Cassazione civile, sez. III, ordinanza 28 marzo 2022, n. 9857
MASSIMA
Una volta che il giudice abbia liquidato il danno sotto il profilo della perdita del rapporto parentale (incidente tanto sulla conservazione del proprio equilibrio emotivo-soggettivo quanto sull’impedita prosecuzione concreta di una relazione personale valutabile sul terreno della dimensione dinamico-relazionale), l’ulteriore liquidazione di un importo a titolo di risarcimento del danno biologico (necessariamente da intendere come danno alla salute e dunque come lesione dell’integrità psico-fisica) non costituisce affatto una duplicazione della prima liquidazione, trattandosi di voci di danno del tutto diverse tra loro.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti si dolgono della nullità della sentenza impugnata per vizio di costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), in ragione dell’illegittimità costituzionale del D.L. n. 69 del 2013, artt. 65, 66, 67 e 68, convertito nella L. n. 98 del 2013, in relazione ai parametri costituzionali di cui all’art. 3 Cost., art. 25 Cost., comma 1, art. 106 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., avendo la corte territoriale deciso la causa in esame con la partecipazione, in qualità di relatore, di un giudice onorario, con la conseguente violazione dei principi costituzionali che ammettono entro limiti precisi l’adibizione dei giudici non professionali all’esercizio della funzione giurisdizionale.
Il motivo è infondato. Osserva il Collegio come, al caso di specie, debba trovare applicazione il principio già fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 41 del 2021, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle disposizioni, contenute nel D.L. n. 69 del 2013 (conv. con modif. nella L. n. 98 del 2013), che conferiscono al giudice ausiliario di appello lo status di componente dei collegi nelle sezioni delle corti di appello, queste ultime potranno legittimamente continuare ad avvalersi dei giudici ausiliari, fino a quando, entro la data del 31/10/2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria; fino a quel momento, infatti, la temporanea tollerabilità costituzionale dell’attuale assetto è volta ad evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e a non privare immediatamente le corti di appello dei giudici onorari al fine di ridurre l’arretrato nelle cause civili (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 32065 del 05/11/2021, Rv. 662813 – 01).
Ciò posto, l’avvenuta partecipazione, alla deliberazione della sentenza impugnata, di un giudice ausiliario quale componente del collegio giudicante, deve ritenersi, ratione temporis, pienamente legittima, siccome disposta in conformità al dettato legislativo ritenuto costituzionalmente compatibile (“tollerabile”) dal giudice delle leggi (seppure nei limiti temporali circoscritti), con la conseguente integrale infondatezza della censura in esame.
Con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., artt. 3, 140, 141 C.d.S. e art. 142 C.d.S., comma 2; nonchè degli artt. 1227 e 2054 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente attestato la responsabilità concorsuale di D.S.M. nella causazione del sinistro stradale oggetto di causa, in contrasto con le chiare risultanze della consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio, secondo cui l’eventuale rispetto, da parte del D., dei limiti di velocità esistenti in loco, non avrebbe impedito la verificazione del sinistro con le medesime conseguenze; in particolare, il giudice d’appello avrebbe infondatamente affermato l’esigibilità, da parte del D., di un’ulteriore moderazione della velocità al di sotto dei limiti di legge in considerazione dell’intersezione tra la strada dal medesimo percorsa e il tratturo di provenienza del Gi., non avendo specificato le ragioni che avrebbero reso possibile la percezione, da parte del D., dell’esistenza di tale intersezione, tenuto conto della specifica natura della diramazione, consistente in un tratturo di campagna posto al di sotto del livello stradale, nella specie non segnalato, nè visibile.
Con il terzo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6 e artt. 40 e 41 c.p. (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4), per avere la corte territoriale dettato una motivazione totalmente illogica, apodittica e, in estrema sintesi, sostanzialmente apparente a fondamento dell’attribuzione di un ruolo (con)causale alla condotta stradale del D. nella causazione del sinistro dedotto in giudizio.
Il secondo e il terzo motivo – congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione – sono fondati. Osserva il Collegio come la decisione della corte d’appello, in ordine al riconoscimento della responsabilità concorsuale dell’odierno ricorrente nella provocazione del sinistro in esame, sia stata assunta muovendo dall’asserzione secondo cui il D. avrebbe dovuto moderare ulteriormente la propria velocità (rispetto a quella pur mantenuta entro i limiti di legge), in considerazione dell’approssimarsi dello stesso, poco prima dell’impatto con il motociclo del Gi., all’intersezione tra la strada percorsa e il tratturo di campagna dal quale proveniva il Gi.; il tenore delle argomentazioni poste dal giudice a quo a sostegno di tali affermazioni risulta, tuttavia, esaurito nell’astratto richiamo dei principi di diritto al riguardo stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità (sulla base delle corrispondenti norme del C.d.S.: cfr. art. 141 C.d.S.), senza l’indicazione di alcun pur minimo riferimento alle specifiche circostanze di fatto dalle quali sarebbe emersa l’effettiva esigibilità, da parte del D., di tale ulteriore accorgimento nella propria condotta di guida; ossia, quelle specifiche circostanze di fatto che avrebbero, nella specie, consentito l’attestazione della prevedibile, o verosimile, percepibilità in concreto dell’intersezione costituita dal tratturo laterale; al riguardo, varrà sottolineare come, là dove il giudice di merito ritenga di affermare la responsabilità del conducente stradale che, pur rispettando i limiti di velocità imposti dalla legge, non abbia doverosamente moderato in modo ulteriore l’entità della propria velocità (in considerazione dello stato dei luoghi, della particolare conformazione della strada percorsa o, in ogni caso, del ricorso di specifiche circostanze suscettibili di imporre l’adozione di tale accorgimento aggiuntivo: cfr. art. 141 C.d.S. cit.), lo stesso (giudice) deve ritenersi vincolato, ai fini della congruità logica della motivazione, all’integrazione delle proprie argomentazioni attraverso la specifica indicazione delle ragioni di fatto che, in concreto, avrebbero giustificato l’assunzione di tale ulteriore esigenza prudenziale, non potendo limitarsi (come invece avvenuto nel caso di specie) a un richiamo meramente astratto di quelle ragioni (un’intersezione, una curva, un generico difetto di visibilità) non (adeguatamente) riscontrate, sul piano del fatto (e, dunque in termini probatori), alla luce delle specifiche caratteristiche del luogo effettivamente in esame; nel caso di specie, provenendo il Gi. da un tratturo di campagna posto lateralmente alla sede stradale percorsa dal D., il giudice di merito, al fine di valutare la necessità che quest’ultimo avesse ad adeguare la propria velocità a una misura inferiore ai limiti normativi imposti in loco, avrebbe dovuto (quantomeno) indicare gli elementi di prova attestanti (ad es.) l’avvenuta segnalazione dell’approssimarsi di tale tratturo o, in alternativa, gli elementi di fatto suscettibili di rendere verosimile la concreta percepibilità di tale tratturo da parte del D., pena il carattere meramente apodittico di quanto affermato in relazione agli ulteriori obblighi prudenziali esigibili dall’agente; la mancata integrazione argomentativa (nel senso indicato) della motivazione della sentenza impugnata rende inevitabile il riscontro del relativo carattere apodittico, e dunque gravemente illogico, sì che l’intero discorso giustificativo sul punto elaborato dal giudice d’appello risulta tale da non sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dai ricorrenti; ne consegue l’accoglimento dei due motivi in esame e la cassazione sul punto della sentenza impugnata.
Con il quarto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6 e artt. 40 e 41 c.p. (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4), per avere la corte territoriale dettato una motivazione meramente apparente a fondamento dell’asserita duplicazione risarcitoria consistita nella liquidazione, in favore degli attori, di un importo a titolo di danno biologico e della contestuale personalizzazione del danno derivante dalla perdita del rapporto parentale.
Con il quinto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c., nonchè degli artt. 2, 3 e 32 Cost. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente escluso, dal complessivo importo risarcitorio liquidato in favore degli attori, le somme determinate dal primo giudice a titolo di personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale, ritenendo erroneamente che tale liquidazione rappresentasse una duplicazione dell’importo liquidato per il danno biologico derivato dalla specifica patologia causata dal lutto.
Il quarto e il quinto motivo – congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione – sono fondati. Osserva il Collegio come il giudice d’appello abbia escluso la liquidabilità di un importo a titolo di danno biologico in favore degli attori (come pregiudizio immediatamente e direttamente derivante dalla perdita del figlio), evidenziando come il primo giudice avesse già provveduto a personalizzare il danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale, ritenendo che questa contestuale liquidazione determinasse un’indebita duplicazione del medesimo danno; tale affermazione, nella misura in cui identifica (ritenendo la liquidazione di entrambi i danni alla stregua di un’indebita duplicazione) il danno biologico sofferto dei genitori a causa della perdita del figlio e la personalizzazione del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale, è errata; al riguardo, varrà precisare come il danno derivante dalla perdita di un rapporto parentale (così come configurato dal riconoscimento della giurisprudenza e dalla conforme riflessione dottrinaria) chieda d’essere identificato nell’insieme di quelle specifiche conseguenze dannose di natura non patrimoniale che discendono dalla definitiva cancellazione di una relazione personale caratterizzata dalla particolare pregnanza emotiva e implicazione affettiva (come, nella specie, nel rapporto tra genitore e figlio) destinato a tradursi, sul piano dei pregiudizi alla persona, nella duplice dimensione del c.d. danno morale ossia della sofferenza puramente interiore patita per la perdita affettiva riscontrabile sul piano dell’afflizione e della compromissione dell’ordinario equilibrio emotivo (senza tuttavia alcuna degenerazione patologica suscettibile di accertamento medico-legale) – e, sotto altro profilo, del danno rappresentato dalla modificazione delle attività della vita quotidiana e degli eventuali aspetti dinamico-relazionali in conseguenza di tale perdita affettiva; si tratta, in relazione a questa duplice lettura del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale, sempre e comunque di conseguenze dannose riferibili alla compromissione di quello specifico interesse legato alla conservazione dell’integrità del proprio nucleo familiare e/o affettivo; viceversa, il discorso condotto con riguardo al danno biologico determinato dall’uccisione di un proprio congiunto non guarda alle conseguenze che si ricollegano alla lesione inferta all’integrità del proprio nucleo familiare e/o affettivo (in sè considerato), bensì alle conseguenze che, sul piano morale e su quello legato alle implicazioni di tipo dinamico-relazionali, derivano dalla compromissione del diverso interesse legato alla conservazione dell’integrità della propria salute: bene, quest’ultimo, che dev’essere considerato logicamente e ontologicamente del tutto diverso dal primo (così come, specularmente, del tutto diversi devono ritenersi gli interessi che trovano riferimento nelle previsioni di tutela di cui all’art. 29 Cost., rispetto a quelli considerati nell’art. 32 Cost.); pertanto, una volta liquidato, da parte del giudice di primo grado, il danno derivato agli originari attori dalla morte del figlio sotto il profilo della perdita del rapporto parentale (incidente, tanto sulla conservazione del proprio equilibrio emotivo-soggettivo, quanto sull’impedita prosecuzione concreta di una relazione personale valutabile sul terreno della dimensione dinamico-relazionale), l’ulteriore liquidazione, in favore degli attori, di un importo a titolo di risarcimento del danno biologico (necessariamente da intendere come danno alla salute degli stessi, e dunque come lesione della propria integrità psico-fisica conseguente all’uccisione del proprio figlio) non costituisce affatto una duplicazione della prima liquidazione, trattandosi di voci di danno del tutto diverse tra loro (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 28989 del 11/11/2019, Rv. 656223 – 03); l’errore in cui è incorso il giudice d’appello e l’irriducibile difetto motivazionale che ne deriva, impongono, pertanto, in accoglimento dei due motivi in esame, l’ulteriore cassazione sul punto della sentenza impugnata.
Con il sesto motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2729 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente escluso, dal complessivo importo risarcitorio riconosciuto in favore degli attori, le somme che il giudice di primo grado aveva liquidato in considerazione della perdita, da parte di questi ultimi, della contribuzione economica che verosimilmente il figlio deceduto a seguito del sinistro avrebbe assicurato ai due genitori, ritenendo tale voce di danno non adeguatamente comprovata in contrasto con il contenuto dei corrispondenti elementi istruttori specificamente indicati in ricorso.
Il motivo è inammissibile. Osserva il Collegio come, con il motivo in esame, i ricorrenti lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle norme di legge richiamate – alleghino un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica dei ricorrenti, l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sè incontroverso, insistendo propriamente gli stessi nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo; nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure sollevate dagli odierni ricorrenti deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti e dei fatti di causa ritenuti rilevanti; si tratta, come appare manifesto, di un’argomentazione critica con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato; ciò posto, il motivo d’impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile, non essendo consentito alla parte censurare come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante sul quale la sentenza doveva pronunciarsi, non potendo ritenersi neppure soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti.
Sulla base delle argomentazioni sin qui illustrate, rilevata la fondatezza del secondo, terzo, quarto e quinto motivo (rigettato il primo e dichiarato inammissibile il sesto), dev’essere disposta la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in diversa composizione, cui è altresì rimesso di provvedere alla regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.