CONSIGLIO DI STATO, III – sentenza 09.03.2022 n. 1697
PRINCIPI DI DIRITTO
“La ratio della preclusione di cui all’art.107 comma 2 c.p.a. si identifica nell’opportunità di evitare che, attraverso la riedizione del mezzo di impugnazione, si determini l’effetto dilatorio di differire la formazione del giudicato, con conseguente ricaduta sulla certezza dei rapporti giuridici, sulla ragionevole graduazione degli strumenti per il riesame del decisum, oltreché sull’economia dei mezzi stessi apprestati dall’ordinamento per la tutela dei diritti e degli interessi”
“Già le limitazioni previste dal citato art. 395 c.p.c. per la concreta esperibilità del mezzo straordinario di impugnazione rispondono alla ratio di impedire, quale che sia la giurisdizione, la indebita introduzione di un ulteriore grado di giudizio. 18. A maggior ragione il divieto di revocatio revocationis è volto del tutto ragionevolmente ad impedire che l’impugnazione di una sentenza, occasionata dalla proposizione di una impugnazione già definita straordinaria, possa trasformarsi essa stessa in uno strumento per “tenere in vita” la causa, impedendone la decisione definitiva e, dunque, l’effettività della tutela.”
“D’altra parte, se non può escludersi – in teoria – che la sentenza pronunciata in sede di revocazione possa essere affetta anch’essa da difetti della medesima specie di quelli ipotizzabili ai sensi dell’art. 395 c.p.c. per una “ordinaria” sentenza, nondimeno la logica complessiva dell’ordinamento giuridico e il buon senso impongono una scelta volta a privilegiare – una volta che è stato già previsto ed utilizzato il mezzo di impugnazione straordinario, e dunque una volta garantita anche questa ulteriore, eccezionale esigenza di tutela – la diversa esigenza di effettività della tutela giurisdizionale e di (conseguita) stabilità dei rapporti giuridici, per come derivanti dalla decisione emessa in sede di revocazione.”
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso va dichiarato inammissibile.
4.1. Preliminarmente, si rivela, opportuno ricostruire le coordinate normative e giurisprudenziali predicabili in subiecta materia ed alle quali ci si atterrà nello scrutinio della res iudicanda.
Com’è noto, l’art. 106 del c.p.a. prevede che “salvo quanto previsto dal comma 3, le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato sono impugnabili per revocazione, nei casi e nei modi previsti dagli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile“.
A sua volta, l’art. 107 comma 2, in linea con quanto già previsto dall’art. 403 del c.p.c., prevede che “La sentenza emessa nel giudizio di revocazione non può essere impugnata per revocazione “.
- Orbene, il ricorso qui in rilievo è inammissibile, anzitutto, perché viola il rigoroso disposto dell’art. 107, comma 2, c.p.a. siccome spiegato in vista della revocazione di una sentenza (CdS, Sez. III n. 3416/2021) già pronunciata in sede di revocazione di guisa che si pone in frontale contrasto con il chiaro precetto sopra richiamato il quale prevede che la sentenza pronunciata in sede di revocazione non può essere impugnata per revocazione.
5.1. Come più volte rimarcato dalla giurisprudenza di settore, inclusa quella di questa Sezione, la ratio della anzidetta preclusione si identifica nell’opportunità di evitare che, attraverso la riedizione del mezzo di impugnazione, si determini l’effetto dilatorio di differire la formazione del giudicato, con conseguente ricaduta sulla certezza dei rapporti giuridici, sulla ragionevole graduazione degli strumenti per il riesame del decisum, oltreché sull’economia dei mezzi stessi apprestati dall’ordinamento per la tutela dei diritti e degli interessi (cfr. Cons. St., sez. III, 22 luglio 2019 n. 5158; Cons. St., sez. IV, 3 maggio 2019, n. 2889; Cons. St., sez. V, 19 febbraio 1996, n. 219; Cons. St., sez. IV, 20 marzo 2000, n. 1476; Cons. St., sez. II, 5 giugno 1991, n. 566).
Nei divisati arresti giurisprudenziali la possibilità di riesaminare la sentenza emessa in esito a giudizio di revocazione – nel quadro di una interpretazione costituzionalmente orientata alla luce delle garanzie di tutela in sede giurisdizionale apprestate dall’art. 24 Cost. – potrebbe trovare eccezionale ingresso (contra Cons. Stato, sez. III, 10 luglio 2013 n. 3720) in presenza di un ulteriore ed autonomo errore di fatto, posto a base della sentenza che ha deciso il primo giudizio di revocazione che, in limine litis, abbia precluso l’esplicarsi del rimedio stesso sul piano sostanziale, dando luogo ad una declaratoria di irricevibilità o di inammissibilità per erronea considerazione dei presupposti e delle condizioni a tal fine rilevanti, riconducibile alle ipotesi descritte all’art. 395, comma primo, n. 4, c.p.c. nonché nei casi, del tutto residuali, di nullità della sentenza per il difetto di sottoscrizione in assenza di impedimento ovvero di carenza in toto di elementi essenziali (motivazione o dispositivo), che si risolvono nell’inesistenza stessa dell’atto conclusivo del giudizio revocatorio.
Nella casistica enucleata dalla richiamata giurisprudenza le eccezionali fattispecie che consentirebbero di dare ingresso allo strumento qui in rilievo vengono così individuate:
- a) o nel caso di statuizioni in rito, viziate da errore di fatto, che abbiano sostanzialmente precluso il giudizio di revocazione (ad esempio per la declaratoria, per errore di fatto, della tardività di un ricorso per revocazione in realtà tempestivamente proposto);
- b) o nei casi in cui, per errore di fatto del giudice relativo ad aspetti formali di instaurazione del contraddittorio (ad. es., un difetto di notifica alla controparte non rilevato), la pronuncia risulta insanabilmente affetta da nullità;
- c) o nei casi in cui, per sostanziale mancanza di uno degli elementi ontologicamente fondanti la decisione, quest’ultima non può che essere dichiarata inesistente (per la mancanza della motivazione e/o del dispositivo, per la mancanza di sottoscrizione in difetto di impedimento ovvero sottoscrizione da parte di soggetti non componenti il Collegio giudicante).
5.2. L’intrinseca ragionevolezza di tale approdo, nella parte in cui circoscrive rigorosamente con riferimento a ben individuate fattispecie da ritenersi tassative ed eccezionali l’esperibilità del rimedio in argomento, è di tutta evidenza non potendo evidentemente le liti trascinarsi ininterrottamente e ben oltre la formazione del giudicato.
5.3. Questa Sezione, di recente, ha del tutto condivisibilmente ribadito i principi suesposti soggiungendo che “già le limitazioni previste dal citato art. 395 c.p.c. per la concreta esperibilità del mezzo straordinario di impugnazione rispondono alla ratio di impedire, quale che sia la giurisdizione, la indebita introduzione di un ulteriore grado di giudizio. 18. A maggior ragione il divieto di revocatio revocationis è volto del tutto ragionevolmente ad impedire che l’impugnazione di una sentenza, occasionata dalla proposizione di una impugnazione già definita straordinaria, possa trasformarsi essa stessa in uno strumento per “tenere in vita” la causa, impedendone la decisione definitiva e, dunque, l’effettività della tutela.
- D’altra parte, se non può escludersi – in teoria – che la sentenza pronunciata in sede di revocazione possa essere affetta anch’essa da difetti della medesima specie di quelli ipotizzabili ai sensi dell’art. 395 c.p.c. per una “ordinaria” sentenza, nondimeno la logica complessiva dell’ordinamento giuridico e il buon senso impongono una scelta volta a privilegiare – una volta che è stato già previsto ed utilizzato il mezzo di impugnazione straordinario, e dunque una volta garantita anche questa ulteriore, eccezionale esigenza di tutela – la diversa esigenza di effettività della tutela giurisdizionale e di (conseguita) stabilità dei rapporti giuridici, per come derivanti dalla decisione emessa in sede di revocazione.
- In definitiva, l’ordinamento giuridico opera, nella descritta disciplina della revocazione, un comprensibile e condivisibile bilanciamento tra valori costituzionalmente previsti e tutelati:
– da un lato, la previsione del mezzo straordinario del ricorso per revocazione assolve la funzione di garantire la più piena attuazione del diritto alla tutela giurisdizionale, ai sensi dell’art. 24 Cost., andando anche oltre (proprio perché mezzo di impugnazione straordinario) i gradi ordinari di giudizio;
– dall’altro lato, il divieto di revocatio revocationis afferma lo speculare principio del diritto alla tutela giurisdizionale delle altre parti evocate in giudizio (diritto che ricomprende sia, in negativo, quello di non essere oggetto di innumerevoli azioni, prive di ragionevole giustificazione, sia, in positivo, quello di vedere definito ed assicurato il risultato processualmente conseguito), ed inoltre realizza in concreto il principio di ragionevole durata del processo, ai sensi degli artt. 111, comma secondo, Cost e 6 C. (…)”(cfr. Cons. St., sez. III, 22 luglio 2019 n. 5158).
5.4. Né vengono qui in rilievo indici di sviamento della funzione giudicante tali da consentire di sussumere il caso in argomento in una delle sopra richiamate fattispecie.
E, invero, il mezzo in questione attrae nel fuoco della contestazione la compiutezza e la congruenza dell’ordito motivazionale che, per la sua insufficienza ed erroneità, si risolverebbe in un autentico omesso esame del mezzo revocatorio concretando un vero e proprio rifiuto di esercizio del potere/dovere connesso alla funzione giurisdizionale.
Le doglianze attoree involgono, dunque, direttamente il decisum siccome non idoneo ad integrare una vera risposta alla domanda (revocatoria) azionata dalla ricorrente.
5.5. Pur tuttavia, l’omissione di pronuncia a cui vorrebbe inopportunamente fare appello il ricorrente per accedere alla revocatio revocationis è cosa ben diversa, in quanto matura quale effetto necessitato della radicale assenza di un giudizio di revocazione determinatasi per l’erronea convinzione della sussistenza di vizi (quali la mancata notifica ad una parte necessaria, la violazione del termine di impugnazione, ecc…) che precludono a monte la formazione, nella mente del Giudice, di qualsiasi convincimento – e pertanto di una statuizione di merito – sulla controversia sottoposta al suo esame.
Inoltre, e come già evidenziato nella richiamata giurisprudenza, da cui non vi è ragione di discostarsi, con specifico riferimento alla motivazione, “è bene precisare che, quale requisito ontologico della sentenza, deve esistere un testo (un insieme di segni) riconducibile ad un significante definibile come “motivazione” di quanto deciso, dovendosi al contempo escludere ogni ulteriore analisi cognitiva del testo medesimo (ciò attenendo al significato, e dunque alla sufficienza e logicità, o meno, della motivazione e non già alla sua materiale sussistenza)” (cfr. Cons. St., sez. III, 22 luglio 2019 n. 5158).
5.6. Di contro, non può essere revocato in dubbio che la decisione revocanda si allinei perfettamente, sotto il profilo formale, ai requisiti costitutivi minimi previsti dalla legge per la sua giuridica riconoscibilità, essendo dotata della necessaria motivazione nei termini suesposti, in cui, peraltro, il giudice ha oltretutto espresso il principio regolatorio che avrebbe dovuto governare la fattispecie controversa indicando le ragioni di fondo per cui le plurime ragioni revocatorie dedotte dalla ricorrente, e fatte oggetto di analitica ricognizione, non avrebbero potuto trovare accoglimento.
5.7. D’altro canto, anche a voler concedere, per mera ipotesi, che il ricorso fosse eccezionalmente ammissibile in deroga al divieto imposto dall’art. 107 c.p.a., sarebbe davvero arduo per tutte le ragioni suddette ritenere che il decisum qui in rilievo possa dirsi espressione di un abbaglio dei sensi e, dunque, inficiato da un errore di fatto, non essendo qui in contestazione la corretta percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio ovvero dei motivi revocatori proposti, avendo lo stesso ricorrente ripetutamente dato atto che tali motivi la “sentenza qui impugnata ha correttamente e fedelmente riportato (…)”. A tal proposito, va qui richiamato e confermato l’orientamento secondo cui: “laddove una sentenza menzioni nella parte descrittiva in fatto un motivo di doglianza, pur se ometta di pronunciarsi espressamente su di esso nella parte motiva, ciò non configura un vizio di omessa pronuncia, dovendosi considerare la pronuncia sul punto implicita nella statuizione complessiva della sentenza (Cons. Stato, V, 19 ottobre 2017, n. 4842; III, n. 1330 del 2021, cit.; Id., 7 aprile 2021, n. 2820)” (da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 2021, n. 4225).
Ne discende che, assecondando la richiesta attorea, ad essere sindacata risulterebbe la regula iuris che il Collegio ha inteso applicare per dirimere la controversia valorizzando il dato assorbente dell’attinenza alla componente propria del giudizio ogni valutazione in tema di idoneità complessiva della nuova tariffa disposta in sede di ottemperanza siccome afferente non alla percezione degli elementi acquisiti, bensì alla loro valutazione in termini, come detto, di idoneità, e quindi di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità rispetto alle pur legittime aspettative della parte appellante.
Il Collegio si troverebbe, dunque, a porre rimedio non già ad un errore di fatto ma al criterio di valutazione seguito nel precedente giudizio e cioè a un presunto errore di diritto che, come tale, non può giammai dar luogo ad esito positivo della fase rescindente del giudizio di revocazione, in quanto l’istituto della revocazione è rimedio eccezionale che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio.
E’, infatti, noto che la domanda azionata trascende i limiti del giudizio revocatorio allorché si contesti l’erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o di un esame critico della documentazione acquisita” (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 14/06/2018, n. 3671; Consiglio di Stato, sez. IV, 22 gennaio 2018 n. 406; Id., sez. V, 25 ottobre 2017, n. 4928; Id., sez. V, 6 aprile 2017, n. 1610; Id., sez. V, 12 gennaio 2017 n. 56). Peraltro, ricorre l’errore revocatorio in ipotesi di mancata pronuncia su di una censura sollevata dal ricorrente “purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame o di valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione, non censurabile in sede di revocazione” (Cons. Stato, VI, 22 agosto 2017, n. 4055); sempre in termini, Cons. Stato, V, 12 maggio 2017, n. 2229, secondo cui “L’errore revocatorio è […] configurabile in ipotesi di omessa pronuncia su una censura sollevata dal ricorrente purché risulti evidente dalla lettura della sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame la censura medesima; si deve trattare, in altri termini, di una totale mancanza di esame e/o valutazione del motivo e non di un difetto di motivazione della decisione (cfr., Cons. Stato, Sez. V, 5/4/2016, n. 1331; 22/1/2015, n. 264; Sez. IV, 1/9/2015, n. 4099)” ed ancora “si può affermare che, laddove una sentenza menzioni nella parte descrittiva in fatto un motivo di doglianza, pur se ometta di pronunciarsi espressamente su di esso nella parte motiva, ciò non configura un vizio di omessa pronuncia, dovendosi considerare la pronuncia sul punto implicita nella statuizione complessiva della sentenza” (Cons. Stato, V, 19 ottobre 2017, n. 4842).
5.8. In definitiva, nessun errore percettivo risulta consumato da parte della Sezione avendo avuto – per averlo finanche analiticamente ed in modo diffuso descritto – chiara contezza del contenuto analitico delle censure articolate e del materiale processuale su cui riposava il tema in discussione, come d’altronde riconosciuto dalla stessa parte ricorrente.
Ed è proprio per effetto ed a seguito dello scrutinio della suddetta documentazione, nonché delle tesi difensive che da essa prendevano abbrivio, il giudice di appello è giunto alla statuizione qui contestata.
5.9. Né ad un diverso approdo può pervenirsi per il fatto che precedentemente il Collegio avesse disposto approfondimenti istruttori, non esitati dall’Amministrazione all’uopo onerata, essendo il giudice evidentemente libero in fase decisoria di rivalutare la definibilità del giudizio anche in via implicita e senza necessità di revocare espressamente la precedente ordinanza.
D’altro canto, giova qui nuovamente ribadire che, attraverso la disamina dei passaggi in cui si articola la traiettoria argomentativa del corrispondente capo della decisione, non emergono elementi sintomatici di una sviata attività ricognitiva di lettura degli atti acquisiti al processo che possa aver falsato la corretta rappresentazione delle risultanze di causa, di cui il giudice ha, per converso, dato adeguatamente conto.
- Quanto, poi, alla correttezza della valutazione offerta deve ribadirsi come ciò attenga al processo di valutazione e all’iter logico della decisione del giudice e, dunque, ma solo in via di mera tesi, all’errore di diritto.
Tale è, dunque, il reale significato della contestazione veicolata con la domanda in epigrafe che involge la diversa valutazione delle acquisizioni processuali con decisione che, pertanto, resta qui non sindacabile.
6.1. In definitiva, pur a fronte dell’abile prospettazione difensiva congegnata dai ricorrenti, deve rilevarsi che il nucleo essenziale delle censure suesposte vada qualificato come irritualmente dedotto con il mezzo in epigrafe siccome manifestamente estraneo al ventaglio delle specifiche e tipizzate ipotesi che reggono l’azione di revocazione della revocazione.
6.2. È, invero, di tutta evidenza come, con il mezzo qui in rilievo, il ricorrente contesti una presunta violazione della legge processuale a garanzia dell’effettività e dell’accuratezza dello scrutinio della propria domanda, evenienza questa in alcun modo sussumibile nell’elencazione delle fattispecie che abilitano alla proposizione di tale straordinaria impugnazione (id est revocazione della revocazione).
- Né sembra praticabile l’alternativa opzione ermeneutica di enucleare, sulla scorta di un’interpretazione sistematica dell’ordinamento, pur nella sua articolata composizione multilivello, un principio generale volto, comunque, a garantire, previa declaratoria di nullità della sentenza, ancorché di ultima istanza, la riapertura del processo in presenza di gravi violazioni processuali.
Tale opzione contrasta, invero, con il principio di tipicità e tassatività delle impugnazioni, principio che nell’ordinamento processuale amministrativo non patisce eccezioni nemmeno nel caso in cui la violazione processuale, costituendo finanche una violazione della CEDU, risulti accertata dalla Corte di Strasburgo. Ha, invero, evidenziato la Consulta che, nell’ordinamento italiano la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore. (cfr. (cfr. Corte Costituzionale, n. 123 del 26/05/2017, n. 93 del 21.3.2018).
A conforto di tale approdo, è possibile fare rinvio ad una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ. sez. un., 11/04/2018, n.8984) in cui la Suprema Corte ha evidenziato quanto segue “Nè, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali. Sicché non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendone gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione (conf. Cass., Sez. U., n. 30994/2017, cit.). Inoltre, quanto all’effettività della tutela giudiziaria, anche la giurisprudenza europea e quella costituzionale riconoscono la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, onde assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonchè l’ordinata amministrazione della giustizia (Corte giust., 03/09/2009, Olimpiclub; 30/09/2003, Kobler; 16/03/2006, Kapferer; conf. Corte EDU, 28/07/1998, Omar c. Francia; 27/03/2014, Erfar-Avef c. Grecia; 03/07/2012, Radeva c. Bulgaria); il che convalida il contenimento del rimedio revocatorio per le decisioni di legittimità ai soli casi di “sviste” o di “puri equivoci” senza che rilevino a pretesi errori di valutazione (Corte cost. n. 17/1986, n. 36/1991, n. 207/2009; conf. Cass., Sez. U., n. 30994/2017, cit.)”.
In ragione di quanto evidenziato va, dunque, dichiarata l’inammissibilità del ricorso.
Le spese, in ragione della peculiarità della vicenda scrutinata, possono essere compensate.