Corte Costituzionale, sentenza 18 marzo 2022 n. 73
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 30, comma 1, lettera g), numero 1), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l’attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), 32, comma 3, e 33 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate, in riferimento agli artt. 101, 111 e 136 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Catania.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Alla disamina del merito delle questioni conviene premettere la ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate.
2.1.– L’art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, nel prescrivere che la trattazione della controversia tributaria avvenga in camera di consiglio, e, quindi in modo non pubblico e senza la presenza delle parti e dei difensori, salvo che «almeno una delle parti non abbia chiesto la discussione in pubblica udienza», si conforma all’indicazione programmatica dettata all’art. 30, comma 1), lettera g), numero 1, della legge delega n. 413 del 1991, la quale, nella prospettiva di un progressivo adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del rito civile, aveva optato espressamente per il regime ordinario di trattazione in camera di consiglio, subordinando la possibilità di celebrare il processo in pubblica udienza all’espressa richiesta di almeno una delle parti.
Dalla lettura coordinata delle anzidette disposizioni e dell’art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 – indicato dal rimettente solo in dispositivo, ma che, pur in assenza di esplicita motivazione, va considerata parte integrante del thema decidendum, alla luce delle argomentazioni complessive contenute nell’ordinanza di rimessione (sentenze n. 33 del 2019 e n. 203 del 2016) − secondo il quale «Nel solo caso di trattazione della controversia in camera di consiglio sono consentite brevi repliche scritte fino a cinque giorni liberi prima della data della camera di consiglio», e dalle indicazioni esegetiche ricavabili dai lavori preparatori emerge scopertamente il favor dell’ultima riforma del processo tributario per la trattazione scritta, oltre che una chiara continuità con le omologhe disposizioni del processo civile ordinario di cognizione, come modificate dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile), le quali, in termini analoghi, condizionavano la discussione orale della causa alla richiesta di parte.
Si pensi, in particolare, agli artt. 190-bis − aggiunto dalla indicata riforma del 1990, successivamente abrogato dall’art. 63 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado) e sostituito dall’art. 281-quinquies cod. proc. civ. −, 275 e 352 cod. proc. civ.
Tra le ragioni che avevano indotto il legislatore del 1990 ad assumere la trattazione scritta a regola generale della fase decisoria nel processo civile vi era la necessità di imprimere maggiore speditezza al processo e la rilevata infrequenza dei casi in cui, nel previgente regime, le parti avevano mostrato un reale interesse alla discussione orale.
In termini non dissimili, nell’assetto delineato dalla riforma del processo tributario del 1992, la previsione della camera di consiglio quale regime ordinario della trattazione perseguiva, innanzitutto, la finalità della riduzione dei tempi di definizione delle liti, la cui eccessiva dilatazione aveva prodotto, nel vigore della precedente disciplina, un significativo arretrato.
2.2.– L’antecedente storico delle disposizioni in scrutinio va individuato nell’art. 39, primo comma, del d.P.R. n. 636 del 1972, attuativo della delega contenuta nella legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), il quale, espungendo dal novero degli articoli del codice di procedura civile applicabili al contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie l’art. 128 cod. proc. civ., recante la disciplina dell’udienza pubblica, aveva introdotto la regola, generale e assoluta, della trattazione camerale delle controversie tributarie.
Tale disposizione, proprio nella parte in cui escludeva la pubblicità delle udienze tributarie, prevista, invece, nel processo civile (art. 128 cod. proc. civ.), è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 101 Cost. (sentenza n. 50 del 1989).
A supporto di tale statuizione, questa Corte, sul presupposto che la regola della pubblicità dei dibattimenti giudiziari potesse subire eccezioni soltanto in relazione a determinati procedimenti e in presenza di un’obiettiva e razionale giustificazione, ha escluso che tali condizioni ricorressero per la deroga introdotta dalla norma scrutinata nella disciplina del processo tributario. Ciò in quanto, in base all’art. 53 Cost., l’imposizione tributaria è soggetta al canone della trasparenza, «i cui effetti riguardano anche la generalità dei cittadini, nonché ai principi di universalità ed eguaglianza, onde la posizione del contribuente non è esclusivamente personale e non è tutelabile con il segreto».
In seguito alla richiamata pronuncia, l’art. 1 della legge 22 maggio 1989, n. 198 (Pubblicità delle udienze dinanzi alle commissioni tributarie), al comma 1, ha disposto che «[l]e udienze dinanzi alle commissioni tributarie sono pubbliche. Per la loro disciplina si applicano gli artt. 127, 128, 129 e 130 del codice di procedura civile» e, al comma 2, che «[n]el primo comma dell’articolo 39 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636, le parole: “e dell’articolo 128” sono soppresse».
2.3.– Con la riforma di cui al d.lgs. n. 546 del 1992 è stata, poi, reintrodotta la regola della trattazione camerale, prevedendosi, però, all’art. 33, comma 1, la possibilità di derogarvi mediante la richiesta di udienza pubblica avanzata da almeno una delle parti.
Detta facoltà costituisce estrinsecazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., la cui violazione – ravvisabile nel caso in cui la commissione tributaria disattenda una rituale richiesta di fissazione di udienza, decidendo la controversia in camera di consiglio – comporta una nullità processuale che travolge la stessa sentenza (ex aliis, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 9 novembre 2021, n. 32593).
2.4.– Con la sentenza n. 141 del 1998, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del citato decreto legislativo, in riferimento al parametro qui in esame.
3.– Tanto premesso, la censura con la quale la Commissione tributaria provinciale di Catania prospetta un vulnus all’art. 136 Cost. – da valutarsi in via prioritaria (sentenza n. 236 del 2021), in quanto attinente «all’esercizio stesso del potere legislativo» (sentenze n. 256 del 2020, n. 5 del 2017, n. 245 del 2012, n. 350 del 2010) – non è fondata.
3.1.− Secondo la costante interpretazione della Corte, la violazione del giudicato costituzionale si configura «solo quando la nuova disposizione mantiene in vita o ripristina gli effetti della medesima struttura normativa oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale» (ancora sentenza n. 236 del 2021).
Come sopra evidenziato, con la sentenza n. 50 del 1989 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 39 del d.P.R. n. 636 del 1972, nella parte in cui escludeva l’applicabilità al processo tributario dell’art. 128 cod. proc. civ., contenente l’enunciazione del principio di pubblicità dell’udienza.
Per contro, l’art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, qui censurato, prevede espressamente la pubblicità dell’udienza tributaria, sia pure condizionandola alla presentazione, da almeno una delle parti, di un’apposita istanza di discussione, e prescrivendo, in mancanza di tale richiesta, la trattazione della controversia in camera di consiglio.
In particolare, come chiarito dalla sentenza n. 141 del 1998, alla stregua della riforma introdotta dal d.lgs. n. 546 del 1992, «nel nuovo processo tributario i due riti, in pubblica udienza e in camera di consiglio, coesistono in rapporto di alternatività».
Il differente contenuto precettivo delle norme in raffronto esclude che il combinato disposto degli artt. 32, comma 3, e 33 del d.lgs. n. 546 del 1992 riproponga la disciplina previgente, oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata con la sentenza n. 50 del 1989.
4.– Parimenti non fondata è la censura relativa alla violazione dell’art. 101 Cost.
4.1.− Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 141 del 1998, dopo aver ribadito, in continuità con le decisioni assunte nel vigore del precedente assetto normativo, che il principio della pubblicità dei dibattimenti giudiziari, pur trovando fondamento nel precetto racchiuso nell’art. 101, primo comma, Cost., può subire eccezioni in relazione a determinati procedimenti e in presenza di giustificazioni obiettive e razionali, ha evidenziato che, alla stregua della riforma del 1992, la pubblicità dell’udienza risulta non già esclusa, come accadeva nella normativa previgente, bensì condizionata alla presentazione, da almeno una delle parti, di un’apposita istanza di discussione.
4.2.– Va oggi verificata la perdurante validità delle valutazioni svolte nella richiamata sentenza n. 141 del 1998 alla luce della successiva evoluzione del quadro normativo di riferimento e, in particolare, della positivizzazione, ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), delle garanzie del giusto processo, tra le quali si inscrive la stessa pubblicità dei dibattimenti giudiziari, quale «componente naturale e coessenziale del processo “equo” garantito dall’art. 6 della CEDU» (sentenza n. 263 del 2017).
4.2.1.– Anteriormente alla citata riforma costituzionale, questa Corte aveva, come si è visto, riconosciuto al principio di pubblicità delle udienze un’indiscutibile valenza costituzionale, intravvedendovi un corollario della regola, enunciata dall’art. 101, primo comma, Cost., secondo la quale «[l]a giustizia è amministrata in nome del popolo». La garanzia della pubblicità del giudizio – si argomentava – è connaturata ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale, in forza del citato art. 101, primo comma, Cost., trova in quella sovranità la sua legittimazione (sentenze n. 235 del 1993, n. 373 del 1992, n. 50 del 1989, n. 212 del 1986 e n. 12 del 1971).
La Corte, come già ricordato, aveva anche sottolineato il valore non assoluto della regola della pubblicità, restando affidato alla discrezionalità del legislatore il bilanciamento degli interessi in giuoco nei diversi procedimenti (sentenze n. 235 del 1993 e n. 373 del 1992).
Si era, altresì, evidenziata la particolare rilevanza assunta dal principio in esame nel processo penale, nel quale, in considerazione degli interessi protetti e dei riflessi sociali della violazione delle norme incriminatrici, sono ammesse deroghe solo per garantire beni a rilevanza costituzionale, laddove negli altri casi il legislatore gode di un più ampio margine di discrezionalità nell’individuazione degli interessi in grado di giustificare la celebrazione del dibattimento a porte chiuse (sentenze n. 69 del 1991 e n. 12 del 1971).
4.2.2.– Nonostante il principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari non sia stato positivizzato neanche a seguito della riforma introdotta dalla legge cost. n. 2 del 1999, questa Corte ne ha ravvisato un’enunciazione implicita nel novellato primo comma dell’art. 111 Cost., nella parte in cui dispone che «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge», sul presupposto che – anche in ragione dell’espressa consacrazione che si rinviene nell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – detto principio rappresenti, comunque, una componente naturale e coessenziale del giusto processo (sentenze n. 263 del 2017, n. 109 e n. 97 del 2015, n. 135 del 2014).
4.2.3.– Il rafforzamento della rilevanza costituzionale se, per un verso, accresce la “forza di resistenza” del principio di pubblicità rispetto alle sollecitazioni di segno contrastante (sentenza n. 263 del 2017), per l’altro, non vale a infirmare la conclusione, cui la Corte era giunta già anteriormente alla riforma dell’art. 111 Cost., secondo la quale il precetto in questione non ha carattere assoluto e può subire deroghe, conservando validità l’assunto secondo il quale la Costituzione non impone «in modo indefettibile la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudiziario» e tanto meno di ogni fase di esso (ancora sentenza n. 263 del 2017).
È appena il caso di evidenziare come detto principio, pur trovando espressa enunciazione nella CEDU (art. 6, paragrafo 1), non assuma carattere di assolutezza neanche nell’interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v., ex aliis, Corte EDU, 6 novembre 2018, sentenza Ramos Nunes de Carvalho e Sá contro Portogallo).
4.3.– Quanto premesso induce a concludere che i principi enunciati nella sentenza n. 141 del 1998 conservano validità pur nel mutato quadro costituzionale.
Deve, pertanto, ribadirsi che l’assetto normativo disegnato dalle disposizioni in scrutinio non risulta lesivo della garanzia prefigurata dall’art. 101, primo comma, Cost. Ciò, in primo luogo, in quanto la pubblica udienza non è affatto esclusa, ma è espressamente contemplata dall’art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, sia pure come forma di trattazione condizionata alla sollecitazione di parte.
4.3.1. – Al riguardo, occorre ricordare come questa Corte abbia già avuto modo di apprezzare – per di più con riferimento al processo penale, in cui l’udienza pubblica assume un valore ancora più pregnante (sentenze n. 260 del 2020, n. 135 del 2014, n. 212 del 1986 e n. 12 del 1971) – l’attitudine di una siffatta modalità operativa, imperniata sulla scelta della parte, a soddisfare adeguatamente l’esigenza di controllo popolare sottesa al principio di pubblicità dei giudizi.
In linea con le indicazioni esegetiche offerte dalla giurisprudenza europea (Corte EDU, sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia; sentenza 26 luglio 2011, Paleari contro Italia; sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia), diverse pronunce costituzionali hanno, infatti, ravvisato un vulnus al principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari nell’assenza, in alcune procedure camerali penali, non già dell’udienza pubblica quale snodo procedimentale necessario, ma piuttosto della previsione della possibilità, per l’interessato, di richiederne la celebrazione.
Sulla scorta di tale premessa, questa Corte, con le sentenze n. 109 e n. 97 del 2015, n. 135 del 2014 e n. 93 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per contrasto con gli artt. 117, primo comma, e 111 Cost. – delle disposizioni disciplinanti il procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca (artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen.), il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza (artt. 666, comma 3, e 678, comma 1, cod. proc. pen.), il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza (artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale) e il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, recante «Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità», e art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere»), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, le procedure stesse si svolgano nelle forme dell’udienza pubblica, quanto ai gradi di merito.
4.3.2.– Pertanto, avuto anche riguardo alla circostanza che il legislatore ha connotato il giudizio tributario come processo prevalentemente documentale, in particolare dal punto di vista probatorio, tanto che è esclusa l’ammissibilità della prova testimoniale e del giuramento (art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992), non è irragionevole la previsione di un rito camerale condizionato alla mancata istanza di parte dell’udienza pubblica, posto che, in assenza della discussione, «la trattazione in pubblica udienza finirebbe per ridursi alla sola relazione della causa e cioè ad un atto che, in quanto espositivo dei fatti e delle questioni oggetto del giudizio, è comunque riprodotto nella decisione e reso conoscibile alla generalità con il deposito della stessa» (sentenza n. 141 del 1998).
D’altronde, come più volte sottolineato da questa Corte, il rito camerale rinviene una coerente e logica motivazione nell’interesse generale ad un più rapido funzionamento del processo (sentenza n. 543 del 1989), «interesse che assume particolare rilievo per il processo tributario, gravato da un contenzioso di dimensioni particolarmente ingenti» (sentenza n. 141 del 1998).
5.– Le argomentazioni dianzi esposte danno conto, altresì, della compatibilità della disciplina in esame con l’art. 111 Cost., rendendosi, peraltro, necessarie alcune ulteriori osservazioni in relazione agli specifici profili evidenziati nella ordinanza di rimessione con riguardo a tale parametro.
5.1. – Il giudice a quo ritiene che «la più ampia tutela giurisdizionale» si attui attraverso la discussione in pubblica udienza e che le norme in scrutinio, nel condizionare la «completezza» del contraddittorio nel processo tributario all’esercizio di una facoltà che postula la «disponibilità» dell’interesse in contesa, di cui la parte pubblica sarebbe, tuttavia, priva, si pongono in contrasto con la piena realizzazione del giusto processo.
Tale principio costituzionale risulterebbe violato anche nella declinazione oggettiva di garanzia della partecipazione dialettica delle parti, quale «attività connaturata al processo» e fondamentale «per l’attuazione della legge da parte del giudice terzo».
5.2.– Quanto al primo rilievo, deve escludersi che la facoltà di scelta sulla forma del contraddittorio, cartolare o in presenza, attribuita alle parti dall’art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, rilevi ai fini della «disponibilità» della pretesa impositiva che forma oggetto del processo tributario.
È evidente che un meccanismo procedurale, come quello delineato dalle norme in scrutinio, che consente ad entrambe le parti, pubblica e privata, di valutare caso per caso la reale necessità di avvalersi della discussione in pubblica udienza, persegue un ragionevole fine di elasticità – in forza del quale le risorse offerte dall’ordinamento devono essere calibrate in base alle effettive esigenze di tutela – e non interferisce con la cura dell’interesse pubblico al prelievo fiscale.
5.3.– Parimenti non fondata è la ulteriore censura con la quale è denunciata la lesione del principio del giusto processo nell’accezione di garanzia della partecipazione dialettica delle parti, quale momento fondamentale «per l’attuazione della legge da parte del giudice terzo».
Nella prospettazione del Collegio rimettente l’interlocuzione immediata e contestuale delle parti con il giudice sembra assurgere a condizione indefettibile per l’attuazione del contraddittorio e per la formazione del convincimento del giudice.
5.3.1.– Come questa Corte ha posto più volte in evidenza, l’art. 111, secondo comma, Cost., introdotto dalla legge cost. n. 2 del 1999, stabilendo che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità», ha conferito veste autonoma a un principio, quello appunto di parità delle parti, che era già stato ritenuto insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali (sentenze n. 34 del 2020, n. 26 del 2007; ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
La novella del 1999 ha, infatti, positivizzato, attribuendogli portata generale, il principio audiatur et altera pars, in base al quale il provvedimento giurisdizionale non può assumere carattere di definitività senza che la parte destinata a subirne gli effetti sia stata posta in condizione di svolgere una difesa effettiva e di influire, in condizioni di parità rispetto alle altre parti, sul convincimento del giudice.
Nondimeno, come evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, l’attuazione del contraddittorio non implica necessariamente che il confronto dialettico tra i litiganti si svolga in modo esplicito e contestuale, potendo dispiegarsi anche in tempi successivi, purché anteriori all’assunzione del carattere della definitività della decisione, e come momento soltanto eventuale del processo (ex aliis, sentenze n. 80 del 1992, n. 125 e n. 89 del 1972).
La Corte ha inoltre precisato che il contraddittorio, quale primaria e fondamentale garanzia del giusto processo, consiste nella «necessità che tanto l’attore, quanto il contraddittore, partecipino o siano messi in condizione di partecipare al procedimento» (sentenza n. 181 del 2008; ordinanza n. 183 del 1999), mentre «al legislatore è consentito di differenziare la tutela giurisdizionale con riguardo alla particolarità del rapporto da regolare» (sentenza n. 89 del 1972; v. anche sentenza n. 80 del 1992 e ordinanza n. 37 del 1988).
5.4.– Se dunque, in via generale, il principio del contraddittorio consacrato nell’art. 111, secondo comma, Cost. impone esclusivamente di garantire che ogni giudizio si svolga in modo tale da assicurare alle parti la possibilità di incidere, con mezzi paritetici, sul convincimento del giudice, spettando al legislatore configurarne le specifiche modalità attuative, deve coerentemente escludersi che sussista un’unica forma in cui il confronto dialettico possa estrinsecarsi e che questa vada necessariamente identificata nella difesa orale.
Non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento, o della specifica attività processuale da svolgere, lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità.
5.4.1.− In tal senso si è espressa, con specifico riguardo al processo civile, la giurisprudenza di legittimità, precisando che, in generale, l’esclusione della difesa orale non menoma il diritto di difesa, la cui concreta disciplina può essere variamente configurata dalla legge, e che la regola generale della pubblicità può subire eccezioni in riferimento a determinati procedimenti, quando esse abbiano obiettiva e razionale giustificazione (Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 27 maggio 2005, n. 11315); che inoltre «la garanzia del contraddittorio, necessaria in quanto costituente il nucleo indefettibile del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato dagli artt. 24 e 111 Cost. (cfr., in rapporto all’art. 24 Cost., già Corte cost., sent. n. 102 del 1981), è, comunque, assicurata dalla trattazione scritta della causa, con facoltà delle parti di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni (che, del resto, devono essere già compiutamente declinate con il ricorso per quanto riguarda, segnatamente, i motivi dell’impugnazione), non solo in funzione delle difese svolte dalla controparte» (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 10 gennaio 2017, n. 395).
Sempre con riferimento al rito civile, anche questa Corte ha affermato che «porre un’alternativa tra difesa scritta e discussione orale nel processo civile non può determinare alcuna lesione di un adeguato contraddittorio, anche perché le parti permangono su di un piano di parità» (sentenza n. 275 del 1998).
5.5.– Neanche nel processo tributario la previsione, come regola, della trattazione scritta è di ostacolo a una piena attuazione del contraddittorio.
Ciò in quanto le disposizioni censurate, per un verso, come già evidenziato, non escludono la discussione in pubblica udienza, ma ne subordinano lo svolgimento alla tempestiva richiesta di almeno una delle parti, e, per un altro, attribuendo ai litiganti la facoltà di depositare, oltre alle memorie illustrative, ulteriori memorie di replica in un identico termine in parallelo, garantiscono un’adeguata e paritetica possibilità di difesa.
Al contempo, la trattazione camerale soddisfa primarie esigenze di celerità e di economia processuale, particolarmente avvertite in un processo, come quello tributario, che «attiene alla fondamentale ed imprescindibile esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l’esercizio delle sue funzioni attraverso l’attività dell’Amministrazione finanziaria» (ordinanza n. 273 del 2019).
5.6.– In definitiva, le disposizioni censurate, definendo un modello di trattazione flessibile e capace di assicurare, anche nella versione camerale, un confronto tra le parti effettivo e paritario, e conciliandosi con le caratteristiche strutturali e funzionali del contenzioso tributario, costituiscono espressione non irragionevole della discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali.
6.– Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 30, comma 1, lettera g), numero 1), della legge n. 413 del 1991, 32, comma 3, e 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, devono essere dichiarate non fondate.