Corte Costituzionale, sentenza 22 aprile 2022 n. 105
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 586-bis, settimo comma, del codice penale, introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103», limitatamente alle parole «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– In via preliminare, deve disporsi la riunione dei predetti giudizi, atteso che le ordinanze di rimessione sollevano la stessa questione e si fondano su argomentazioni sostanzialmente comuni.
Entrambe le ordinanze, infatti, censurano l’art. 586-bis cod. pen. nella parte in cui, al settimo comma, prevedendo il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», avrebbe determinato una parziale abolitio criminis, in violazione dei princìpi e criteri direttivi dettati dall’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017, secondo cui il Governo, in attuazione del principio della «riserva di codice», era delegato a trasferire all’interno del codice penale talune figure criminose già contemplate da disposizioni di legge, tra cui quelle aventi ad oggetto la tutela della salute e, non anche, a modificare le fattispecie incriminatrici.
Secondo i giudici a quibus, tale parziale abolitio criminis sarebbe in contrasto con l’art. 76 Cost., in ragione del mancato rispetto del criterio di delega che non autorizzava una riduzione della fattispecie di reato nella sua trasposizione nel codice penale.
4.– Prima di passare all’esame delle censure, si rende opportuna la ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale nel cui ambito si collocano i reati di doping e, in particolare, quello di commercio illecito di sostanze dopanti.
4.1.– La prima regolamentazione penale del fenomeno del doping risale alla legge 26 ottobre 1971, n. 1099 (Tutela sanitaria delle attività sportive), i cui artt. 3 e 4, punivano, con la sanzione dell’ammenda, le condotte consistenti nell’impiego, nella somministrazione e, comunque, nel possesso di sostanze, individuate con decreto del Ministro per la sanità, che fossero nocive per la salute e che avessero il fine di modificare artificialmente le energie naturali degli atleti.
Tali condotte sono state, poi, depenalizzate dall’art. 32 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), che ha sostituito la pena dell’ammenda con la sanzione amministrativa.
Soltanto a distanza di anni, a fronte del crescente sviluppo del fenomeno del doping e dei preoccupanti rischi per la salute individuale e collettiva derivanti dall’utilizzo delle sostanze dopanti, il legislatore, in esecuzione degli impegni convenzionali assunti con la ratifica della Convenzione contro il doping, fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989, ratificata con legge 29 novembre 1995, n. 522, ha adottato la legge n. 376 del 2000; legge che consta di varie disposizioni le quali, ad eccezione di quella di rilevanza penale di cui all’indicato art. 9, non sono state oggetto dell’abrogazione prevista dal d.lgs. n. 21 del 2018 e, pertanto, sono tuttora vigenti.
La ratio complessiva sottesa alla legge in esame è enunciata dall’art. 1, comma 1, secondo cui «[l]’attività sportiva è diretta alla promozione della salute individuale e collettiva e deve essere informata al rispetto dei princìpi etici e dei valori educativi richiamati dalla Convenzione contro il doping, con appendice, fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989, ratificata ai sensi della legge 29 novembre 1995, n. 522».
Il comma 2, che qui particolarmente rileva, reca la definizione di doping, stabilendo che «[c]ostituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».
E, ai sensi del comma 3, costituiscono doping, in quanto ad esso equiparate, anche «la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati nel comma 2».
Questa duplice definizione dei commi 2 e 3 dell’art. 1 trova poi una ulteriore e più specifica perimetrazione e articolazione nell’art. 2, rubricato «Classi delle sostanze dopanti», che riveste un ruolo fondamentale nella disciplina del doping perché chiarisce che «[i] farmaci, le sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e le pratiche mediche, il cui impiego è considerato doping a norma dell’articolo 1, sono ripartiti […] in classi di farmaci, di sostanze o di pratiche mediche approvate con decreto del Ministro della sanità, d’intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive di cui all’articolo 3».
Come risulta dai successivi commi dell’art. 2, la ripartizione in classi delle sostanze dopanti è fatta sulla base delle rispettive caratteristiche chimico-farmacologiche, mentre la ripartizione in classi delle pratiche mediche è determinata sulla base dei rispettivi effetti fisiologici; si tratta di classi sottoposte a revisione periodica.
La legge in esame, ai sensi dell’art. 3, assegna il compito del contrasto all’utilizzazione delle sostanze dopanti in ambito sportivo alla «Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive», la cui composizione, insieme con le procedure di designazione dei componenti e le attività ad essa assegnate, ne connotano il fondamentale ruolo in tale settore.
In tale ruolo di vigilanza, la Commissione si avvale anche dell’attività dei «Laboratori» che svolgono lo specifico controllo sanitario sull’attività sportiva, secondo quanto stabilito dall’art. 4.
Tralasciando l’art. 5, che assegna alle Regioni la competenza in tema di programmazione delle attività di prevenzione e tutela della salute nelle attività sportive, particolare importanza riveste pure l’art. 6, il quale consente di stabilire sanzioni disciplinari nei confronti degli atleti tesserati, anche nel caso in cui abbiano assunto o somministrato o effettuato pratiche mediche non presenti nella lista approvata con decreto ministeriale, a condizione che dette sostanze o pratiche «siano considerate dopanti nell’ambito dell’ordinamento internazionale vigente».
L’esigenza di assicurare un’ampia vigilanza sul fenomeno del doping in ambito sportivo, sotto il profilo della tutela della salute, è garantita anche dall’art. 7, il quale prevede l’obbligo per i produttori, gli importatori e i distributori di farmaci vietati dal Comitato internazionale olimpico o contenuti nelle classi delle sostanze dopanti, di trasmettere al Ministero della sanità i dati relativi alle quantità prodotte, importate, distribuite e vendute; e, nella medesima direzione della salvaguardia della incolumità della persona, si muove anche la previsione dell’obbligo, per le case farmaceutiche, di indicare sul prodotto la natura dopante del farmaco.
Il Ministro della sanità, ai sensi dell’art. 8, deve poi riferire annualmente al Parlamento sullo stato di attuazione della legge e sull’attività svolta dalla Commissione.
4.2.– Passando ora alle disposizioni di natura penale, deve rilevarsi che, a completamento della organica disciplina finora descritta, l’art. 9, prima dell’abrogazione disposta dall’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018, prevedeva distinte fattispecie di reato, poi oggetto di trasposizione nel codice penale.
In particolare, l’art. 9, comma 1, puniva, salvo che il fatto costituisse più grave reato, con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645 «[c]hiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze».
E, ai sensi del comma 2, la medesima pena si applicava, sempreché il fatto non costituisse più grave reato, a «chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero dirette a modificare i risultati dei controlli sul ricorso a tali pratiche».
Nei primi due commi dell’art. 9 il legislatore aveva previsto, quindi, le meno gravi fattispecie di reato che, ricomprendendo nella descrizione dell’elemento oggettivo la definizione di doping indicata dall’art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 376 del 2000, da un lato incriminavano, «salvo che il fatto costituisca più grave reato», le condotte di “etero doping” e di “doping autogeno”, aventi ad oggetto le sostanze dopanti e le pratiche mediche idonee a modificare le condizioni psico-fisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; e, dall’altro, sanzionavano le medesime condotte aventi ad oggetto sostanze dopanti o pratiche mediche idonee a modificare i risultati dei controlli sul doping.
Vi era, poi, la più grave fattispecie delittuosa del commercio di sostanze dopanti prevista dal comma 7 – e che qui viene in rilievo, in quanto oggetto delle imputazioni contestate in entrambi i giudizi a quibus – consistente nella condotta, punita con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a euro 77.468, di «[c]hiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’articolo 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, destinati alla utilizzazione sul paziente».
Si trattava, dunque, di fattispecie incriminatrici che, ad eccezione dell’oggetto della illecita attività, costituito appunto dalle sostanze dopanti, si differenziavano, in modo significativo, in relazione, sia al tipo di condotta incriminata, sia per l’elemento soggettivo.
Infatti, conformemente al dato letterale, la giurisprudenza di legittimità aveva più volte affermato che la fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000 si completava con la previsione del dolo specifico, costituito dal fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti; mentre, per il reato di commercio di sostanze dopanti, la medesima giurisprudenza riteneva che il reato richiedesse il solo dolo generico (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 4 aprile-9 luglio 2018, n. 30889, 28 febbraio-21 aprile 2017, n. 19198, 1° febbraio-20 marzo 2002, n. 11277).
Il comma 7 dell’art. 9 – quanto alla fattispecie del reato di commercio di sostanze dopanti – non ripeteva la dizione «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» per la evidente ragione che questa condotta illecita, che il legislatore ha inteso reprimere con la sanzione penale, persegue normalmente un fine di lucro piuttosto che quello di alterare l’esito delle competizioni sportive.
Quanto all’elemento oggettivo di tale reato, la Corte di cassazione aveva ritenuto sufficiente che l’attività fosse svolta in via continuativa, supportata da una elementare struttura organizzativa (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 ottobre-19 novembre 2013, 46246; sezione sesta penale, sentenza 20 febbraio-11 aprile 2003, n. 17322).
In definitiva il consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità, con riguardo al reato di commercio di sostanze dopanti, ne aveva affermato, da un lato, l’autonomia rispetto alle fattispecie di cui ai primi due commi dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, e dall’altro, la natura di reato di pericolo che non necessitava di dolo specifico.
5.– La disposizione censurata dalle ordinanze di rimessione interviene su tale consolidato assetto normativo e giurisprudenziale.
L’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017 aveva delegato il Governo all’«attuazione, sia pure tendenziale, del principio della riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai princìpi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale, in particolare i valori della persona umana, e tra questi il principio di uguaglianza, di non discriminazione e di divieto assoluto di ogni forma di sfruttamento a fini di profitto della persona medesima, e i beni della salute, individuale e collettiva, della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico, della salubrità e integrità ambientale, dell’integrità del territorio, della correttezza e trasparenza del sistema economico di mercato».
In attuazione di tale criterio di delega, l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 21 del 2018, ha inserito nel codice penale l’art. 586-bis, rubricato «Utilizzo o somministrazione di farmaci o di altre sostanze al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».
Tale nuovo articolo, quanto al primo e secondo comma, testualmente prevede: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da euro 2.582 a euro 51.645 chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste dalla legge, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze.
La pena di cui al primo comma si applica, salvo che il fatto costituisca più grave reato, a chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste dalla legge non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero dirette a modificare i risultati dei controlli sul ricorso a tali pratiche».
La disposizione è censurata quanto al successivo settimo comma, che testualmente recita: «Chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi indicate dalla legge, che siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero idonei a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente destinati alla utilizzazione sul paziente, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 5.164 a euro 77.468».
Parallelamente, l’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018, ha abrogato l’art. 9 della legge n. 376 del 2000.
Venendo in rilievo, nelle fattispecie considerate, la tutela del bene della salute individuale e collettiva, il legislatore delegato, in attuazione del principio della «riserva di codice», ha scelto di eliminare dalla legge n. 376 del 2000 le sole disposizioni incriminatrici, contenute nell’art. 9, per trasferirle, in conformità alla norma di delega, nel Libro II, Titolo XII, Capo I, del codice penale, tra i delitti contro la vita e l’incolumità individuale.
L’inserimento della nuova disposizione nel codice penale doveva tradursi – secondo il criterio di delega – in una operazione di mera trasposizione nel codice penale delle figure criminose già esistenti.
L’enucleazione delle condotte penalmente sanzionate dalla legge n. 376 del 2000 e il conseguente loro inserimento nelle previsioni di cui all’art. 586-bis cod. pen., è avvenuta, in particolare, con la trasposizione, nei suoi primi due commi, delle fattispecie di reato previste dai corrispondenti primi due commi dell’originario art. 9 della legge n. 376 del 2000, che risultano riprodotti testualmente nella disposizione codicistica.
Invero, il riferimento ai farmaci e alle sostanze appartenenti alle classi previste all’art. 2, comma 1, della legge stessa è stato riformulato nell’indicazione dei farmaci e delle sostanze «ricompresi nelle classi previste dalla legge». Ma la diversa dizione testuale non ne altera l’identità concettuale: «le classi previste dalla legge» rimangono pur sempre quelle contemplate dalla normativa speciale sul doping e quindi, ancor oggi, dalla legge n. 376 del 2000.
Inoltre va rilevato che sia il primo che il secondo comma dell’art. 586-bis cod. pen. ripetono la previsione «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».
Ciò mostra chiaramente che il legislatore delegato, nel trasferire la disposizione nel codice penale, ha confermato – e non poteva essere diversamente in ragione del vincolo che derivava dal richiamato criterio di delega – la necessità del dolo specifico, come ritenuto dalla giurisprudenza sopra richiamata.
Invece, la nuova disposizione codicistica al settimo comma – che pure individua i farmaci e le sostanze, oggetto di commercio, facendo riferimento a quelli «ricompresi nelle classi previste dalla legge», ossia nelle classi previste dalla stessa legge n. 376 del 2000 – aggiunge le parole, non presenti nel settimo comma dell’art. 9 citato: «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». Si tratta della stessa dizione testuale presente non solo nel primo (e nel secondo) comma dell’art. 586-bis, ma anche negli stessi primi due commi dell’art. 9, e interpretata – come già rilevato – dalla giurisprudenza come richiedente il dolo specifico al fine dell’integrazione di quelle fattispecie penali.
Ciò ha indotto i giudici rimettenti a ritenere che tale elemento aggiunto nella fattispecie di commercio di sostanze e farmaci dopanti, derivante dalla introduzione del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», abbia determinato una parziale abolitio criminis, restringendo l’area della rilevanza penale della condotta illecita, punibile solo qualora sia configurabile il dolo specifico.
Di qui la questione di costituzionalità dell’art. 586-bis cod. pen., per violazione dell’art. 76 Cost., sollevata dai giudici rimettenti.
6.– Ciò premesso, deve rilevarsi, in via preliminare, che la questione è ammissibile.
6.1.– Sussiste, innanzitutto, la rilevanza della questione di costituzionalità, in quanto entrambi i rimettenti hanno plausibilmente motivato in ordine alla necessità di fare applicazione delle censurate disposizioni nei giudizi a quibus (ex plurimis, sentenze n. 182 e n. 55 del 2021).
La Corte di cassazione, infatti, in relazione al secondo motivo di ricorso, rileva che «in applicazione della nuova e più favorevole fattispecie incriminatrice l’imputato dovrebbe essere assolto per difetto dell’elemento soggettivo», con ciò dovendo dirimere l’alternativa tra considerare la fattispecie concreta come ancora integrante il reato, o piuttosto come oggetto di una parziale abolitio criminis, con evidenti ripercussioni sulla motivazione della decisione.
Anche il Giudice del Tribunale ordinario di Busto Arsizio chiarisce che l’istruttoria dibattimentale ha fornito la prova dell’attività di commercio illecito, ma non anche della sussistenza del dolo specifico, con la conseguenza che l’accoglimento della questione necessariamente si rifletterebbe sull’esito decisorio del giudizio penale.
6.2.– In entrambe le ordinanze di rimessione la non manifesta infondatezza della sollevata questione è puntualmente argomentata.
6.3.– Infine – anche se nessuna eccezione sul punto è stata sollevata, non essendo il Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto in alcuno dei due giudizi incidentali né essendosi costituite le parti del giudizio principale – deve ritenersi l’ammissibilità della questione anche sotto il profilo dell’auspicato effetto estensivo della punibilità – e, quindi, in malam partem – conseguente al suo eventuale accoglimento, in riferimento al principio della riserva di legge in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost.
La pronuncia di illegittimità costituzionale, richiesta dai giudici rimettenti, avrebbe, infatti, l’effetto di ampliare l’area della rilevanza penale della condotta di commercio di sostanze dopanti, per la cui punibilità non occorrerebbe più il dolo specifico del fine di alterare le prestazioni agonistiche.
È vero che in linea di principio sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 8 del 2022, n. 37 del 2019, n. 57 del 2009, n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante. Principio, quest’ultimo, che determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009).
Però – come ribadito anche di recente da questa Corte (sentenze n. 236 e n. 143 del 2018) – «tali principi non sono senza eccezioni» (sentenza n. 37 del 2019).
E tra tali eccezioni, senz’altro rientra l’uso scorretto del potere legislativo da parte del Governo che abbia abrogato, anche parzialmente, mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega.
A tal riguardo, questa Corte ha affermato che deve escludersi che il principio della riserva di legge in materia penale precluda il sindacato di legittimità costituzionale in ordine alla denunciata violazione dell’art. 76 Cost. (sentenza n. 5 del 2014). E più recentemente ha ribadito che «è proprio il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. a rimettere “al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare”, di talché tale principio “è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa. […] L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe [dunque] in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni fatti”» (sentenza n. 189 del 2019).
Tali principi vanno ora confermati anche con riferimento alla questione di legittimità costituzionale in esame, atteso che le ordinanze di rimessione censurano proprio lo scorretto uso del potere legislativo da parte del Governo, che – in asserito contrasto con la norma di delega – ha trasposto nel codice penale la disposizione incriminatrice in esame restringendo la rilevanza penale della condotta da essa originariamente prevista (commercio di sostanze dopanti), mentre la fattispecie di reato sarebbe dovuta rimanere inalterata nella sua estensione.
Peraltro il Governo non è intervenuto in alcuno dei giudizi incidentali di legittimità costituzionale e quindi non ha svolto alcuna difesa a sostegno dell’inammissibilità – e neppure della non fondatezza – della questione.
7.– Nel merito, la questione è fondata.
8.– La norma di delega, di cui all’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017 – come già rilevato (punto 5) – mirava all’attuazione, sia pure tendenziale, del principio della «riserva di codice nella materia penale, al fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena».
Nella Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, in particolare, si evidenziava che il recepimento del «principio della tendenziale riserva di codice» si sostanziava in un progetto di «“riordino” della materia penale “ferme restando le scelte incriminatrici già operate dal Legislatore”, così da preservare la centralità del codice penale secondo la gerarchia di interessi che la Costituzione delinea», dovendosi «escludere che l’attività delegata possa consistere in modifiche alle fattispecie vigenti, contenute in contesti diversi dal codice penale».
L’intento del legislatore delegante tendeva a «razionalizzare e rendere, quindi, maggiormente conoscibile e comprensibile la normativa penale e di porre un freno alla caotica e non sempre facilmente intellegibile produzione legislativa di settore», per cui «non sarebbe consentita un’opera di razionalizzazione che passasse attraverso la revisione generale della parte speciale del codice penale e della legislazione complementare».
In proposito, questa Corte, con riferimento alla diversa fattispecie incriminatrice di cui all’art. 570-bis cod. pen. – oggetto anch’essa di inserimento nel codice penale in attuazione della medesima norma di delega – ha già affermato che «[i]l Governo non avrebbe d’altra parte potuto, senza violare le indicazioni vincolanti della legge delega, procedere a una modifica, in senso restrittivo o estensivo, dell’area applicativa delle disposizioni trasferite all’interno del codice penale; né avrebbe potuto, in particolare, determinare – in esito all’intrapreso riordino normativo – una parziale abolitio criminis con riferimento a una classe di fatti in precedenza qualificabili come reato, come quella lamentata da tutte le odierne ordinanze di rimessione» (sentenza n. 189 del 2019).
Anche con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 586-bis cod. pen., attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, deve essere ribadito che la delega di cui all’art. 1, comma 85, lettera q), della legge n. 103 del 2017, nel demandare al Governo «l’inserimento nel codice penale delle fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore», assumeva l’univoco significato di precludere, al legislatore delegato, di modificare in senso, sia ampliativo, sia restrittivo, le fattispecie criminose vigenti nella legislazione speciale.
9.– Nel caso di specie, il legislatore delegato, nel compiere l’operazione di “riassetto normativo” nel settore del doping, ha arricchito la descrizione della fattispecie del reato di commercio illecito di sostanze dopanti, idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, con l’introduzione del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti »; fine che – come si è già sopra rilevato – è presente, con la stessa formulazione testuale nei primi due commi, sia del medesimo art. 586-bis cod. pen., sia dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, e che dalla giurisprudenza è stato qualificato come dolo specifico.
Sotto l’aspetto oggettivo, invece, la condotta di commercio ha lo stesso ambito ed estensione di quelle del primo comma della disposizione censurata: tutte riguardano le sostanze dopanti individuate con il riferimento alle «classi indicate dalla legge». Il perimetro definitorio di tali sostanze è lo stesso.
Infatti nell’art. 586-bis cod. pen., la condotta incriminata di commercio – analogamente a quella di procurare ad altri, somministrare, assumere o favorire comunque l’utilizzo – ha ad oggetto farmaci e sostanze farmacologicamente o biologicamente attive, le quali per un verso sono ricomprese nelle classi indicate dalla legge e, per l’altro, sono idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo. Il riferimento alle «classi indicate dalla legge» è fatto, in tutta evidenza, alla legge che tali classi di farmaci e sostanze dopanti prevede, ossia, allo stato attuale della legislazione, proprio alla legge n. 376 del 2000; la quale – tuttora in vigore, essendo stata abrogata limitatamente al suo art. 9, in quanto le relative fattispecie di reato sono state trasferite nel codice penale – prevede espressamente, all’art. 2, le classi di sostanze dopanti, la cui elencazione è demandata a un decreto del Ministro della sanità, d’intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive. Tale prescrizione, poi, si salda alla previsione del precedente art. 1, espressamente richiamato, che offre una definizione più generale di doping. Essa continua a rappresentare la base legislativa per l’individuazione delle sostanze che costituiscono l’oggetto materiale di tutte le condotte incriminate dall’art. 586-bis cod. pen.
10.– Il legislatore del 2000, però, con una precisa scelta di politica criminale, aveva operato una distinzione, sul piano soggettivo, quanto al dolo.
Per le condotte del primo comma dell’art. 9 (id est: procurare ad altri, somministrare, assumere o favorire comunque l’utilizzo) – e parimenti per quelle del secondo comma – aveva previsto il dolo specifico, ossia il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti». Il bene giuridico protetto coniugava la salute, individuale e collettiva, degli atleti con la regolarità delle competizioni agonistiche.
Per la condotta del settimo comma (id est: il commercio), invece, non ha richiesto tale dolo specifico per la evidente ragione che il commercio di sostanze dopanti persegue normalmente un fine di lucro, piuttosto che quello di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti. La scelta del legislatore è stata quella di contrastare con effettività e maggior rigore il commercio illegale di sostanze dopanti sol che sussista il dolo generico, senza richiedere il dolo specifico, che peraltro sarebbe stato difficile da provare per il pubblico ministero. Il bene giuridico protetto – in disparte la regolarità delle competizioni agonistiche che rimane sullo sfondo – è costituito soprattutto dalla salute, individuale e collettiva, delle persone, anche di quelle che, in ipotesi, assumono sostanze dopanti procuratesi fuori dal circuito legale a un fine diverso da quello di «alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».
Il legislatore delegato, invece, ha riprodotto nel settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen. la previsione della stessa finalità – e quindi del medesimo dolo specifico – presente nel primo comma (oltre che nel secondo).
In tal modo la fattispecie penale del commercio di sostanze dopanti si è sensibilmente ridotta alla sola ipotesi in cui il suo autore persegua il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», al pari di chi procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di sostanze dopanti.
Ma questa limitazione, mentre è conforme alla legge quanto alle condotte del primo (e del secondo) comma dell’art. 586-bis cod. pen. perché già presente nei corrispondenti primi due commi dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, si pone invece in contrasto con il criterio di delega quanto alla condotta di commercio di sostanze dopanti di cui al settimo comma della disposizione codicistica perché non presente nel comma 7 dell’art. 9.
11.– Né può ipotizzarsi che il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» abbia un significato diverso all’interno della medesima disposizione dell’art. 586-bis, da una parte nei primi due commi, e, dall’altra, nel settimo comma, ipotizzando che in quest’ultimo valga invece a specificare la sostanza dopante nel suo contenuto oggettivo e non già a connotare la condotta quanto all’elemento soggettivo del reato.
Se il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» costituisce dolo specifico nei primi due commi, lo è anche nel settimo comma (ex plurimis, con riferimento all’art. 9, commi 1 e 2, Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 4 aprile-9 luglio 2018, n. 30889, 28 febbraio-21 aprile 2017, n. 19198 e sezione seconda penale, sentenza 10 novembre 2016-19 gennaio 2017, n. 2640).
La specificazione della sostanza dopante, nel suo contenuto oggettivo, è già tutta nella previsione, contenuta nel settimo comma, come nel primo comma, che richiede che essa sia ricompresa nelle «classi indicate dalla legge». E, come siffatto rinvio recettizio del primo comma vale a individuare compiutamente il perimetro definitorio della fattispecie quanto al suo elemento oggettivo, lo stesso vale anche nel settimo comma. Sicché il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» non può che attenere all’elemento soggettivo in entrambi i commi e costituisce una tipica ipotesi di dolo specifico.
È vero che, poi, il settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen. aggiunge anche, rispetto al comma 7 dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000, che la condotta di commercio illecito può riguardare farmaci e sostanze farmacologicamente o biologicamente attive «idonei a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze»; ciò che parimenti non era previsto nell’originaria formulazione della norma. Ma, al di là della apparente circolarità della dizione testuale, il quid pluris in questa parte, che pure si rinviene nella norma codicistica rispetto alla formulazione originaria, è in realtà meramente confermativo di quanto già previsto dall’art. 1, comma 3, della legge n. 376 del 2000, che equipara al doping la somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche indicati nel comma 2. E il successivo art. 2 – nel definire le «classi delle sostanze dopanti» (le stesse «classi indicate dalla legge» di cui all’art. 586-bis) – richiama ciò che «è considerato doping a norma dell’articolo 1» e quindi anche ciò che dal comma 3 dell’art. 1 è equiparato al doping.
Nel settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen., questa equiparazione, pur già contenuta nel richiamo delle «classi indicate dalla legge», è esplicitata e ribadita con il riferimento alla idoneità a modificare i risultati dei controlli sull’uso di farmaci o sostanze dopanti.
In questa parte il perimetro definitorio della fattispecie di commercio di sostanze dopanti non è, in realtà, modificato.
Ma analoga considerazione non può svolgersi per il «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», aggiunto nel settimo comma dell’art. 586-bis cod. pen., perché – si ripete – la simmetria con la stessa dicitura presente nel primo comma indirizza univocamente a considerare, come richiesto per integrare la fattispecie penale, il dolo specifico per la punibilità delle condotte previste nell’uno e nell’altro comma.
12.– In definitiva, la novella censurata altera significativamente la struttura della fattispecie di reato che, per effetto di tale innovazione, punisce la condotta di commercio delle sostanze dopanti solo se posta in essere al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti e quindi solo se sussiste, in questi termini, il dolo specifico.
Anche il baricentro del bene giuridico protetto risulta deviato dalla salute, individuale e collettiva, delle persone alla correttezza delle competizioni agonistiche.
In tal modo il Governo ha operato una riduzione della fattispecie penale, perché, richiedendo il dolo specifico, ha ristretto l’area della punibilità della condotta di commercio di sostanze dopanti.
Ciò si pone in contrasto con le indicazioni vincolanti della legge delega, che non attribuiva il potere di modificare le fattispecie incriminatrici già vigenti, e quindi viola l’art. 76 Cost.
Questa Corte ha, più volte, affermato che la delega per il riordino o per il riassetto normativo concede al legislatore delegato un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di soluzioni innovative, le quali devono comunque attenersi strettamente ai princìpi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante (ex multis, sentenze n. 61 del 2020, n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012, n. 293 e n. 230 del 2010).
Sicché va delimitato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, da intendersi in ogni caso come strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di delega (ex plurimis, sentenze n. 250 del 2016, n. 162 e n. 80 del 2012, n. 293 del 2010).
L’innesto del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» – che nella fattispecie incriminatrice del commercio illecito assurge, ora, a dolo specifico – non è coerente con la ratio sottesa ai criteri e principii della delega, che non autorizzava un abbassamento del livello di contrasto delle condotte costituenti reato secondo la legislazione speciale (sentenze n. 231 del 2021, n. 142 del 2020, n. 170 del 2019 e n. 198 del 2018).
13.– In conclusione, la scelta del legislatore delegato di inserire l’elemento soggettivo del «fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti», nella fattispecie incriminatrice del commercio illecito delle sostanze dopanti, contrasta con l’art. 76 Cost. in quanto effettuata al di fuori della delega legislativa.
Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 586-bis, settimo comma, cod. pen., introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 21 del 2018, limitatamente alle parole «al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti».
14.– A questa Corte non sfugge che nell’art. 586-bis cod. pen. non figura più il comma 7-bis, già introdotto dall’art. 13, comma 1, della legge 11 gennaio 2018, n. 3 (Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute), poi abrogato dall’art. 7, comma 1, lettera n), del d.lgs. n. 21 del 2018, il quale comminava la medesima pena, prevista per il reato di commercio di sostanze dopanti, «al farmacista che, in assenza di prescrizione medica, dispensi i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’art. 2, comma 1, per finalità diverse da quelle proprie ovvero da quelle indicate nell’autorizzazione all’immissione in commercio».
Tuttavia non è possibile estendere, in questa parte, la pronuncia di illegittimità costituzionale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in mancanza di un «rapporto di chiara consequenzialità con la decisione assunta» (sentenze n. 49 del 2018 e n. 266 del 2013) nel considerare le due fattispecie di reato (quelle già previste dai commi 7 e 7-bis dell’art. 9 della legge n. 376 del 2000).
15.– Quanto agli effetti sui singoli imputati dei giudizi penali principali, le cui condotte sono precedenti all’entrata in vigore della disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima, competerà ai giudici rimettenti valutare le conseguenze applicative che potranno derivare dalla pronuncia di accoglimento, tenendo conto della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 394 del 2006).
Il principio di legalità dell’art. 25, secondo comma, Cost., il quale esclude che possa essere sanzionato penalmente un fatto che non costituiva reato al momento in cui è stato commesso, comporta che rimane la necessità, per l’integrazione della fattispecie penale in esame, del dolo specifico per le condotte di commercio di sostanze dopanti poste in essere tra il 6 aprile 2018 (data di entrata in vigore della disposizione censurata) e la data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della sentenza di questa Corte, dichiarativa della sua illegittimità costituzionale.