Corte Costituzionale, sentenza 24 marzo 2022 n. 74
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dal Tribunale di sorveglianza di Messina. TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE 3.– Le questioni sono ammissibili. Non è fondata, in effetti, l’eccezione di manifesta inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato in relazione all’ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021, che sarebbe motivata soltanto per relationem rispetto alla coeva ordinanza iscritta al n. 78 del r.o. 2021. In realtà, l’ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021 – la quale peraltro contiene una censura ex art. 3 Cost. che non è svolta nell’altra ordinanza – esibisce una, sia pur succinta, motivazione anche sulle restanti censure, che consente a questa Corte di coglierne con chiarezza il senso. Né sono ravvisabili altre ragioni di inammissibilità, sussistendo – in particolare – la rilevanza delle questioni in entrambi i giudizi a quibus, alla luce degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, che ha qualificato come irrituale l’anticipazione al primo segmento del procedimento ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. del contraddittorio tra le parti in camera di consiglio (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanze 12 gennaio 2021, n. 31387, e 16 aprile 2019, n. 19826). 4.– Oggetto delle censure del rimettente è la norma risultante dal richiamo compiuto dall’art. 678, comma 1-bis, cod. proc. pen. all’art. 667, comma 4, del medesimo codice. 4.1.– La prima disposizione – inserita nell’art. 678 cod. proc. pen. dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 – prevede l’applicazione del rito semplificato disegnato dall’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. per una serie di procedimenti, tra i quali la decisione sulle richieste di riabilitazione e la valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, che vengono in considerazione nei giudizi a quibus. A sua volta, l’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., prevede – in deroga alla disciplina generale del procedimento di esecuzione di cui all’art. 666 cod. proc. pen., articolato attorno a un’udienza in camera di consiglio con la partecipazione delle parti –un rito semplificato, mediante il quale il giudice «provvede in ogni caso senza formalità con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato», chiarendo che «[c]ontro l’ordinanza possono proporre opposizione davanti allo stesso giudice il pubblico ministero, l’interessato e il difensore» entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione o notificazione dell’ordinanza. Tale opposizione comporta la fissazione di una udienza in camera di consiglio con la partecipazione delle parti ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen. 4.2.– Nella Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione del d.l. n. 146 del 2013 si afferma che le modifiche al procedimento di sorveglianza ivi introdotte «rielaborano alcune proposte già avanzate dalla Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, istituita su iniziativa del Ministero della giustizia e del Consiglio superiore della magistratura, e già in parte accolte dallo stesso Consiglio superiore con la “Risoluzione in ordine a soluzioni organizzative e diffusione di buone prassi in materia di magistratura di sorveglianza” adottata il 24 luglio 2013; e alle quali si intende dare ora “copertura” normativa». Dichiaratamente ispirandosi alle proposte di tale Commissione, il legislatore del 2013 ha introdotto un modello di definizione de plano di una serie di procedimenti di competenza della magistratura di sorveglianza ritenuti di agevole definizione, tra i quali le richieste di riabilitazione e la valutazione sull’esito dell’affidamento in prova, facendo comunque salva – come proposto dalla Commissione medesima – la possibilità di instaurazione del contraddittorio orale in camera di consiglio su istanza di parte, in funzione di una riduzione complessiva dei tempi processuali. 4.3.– Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, le ordinanze emesse de plano ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. non sono immediatamente esecutive, salvi i casi espressamente previsti dalla legge o comunque specificamente desumibili dal sistema normativo. Esse diventano invece esecutive allo scadere del termine di quindici giorni dalla comunicazione o notificazione per la proposizione dell’opposizione, ove essa non sia proposta (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 giugno 2015, n. 36754). Tale conclusione è stata recentemente ribadita con specifico riguardo all’ordinanza emessa ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. in sede di valutazione dell’esito dell’affidamento in prova (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 23 ottobre 2020-2 febbraio 2021, n. 4025). 4.4.– Una volta che sia stata presentata opposizione avverso l’ordinanza emessa de plano dal giudice competente, quest’ultimo dovrà fissare udienza in camera di consiglio, essendo il relativo procedimento integralmente disciplinato dall’art. 666 cod. proc. pen. Con la conseguenza che – come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità – il giudice dell’esecuzione avrà il dovere, a pena di nullità generale e assoluta, di fissare l’udienza in camera di consiglio e di procedere con la necessaria partecipazione del difensore e del pubblico ministero, provvedendo, altresì, all’audizione dell’interessato che ne abbia fatto richiesta, a norma dell’art. 666, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 marzo 2015, n. 12572, in relazione a un incidente di esecuzione parimenti disciplinato dall’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.; in senso conforme, in relazione alla decisione su di una richiesta di riabilitazione, sezione settima penale, ordinanza 9 novembre 2018-16 settembre 2019, n. 38160). La giurisprudenza di legittimità ha affermato, altresì, che l’opposizione «non ha natura di mezzo di impugnazione, bensì di istanza diretta al medesimo giudice allo scopo di ottenere una decisione in contraddittorio» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 14 febbraio 2017, n. 30638, che per tale ragione ha giudicato manifestamente infondata un’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare al giudizio di opposizione ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. del medesimo giudice che abbia emesso il provvedimento opposto; negli stessi termini, sezione prima penale, sentenza 1° ottobre 2019-27 febbraio 2020, n. 7910). 5.– Le censure del rimettente non sono fondate. 5.1.– Giova premettere all’esame delle singole doglianze che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nella configurazione degli istituti processuali il legislatore gode di ampia discrezionalità, censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate (ex plurimis, sentenze n. 213 del 2021, n. 95 del 2020, n. 79 e n. 58 del 2020, n. 155 e n. 139 del 2019, n. 225 del 2018 e n. 241 del 2017). Ciò vale anche rispetto a discipline processuali che, come quella ora all’esame, abbiano una funzione acceleratoria dei tempi processuali (si veda, mutatis mutandis, sentenza n. 260 del 2020, punto 10.2. del Considerato in diritto: in «uno sfondo fattuale caratterizzato da risorse umane e organizzative necessariamente limitate», si «impone una cautela speciale nell’esercizio del controllo, in base all’art. 111, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale delle scelte processuali compiute dal legislatore, al quale compete individuare le soluzioni più idonee a coniugare l’obiettivo di un processo in grado di raggiungere il suo scopo naturale […], nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l’esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo»). La funzione acceleratoria dei tempi processuali è, d’altronde, direttamente ispirata a un principio – quello della ragionevole durata dei processi – sancito all’unisono dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU, ma messo a dura prova dalla realtà di un sistema giudiziario penale sovraccarico, che spesso non è in grado di fornire risposte di giustizia in tempi adeguati, finendo così per pregiudicare la stessa effettività – per gli imputati e i condannati, per le vittime e per l’intera collettività – di tutte le restanti garanzie del “giusto processo” e del diritto di difesa. Il giudizio di sorveglianza è, oggi, notoriamente afflitto da endemici ritardi nella gestione dei carichi processuali: dall’inizio della vicenda esecutiva – ove si registrano pressoché ovunque lunghissimi tempi di smaltimento delle istanze di misure alternative successive alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen., con conseguente mantenimento di persone condannate in via definitiva in uno stato di “limbo” giuridico destinato, a volte, a durare anni prima che l’esecuzione della pena abbia in concreto inizio, all’interno o all’esterno del carcere –; sino alle battute finali dell’esecuzione penale, nel cui ambito si collocano i provvedimenti relativi alla riabilitazione e alla valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, oggetto delle questioni ora all’esame di questa Corte. A fronte di questa situazione, discipline che mirino ad assicurare nel giudizio di sorveglianza una sollecita definizione dei contenziosi, lungi dal rispondere a una logica di «efficientismo giudiziario che privilegia in chiave statistica la quantità a scapito della qualità delle decisioni giudiziarie», come sostiene il giudice a quo, costituiscono attuazione di un preciso dovere costituzionale. La ragionevole durata è un connotato identitario della giustizia del processo. Onde il tema del presente giudizio di costituzionalità è se, nel perseguire il doveroso obiettivo di accelerare la definizione dei procedimenti relativi alle istanze di riabilitazione e alla valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, il legislatore abbia compiuto un bilanciamento costituzionalmente sostenibile – tutto interno alla logica degli artt. 24 e 111 Cost. – tra tale obiettivo e la salvaguardia delle altre componenti del giusto processo e dello stesso diritto di difesa; ovvero abbia, all’opposto, sacrificato in misura irragionevole quelle altre componenti, come ritenuto dal giudice a quo. 5.2.– Cuore delle doglianze del rimettente è, per l’appunto, l’allegata violazione del diritto di difesa, di cui all’art. 24, secondo comma, Cost. e dei principi del giusto processo, così come risultanti dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU, richiamato dal rimettente per mezzo dell’art. 117 Cost. Le disposizioni censurate obbligherebbero, infatti, il giudice a decidere con un’ordinanza pronunciata de plano, e dunque in assenza del contraddittorio tra le parti, che è invece normalmente assicurato – nei procedimenti avanti alla magistratura di sorveglianza – dall’udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero disciplinata dall’art. 666 cod. proc. pen. L’assenza di contraddittorio sarebbe, secondo il giudice a quo, specialmente pregiudizievole rispetto al diritto di difesa del condannato, nonché rispetto al complesso degli interessi, anche pubblicistici, sottesi alla tutela del giusto processo. Ciò in relazione alla delicatezza degli accertamenti oggetto delle presenti questioni, concernenti la richiesta di riabilitazione del condannato e la valutazione sull’esito dell’affidamento in prova: accertamenti, entrambi, strettamente connessi alla funzione rieducativa della pena e alla tutela della collettività contro l’eventuale residua pericolosità del condannato. Più in particolare, l’obbligo per il giudice di decidere in queste ipotesi senza beneficiare del confronto diretto con le parti nell’udienza ex art. 666 cod. proc. pen. pregiudicherebbe, assieme, gli interessi: – del condannato, il quale si vedrebbe privato della possibilità di partecipare sin dall’inizio al procedimento, facendo richiesta di essere sentito personalmente ai sensi dell’art. 666, comma 4, cod. proc. pen., nonché della possibilità di chiedere che la propria istanza sia decisa nell’ambito di un’udienza pubblica, risultando così vulnerata la possibilità del condannato stesso di incidere sulla formazione della prova e di vedere pubblicamente riconosciuto il proprio recupero sociale; – del difensore, il quale parimenti non potrebbe esercitare la propria funzione nell’immediatezza del contraddittorio, e non sarebbe imposto in condizione di incidere sulla formazione della prova; – del pubblico ministero, il quale nella prima fase del giudizio non potrebbe in alcun modo partecipare alla formazione della decisione giudiziale; – del giudice, il quale non potrebbe giovarsi dell’apporto conoscitivo offerto dal contraddittorio orale, con conseguente rischio di valutazioni erronee, suscettibili di recare grave danno agli interessi del condannato o a quelli della collettività; – e, infine, dell’intera collettività (il «Popolo sovrano, nel cui nome è amministrata la giustizia»), cui verrebbe sottratta la possibilità di controllo sull’operato della magistratura, garantita dall’udienza pubblica. 5.2.1.– Ritiene questa Corte che nessuno di tali argomenti sia in grado di dimostrare l’irragionevolezza del bilanciamento effettuato dal legislatore, nei termini poc’anzi precisati. Con riguardo anzitutto agli asseriti pregiudizi arrecati dalla disciplina censurata agli interessi delle parti (l’imputato e il suo difensore, da un lato, e il pubblico ministero, dall’altro), non c’è dubbio che tale disciplina imponga al giudice di pronunciarsi in prima battuta in assenza di contraddittorio, sulla base della sola richiesta del condannato (nel caso della riabilitazione), ovvero della documentazione trasmessa dall’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (UEPE) (nel caso della valutazione sull’esito dell’affidamento in prova), oltre che dell’ulteriore documentazione eventualmente acquisita d’ufficio. Ed è vero, altresì, che né il condannato, né il pubblico ministero sono in grado di interloquire su tale documentazione prima della decisione de plano del giudice. Tuttavia, la costante giurisprudenza di questa Corte considera compatibili con gli artt. 24, secondo comma, e 111 Cost. i procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, nei quali una prima fase senza formalità è seguita da una successiva fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum, e nella quale avviene il pieno recupero delle garanzie difensive e del contraddittorio (sentenza n. 279 del 2019 e ordinanza n. 255 del 2009 – entrambe relative al procedimento di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc, pen. in questa sede censurato –, nonché, in relazione a diversi procedimenti a contraddittorio eventuale e differito, sentenza n. 245 del 2020; ordinanze n. 291 del 2005, n. 352 del 2003 e n. 8 del 2003). Il procedimento regolato dalle disposizioni censurate è, per l’appunto, caratterizzato dal “recupero” di tali garanzie nella fase eventuale di opposizione al provvedimento pronunciato senza formalità dal giudice, introdotta dalla parte che vi abbia interesse; fase di opposizione che si svolge con le modalità ordinariamente previste per il procedimento di sorveglianza, a loro volta modellate su quelle dell’incidente di esecuzione di cui all’art. 666 cod. proc. pen., le quali prevedono – tra l’altro – la partecipazione necessaria all’udienza camerale del difensore e del pubblico ministero, la facoltà per l’interessato di chiedere di essere sentito, la possibilità per il giudice di acquisire – anche su istanza di parte – ogni documento o informazione ritenuti necessari, di assumere prove in udienza nel contraddittorio tra le parti, nonché – per effetto della sentenza n. 97 del 2015 di questa Corte – la facoltà per il condannato di chiedere che l’udienza venga celebrata in forma pubblica. D’altra parte, l’anticipazione di una provvisoria decisione ad opera del giudice in assenza di contraddittorio – già suggerita nella relazione della Commissione mista poc’anzi menzionata (supra, punto 4.2.) e poi accolta con qualche modifica dal d.l. n. 146 del 2013, come convertito – ha, nell’ottica del legislatore, semplicemente lo scopo di consentire una rapida definizione di procedimenti in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi. Laddove il giudice definisca già in questa prima fase il procedimento in senso favorevole al condannato, la modalità semplificata prevista dalle disposizioni censurate assicurerà in definitiva una tutela più tempestiva degli interessi del condannato stesso, il quale – tanto in materia di riabilitazione, quanto rispetto alla valutazione dell’esito positivo dell’affidamento in prova – potrà così veder riconosciuto in tempi più rapidi l’esito positivo del proprio percorso rieducativo, con conseguente venir meno delle limitazioni alla propria sfera giuridica discendenti dalla precedente condanna. L’eventuale provvedimento negativo del giudice nella fase de plano, d’altra parte, non determina di per sé alcuna conseguenza pregiudizievole per il condannato, dal momento che la giurisprudenza di legittimità considera tale provvedimento non eseguibile sino alla scadenza infruttuosa del termine per l’opposizione, ovvero sino alla sua conferma nell’udienza ex art. 666 cod. proc. pen. conseguente all’opposizione stessa (supra, punto 4.3.). Il che appare di particolare rilievo rispetto ai provvedimenti di esito negativo dell’affidamento in prova, nei quali il tribunale di sorveglianza deve rideterminare il quantum di pena ancora da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e della sua condotta durante il periodo trascorso in affidamento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 febbraio 2002, n. 10530; nonché, recentemente, sezione prima penale, sentenza 23 ottobre 2019-13 gennaio 2020, n. 934). Dal punto di vista, poi, del pubblico ministero, la possibilità di un “recupero” successivo del contraddittorio e la non eseguibilità immediata del provvedimento assunto de plano escludono qualsiasi pregiudizio agli interessi pubblici di cui egli è portatore, a fronte della possibilità di interloquire sulle prove e sulle valutazioni del giudice garantita dalla facoltà di presentare opposizione contro il provvedimento del giudice favorevole al condannato. 5.2.2.– Né pare a questa Corte, contrariamente a quanto argomentato nell’ordinanza di rimessione, che il procedimento semplificato previsto dalle disposizioni censurate non consenta un’adeguata valutazione, da parte del giudice, delle istanze di riabilitazione, ovvero dell’esito dell’affidamento in prova. Il tribunale infatti – in riferimento alla richiesta di riabilitazione – ha sempre la possibilità di acquisire ex officio la documentazione che ritenga necessaria ai sensi dell’art. 683, comma 2, cod. proc. pen.; e – con riguardo alla valutazione sull’esito dell’affidamento in prova – dispone di tutto il materiale informativo fornitogli dall’UEPE a conclusione del percorso compiuto dall’interessato. D’altra parte, il rimedio alla specifica doglianza del giudice a quo, secondo cui il tribunale non potrebbe valutare l’avvenuto recupero sociale del condannato senza avere un contatto diretto con quest’ultimo, non potrebbe di per sé essere assicurato dalla regola della necessaria celebrazione dell’udienza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., nei termini auspicati dallo stesso rimettente, giacché anche nell’ambito di tale procedimento la partecipazione del condannato è rimessa alla sua volontà, ex art. 666, comma 4, cod. proc. pen. 5.2.3.– Quanto, infine, al pregiudizio agli interessi del «Popolo sovrano» che discenderebbe dalla disciplina censurata, a far da sfondo alla doglianza del rimettente sembra essere l’idea secondo cui la pubblicità delle udienze rappresenterebbe un requisito coessenziale allo stesso paradigma costituzionale dell’amministrazione della giustizia penale. Se così fosse, tuttavia, lo stesso procedimento ordinario ex art. 666 cod. proc. pen. – che tornerebbe a divenire, secondo gli auspici del rimettente, la modalità ordinaria di trattazione delle richieste di riabilitazione e della valutazione dell’esito della messa alla prova – risulterebbe esso stesso costituzionalmente illegittimo, perché svolto normalmente in camera di consiglio, a meno che l’interessato non abbia fatto richiesta di trattazione nella forma dell’udienza pubblica in forza della sentenza n. 97 del 2015 di questa Corte. In realtà, come questa Corte ha più volte affermato, la pubblicità delle udienze è sì «connaturata ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare», ma non ha valore assoluto, potendo il legislatore introdurre deroghe al principio di pubblicità in presenza di particolari ragioni giustificative, purché obiettive e razionali (sentenze n. 263 del 2017 e ivi ulteriori riferimenti, nonché – da ultimo – sentenza n. 73 del 2022). E, rispetto a un procedimento come quello di cui all’art. 666 cod. proc. pen., il punto di equilibrio già raggiunto da questa Corte, con la menzionata sentenza n. 97 del 2015, è appunto rappresentato dalla possibilità per l’interessato di chiedere egli stesso lo svolgimento del procedimento nelle forme dell’udienza pubblica, nulla ostando – altrimenti – a che esso possa svolgersi con le forme semplificate proprie di tutti i procedimenti camerali, contemplati peraltro in numerose ipotesi dal codice di procedura penale, anche ai fini della definizione del giudizio di cognizione. Tale possibilità è conservata anche dalla disciplina in questa sede censurata, ben potendo l’interessato proporre opposizione al provvedimento assunto de plano dal giudice, con contestuale richiesta che il procedimento sia trattato nelle forme dell’udienza pubblica ai sensi dell’art. 666, comma 3, cod. proc. pen., come modificato proprio dalla sentenza n. 97 del 2015. Ciò che è di per sé sufficiente a garantire la conformità della disciplina ai parametri costituzionali e convenzionali in materia di giusto processo. 5.3.– Secondo il giudice a quo, il rito semplificato previsto dalle disposizioni censurate non risulterebbe in linea con il principio della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., non assicurando il ponderato apprezzamento del giudice sull’effettivo raggiungimento di tale obiettivo nel caso concreto. La censura, peraltro succintamente argomentata, appare in verità meramente ancillare rispetto a quelle relative all’allegata violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, risolvendosi nella doglianza – già ritenuta non fondata (supra, punto 5.2.2.) – secondo cui il difetto di contraddittorio nella prima fase del procedimento non consentirebbe al giudice una piena e accurata valutazione della personalità del condannato e dei suoi effettivi progressi verso l’obiettivo della riabilitazione sociale. Di qui la non fondatezza anche di tale censura. 5.4.– Infine, nell’ordinanza iscritta al n. 79 del r.o. 2021 il giudice a quo lamenta la violazione dell’art. 3 Cost. in relazione all’irragionevolezza della differente disciplina processuale della valutazione dell’esito dell’affidamento in prova rispetto a quella applicabile, in particolare, in materia di revoca dello stesso affidamento, ovvero di estinzione del reato all’esito della sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti del tossicodipendente ex art. 93 t.u. stupefacenti. Nemmeno tale censura è fondata. Il legislatore ha infatti riservato il rito semplificato in parola a procedimenti ritenuti di limitata complessità e, come sottolineato in dottrina, caratterizzati da un’elevata percentuale di decisioni favorevoli all’interessato, come quelli che vengono in considerazione nelle questioni ora sottoposte a questa Corte. Una volta escluso che tali procedimenti comprimano irragionevolmente le garanzie del diritto di difesa, del contraddittorio e in generale del giusto processo, non può considerarsi imposta dall’art. 3 Cost. l’adozione di un unico modello di disciplina per tutti i procedimenti di sorveglianza, ben potendo il legislatore regolarli diversamente in ragione di una molteplicità di fattori, la cui valutazione e il cui reciproco bilanciamento rientrano nella sua esclusiva discrezionalità, censurabile soltanto laddove la differenza di trattamento risulti priva di ogni plausibile ragione giustificativa in relazione alla sostanziale identità della materia regolata. Il che certamente non accade rispetto ai tertia comparationis invocati dal rimettente. Da un lato, i procedimenti relativi alla revoca di un affidamento in prova al servizio sociale in corso sono suscettibili di determinare l’interruzione di un percorso ancora in atto in relazione a specifiche inosservanze degli obblighi imposti al condannato, mentre la valutazione sull’esito dell’affidamento in prova ha luogo quando tale percorso è ormai concluso senza che siano intervenute violazioni tanto significative da giustificare la revoca dell’affidamento stesso, e appare dunque ragionevole una prognosi di valutazione favorevole della misura. Dall’altro, l’estinzione del reato commesso dal tossicodipendente ex art. 93 t.u. stupefacenti non presuppone – a differenza di quanto accade nella valutazione dell’esito dell’affidamento in prova – l’avvenuta esecuzione di alcuna misura a contenuto sanzionatorio, bensì comporta la sospensione tout court dell’esecuzione di pene, peraltro anche di severità più elevata di quelle suscettibili di essere eseguite con la modalità dell’affidamento in prova al servizio sociale.
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