del relativo vissuto e dell’avvenuto riconoscimento degli errori commessi, con parziale ammissione delle proprie responsabilità e con l’espressione della volontà di allontanamento dal contesto mafioso.
Quanto all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, il Tribunale ha richiamato le deduzioni del richiedente, e cioè che è nell’impossibilità di soddisfare quegli obblighi a causa delle precarie condizioni in cui versa. Tale ultimo profilo, che sarebbe da indagare anche alla luce del principio di diritto per il quale in ogni caso rilevano quegli “atti e comportamenti di concreta apertura e disponibilità relazionale verso i parenti delle vittime dei gravi delitti commessi“, pur quando il condannato sia privo di possibilità economiche – Sez. 1, n. 45042 del 11/07/2014, Minichini, Rv. 261269 -, non è stato giocoforza esplorato dal Tribunale. E ciò al pari di quelli interessati dalle prospettazioni difensive appena prima riassunte, per la più volte menzionata preclusione all’esame del merito.
Non può allora – incalza la Corte – negarsi rilevanza alla questione di costituzionalità, perché la dichiarazione di inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale è stata diretta conseguenza dell’applicazione dell’art. 2 d. I. n. 152 del 1991, conv. con modif. con la I. n. 203 del 1991, che ha precluso l’apprezzamento di quanto nel merito dedotto dal ricorrente, che ha già trascorso più di ventisei anni di detenzione carceraria.
Come si dirà oltre, il dubbio di costituzionalità trova causa per la Cassazione nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata ad indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale.
Di tali eventuali altri elementi l’ordinanza impugnata e le prospettazioni del ricorrente non danno però indicazione; in particolare, non viene paventato che la mancata collaborazione sia conseguenza di personali determinazioni del tutto estranee al proposito di mantenere i collegamenti con il gruppo di appartenenza. Ciò non priva di rilevanza la questione, nella misura in cui, ove fosse accolta, il giudice di merito, a cui sarebbe devoluto il giudizio – in forza dell’annullamento dell’ordinanza oggetto del ricorso per cassazione ed emessa in applicazione della norma dichiarata illegittima -, dovrebbe decidere sulla base di una diversa regola, che consentirebbe di verificare le reali ragioni della mancata collaborazione – v. Corte cost., n. 253 del 2019 che ha ricordato che “il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione“.
Oltre che rilevante, la questione è per il Collegio anche non manifestamente infondata.
Nel recente passato la Corte rammenta di essere giunta, per il vero, ad una diversa e opposta conclusione. Ha infatti affermato che il sistema delineato dall’ordinamento penitenziario vigente in materia di accesso ai benefici del detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo per condanne relative a reati contemplati dall’art. 4-bis ord. pen. (cd. ergastolo ostativo) è compatibile con i principi costituzionali e con quelli della conv. Edu , in quanto, in caso di provato ravvedimento, il condannato può essere ammesso alla liberazione condizionale ex art. 176, comma terzo, cod. pen. anche per i menzionati reati, in relazione ai quali la richiesta collaborazione e la perdita di legami con il contesto della criminalità organizzata costituiscono indici legali di tale ravvedimento (La S.C. in motivazione ha precisato che ciò è sufficiente – alla stregua dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte Edu – ad escludere che il condannato sia privato in radice del diritto alla speranza) – Sez. 1, n. 7428 del 17/01/2017, Pesce, Rv. 271399 e, prima, negli stessi termini Sez. 1, n. 27149 del 22/03/2016, Viola, Rv. 271232 -.
La Corte, con le richiamate pronunce, si è uniformata alle indicazioni date anni fa dalla Corte costituzionale, quando dichiarò l’infondatezza di identica questione con l’affermazione che la preclusione conseguente alle disposizioni dell’art. 4-bis I. n. 354 del 1975 non segue automaticamente alla previsione normativa, derivando piuttosto dalla scelta del condannato, che pur possa farlo, di non collaborare; e aggiunse che la censurata disciplina non impedisce in maniera assoluta l’ammissione alla liberazione condizionale, essendo comunque data al condannato “la possibilità di cambiare la propria scelta” – sentenza n. 135 del 2003 -.
Il fatto quindi che il condannato, fuori dei casi di collaborazione impossibile o inesigibile, possa determinarsi, in forza di una propria personale scelta, alla collaborazione fa sì che detta scelta si atteggi a criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere al fine di accertare il sicuro ravvedimento – in tal modo si era espressa la Corte costituzionale con la sentenza n. 273 del 2001, pur essa dichiarativa dell’infondatezza della questione ora in rilievo -.
Disse ancora che il legislatore, non irragionevolmente, aveva attribuito alla collaborazione la valenza di “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata“, condizione necessaria, seppure non sufficiente, per la valutazione dell’assenza di pericolosità sociale e dei risultati del percorso rieducativo e di recupero.
Di qui l’affermazione che l’atteggiamento non collaborativo è nulla più di un “indice legale della persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata e, quindi, della mancanza del sicuro ravvedimento del condannato“, secondo un meccanismo presuntivo vincibile le volte in cui si accerti l’impossibilità o l’inesigibilità della collaborazione non prestata.
Per tale via rammenta il Collegio – nonostante l’inasprimento penitenziario collegato alla stagione dell’emergenza mafiosa dei primi anni novanta del secolo scorso – fu possibile evitare che l’ergastolo ostativo fosse collocato fuori dell’area in cui operano le condizioni che assicurano alla pena perpetua compatibilità costituzionale, in gran parte incentrate proprio sulle possibilità di accesso alla liberazione condizionale che, in forza della legge 25 novembre 1962,n. 1634, fu estesa ai condannati all’ergastolo proprio in attuazione dei principi di umanizzazione delle pene e di rieducazione stabiliti dall’art. 27, comma terzo, cost.
Già con la sentenza n. 264 del 1974, infatti, la Corte costituzionale aveva osservato che era proprio l’istituto della liberazione condizionale a consentire l’effettivo reinserimento sociale anche dell’ergastolano – pur premettendo, in conformità alla cd. teoria polifunzionale della pena, che l’art. 27 cost. non aveva proscritto la pena dell’ergastolo consentendo al legislatore ordinario di valutarne l’indispensabilità come “strumento di intimidazione per individui insensibili a comminatorie molto gravi” o di isolamento di criminali spiccatamente pericolosi.
La risocializzazione del resto, riprende la Corte, non può non riguardare anche i condannati alla pena perpetua: essa qualifica una finalità che l’ordinamento persegue, in conformità all’art. 27, comma terzo, cost., anche per tale categoria di condannati, come anni dopo la Corte costituzionale ammonì, aggiungendo che la recuperabilità sociale di costoro per mezzo della liberazione condizionale aveva segnato una rilevante svolta della legislazione – sentenza n. 274 del 1983, che dichiarò l’illegittimità dell’art. 54 I. n. 354 del 1975, per contrasto con gli articoli 3 e 27 Costituzione, nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere al condannato all’ergastolo la riduzione di pena per liberazione anticipata., ai soli fini del computo della quantità così detratta dalla porzione scontata, richiesta per l’ammissione alla liberazione condizionale.
Ancora successivamente la Corte costituzionale precisò che la “liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo“. Il carattere perpetuo di detta pena, chiarì, non è legato ad una preclusione assoluta dell’ottenimento, a condizione che risulti un sicuro ravvedimento – sentenza n. 161 del 1997, che dichiarò l’illegittimità dell’art. 177, primo comma, ultimo periodo, cod. pen., per l’omessa previsione che il condannato alla pena dell’ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, possa essere nuovamente ammesso al beneficio sempre che ne ricorrano i presupposti.
Questa impostazione dei rapporti tra pena perpetua e liberazione condizionale – riprende la Corte – ha avuto positivo riscontro nella giurisprudenza sovranazionale. La Corte Edu, infatti, ha sempre ammesso la compatibilità convenzionale della pena perpetua, sì come configurata anche nel nostro ordinamento per mezzo di istituti che la rendono sostanzialmente temporanea – in particolare, la liberazione condizionale -, osservando che la Convenzione non proibisce la comminatoria dell’ergastolo per crimini particolarmente gravi, a condizione che siano rispettate le garanzie dell’art. 3, e sia quindi riducibile de iure e de facto, nel senso che deve essere accompagnato da una prospettiva di liberazione e dalla possibilità di un riesame che consenta di verificare se, durante l’esecuzione, si siano ottenuti significativi progressi trattamentali, sì che nessuna ragione possa giustificare seriamente la prosecuzione della detenzione – tra le altre, Corte Edu, sentenza Garagin c. Italia, 2008; sentenza Kafkaris c. Cipro, 2008; sentenza Vinter e altri c. Regno Unito, 2013; sentenza Gurban c. Turchia, 2015; sentenza Murray c. Olanda 2016; sentenza Hutchinson c. Regno Unito, 2017; sentenza Petukhov c. Ucraina, 2019.
L’esistenza, invece, di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la risocializzazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza.
Come la Corte Edu – sentenza Vinter e altri c. Regno Unito, 2013 – ha messo in luce, ribadisce il Collegio, la speranza inerisce strettamente alla persona umana e anche gli individui che si sono resi responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e quindi la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società aderendo al sistema di valori condiviso. Se si impedisse a costoro di coltivare la speranza di un riscatto dall’esperienza criminale che li ha consegnati alla pena perpetua, si finirebbe col negare un aspetto fondamentale della loro umanità, si violerebbe il principio della dignità umana e quindi li si sottoporrebbe ad un trattamento degradante.
In riferimento alla figura dell’ergastolo ostativo, proprio dell’ordinamento italiano, la Corte Edu ha .invece di recente escluso che il giudizio di compatibilità con i principi convenzionali – più volte affermato in riguardo all’ergastolo comune – possa essere ad esso trasposto facendo leva sulla possibilità di accesso alla liberazione condizionale sol che l’interessato scelga la via della collaborazione con la giustizia.
Con la sentenza Viola c. Italia, divenuta definitiva il 7 ottobre 2019 -, dopo aver riconosciuto che la preclusione alla liberazione condizionale di un condannato per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis I. n. 354 del 1975 non consegue automaticamente alla condanna, come è, invece, in altri ordinamenti: cfr., Corte Edu, sentenza Ocalan c. Turchia, 2014 la Corte europea ha individuato il tema centrale nel valutare se le finalità di politica criminale perseguite per mezzo della previsione della necessità della collaborazione (fuori dei, casi, ovviamente, della impossibilità o inesigibilità della stessa) costituisca un sacrificio eccessivo delle prospettive di liberazione del condannato all’ergastolo e della possibilità che questi chieda il riesame della pena.
E a tal proposito – chiosa ancora il Collegio – ha osservato che non può non dubitarsi sia del fatto che il sistema assicuri la libertà della scelta collaborativa che della plausibilità dell’equivalenza normativa tra assenza di collaborazione e pericolosità; e quindi di entrambe le condizioni che potrebbero legittimare un giudizio di compatibilità convenzionale dell’ergastolo ostativo.
Ha quindi aggiunto che la mancanza di collaborazione non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. Ed ha rilevato che non può escludersi che, nonostante la collaborazione con la giustizia, non vi sia dissociazione effettiva dall’ambiente criminale, perché la scelta di collaborare ben può essere soltanto opportunistica, compiuta in vista del conseguimento dei vantaggi che ne derivano.
Se la collaborazione viene intesa come l’unica forma possibile di manifestazione della rottura dei legami criminali – ha proseguito la Corte Edu – si trascura la considerazione di quegli elementi che fanno apprezzare l’acquisizione di progressi trattamentali del condannato all’ergastolo nel relativo percorso di reinserimento sociale e si omette di valutare che la dissociazione dall’ambiente criminale ben può essere altrimenti desunta.
La presunzione assoluta di pericolosità insita nella mancanza di collaborazione è dunque d’ostacolo alla possibilità di riscatto del condannato che, qualunque cosa faccia durante la detenzione carceraria, si trova assoggettato a una pena immutabile e non passibile di controlli, privato di un giudice che possa valutare il relativo percorso di risocializzazione.
La conclusione è stata duplice: l’ergastolo ostativo non può essere definito pena perpetua effettivamente riducibile ai sensi dell’art. 3 della Convenzione; la situazione esaminata rivela “un problema strutturale“, legato alla presunzione assoluta di pericolosità fondata sull’assenza di collaborazione, meritevole di una iniziativa riformatrice in modo che sia garantita la possibilità di un riesame della pena.
Alcune considerazioni della Corte Edu – precisa a questo punto il Collegio – erano state già svolte dalla Corte costituzionale molti anni prima, quando affermò di non poter non convenire con i giudici remittenti sull’assunto che “la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione“; e riconobbe che “dalla mancata collaborazione non può trarsi una valida presunzione di segno contrario, e cioè che essa sia indice univoco di mantenimento dei legami di solidarietà con l’organizzazione criminale: tanto più, quando l’esistenza di collegamenti con quest’ultima sia stata altrimenti esclusa” – sentenza n. 306 del 1993 -.
Ben più di recente, rammenta ancora il Collegio, la Corte costituzionale è ritornata sul tema. Con la sentenza n. 253 del 2019 – prima richiamata: v. par. 9 – la Corte ha confermato, sì come evidenziato dalla Corte Edu, il carattere assoluto della presunzione di mantenimento dei collegamenti con l’organizzazione criminale del detenuto che non collabori e, in ragione di tale carattere, ha ritenuto l’esistenza di un contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione dell’art. 4-bis I. n. 354 del 1975, nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo ostativo, che non abbia collaborato, possa essere ammesso alla fruizione dei permessi premio.
Le argomentazioni contenute in detta sentenza, benché essa abbia avuto ad oggetto soltanto – negli stretti limiti della devoluzione – il tema della concedibilità dei permessi premio e non di altri benefici, costituiscono, unitamente alla sentenza Viola c. Italia della Corte Edu, un importante banco di prova su cui verificare se possa ancora dirsi valido il pregresso orientamento della Corte di cassazione, in esordio citato, che ha ritenuto manifestamente infondata la questione ora in rilievo.
Ha affermato la Corte costituzionale – prosegue il Collegio – che l’assenza di collaborazione con la giustizia non può risolversi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena. Contrasta infatti con gli articoli 3 e 27, comma terzo, cost. il collegamento della preclusione alla mancata partecipazione attiva alle finalità di politica criminale e investigativa dello Stato. Esse, plasmando la disciplina di cui all’art. 4- bis I. n. 354 del 1975, hanno trasfigurato in maniera deformata la libertà di non collaborare, che non può essere disconosciuta ad alcun detenuto.
Altra ragione di contrasto con l’art. 27, comma 3, cost. è diretta conseguenza della inevitabilità, in assenza del requisito della collaborazione, della dichiarazione dell’inammissibilità delle richieste di benefici – e, può aggiungersi, per quel che ora interessa, della liberazione condizionale – senza alcuna possibilità per la magistratura di sorveglianza di procedere ad una valutazione del merito delle richieste.
A tal proposito occorre rammentare per la Corte che il sicuro ravvedimento, al di là di come si voglia inquadrare dommaticamente l’istituto della liberazione condizionale, oggetto dell’accertamento giudiziale, rimanda al riscontro in concreto di importanti traguardi trattamentali, tali da consentire “il motivato apprezzamento della convinta revisione critica delle scelte criminali di vita anteatta e la formulazione – in termini di certezza, ovvero di elevata e qualificata probabilità confinante con la certezza – di un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita del condannato al quadro di riferimento ordinamentale e sociale…” – Sez. 1, n. 18022 del 24/04/2007, P.G. in proc. Balzerani, Rv. 237365; Sez. 1, n. 9001 del 04/02/2009, P.G. in proc. Mambro, Rv. 243419; Sez. 1, n. 34946 del 17/07/2012, Somma, Rv. 253183 -.
V’è poi il profilo della incompatibilità della presunzione assoluta di permanenza dei legami criminali con una caratteristica propria della fase esecutiva, ossia col fatto che il trascorrere del tempo, durante la lunga detenzione, ben può determinare trasformazioni rilevanti sia della personalità del soggetto ristretto che del contesto esterno al carcere.
In riferimento, dunque, alla espiazione della pena, specie se di lunga durata, presunzioni di tal fatta non possono che essere relative, dovendo sempre ammettersi la possibilità di una valutazione in concreto dell’incidenza avuta dal trattamento penitenziario sulla personalità del detenuto, proprio in conformità alle previsioni di cui all’art. 27, comma 3, cost.
Le evoluzioni della giurisprudenza costituzionale e la posizione della Corte Edu sull’ergastolo ostativo inducono dunque il Collegio a ritenere non manifestamente infondata la questione di costituzionalità della normativa, perché si sostanzia in una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento.
Le finalità di politica criminale e di difesa sociale, sottese alla presunzione assoluta di mantenimento dei collegamenti con il gruppo di appartenenza, collidono – in misura che non pare tollerabile – con la finalità rieducativa che, come pacificamente riconosciuto – v. Corte cost., sentenza n. 313 del 1990 -, è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue“.
Perplessità sulla tenuta costituzionale dell’impianto normativo furono manifestate tempo addietro dalla Corte costituzionale, quando riconobbe che la soluzione normativa di inibire l’accesso alle misure alternative alla detenzione per i condannati per determinati gravi reati – di cui pure non dichiarò l’illegittimità – aveva causato “una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena“, in dissonanza dai principi di proporzione e di individualizzazione della pena lungo una preoccupante direttrice di “configurazione normativa di tipi di autore, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita” – sentenza n. 306 del 1993.
Quelle perplessità – riprende la Corte – ricevono nuovo vigore dalla pronuncia della Corte Edu nel caso Viola c. Italia, che ha rilevato la necessità, dato il carattere strutturale del problema, di una riforma, ponendo quindi il tema della compatibilità della normativa interna con la Convenzione, sì come interpretata dalla Corte Edu, alla luce del parametro costituzionale dell’art. 117.
Essa, e non è particolare trascurabile per il Collegio, ha preso in esame una vicenda pienamente sovrapponibile a quella oggetto del procedimento che il Collegio medesimo è ora chiamato a scandagliare. In quell’occasione il ricorrente, condannato alla pena dell’ergastolo anche per il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 7 d. I. n. 152 del 1991, aveva chiesto più volte di fruire di permessi premio, ma le richieste erano state respinte per assenza del requisito della collaborazione; aveva anche chiesto di essere ammesso alla liberazione condizionale, adducendo numerosi e consistenti progressi trattamentali e il riconoscimento della liberazione anticipata per ben 1600 giorni al momento della domanda, ma il Tribunale di sorveglianza aveva opposto, come elemento impeditivo, l’assenza di collaborazione con la giustizia.
Le perplessità sono ulteriormente rafforzate dalla considerazione della decisione n. 253 del 2019 con cui la Corte costituzionale ha fatto cadere la preclusione alla concessione dei permessi premio per difetto di collaborazione con la giustizia.
Oltre a quanto già ricordato, va in conclusione evidenziato che il superamento della presunzione assoluta – di collegamento con gli ambienti criminali di appartenenza – in vista della decisione su un primo stadio della progressività trattamentale, vedrebbe scemato gran parte del proprio significato sistematico se per le ulteriori tappe del percorso di risocializzazione dovesse invece valere ancora la preclusione ad una considerazione individualizzata del comportamento e della personalità del condannato.
É dunque – conclude il Collegio – rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 2, e 58-ter della legge n, 354 del 1975, e dell’art. 2 d. I. n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.
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17 novembre esce la sentenza della II sezione della Corte europea dei diritti umani (Pres. Kjølbro – Süleyman c. Turchia), attraverso la quale viene dichiarata la violazione dell’art. 6, parr. 1 e 3, Cedu, in un caso in cui al ricorrente non sono state assicurate garanzie adeguate e commisurate alla natura del crimine di cui era accusato (omicidio) e della pena (ergastolo) a cui poteva andare incontro.
Più nel dettaglio, l’equità processuale è stata violata nella misura in cui non è stato consentito alla difesa di svolgere una verifica sufficiente circa l’attendibilità e la credibilità delle dichiarazioni rese dal testimone chiave, le quali hanno costituito prova decisiva ai fini della condanna.
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Il 3 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.260 in tema di esclusione del rito abbreviato per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo, che dichiara non manifestamente irragionevole tale scelta legislativa.
Le tre ordinanze di rimessione – rammenta in incipit la Corte – sollevano questioni analoghe, e i relativi giudizi meritano pertanto di essere riuniti ai fini della decisione. Prima di esaminare le pertinenti questioni, conviene per il Collegio rammentare sinteticamente le vicende storiche che hanno condotto, dall’emanazione del vigente codice di procedura penale in poi, alla disciplina oggi censurata.
Nella relativa versione originaria, l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. prevedeva espressamente la sostituzione della pena dell’ergastolo, all’esito del giudizio abbreviato, con quella della reclusione di anni 30; dando così per presupposta l’ammissibilità del rito anche per i reati puniti con tale pena.
La Commissione redigente del progetto preliminare, dopo ampia discussione, aveva infatti ritenuto di proporre tale soluzione (poi accolta dal Governo), nonostante il silenzio serbato sul punto dalla legge delega, al fine di «consentire il maggiore spazio possibile al giudizio abbreviato, tenuto conto del fatto che esso è richiesto dall’imputato, il quale – nella logica del processo accusatorio – può anche rinunziare alla garanzia rappresentata dalla partecipazione popolare nei giudizi di Corte di assise» (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni); e aveva conseguentemente ritenuto di determinare nella misura fissa di 30 anni di reclusione la pena conseguente alla scelta del rito per il caso di condanna, non potendo applicarsi, rispetto alla pena perpetua, il criterio indicato dalla stessa legge delega della diminuzione di un terzo della pena.
Con la sentenza n. 176 del 1991, tuttavia, questa Corte dichiarò illegittimo l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevedeva che «[a]lla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta» per violazione dell’art. 76 Cost., dal momento che la legge delega prevedeva unicamente, per il giudizio abbreviato, il criterio della diminuzione di un terzo della pena, evidentemente inapplicabile ai reati puniti con l’ergastolo. Il venir meno di tale disposizione, dichiarata incostituzionale, non poté che determinare – secondo quanto espressamente affermato dalla sentenza n. 176 del 1991 – l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai «processi concernenti delitti punibili con l’ergastolo».
Risolvendo le incertezze interpretative emerse nella prassi all’indomani di tale pronuncia, le sezioni unite della Corte di cassazione affermarono che l’inammissibilità del giudizio abbreviato conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dovesse valere in ogni caso in cui l’imputazione enucleata nella richiesta di rinvio a giudizio concernesse un reato «punibile» con l’ergastolo, anche laddove il giudice ritenesse – in ragione della sussistenza di circostanze attenuanti – doversi in concreto applicare una pena diversa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 6 marzo 1992, n. 2977).
Poco dopo, con l’ordinanza n. 163 del 1992, la Corte dichiarò manifestamente inammissibili le questioni poste da due ordinanze di rimessione, che si dolevano appunto della mancata possibilità di definire il giudizio con rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo, conseguente alla sentenza n. 176 del 1991. La Corte ritenne, in particolare, che l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con l’ergastolo non fosse di per sé irragionevole, né determinasse ingiustificate disparità di trattamento rispetto ad altri reati.
L’art. 30 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), la cosiddetta “legge Carotti”, rammenta la Corte, ripristinò – nel contesto di una più generale modifica dei tratti strutturali del giudizio abbreviato – la possibilità di accesso a tale rito per i delitti puniti con l’ergastolo, aggiungendo un secondo periodo al comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., con cui reiterava l’originaria soluzione dei compilatori del codice, prevedendo che «[a]lla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta».
Il di poco successivo art. 7 del decreto-legge 23 novembre 2000, n. 341 (Interpretazione autentica dell’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei processi per reati puniti con l’ergastolo), convertito, con modificazioni, nella legge 10 gennaio 2001, n. 4, stabilì quindi che «[n]ell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno», aggiungendo poi allo stesso art. 442, comma 2, cod. proc. pen. un terzo periodo, dal seguente tenore letterale: «[a]lla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
In seguito a tali novelle, dunque, il giudizio abbreviato tornò ad operare anche per i reati punibili con la pena dell’ergastolo, dando luogo – in caso di condanna – alle pene previste dall’art. 442, comma 2, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen., in sostituzione, rispettivamente, dell’ergastolo senza isolamento diurno e dell’ergastolo con isolamento diurno.
La legge n. 33 del 2019, le cui disposizioni – rammenta la Corte – sono ora oggetto di censura, ha nuovamente previsto l’inapplicabilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo.
In particolare, l’art. 1, comma 1, lettera a), di tale legge ha introdotto il comma 1-bis dell’art. 438 cod. proc. pen., censurato da tutte le ordinanze di rimessione, il quale espressamente stabilisce che «[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo».
L’art. 3 della legge n. 33 del 2019, censurato dal GUP del Tribunale di Piacenza, ha parallelamente abrogato il secondo e il terzo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., introdotti rispettivamente dalla legge Carotti e dal d.l. n. 341 del 2000, come convertito, eliminando così le pene eventualmente applicabili in luogo dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno) in esito al giudizio abbreviato.
Infine, l’art. 5 della legge n. 33 del 2019, censurato dal GUP del Tribunale della Spezia, stabilisce che le nuove disposizioni «si applicano ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore» della legge medesima.
Debbono a questo punto per la Corte essere vagliate le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
Anzitutto, le questioni sollevate dal GUP del Tribunale della Spezia sull’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. sarebbero irrilevanti, dal momento che il rimettente – facendo retta applicazione dell’art. 5 della legge n. 33 del 2019 – avrebbe dovuto applicare nel procedimento a quo la disciplina previgente, e ammettere pertanto l’imputato al giudizio abbreviato.
L’eccezione per il Collegio è fondata.
Il rimettente si confronta invero estesamente con il menzionato art. 5, concludendo che l’espressione «fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore» della legge n. 33 del 2019 non possa che riferirsi ai reati consumatisi dopo tale data, anche allorché la condotta costitutiva del reato sia stata posta in essere prima di tale data, ma l’evento si sia verificato in epoca successiva. Nel caso di specie, il tempus commissi delicti dovrebbe a relativo avviso essere identificato nel momento della morte della vittima, avvenuta il 28 maggio 2019, e dunque successivamente alla data di entrata in vigore della legge (20 aprile 2019); a nulla rilevando che la condotta costitutiva del reato sia stata compiuta in una data anteriore (il 20 marzo 2019).
Il rimettente è, altresì, consapevole che una recente pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione ha identificato il tempus commissi delicti – con riferimento ai reati “a evento differito” – nel momento della condotta, e non in quello successivo dell’evento, ai fini della individuazione della legge applicabile nelle ipotesi di successioni di leggi penali (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 luglio 2018, n. 40986); ma ritiene che tale principio valga unicamente nell’ambito del diritto penale sostanziale, e non in materia processuale, dove vige invece l’opposto principio tempus regit actum.
A giudizio della Corte, la valutazione di rilevanza delle questioni compiuta dal giudice a quo riposa però su di un erroneo presupposto interpretativo.
Se è vero, infatti, che in materia di successione di leggi processuali vige in via generale il principio tempus regit actum – in forza del quale ciascun “atto” processuale è regolato dalla legge in vigore al momento dell’atto, e non da quella in vigore al momento in cui è stato commesso il fatto di reato per cui si procede –, è evidente che la legge n. 33 del 2019 ha inteso derogare a tale principio generale, dettando una disciplina transitoria di carattere speciale che confina espressamente l’applicabilità della preclusione del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo ai soli procedimenti concernenti fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge.
La ratio di questa disciplina transitoria – prosegue la Corte – è, d’altra parte, altrettanto evidente. Il legislatore era, in effetti, ben consapevole che una disciplina siffatta, pur incidendo su disposizioni collocate nel codice di procedura penale concernenti il rito, ha un’immediata ricaduta sulla tipologia e sulla durata delle pene applicabili in caso di condanna, e non può pertanto che soggiacere ai principi di garanzia che vigono in materia di diritto penale sostanziale, tra cui segnatamente il divieto di applicare una pena più grave di quella prevista al momento del fatto, affermato tanto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con specifico riferimento alla disciplina del giudizio abbreviato in relazione ai reati puniti con l’ergastolo (Corte EDU, grande camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, n. 2), quanto dalla Consulta, con riferimento a tutte le norme processuali o penitenziarie che incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato (sentenza n. 32 del 2020).
L’art. 5 della legge n. 33 del 2019 si limita, invero, a escludere l’applicazione della nuova disciplina «ai fatti commessi» – recte: ai «procedimenti concernenti i fatti commessi» – prima dell’entrata in vigore della legge stessa, senza chiarire espressamente quale sia il criterio per stabilire quando il fatto si debba considerare “commesso”: quesito praticamente rilevante nelle ipotesi di reati cosiddetti “a evento differito”, caratterizzati da uno iato temporale tra il momento di commissione della condotta e quello di verificazione dell’evento.
La determinazione del tempus commissi delicti in simili ipotesi – riprende la Corte – è dunque affidata dal legislatore all’interprete, il quale è chiamato peraltro a ricostruire il significato della disposizione in conformità alla sua ratio di garanzia, nei termini appena segnalati.
Sgomberato allora il campo da ogni improprio riferimento al principio tempus regit actum – al quale, per l’appunto, il legislatore ha inteso derogare –, occorre chiedersi se sia maggiormente conforme alla ratio di garanzia perseguita dalla disposizione identificare tale tempus nel momento della condotta, ovvero in quello successivo della verificazione dell’evento costitutivo del reato.
La risposta non è dubbia: se una delle rationes fondamentali del divieto di applicazione retroattiva di leggi penali che inaspriscano il trattamento sanzionatorio è quella di assicurare che il consociato sia destinatario di un chiaro avvertimento circa le possibili conseguenze penali della propria condotta, sì da preservarlo da «un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie» (sentenza n. 230 del 2012; ma si veda anche, in senso conforme, già la sentenza n. 394 del 2006), una tale funzione non può per il Collegio che essere riferita – appunto – al momento del compimento della condotta, e cioè al momento nel quale la norma esplica la sua capacità deterrente.
Precisamente per tale essenziale ragione, del resto, la citata pronuncia n. 40986 del 2018 delle sezioni unite della Corte di cassazione, in esito a un percorso argomentativo particolarmente approfondito, ha fissato il principio che «[i]n tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta». Principio, quest’ultimo, che deve senz’altro essere assunto a criterio interpretativo anche della disposizione transitoria ora all’esame.
Da ciò consegue che il giudice a quo avrebbe dovuto considerare applicabile all’imputato la disciplina processuale vigente al momento della condotta, e ammetterlo pertanto al giudizio abbreviato da lui richiesto; con la conseguente irrilevanza delle questioni da lui prospettate sull’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., nonché – come si dirà più innanzi – la non fondatezza della questione sollevata sull’art. 5 della legge n. 33 del 2019.
L’Avvocatura generale dello Stato – prosegue a questo punto la Corte – ha poi eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal GUP del Tribunale di Piacenza in ragione, essenzialmente, della discrezionalità del legislatore nella configurazione delle preclusioni all’accesso ai riti abbreviati.
L’eccezione non può essere accolta, attenendo – all’evidenza – al merito delle questioni sollevate.
Venendo appunto al merito, tanto la Corte di assise di Napoli, quanto il GUP del Tribunale di Piacenza – chiosa ancora il Collegio – sollevano anzitutto questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. e – limitatamente al secondo rimettente – dell’art. 3 della legge n. 33 del 2019 in riferimento all’art. 3 Cost.
Le questioni non sono tuttavia per la Corte fondate.
Secondo i giudici a quibus, la preclusione al giudizio abbreviato per gli imputati di delitti puniti con la pena dell’ergastolo produrrebbe da un lato irragionevoli equiparazioni sanzionatorie tra fatti aventi disvalore differente, e dall’altro irragionevoli disparità di trattamento sanzionatorio tra fatti aventi disvalore omogeneo.
Sotto il primo profilo, i rimettenti osservano come, nel novero stesso delle figure di omicidio doloso aggravato, la previsione astratta della pena dell’ergastolo accomuni fatti di gravità diversa, come, da un lato, omicidi commessi nell’ambito dell’attività di grandi organizzazioni criminali e, dall’altro, omicidi non premeditati commessi in un momentaneo accesso d’ira contro congiunti, come sarebbe accaduto nei casi oggetto dei procedimenti a quibus.
L’esame dell’elenco dei delitti puniti con l’ergastolo previsti dal vigente codice penale evidenzierebbe, inoltre, il loro disvalore assai eterogeneo, che renderebbe irragionevole l’esclusione a priori dalla possibilità di accedere al giudizio abbreviato per i relativi imputati.
Sotto il secondo profilo, la preclusione in esame produrrebbe irragionevoli disparità di trattamento, esemplificate dal confronto tra le ipotesi punite con l’ergastolo riconducibili al primo comma dell’art. 577 cod. pen., che comprendono oggi l’omicidio del coniuge anche legalmente separato (per cui è precluso il giudizio abbreviato, con conseguente impossibilità di beneficiare della riduzione di pena in caso di condanna), e quelle di cui al secondo comma, punite con la pena da ventiquattro a trent’anni di reclusione, che comprendono l’omicidio del coniuge divorziato (ipotesi per la quale è il giudizio abbreviato è invece ammissibile, con correlativa possibilità di ottenere il relativo sconto di pena in caso di condanna).
Sarebbe, altresì, irragionevole la disparità di trattamento creata dalla disposizione censurata tra l’imputato di omicidio nei cui confronti, in esito al giudizio ordinario, l’aggravante contestata venga esclusa – il novellato art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. prevedendo che la corte di assise applichi la riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, ingiustamente negatogli –, e l’imputato di omicidio nei cui confronti venga bensì riconosciuta la sussistenza in fatto della circostanza aggravante che determina l’astratta applicabilità dell’ergastolo, ma tale circostanza venga “elisa” ai fini sanzionatori da una o più circostanze attenuanti presenti nel caso di specie – ipotesi nella quale l’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. non parrebbe consentire, quantomeno secondo l’implicita ricostruzione dei rimettenti, il “recupero” della pena connesso al rito.
Le ordinanze di rimessione lamentano, altresì, l’intrinseca irragionevolezza della disciplina, sotto il profilo dell’asserita illogicità della scelta di far conseguire alla mera contestazione di un determinato titolo di reato effetti preclusivi della scelta del rito, dolendosi altresì di quella che appare ai medesimi l’unica reale finalità perseguita dal legislatore, rappresentata dall’inasprimento della reazione sanzionatoria contro gli autori dei reati abbracciati dalla preclusione, e segnatamente degli omicidi aggravati – profilo, quest’ultimo, sul quale si sofferma ampiamente anche, quale amicus curiae, l’Unione camere penali italiane, nella propria opinione scritta.
Prima di esaminare il merito di queste doglianze, precisa a questo punto la Corte, conviene ad essa rammentare di essersi già pronunciata, con l’ordinanza n. 163 del 1992, sulla preclusione del giudizio abbreviato per gli imputati di delitti punibili con l’ergastolo, rilevando che tale disciplina – conseguente alla precedente sentenza n. 176 del 1991, e rimasta in vigore sino alla legge n. 479 del 1999 (supra, punti 5.1. e 5.2.) – «non è in sé irragionevole, né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee».
In successive pronunce, la Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale delle preclusioni di natura oggettiva, fondate sul titolo astratto del reato, poste dal legislatore all’accesso ad altri riti speciali ad effetto premiale.
In particolare, l’ordinanza n. 455 del 2006 ha affermato, con riferimento alla legittimità costituzionale delle preclusioni al cosiddetto patteggiamento allargato, che «l’individuazione delle fattispecie criminose da assoggettare al trattamento più rigoroso – proprio in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all’allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale – resta affidata alla discrezionalità del legislatore; e le relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto alle eventuali disarmonie del catalogo legislativo, allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione».
La medesima ordinanza n. 455 del 2006 – rammenta ancora il Collegio – ha d’altra parte sottolineato che «l’ordinamento annovera un’ampia gamma di ipotesi nelle quali, per ragioni di politica criminale, il legislatore connette al titolo del reato – e non (o non soltanto) al livello della pena edittale – l’applicabilità di un trattamento sostanziale o processuale più rigoroso», formulando poi un lungo elenco di esempi a supporto di tale affermazione, e insistendo sul principio (anche di recente ribadito nella sentenza n. 95 del 2015) secondo cui la discrezionalità legislativa è soggetta, rispetto a tali scelte, al solo limite della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrarietà.
Rispetto alle questioni ora all’esame, la Corte si sente dunque sollecitata a valutare se rimeditare (anche alla luce delle modificazioni strutturali subite nel frattempo dal giudizio abbreviato) il proprio specifico precedente in termini, rappresentato dalla menzionata ordinanza n. 163 del 1992, concludendo che la scelta legislativa di ancorare la preclusione del giudizio abbreviato alla contestazione di un delitto punito con l’ergastolo risulti manifestamente irragionevole, o addirittura arbitraria.
Pur avendo attentamente vagliato i molti argomenti offerti dalle ordinanze di rimessione, dalle parti costituite e dall’amicus curiae, anche nelle discussioni svolte in udienza, la Corte non ritiene tuttavia di dover pervenire a tale conclusione.
Quanto anzitutto alle irragionevoli equiparazioni che sarebbero prodotte dalla disciplina censurata, i giudici a quibus e le parti si dolgono a ben vedere della previsione dell’unica e indifferenziata pena dell’ergastolo a fatti dei quali assumono il differente disvalore (le diverse ipotesi di omicidio aggravato, o i diversi delitti puniti con l’ergastolo): la preclusione dell’accesso al giudizio abbreviato – e la conseguente impossibilità di operare il relativo sconto di pena, in caso di condanna – costituisce, in effetti, null’altro che il riflesso processuale della previsione edittale della pena dell’ergastolo per quelle ipotesi criminose.
Ma, se così è, le questioni di legittimità costituzionale avrebbero dovuto rivolgersi propriamente nei confronti della previsione, da parte del legislatore, della pena detentiva perpetua per i reati contestati nei procedimenti a quibus – l’omicidio a danno dell’ascendente, in un caso, e l’omicidio del coniuge non divorziato, nell’altro –, giacché è proprio da tale previsione che deriva l’asserita diseguaglianza di trattamento sanzionatorio rispetto a fatti che si assumono più gravi (come, per riprendere un esempio formulato nelle ordinanze di rimessione, un omicidio perpetrato nell’ambito delle attività di un’organizzazione criminale).
Nessuno dei rimettenti contesta, però, la ragionevolezza della scelta legislativa di comminare l’ergastolo per i titoli di reato per i quali sta procedendo.
Di talché resta da chiedersi se – rispetto a fatti tutti assunti come legittimamente punibili con la medesima pena dell’ergastolo – possa ritenersi produttiva di irragionevoli equiparazioni di trattamento una disciplina processuale che precluda, in via generale, l’accesso al giudizio abbreviato a tutti indistintamente gli imputati di tali reati.
La risposta non può, ad avviso di questa Corte, che essere negativa: la comminatoria edittale dell’ergastolo – che è pena anche qualitativamente diversa dalla reclusione, in ragione del relativo carattere potenzialmente perpetuo, come evidenzia non a caso l’autonoma considerazione della stessa nell’elenco delle pene principali di cui all’art. 17 cod. pen. – segnala infatti un giudizio di speciale disvalore della figura astratta del reato che il legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che non è qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare; speciale disvalore che sta per l’appunto alla base della scelta del legislatore del 2019 di precludere l’accesso al giudizio abbreviato a tutti gli imputati di tali delitti.
Una tale scelta non può certo essere qualificata né in termini di manifesta irragionevolezza, né di arbitrarietà; e si sottrae pertanto, sotto lo specifico profilo qui esaminato, alle censure dei rimettenti.
Quanto alle censure che lamentano irragionevoli disparità di trattamento create dalla disciplina in esame, priva di pregio per la Corte appare anzitutto – per ragioni analoghe a quelle appena esposte – la doglianza relativa al diverso trattamento dell’omicidio del coniuge in costanza di matrimonio e di quello a danno del coniuge divorziato.
La disparità di trattamento deriva, in realtà, direttamente dalla scelta legislativa – in questa sede non censurata – che si situa “a monte” della disciplina del giudizio abbreviato, e cioè dalla scelta di prevedere la pena dell’ergastolo soltanto per la prima ipotesi (ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1, cod. pen.), e non per la seconda (per la quale l’art. 577, secondo comma, cod. pen. prevede invece una pena detentiva temporanea). Di talché la presenza o l’assenza di preclusioni al giudizio abbreviato nelle due ipotesi costituisce una mera conseguenza accessoria, certo non stigmatizzabile in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, della diversa comminatoria edittale per le due ipotesi, che non è in questa sede in discussione.
Quanto poi all’allegata disparità di trattamento che si creerebbe tra l’ipotesi in cui, in esito al dibattimento, dovesse essere riconosciuta l’insussistenza dell’aggravante dalla quale dipende la preclusione al giudizio abbreviato, e l’ipotesi in cui tale aggravante fosse bensì ritenuta sussistente ma “elisa”, in forza dell’art. 69 cod. pen., da una o più circostanze attenuanti equivalenti o prevalenti, occorre rilevare che tale situazione è comune alla generalità delle ipotesi in cui la legge penale, sostanziale o processuale, subordina l’applicazione di un dato istituto (ad esempio, le misure cautelari, l’intercettazione di comunicazioni, ma anche – sul piano del diritto sostanziale – la non punibilità per particolare tenuità del fatto) alla condizione che sia prevista una determinata pena massima per il reato per cui si procede.
In base alla regola generale di cui all’art. 4 cod. proc. pen., spesso mutuata nella sostanza anche dalle norme del codice penale, ai fini della determinazione di tale pena massima si tiene conto delle sole circostanze aggravanti a effetto speciale, ma non delle circostanze attenuanti che possano egualmente concorrere nel caso concreto; senza, comunque, che venga mai richiesto all’autorità di volta in volta procedente di effettuare il bilanciamento ex art. 69 cod. pen. tra tali aggravanti e le eventuali attenuanti (bilanciamento che altra regola di sistema riserva esclusivamente al giudice, in esito al giudizio).
La regola generale in parola, prosegue la Corte, seguita anche dall’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. in questa sede censurato, ha, d’altronde, una solida ragionevolezza: il legislatore fa dipendere la scelta relativa all’applicazione o non applicazione di un dato istituto – qui, il giudizio abbreviato – dalla sussistenza di una circostanza aggravante che, comminando una pena distinta da quella prevista per la fattispecie base – nel nostro caso, la pena dell’ergastolo anziché quella della reclusione –, esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna.
Non sono pertanto utilmente comparabili, ai fini del giudizio relativo alla disparità di trattamento lamentata dai rimettenti, la situazione di chi sia accusato di avere compiuto un omicidio aggravato punibile con l’ergastolo in presenza di circostanze attenuanti che potrebbero essere considerate – in esito al futuro giudizio – equivalenti o prevalenti rispetto all’aggravante, e quella di chi sia invece accusato di avere compiuto un omicidio non aggravato.
Solo il primo imputato è infatti accusato – chiosa ancora il Collegio – di avere posto in essere un reato che raggiunge la soglia di gravità che il legislatore considera astrattamente incompatibile con il giudizio abbreviato. Di talché appare logico che soltanto laddove, in esito al dibattimento, risulti in concreto non sussistente quell’aggravante, la cui inesatta contestazione abbia precluso all’imputato l’accesso al giudizio abbreviato, egli debba poter “recuperare” lo sconto di pena connesso al rito medesimo ai sensi dell’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen.; e che tale “recupero” non possa operare, invece, nei confronti di chi risulti effettivamente avere compiuto l’omicidio aggravato che gli era stato contestato, sia pure in presenza di circostanze attenuanti, che ben potranno essere valorizzate dal giudice del dibattimento in sede di commisurazione della pena.
Quanto, infine, agli eterogenei profili di allegata irragionevolezza intrinseca lamentati dai rimettenti, dalle parti e dallo stesso amicus curiae, neppur essi per la Corte appaiono meritevoli di accoglimento.
Come già osservato, non manifestamente irragionevole, né arbitraria, appare la scelta legislativa di ancorare la preclusione del rito alla pena edittale prevista per il reato per il quale si procede. Un simile ancoraggio si ritrova del resto in una quantità di istituti di diritto penale sostanziale o processuale (dalla prescrizione alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero – in materia processuale – dalle misure cautelari alle intercettazioni di comunicazioni); e la relativa manifesta irragionevolezza o arbitrarietà deve qui tanto più escludersi, in quanto la comminatoria che determina la preclusione è quella della pena più grave prevista nel nostro ordinamento, che segnala – come parimenti si è osservato – una valutazione di massimo disvalore del reato per il quale si procede.
Né la manifesta irragionevolezza o l’arbitrarietà della scelta legislativa potrebbero dedursi dall’esame delle finalità perseguite dal legislatore.
Non v’è dubbio – come, segnala la Corte, i rimettenti, le parti e l’amicus curiae concordemente sottolineano – che una delle finalità ispiratrici della proposta di legge C. 392 del 27 marzo 2018 fosse quella di conseguire un generale inasprimento delle pene concretamente inflitte per reati punibili con l’ergastolo, precludendo la possibilità per i relativi imputati di accedere al giudizio abbreviato e al conseguente sconto di pena; ma la parallela proposta di legge C. 460 del 3 aprile 2018, poi assorbita nella prima, menzionava altresì, tra le finalità della proposta, l’opportunità che rispetto ai reati più gravi previsti dall’ordinamento fosse celebrato un processo pubblico innanzi alla corte di assise e non a un giudice monocratico, «con le piene garanzie sia per l’imputato, sia per le vittime, di partecipare all’accertamento della verità».
Tutte queste finalità possono essere o meno condivise; ma né le finalità in sé, né i mezzi individuati dal legislatore per raggiungerle, appaiono alla Corte connotabili in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà.
Piuttosto, si deve ritenere che una disciplina mirante a imporre in ogni caso, per i delitti più gravi previsti dall’ordinamento, lo svolgimento di un processo pubblico avanti una corte a composizione mista – nella quale tra l’altro si invera la previsione costituzionale della «partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia» (art. 102, terzo comma, Cost.) – rientri nel novero delle scelte discrezionali del legislatore, rispetto alle quali non è consentito a questa Corte sovrapporre la propria autonoma valutazione.
La considerazione che precede vale anche con riferimento alle ipotesiin cui l’imputato abbia reso piena confessione durante le indagini, e i fatti risultino già compiutamente accertati. Ritiene infatti la Corte che anche con riferimento a una tale situazione non possa qualificarsi in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà la scelta legislativa – magari discutibile sotto vari profili, e certo foriera di aggravi processuali – di prevedere comunque la celebrazione di un pubblico dibattimento, nel quale trova piena garanzia il “diritto di difendersi provando”, per accertare il fatto e ascrivere le relative responsabilità, nell’interesse dell’intera collettività e delle stesse vittime del reato.
Vittime tra le quali – ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1 della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI – deve annoverarsi anche il «familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona», al quale l’art. 10 della medesima direttiva garantisce, in linea di principio, il diritto di essere «sentit[o] nel corso del procedimento penale» e di «fornire elementi di prova», in conformità alle norme «stabilite dal diritto nazionale».
Quanto alla finalità, che la riforma avrebbe in realtà perseguito, di aumentare il numero di condanne all’ergastolo per gli autori di omicidi, ancorché rei confessi, occorre d’altra parte considerare che non necessariamente al dibattimento deve conseguire, in caso di condanna, l’applicazione della pena dell’ergastolo, la corte di assise avendo sempre la possibilità di riconoscere eventuali circostanze attenuanti che comportino l’applicazione di pene detentive temporanee, tra cui le circostanze attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.), le quali ben potrebbero fondarsi anche sulla condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato, comprensiva del suo contegno processuale.
La Corte di assise di Napoli dubita poi, prosegue la Corte, della legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. sotto il profilo della relativa compatibilità con il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., in sé considerato e in relazione agli artt. 2, 3 e 27, secondo comma, Cost.
Nemmeno tali censure tuttavia, per la Corte, sono da assumersi fondate.
La Corte rimettente – precisa il Collegio – ritiene anzitutto che la disciplina censurata, precludendo a taluni imputati l’accesso al giudizio abbreviato, vulneri il loro diritto costituzionale di difesa, di cui sarebbe parte integrante la possibilità di definire il giudizio mediante i riti alternativi previsti dall’ordinamento.
In secondo luogo, tale disciplina costringerebbe anche l’imputato, che pure è presunto innocente ai sensi dell’art. 27, secondo comma, Cost., il quale intenda rinunciare alla garanzia della pubblicità del giudizio, ad affrontare il dibattimento in pubblica udienza, con conseguente pregiudizio ai suoi diritti inviolabili alla dignità e alla riservatezza, riconducibili allo spettro di tutela degli artt. 2 e 3 Cost.
Circa il primo profilo, occorre anzitutto rammentare per la Corte la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui è ben vero che «la facoltà di chiedere i riti alternativi – quando è riconosciuta – costituisce una modalità, tra le più qualificanti ed incisive (sentenze n. 237 del 2012 e n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 219 del 2004). Ma è altrettanto vero che la negazione legislativa di tale facoltà in rapporto ad una determinata categoria di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto» (sentenza n. 95 del 2015).
L’accesso ai riti alternativi costituisce, dunque, parte integrante del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. soltanto in quanto il legislatore abbia previsto la loro esperibilità in presenza di certe condizioni; di talché esso deve essere garantito – o quanto meno deve essere garantito il recupero dei vantaggi sul piano sanzionatorio che l’accesso tempestivo al rito avrebbe consentito – ogniqualvolta il rito alternativo sia stato ingiustificatamente negato a un imputato per effetto di un errore del pubblico ministero nella formulazione dell’imputazione, di una erronea valutazione di un giudice intervenuto in precedenza nella medesima vicenda processuale, ovvero di una modifica dell’imputazione nel corso del processo (sentenza n. 14 del 2020 e precedenti ivi citati).
Ma dall’art. 24 Cost. non può dedursi un diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall’ordinamento processuale penale, come invece parrebbe, erroneamente, presupporre il giudice a quo.
Quanto poi alla lamentata violazione del diritto di difesa «in relazione» al diritto alla dignità e alla riservatezza dell’imputato, non v’è dubbio per il Collegio che la pubblicità delle udienze sia concepita dall’art. 6, comma 1, CEDU, dall’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e dall’art. 14, comma 1, del Patto internazionale dei diritti civili e politici come una garanzia soggettiva dell’imputato.
Tuttavia, la dimensione di diritto fondamentale riconosciuta alla pubblicità dei processi dalle carte internazionali dei diritti alle quali il nostro ordinamento è vincolato non esaurisce la ratio del principio medesimo, che nel relativo nucleo essenziale costituisce altresì – sul piano oggettivo-ordinamentale – un connotato identitario dello stato di diritto, in chiave di «garanzia di imparzialità ed obiettività» di un processo che «si svolge sotto il controllo dell’opinione pubblica», quale corollario sia del principio secondo cui «[l]a giustizia è amministrata in nome del popolo» (art. 101, primo comma, Cost.), sia della garanzia di un «giusto processo» (art. 111, primo comma, Cost.) (sentenza n. 373 del 1992).
Il che appare alla Corte di particolare significato nei processi relativi ai reati più gravi, «che maggiormente colpiscono l’ordinata convivenza civile» (ancora, sentenza n. 373 del 1992) e addirittura ledono il nucleo dei diritti fondamentali delle vittime, a cominciare dalla loro stessa vita. Di talché il mero consenso dell’imputato non basta a fondare un relativo diritto costituzionale – opposto, e anzi speculare, al diritto alla pubblicità delle udienze – alla celebrazione di un processo “a porte chiuse”, al riparo del controllo dell’opinione pubblica.
A fronte, allora, di imputazioni relative a delitti gravissimi, come quelli puniti con la pena dell’ergastolo, non può considerarsi sproporzionata rispetto alle esigenze di tutela della dignità e della riservatezza dell’imputato una disciplina come quella all’esame, che impone in ogni caso la celebrazione di un processo pubblico, anche laddove l’imputato sia disposto a rinunziare a tale garanzia.
Il GUP del Tribunale di Piacenza dubita dal canto suo, prosegue la Corte, della compatibilità dell’art. 438, comma 1-bis, cod proc. pen. e dell’art. 3 della legge n. 33 del 2019 con il principio della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.
Nemmeno tali questioni per il Collegio sono fondate.
Alla base della censura sta, verosimilmente, la considerazione che la preclusione del giudizio abbreviato stabilita dalla disciplina in esame discenderebbe da una mera valutazione del PM, destinata a privare irrimediabilmente l’imputato – pur ancora presunto innocente – della possibilità di accesso al rito alternativo e al relativo sconto di pena nel caso, futuro ed eventuale, di una relativa condanna.
Più in generale, il rimettente appare altresì censurare l’intento legislativo di “punire” più severamente una categoria di imputati, a dispetto della presunzione di non colpevolezza, precludendo loro l’accesso al giudizio abbreviato.
Il primo profilo di censura – chiosa a questo punto la Corte – non ha pregio, sol che si consideri attentamente l’assetto normativo scaturito dalla riforma del 2019.
L’imputazione formulata dal pubblico ministero è, infatti, oggetto di un primo vaglio da parte del giudice per le indagini preliminari, che – al termine dell’udienza preliminare – è tenuto a provvedere sulla richiesta originaria formulata dall’imputato, e comunque sull’eventuale riproposizione della domanda di giudizio abbreviato (art. 438, comma 6, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b, della legge n. 33 del 2019), e ad ammetterlo al rito alternativo richiesto, qualora lo stesso giudice dia al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, tale da rendere ammissibile il giudizio abbreviato (art. 429, comma 2-bis, cod. proc. pen.).
Il già menzionato art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. prevede, poi, il “recupero” in sede dibattimentale della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, allorché in esito al giudizio non sia risultato provato il fatto così come contestato dal pubblico ministero; e già nella fase preliminare del dibattimento – come esattamente rilevato dalla Corte di assise di Napoli nella propria ordinanza di rimessione – si deve ritenere che sia ben possibile per la corte di assise ammettere l’imputato al giudizio abbreviato, allorché tale rito gli sia stato erroneamente negato dal giudice dell’udienza preliminare.
La preclusione all’accesso al giudizio abbreviato dipende, dunque, soltanto nella fase iniziale dalla valutazione del pubblico ministero sull’oggetto della contestazione; ma tale valutazione è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione, quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo; senza alcuna violazione, dunque, della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.
Il secondo profilo di censura, attinente a una ipotetica volontà “punitiva” del legislatore nei confronti di imputati che sono presunti non colpevoli, appare alla Corte di non immediata intelligibilità.
Se il rimettente avesse inteso alludere alle conseguenze negative che derivano dalla necessità di affrontare in ogni caso il dibattimento, sulla base di un’imputazione per un delitto punibile con l’ergastolo, il rilievo risulterebbe certamente infondato, una volta che si riconosca che non esiste un diritto di rango costituzionale ad accedere a qualsiasi rito alternativo per qualunque imputato, e che l’ordinamento processuale ben può condizionare l’accesso al giudizio abbreviato a specifiche condizioni, la cui determinazione è affidata alla discrezionalità del legislatore, salvi i limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà.
Condizioni tra le quali certamente può figurare la tipologia di reato contestato dal pubblico ministero, e sottoposto al vaglio successivo dei diversi giudici che si succederanno nelle varie fasi processuali, secondo le modalità di cui si è appena detto.
Se, invece, il rimettente avesse voluto evocare una volontà del legislatore di assicurare comunque l’inflizione della pena dell’ergastolo nei confronti degli imputati dei reati punibili con tale pena, pur presunti innocenti, sarebbe agevole replicare, da un lato, che l’inflizione della pena presuppone – nel rito ordinario come in quello abbreviato – la prova della responsabilità dell’imputato, che dovrà in ogni caso essere oggetto di puntuale dimostrazione da parte del pubblico ministero, al metro dello standard probatorio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” (art. 533 cod. proc. pen.); e dall’altro, come già rammentato, che nemmeno nel giudizio ordinario l’imputato sarà indefettibilmente punito con la pena dell’ergastolo, ove ritenuto colpevole, ben potendo essere riconosciute anche in quella sede, in relativo favore, circostanze attenuanti che potrebbero determinare l’applicazione di una pena detentiva temporanea.
Ancora, il GUP del Tribunale di Piacenza solleva poi questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. e 3 della legge n. 33 del 2019, in riferimento al principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.
Nemmeno tale censura è per la Corte fondata.
Ritiene il rimettente che l’onere di procedere in ogni caso con rito ordinario innanzi alla corte di assise per i reati puniti con l’ergastolo provocherebbe inevitabilmente una dilatazione dei tempi processuali non necessaria, e anzi particolarmente gravosa, per imputati che spesso si trovano in custodia cautelare; dilatazione connessa anche alle gravi difficoltà – soprattutto per le sedi giudiziarie più piccole – determinate dall’organizzazione del lavoro delle stesse corti di assise, che si vedono ora confrontate con un carico di lavoro assai più gravoso di quanto non accadesse prima della riforma.
Le osservazioni del rimettente trovano conforto in verità, riconosce a questo punto il Collegio, nel parere espresso il 6 marzo 2019 dal Consiglio superiore della magistratura a proposito della riforma, poi confluita nella disciplina censurata; e riflettono la preoccupazione, diffusa nella prassi, di una dilatazione dei tempi medi di definizione dei processi per omicidio, in passato definiti mediante giudizi celebrati con rito abbreviato in una percentuale di casi che l’amicus curiae riferisce, sulla base dei dati ministeriali relativi al 2017, essere stata pari al 70 per cento.
Anche rispetto alla censura in esame, tuttavia, occorre rammentare che il bilanciamento tra gli inconvenienti provocati dalla disciplina censurata e le finalità dalla stessa perseguite spetta, primariamente, al legislatore.
E non può, al riguardo, non rilevarsi come la nozione di “ragionevole” durata del processo (in particolare penale) sia sempre il frutto di un bilanciamento particolarmente delicato tra i molteplici – e tra loro confliggenti – interessi pubblici e privati coinvolti dal processo medesimo, su uno sfondo fattuale caratterizzato da risorse umane e organizzative necessariamente limitate.
Il che impone una cautela speciale nell’esercizio del controllo, in base all’art. 111, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale delle scelte processuali compiute dal legislatore, al quale compete individuare le soluzioni più idonee a coniugare l’obiettivo di un processo in grado di raggiungere il proprio scopo naturale dell’accertamento del fatto e dell’eventuale ascrizione delle relative responsabilità, nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l’esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo.
Sicché una violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. potrà essere ravvisata soltanto allorché l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza, e si riveli invece privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 12 del 2016, n. 159 del 2014, n. n. 63 e n. 56 del 2009).
Sulla base di un tale criterio, e alla luce delle legittime finalità perseguite dal legislatore, che secondo la valutazione del legislatore medesimo rendono opportuna la celebrazione di processi pubblici innanzi alle corti di assise per i reati puniti con l’ergastolo (valutazione della quale già si è esclusa la manifesta irragionevolezza o arbitrarietà), non può ritenersi peri il Collegio che la dilatazione dei tempi medi di risoluzione dei processi relativi a questi reati, pur certamente prodotta dalla disciplina censurata, determini di per sé un risultato di “irragionevole” durata di tali processi.
Dal che l’infondatezza delle censure formulate in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost.
La Corte di assise di Napoli solleva poi – prosegue la Corte – questione di legittimità costituzionale del solo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. in riferimento all’art. 111, primo comma, Cost.
Le censure del rimettente sono formulate in relazione al generale principio del “giusto” processo, ma si riferiscono a ben guardare alla necessità che esso si svolga entro un lasso di tempo ragionevole; sicché esse si sovrappongono in sostanza a quelle sollevate dal GUP del Tribunale di Piacenza di cui si è appena detto, condividendone necessariamente l’esito di non fondatezza.
La medesima Corte di assise dubita, ancora, della compatibilità della stessa disciplina con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, dal momento che essa precluderebbe ingiustamente l’accesso al giudizio abbreviato a talune categorie di imputati.
La censura è, in questo caso, manifestamente infondata, dal momento che l’unica decisione citata a supporto del principio (Corte EDU, decisione 8 dicembre 2015, Mihail-Alin Podoleanu contro Italia) afferma, da un lato, che «gli Stati contraenti non sono costretti dalla Convenzione a prevedere […] delle procedure semplificate», e dall’altro lascia intenzionalmente aperta «la questione se, quando essi esistano, i principi dell’equo processo impongano di non privare arbitrariamente un imputato della possibilità di chiederne l’adozione»: questione alla quale la giurisprudenza di questa Corte, come si è visto, offre una risposta positiva alla luce dell’art. 24 Cost., ma che non viene in considerazione nel caso di specie, in cui si discute piuttosto della legittimità costituzionale della scelta legislativa di precludere in radice l’accesso al giudizio abbreviato agli imputati di reati puniti con l’ergastolo.
Scelta legislativa, quest’ultima, che non sembra incontrare alcun ostacolo sul piano convenzionale, nemmeno alla luce dell’unica decisione invocata dal rimettente.
Il GUP del Tribunale della Spezia dubita, infine, della legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 33 del 2019 in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, dal momento che tale disposizione consentirebbe l’applicazione del nuovo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. anche agli imputati di delitti puniti con l’ergastolo che abbiano tenuto la condotta prima dell’entrata in vigore della legge n. 33 del 2019.
La censura, come anticipato, per la Corte non è fondata, giacché riposa sull’erroneo presupposto interpretativo secondo cui la disposizione farebbe riferimento, nei reati ad evento differito, al momento dell’evento e non a quello, anteriore, della condotta.
Come a suo tempo illustrato infatti, chiarisce il Collegio, la ratio della disposizione depone inequivocabilmente a favore dell’interpretazione secondo cui – nello stabilire l’applicazione della nuova disciplina soltanto ai «fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge» – essa identifichi il tempus commissi delicti nel momento di commissione della condotta criminosa, nel quale la norma svolge la propria funzione di orientamento della condotta dei consociati.
Così interpretata, la disposizione si pone in conformità, anziché in contrasto, con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, sancito – oltre che dallo stesso art. 25, secondo comma, Cost. – dall’art. 7 CEDU, escludendo che una disciplina di natura processuale ma avente effetti peggiorativi sulla pena applicabile in caso di condanna, come quella stabilita nel relativo complesso dalla legge n. 33 del 2019, possa applicarsi a condotte commesse prima della pertinente entrata in vigore, ancorché l’evento costitutivo del reato si sia verificato successivamente.
2021
L’11 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.17 che si occupa di cause di revoca della liberazione anticipata, di operatività del principio della riserva di legge e di conseguente inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale che sollecitino interventi additivi della Corte medesima, dichiarando per conseguenza inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 54, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna.
Nell’incipit motivazionale in diritto, la Corte rammenta come – ricompreso tra le misure alternative alla detenzione – l’istituto della liberazione anticipata sia regolato nell’ambito del Capo VI del Titolo II della legge sull’ordinamento penitenziario, stabilendo, in particolare, che in favore del condannato sia disposta la detrazione di quarantacinque giorni per ogni semestre di pena detentiva eseguita.
Ciò non implica soltanto che l’esecuzione intramuraria cessi con un corrispondente anticipo rispetto alla durata della pena stabilita in fase di cognizione. In linea generale, precisa la Corte, l’applicazione del beneficio comporta anche che i quarantacinque giorni in parola si considerino scontati, il che rileva, ad esempio, quando si debba stabilire se il condannato abbia superato le quote di pena necessarie per accedere a benefici ulteriori (comma 4 dell’art. 54 ordin. penit.), e spiega la ragione per cui la liberazione anticipata può essere concessa anche ai condannati all’ergastolo, i quali se ne avvalgono per l’accesso alla semilibertà (che può avvenire, ai sensi del comma 5 dell’art. 50, ordin. penit., dopo venti anni dall’inizio dell’esecuzione) o alla liberazione condizionale (possibile dopo una detenzione per ventisei anni, come disposto al terzo comma dell’art. 176 cod. pen.).
Il presupposto sostanziale per l’applicazione del beneficio è la comprovata «partecipazione all’opera di rieducazione», cui viene appunto dato un «riconoscimento» «ai fini del […] più efficace reinserimento nella società» del condannato (art. 54, comma 1, ordin. penit.).
La giurisprudenza di legittimità – rammenta la Corte – ha da tempo chiarito, mettendo in luce la ratio del frazionamento semestrale introdotto dal legislatore, che la detrazione non esige il comprovato conseguimento dell’obiettivo di rieducazione, ma solo la prova di una seria e costante partecipazione al relativo percorso, che va incentivata fin dalle fasi iniziali di esecuzione della pena (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio 2013, n. 5877; da ultimo, in senso analogo, sezione prima penale, sentenza 20 maggio 2019, n. 27573).
Anche la Corte costituzionale medesima rappresenta di avere posto in luce l’importanza d’una tempestiva valutazione del comportamento tenuto dal condannato, fin dai periodi iniziali della relativa detenzione, affinché si consolidino stabili atteggiamenti di partecipazione all’offerta rieducativa, in termini di vera e propria abitudine, immediatamente produttiva di effetti favorevoli (sentenza n. 276 del 1990).
Ancora di recente – richiamando nell’occasione i rilievi già svolti (sentenza n. 274 del 1983) affinché fosse estesa agli ergastolani la possibilità di accedere alla liberazione anticipata, estensione poi ribadita dal legislatore in sede di riforma dell’art. 54 ordin. penit. (art. 18 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, recante «Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà») – la Corte rammenta di avere sottolineato la centralità del beneficio in questione lungo tutto il percorso di rieducazione dei condannati: e anche da tale premessa sono scaturite le dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., norma che precludeva la considerazione della liberazione anticipata nel computo della soglia minima di pena scontata per l’accesso ai benefici penitenziari dei condannati, a pena perpetua o temporanea, per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen., con morte conseguente del sequestrato (sentenze n. 229 del 2019 e n. 149 del 2018).
* * *
Il 24 marzo è fissata dinanzi alla Corte costituzionale l’udienza pubblica per la discussione della questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale dalla Corte di Cassazione nel giugno 2020 in tema di ordinamento penitenziario, ergastolo c.d. ostativo e condannati all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.
Il problema è quello di valutare se sia costituzionalmente legittimo precludere, per l’appunto, a tali soggetti condannati all’ergastolo l’ammissione alla liberazione condizionale in difetto di collaborazione con la giustizia.
Oggetto di censura sono:
- la legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter;
- il decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, art. 2.
* * *
L’11 maggio esce l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 97, a seguito della quale, venendo messo in mora il legislatore, viene rinviata all’udienza pubblica del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, in tema di ergastolo c.d. “ostativo”.
Le questioni sollevate riguardano dunque, specificamente, la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU la Corte di Strasburgo si è soffermata, di recente, nella sentenza Viola contro Italia.
L’ordinanza di rimessione censura non solo la disciplina “ostativa” contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., ma (oltre alla previsione del successivo art. 58-ter) anche, in particolare, il contenuto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991. Quest’ultima disposizione, al comma 1, afferma che i condannati per delitti indicati nel citato art. 4-bis possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i presupposti che lo stesso articolo prevede, a seconda delle fattispecie delittuose, per la concessione degli altri benefici penitenziari. Il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari, previsto all’art. 4-bis ordin. penit., si estende così, appunto per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, anche al regime della liberazione condizionale.
Tale presupposto interpretativo, da tempo condiviso da questa Corte (sentenze n. 273 del 2001, n. 68 del 1995 e n. 39 del 1994), è corretto e si basa sulla natura formale del rinvio al citato art. 4-bis, contenuto nell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991.
È quindi sottoposta a verifica di legittimità costituzionale la disciplina che non consente di concedere lo specifico beneficio della liberazione condizionale al condannato all’ergastolo, per delitti di “contesto” mafioso, che non collabora utilmente con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni di carcere (anche grazie a provvedimenti di liberazione anticipata).
L’ordinanza di rimessione censura le norme sopra indicate in quanto introducono, a carico del condannato per siffatti reati “ostativi”, che non collabora utilmente con la giustizia, una presunzione di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata. In virtù di tale presunzione, assoluta in quanto non superabile se non per effetto della stessa collaborazione, il complesso normativo censurato comporta che le richieste del detenuto di accedere alla liberazione condizionale siano dichiarate in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del giudice di sorveglianza.
Per il condannato all’ergastolo non collaborante, la pena perpetua de iure si trasformerebbe, così, in una pena perpetua anche de facto.
Se ciò sia conforme ai parametri costituzionali evocati è, in definitiva, il thema decidendum posto a questa Corte dal giudice rimettente.
Sia nell’evoluzione legislativa, sia nella giurisprudenza di questa Corte, a orientare in favore della compatibilità della pena dell’ergastolo di cui all’art. 22 cod. pen. con il principio costituzionale di risocializzazione sono state le previsioni che, in progresso di tempo, hanno consentito al condannato a tale pena di accedere alla liberazione condizionale.
Per prima, la legge 25 novembre 1962, n. 1634 (Modificazioni alle norme del Codice penale relative all’ergastolo e alla liberazione condizionale), aveva stabilito, modificando, con il suo art. 2, l’art. 176, terzo comma, cod. pen., che la liberazione condizionale potesse essere accordata anche al condannato all’ergastolo, nel concorso di ulteriori presupposti, dopo che egli avesse «effettivamente scontato almeno ventotto anni di pena».
Il riferimento testuale alla esecuzione effettiva della pena aveva peraltro condotto la prevalente giurisprudenza a negare che la soglia indicata potesse de facto ridursi attraverso la concessione, ai condannati alla pena perpetua, di periodi di liberazione anticipata ex art. 54 ordin. penit.
In ogni caso, la sentenza di questa Corte n. 264 del 1974 aveva risolto nel senso della non fondatezza la questione della compatibilità tra l’art. 22 cod. pen. e l’art. 27, terzo comma, Cost., anche attraverso un riferimento alla possibilità di accedere alla liberazione condizionale, ormai riconosciuta al condannato pur nel caso in cui risultasse privo dei mezzi utili all’adempimento delle obbligazioni nascenti da reato (preoccupazione che, tra le altre, alimentava nella specie i dubbi del giudice a quo). La sentenza si chiudeva con un riferimento alla di poco precedente pronuncia n. 204 del 1974, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la norma attributiva al Ministro della giustizia del potere di concedere la liberazione condizionale: da qui in avanti la decisione sarebbe spettata all’autorità giudiziaria, che «con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale accerterà se il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».
Successivamente, anche il beneficio della liberazione anticipata veniva esteso ai condannati all’ergastolo. La sentenza di questa Corte n. 274 del 1983 aveva infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 54 ordin. penit. nella parte in cui non prevedeva, ai soli fini della maturazione della soglia di pena che consente la richiesta di liberazione condizionale, la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo le detrazioni di pena previste da quella norma. A seguito della pronuncia, l’art. 28 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) modificava l’art. 176, terzo comma, cod. pen., riducendo a ventisei anni la soglia minima di pena eseguita a carico del condannato prima del suo potenziale accesso alla liberazione condizionale, ed eliminando il riferimento al carattere “effettivo” dell’esecuzione. Nel contempo, al fine di superare ogni residua controversia sulla rilevanza dei periodi di liberazione anticipata nel computo della pena da scontare prima della richiesta di liberazione condizionale, il legislatore modificava anche l’ultimo comma dell’art. 54 ordin. penit., specificando che la regola di equivalenza alla esecuzione effettiva si applica anche ai condannati all’ergastolo.
Per effetto di queste scelte, l’accesso alla liberazione condizionale ha accentuato il proprio ruolo di fattore di riequilibrio nella tensione tra il corredo genetico dell’ergastolo (il suo essere una pena senza fine), da una parte, e l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato, dall’altra.
La successiva giurisprudenza di questa Corte ha confermato questo ruolo della liberazione sotto condizione.
Con la sentenza n. 168 del 1994 viene dichiarata costituzionalmente illegittima la previsione legislativa dell’ergastolo per i delitti commessi da minori, per contrasto con l’art. 31 Cost., oltre che con l’art. 27 Cost., nella prospettiva della speciale tutela loro dovuta. La pronuncia sottolinea che quest’ultimo precetto costituzionale appare soddisfatto dall’estensione ai condannati all’ergastolo non solo dell’istituto della liberazione condizionale, ma anche di altre misure premiali, che anticipano il reinserimento sociale come effetto del sicuro ravvedimento del detenuto: «[t]utti gli anzidetti correttivi finiscono con l’incidere sulla natura stessa della pena dell’ergastolo, che non è più quella concepita alle sue origini dal codice penale del 1930. La previsione astratta dell’ergastolo deve ormai essere inquadrata in quel tessuto normativo che progressivamente ha finito per togliere ogni significato al carattere della perpetuità che all’epoca dell’emanazione del codice la connotava».
Un’ulteriore decisione di accoglimento (sentenza n. 161 del 1997) riassume icasticamente le acquisizioni fin qui descritte.
Esprimendosi in punto di reiterabilità della richiesta di liberazione condizionale, pur dopo un provvedimento di revoca adottato a norma dell’art. 177, comma primo, seconda parte, cod. pen. (secondo cui, in caso di revoca del beneficio, «il condannato non può essere riammesso alla liberazione condizionale»), la decisione introduce, per il solo condannato all’ergastolo, la possibilità di ottenere nuovamente il beneficio stesso, sempreché ne siano nuovamente maturate le condizioni.
La pronuncia osserva che il divieto della riammissione alla liberazione condizionale escluderebbe in modo permanente i condannati all’ergastolo dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. Aggiunge che, invece, alla stregua dei principi costituzionali, il connotato di perpetuità dell’ergastolo non può autorizzare, sia pure dopo l’esito negativo di un periodo trascorso in liberazione condizionale, una preclusione assoluta all’ottenimento di un nuovo beneficio, naturalmente se sussista il presupposto del sicuro ravvedimento.
La conclusione è netta: «[s]e la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o più esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale».
Una giurisprudenza ispirata ai medesimi principi si è andata formando presso la Corte EDU.
A partire dalla sentenza della grande camera 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro fino alla stessa, recente, sentenza Viola contro Italia del 2019, la Corte di Strasburgo ha affermato che la compatibilità delle previsioni di una pena perpetua con la CEDU, ed in particolare con l’art. 3 della stessa, che fa divieto di sottoporre chiunque «a tortura» od a «pene o trattamenti inumani o degradanti», è subordinata al ricorrere di determinate e specifiche condizioni.
In disparte alcune tendenze all’abbassamento delle garanzie di concretezza e prevedibilità degli strumenti per la liberazione del condannato “rieducato” (giunte fino a giudicare sufficiente, nella sentenza della grande camera 17 gennaio 2017, Hutchinson v. Regno Unito, la previsione di strumenti politico-amministrativi fondati «on compassionate grounds»), la Corte EDU ha infatti chiarito che l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante (oltre che eventualmente inumano), a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società.
È appunto l’idea della necessaria “riducibilità”, de iure e de facto, della pena dell’ergastolo, che può articolarsi in ulteriori corollari, a partire da quello che considera ben possibile imporre soglie minime di esecuzione effettiva della pena, prima di poter accedere alla scarcerazione (si vedano tra le altre, oltre alla già citata sentenza 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito, le decisioni: 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio; 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi; 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria).
La ben nota disciplina “ostativa” contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., approvata all’indomani delle stragi di mafia dei primi anni Novanta del secolo scorso, mette in tensione i principi sin qui descritti.
Infatti, anche per i condannati all’ergastolo a seguito di reati connessi alla criminalità organizzata, tale disciplina, da una parte eleva la utile collaborazione a presupposto indefettibile per l’accesso (anche) alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico del detenuto non collaborante, una presunzione di perdurante pericolosità, dovuta, in tesi, alla mancata rescissione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. Una presunzione assoluta, perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa, che lo esclude in radice dall’accesso ai benefici penitenziari e, appunto, fra questi, alla liberazione condizionale.
Non sorprende, dunque, che – nell’ambito dell’ampia giurisprudenza costituzionale sviluppatasi sulla disciplina ostativa, per oltre venticinque anni (dalla sentenza n. 306 del 1993 fino alla più recente n. 253 del 2019) – questa Corte sia stata chiamata a occuparsi della peculiare condizione dei condannati alla pena perpetua per reati connessi alla criminalità organizzata, verificando, in particolare, se tale disciplina collida con la ricordata necessità costituzionale di “riducibilità” dell’ergastolo.
Nel giudizio sulla censura di violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., sollevata sul citato art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., appunto nella parte in cui impedisce del tutto, in assenza di un’utile collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., l’accesso alla liberazione condizionale, la risposta della sentenza n. 135 del 2003 è negativa: l’inaccessibilità (anche) alla liberazione condizionale, per il detenuto che non collabora, non è frutto di un automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità prevista dalla disposizione censurata. L’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale (e agli altri benefici penitenziari) è insomma una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo».
Già a partire dalla sentenza n. 306 del 1993, la stessa giurisprudenza costituzionale maturata sulla disciplina “ostativa” contiene, tuttavia, le premesse per una risposta diversa.
In primo luogo, ha più volte affermato questa Corte (sentenze n. 253 del 2019 e n. 306 del 1993) che la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali.
Sono argomenti, questi ultimi, particolarmente presenti alla Corte EDU, soprattutto nella sentenza Viola contro Italia. Nelle parti di tale ultima pronuncia espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, viene sottoposta a critica una disciplina che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli. Afferma la Corte di Strasburgo che considerare la collaborazione con le autorità quale unica dimostrazione possibile della dissociazione del condannato conduce a trascurare gli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, osserva la medesima Corte, «non è escluso che la dissociazione con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia».
Da questo punto di vista, aggiunge la sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, la presunzione assoluta di pericolosità a carico del non collaborante mostra la propria irragionevolezza, perché si basa su una generalizzazione che i dati dell’esperienza possono smentire.
In secondo luogo, la giurisprudenza costituzionale mostra come possa essere dubbia la “libertà” della scelta, sui cui insisteva la sentenza n. 135 del 2003.
In realtà, la disciplina ostativa prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Per il condannato all’ergastolo a seguito di un reato ostativo, lo “scambio” in questione può assumere una portata drammatica, allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine. In casi limite può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli.
Qui, anche per i condannati all’ergastolo che aspirano alla libertà condizionale, può essere ripetuto quanto osservato nella sentenza n. 253 del 2019: quale condizione per il possibile accesso alla liberazione condizionale, il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.
Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale.
Essenzialmente per questi motivi valgono per le questioni all’odierno esame alcune rationes decidendi già poste a fondamento della sentenza n. 253 del 2019.
La presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente. Non è affatto irragionevole, come meglio si dirà tra breve, presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza.
Il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce, infatti, alla magistratura di sorveglianza di valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (sentenza n. 149 del 2018) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.
L’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere contraddetta, ad esempio alle determinate e rigorose condizioni già previste dalla stessa sentenza n. 253 del 2019, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che, appunto, devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza, particolarmente nel caso in cui il detenuto abbia affrontato un lungo percorso carcerario, come accade per i condannati a pena perpetua.
Nelle questioni di legittimità costituzionale decise con la sentenza n. 253 del 2019 si trattava di valutare l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non consentiva, al detenuto non collaborante, l’accesso al permesso premio, cioè a un beneficio penitenziario che segna l’inizio del percorso di risocializzazione.
Nel presente giudizio, si tratta invece di sottoporre a scrutinio la medesima norma, unitamente alle altre censurate, nella parte in cui non consentono che un soggetto condannato all’ergastolo, il quale non collabori utilmente con la giustizia, possa chiedere, dopo un lungo tempo di carcerazione, una valutazione in concreto circa il suo sicuro ravvedimento, premessa per l’accesso alla libertà condizionale e, quindi, per la estinzione della pena (in esito, peraltro, a un ulteriore periodo di vigilanza dell’autorità).
Da un lato, rispetto al caso precedente, la posta in gioco è ancora più radicale, giacché, in termini ordinamentali, sono in questione le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione; mentre, dal punto di vista del condannato, è in discussione la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena.
Dall’altro lato però, proprio per il profilo da ultimo sottolineato, è qui in esame l’accesso al ben diverso istituto che determina, all’esito positivo del periodo di libertà vigilata, l’estinzione della pena e il definitivo riacquisto della libertà, e non semplicemente, come nel caso del permesso-premio, la concessione di una breve sospensione della carcerazione, senza interruzione dell’esecuzione della pena, in costanza dei connessi controlli.
Come già si è detto, inoltre, anche nel caso all’odierno esame la presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso”, che non abbia collaborato con la giustizia, deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione e indicativi del percorso di risocializzazione dell’interessato. Tuttavia, tale presunzione permane, giacché, come pure si è detto, non è affatto irragionevole presumere che costui conservi i propri legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza.
Le ragioni di una tale generalizzazione sono ben note. L’appartenenza a una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (sentenza n. 253 del 2019; in materia cautelare, sentenze n. 48 del 2015, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011; ordinanza n. 136 del 2017).
Queste ragioni, è bene ribadirlo, sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo. È ben possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche in esito a lunghe carcerazioni, proprio per le caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, come quella che generalmente viene espressa dalla collaborazione con la giustizia.
Peraltro, è anche bene ribadire che, per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone, appunto, l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). In costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimento” ex art. 176 cod. pen.
Nella sentenza n. 253 del 2019, questa Corte ha già stabilito che, in relazione a condannati per reati di affiliazione a una associazione mafiosa (e per reati a questa collegati), caratterizzati dalle specifiche connotazioni criminologiche appena descritte, ai soli fini dell’accesso al permesso-premio, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.
In quel caso, a integrazione della vigente disciplina di ordinamento penitenziario, la pronuncia di accoglimento ha richiamato profili costituzionalmente necessari di natura probatoria.
Anche nel presente caso, ed anzi in questo a maggior ragione, la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino.
Deve inoltre considerarsi che, nel presente giudizio, sono sospettati di illegittimità costituzionale aspetti centrali e, per così dire, “apicali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali: sia quanto alle fattispecie di reato (delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste), sia con riferimento all’entità della pena inflitta (l’ergastolo), sia in relazione al beneficio avuto di mira, la liberazione condizionale, che dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena.
In tali condizioni, un intervento meramente “demolitorio” di questa Corte potrebbe mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina in esame, e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa.
Da questo punto di vista, potrebbe, ad esempio, risultare incongrua, se compiuta con i limitati strumenti a disposizione del giudice costituzionale, l’equiparazione, per le condizioni di accesso alla libertà condizionale, tra il condannato all’ergastolo per delitti connessi alla criminalità organizzata, che non abbia collaborato con la giustizia, e gli ergastolani per delitti di contesto mafioso collaboranti.
Come si è detto, la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica. Appartiene perciò alla discrezionalità legislativa, e non già a questa Corte, decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.: scelte fra le quali potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione.
Si tratta qui di tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono perciò i poteri di questa Corte. Come detto, esse pertengono, nel quomodo, alla discrezionalità legislativa, e possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale.
In loro assenza, alla luce della peculiarità del fenomeno criminale in esame, l’innesto di un’immediata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate sulla legislazione vigente, pur sostenuta dalle ragioni prima ricordate, potrebbe determinare disarmonie e contraddizioni nella complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata, nonché minare il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema.
Non a caso, la stessa Corte EDU, nella sentenza Viola contro Italia, ha sostenuto che la disciplina in questione pone «un problema strutturale», tale da richiedere che lo Stato italiano la modifichi, «di preferenza per iniziativa legislativa».
E non a caso – giova aggiungere – lo stesso legislatore, già dopo la più volte menzionata sentenza n. 253 del 2019, si è attivato in direzione di una disciplina di “assestamento” del sistema.
Un resoconto delle conclusioni acquisite e delle intenzioni di riforma maturate è offerto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (istituita con l’omonima legge 7 agosto 2018, n. 99), che ha rassegnato, in data 20 maggio 2020, una «Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale». In argomento, inoltre, risultano presentate proposte di legge (XVIII legislatura, A.C. n. 1951), e anche il Governo, nel riferire per mezzo della Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa circa lo stato di esecuzione della sentenza Viola contro Italia, ha evocato una situazione “dinamica” di sviluppo della disciplina in questione.
Questi dati mostrano con eloquenza la necessità che l’intervento di modifica di aspetti essenziali dell’ordinamento penale e penitenziario – che l’ordinanza di rimessione sollecita questa Corte a compiere – sia, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa.
Sempre considerando che le questioni di legittimità costituzionale all’odierno esame coinvolgono aspetti “apicali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali (quanto alle fattispecie di reato, all’entità della pena e al beneficio avuto di mira), la necessità appena ricordata può essere apprezzata anche da un ulteriore angolo visuale.
Il giudice rimettente, per parte sua, chiede che l’illegittimità costituzionale delle norme censurate sia dichiarata con stretta aderenza al caso di specie, e quindi con riferimento ai soli delitti di contesto mafioso (oltre che, naturalmente, per i soli ergastolani e con riguardo al solo beneficio della liberazione condizionale).
È noto, tuttavia, come il “catalogo” della prima fascia di reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. comprenda ormai anche reati diversi, relativi alla criminalità terroristica, ma anche delitti addirittura privi di riferimento al crimine organizzato, come i reati contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale (per alcune di queste fattispecie non è impossibile una condanna all’ergastolo, specie avuto riguardo ai «delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza»). Ed è altresì noto che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. impedisce al condannato non collaborante l’accesso a tutti i benefici penitenziari (salvo la liberazione anticipata e, dopo la sentenza n. 253 del 2019, il permesso premio).
Emerge così l’incerta coerenza della disciplina risultante da un’eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo, senza modificare la condizione dei condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata.
Per ultimo, ma non da ultimo, la normativa risultante da una pronuncia di accoglimento delle questioni, conchiusa nei termini proposti dal giudice a quo, darebbe vita a un sistema penitenziario caratterizzato, a sua volta, da tratti di incoerenza.
In esso, i condannati per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., pur se non collaborino utilmente con la giustizia, possono attualmente essere valutati al fine di ottenere uno o più permessi premio (in virtù, come appena ricordato, della sentenza n. 253 del 2019). All’esito di una pronuncia di accoglimento delle odierne questioni – alla fine della pena e perciò del loro percorso penitenziario – i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere (anche) al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: ma resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure alternative – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà.
Un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame.
Per tutti questi motivi, esigenze di collaborazione istituzionale impongono a questa Corte di disporre, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale, il rinvio del giudizio in corso e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia. Rimarrà nel frattempo sospeso anche il giudizio a quo.
Spetta in primo luogo al legislatore, infatti, ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata; mentre compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte (ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018).
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare dell’ergastolo in generale?
- si tratta della pena più grave prevista dal nostro sistema penale, dopo la definitiva abolizione della pena di morte, che l’ergastolo stesso ha “assorbito”;
- si compendia nella privazione della libertà personale del condannato per tutta la residua durata della pertinente vita, con connotati dunque di tendenziale perpetuità;
- laddove tuttavia possa assumersi certo il ravvedimento del condannato, egli può essere “tendenzialmente” ammesso alla liberazione condizionale dopo che abbia scontato 26 anni di pena;
- il condannato all’ergastolo – come del resto alla reclusione e all’arresto – sconta la pena in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo di lavoro;
- secondo la giurisprudenza costituzionale, l’ergastolo non può essere assunto costituzionalmente illegittimo per contrasto con l’art.27, comma 3, Cost., avendo il tessuto normativo del nostro sistema ordinamentale progressivamente sottratto significato a quel tratto di perpetuità che ab origine connotava la pertinente pena;
- è stata invece assunta incostituzionale, a partire dal 1994, l’applicazione dell’ergastolo al minore imputabile, dacché l’art.31 della Carta impone un particolare ossequio ai problemi educativi della gioventù, circostanza capace di far ritenere la funzione rieducativa della pena ex art.27, comma 3, Cost. – quand’anche non esclusiva – nondimeno senz’altro prevalente rispetto a quella afflittiva e preventiva.
Cosa occorre rammentare in particolare del c.d. ergastolo “ostativo”?
- si tratta di una fattispecie non prevista ab origine dal codice penale Rocco del 1930 (che tuttavia prevedeva financo la pena capitale);
- essa è scaturita, nel 1991, dal combinato disposto degli art.22 c.p. e 4.bis della novellata legge sull’ordinamento penitenziario 354.75, onde deve assumersi impedito l’accesso a moltissimi istituti di natura premiale siccome previsti dalla legge di settore – fatta eccezione per la liberazione anticipata – a chi sia stato condannato per taluni reati associativi assai gravi in materia di mafia, di terrorismo e di stupefacenti;
- vengono in tal modo a configurarsi in ambito penitenziario (e, dunque, di esecuzione della pena) dei delitti “ostativi” al cui cospetto, una volta subita la condanna all’ergastolo ed in difetto di una collaborazione con la giustizia ex art.58 ter del medesimo ordinamento penitenziario, non è consentito godere dei ridetti benefici (esclusa appunto la liberazione anticipata), con conseguente tendenziale perpetuità della condanna ridetta;
- se ne profila una frizione con l’art.27, comma 3, Cost., in tema di tendenziale natura rieducativa della pena, che tuttavia la Corte costituzionale ha in passato escluso in modo uniforme e costante, stante la diretta derivazione della “ostatività” da una precisa scelta del condannato all’ergastolo di non collaborare con la giustizia, con conseguente presunzione assoluta di relativa pericolosità;
- l’atteggiamento della giurisprudenza costituzionale è stato tuttavia criticato dalla dottrina sulla base di taluni ordini di considerazioni: e.1) sul crinale “pratico”, collaborare o non collaborare con la giustizia può costituire solo un indizio, e non già una piena prova della non pericolosità, ovvero all’opposto della pericolosità, del condannato, potendo quest’ultimo collaborare con la giustizia senza ravvedersi (per propri calcoli contingenti ed opportunistici), ovvero non collaborare tuttavia ravvedendosi, così prendendo le distanze dalla ideologia criminale in precedenza abbracciata in modo effettivo e non strumentale: in sostanza, la scelta di non collaborare può essere dettata da ragioni policrome come il ripudio morale di muovere accuse a parenti, amici o comunque a soggetti affettivamente avvinti, ovvero il timore per l’incolumità dei propri familiari); e.2) sul versante “teorico”, il fatto che con l’ergastolo ostativo si vogliano privilegiare in guisa soverchiante le istanze di difesa sociale e di prevenzione generale sembra comprimere in misura eccessiva l’opposto fine di tendenziale rieducatività della pena, siccome affiorante dall’art.27, comma 3, Cost.;
- una spinta in senso opposto rispetto agli orientamenti giurisprudenziali interni è alfine giunta dalla Corte EDU che, a partire dal 2013, ha preso ad assumere l’ergastolo “non flessibile” in contrasto con l’art.3 della CEDU laddove esso faccia luogo ad una detenzione non giustificata dai legittimi obiettivi della carcerazione e dunque, nella sostanza, non “proporzionata”; per i giudici europei la legge di ciascuno Stato membro deve prevedere possibilità di controllo che consentano – nel corso dell’esecuzione di una pena di lunga durata – di accertare se gli obiettivi della pena medesima, e dunque la repressione, la dissuasione, la correzione e la protezione del pubblico, siano stati raggiunti dalla porzione di detenzione che sia stata già espiata, dovendo essere offerta al detenuto una possibilità di dimostrare che egli è degno di reinserirsi nella società; con particolare riguardo all’ergastolo che privi il condannato di una concreta prospettiva di liberazione, esso deve per la Corte assumersi compendiare una “pena inumana”, sottraendo al condannato medesimo il “diritto alla speranza” senza il corredo di una verifica periodica in ordine alla “proporzione” della pena detentiva stessa in termini di pertinente protrazione ulteriore, al cospetto di potenzialmente raggiunti obiettivi di sanzione ed emenda del condannato che vi è coinvolto;
- ad una prima presa di posizione della giurisprudenza della Cassazione in termini di piena compatibilità degli indirizzi interni rispetto alle prese di posizione della Corte EDU ha poi fatto seguito un revirement della stessa Corte costituzionale che, a partire dal 2019, si è via via adeguata alle sollecitazioni europee, dichiarando nel 2019 la incostituzionalità della preclusa fruizione di permessi premio per i c.d. reati “ostativi”; circostanza che rende prevedibile un cambio di passo della Consulta anche con riguardo al c.d. ergastolo “ostativo” tout court;
- dopo alterne vicende, contrassegnate di volta in volta da garantismo o, all’opposto, da rigorismo del legislatore, è stata di recente ribadita dalla Corte costituzionale – sul crinale processuale – la legittimità della recente, nuovamente preclusa fruizione del rito abbreviato per chi sia imputato di reati puniti con la pena dell’ergastolo.