Corte di Cassazione, II Sezione Civile, ordinanza 09 marzo 2022, n. 7612
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
4.1. Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione dell’art. 331 c.p.c., e la conseguente nullità del procedimento d’appello, hanno censurato la sentenza impugnato per non avere la corte d’appello disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Ca.An. e Ta.El., chiamati in causa dal T. nel giudizio di primo grado, pur trattandosi di litisconsorti necessari, con la conseguente necessità, prevista dall’art. 331 c.p.c., di integrare il contraddittorio nei loro confronti.
4.2. Il motivo è infondato.
Premesso che l’integrazione del contraddittorio nel giudizio d’appello dev’essere disposta non solo quando il giudizio di primo grado si sia svolto nei confronti di litisconsorti necessari di diritto sostanziale e l’appello non sia stato proposto nei confronti di alcuni di essi, ma anche nel caso di cd. litisconsorzio necessario processuale, e cioè quando l’impugnazione non sia stata proposta nei confronti di tutte le parti, non legate da litisconsorzio necessario, ove si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, derivando la sua necessità dal solo fatto che le parti siano state presenti in primo grado (Cass. n. 7732 del 2016; Cass. n. 14253 del 2016), rileva la Corte che, nel giudizio in cassazione, la parte che lamenti la mancata integrità del contraddittorio nel giudizio d’appello per la sussistenza, non emergente dalla sentenza impugnata, di un litisconsorzio necessario ovvero per natura inscindibile o dipendente delle cause svolte in primo grado, ha l’onere (rimasto, nella specie, del tutto inadempiuto con la dovuta chiarezza e specificità) non soltanto di indicare i soggetti che devono partecipare al processo quali litisconsorti necessari, provandone l’esistenza, ma anche di dimostrare i presupposti di fatto e di diritto che, sul piano sostanziale e/o processuale, ne imponevano, alle luce dei criteri esposti, la partecipazione al processo d’appello (cfr. Cass. n. 21256 del 2017; Cass. n. 23634 del 2018).
D’altra parte, come dedotto dal controricorrente senza che i ricorrenti abbiano sollevato sul punto alcuna contestazione, il tribunale, con la sentenza appellata, aveva dichiarato il difetto di legittimazione passiva dei chiamati in causa Ca.An. e Ta.El. senza che tale sentenza sia stata, sul punto, censurata. Ed è noto, per un verso, che la decisione con cui il giudice di primo grado estrometta dal processo uno dei convenuti, ritenendolo privo di legittimazione passiva, configura una statuizione di rigetto della domanda nei suoi confronti, suscettibile di passare in giudicato se non tempestivamente impugnata, con la conseguenza che la parte rimasta soccombente (e cioè, nella specie, il T.), ove appelli la sentenza solo nei riguardi delle altre parti, accettando, invece, la disposta estromissione, è tenuta ad effettuare solo la mera notifica del gravame, ai sensi dell’art. 332 c.p.c., alla parte estromessa (Cass. n. 8693 del 2015) e, per altro verso, che la sentenza del giudice d’appello, il quale abbia omesso di disporre la notificazione dell’impugnazione relativa a cause scindibili, è suscettibile di essere cassata dalla Corte Suprema soltanto se (ma non è questo il caso), al tempo della decisione di quest’ultima, non siano ancora decorsi i termini per l’appello, non producendo diversamente l’inosservanza dell’art. 332 c.p.c., alcun effetto (Cass. n. 17868 del 2007).
D’altra parte, soggiunge la Corte, è vero che l’obbligatorietà dell’integrazione del contraddittorio nella fase dell’impugnazione, al fine di evitare giudicati contrastanti nella stessa materia e tra soggetti già parti del giudizio, sorge non solo quando la sentenza di primo grado sia stata pronunciata nei confronti di tutte le parti tra le quali esiste litisconsorzio necessario sostanziale e l’impugnazione non sia stata proposta nei confronti di tutte, ma anche nel caso del cosiddetto litisconsorzio necessario processuale, quando l’impugnazione non risulti proposta nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado, sebbene non legati tra loro da un rapporto di litisconsorzio necessario, sempre che si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti (art. 331 c.p.c.), nel qual caso la necessità del litisconsorzio in sede di impugnazione è imposta dal solo fatto che tutte le parti sono state presenti nel giudizio di primo grado, con la conseguenza che, in entrambe le ipotesi, la mancata integrazione del contraddittorio nel giudizio di appello determina la nullità dell’intero procedimento di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità (Cass. n. 1535 del 2010; Cass. n. 26433 del 2017; Cass. n. 8790 del 2019).
È anche vero, però, che, ove la pronuncia del giudice di primo grado, che aveva estromesso una parte dal giudizio, non sia stata, come nel caso in esame, censurata sul punto, il giudicato formatosi al riguardo preclude che la questione possa essere rilevata d’ufficio dal giudice d’appello (Cass. n. 1741 del 1987; Cass. n. 5656 del 1998).
5.1. Con il secondo motivo, prosegue la Corte, i ricorrenti, lamentando la violazione dell’art. 1453 c.c., hanno censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda di risoluzione del preliminare per inadempimento del T. addebitando piuttosto ai promittenti venditori la violazione delle obbligazioni assunte con il contratto, senza, tuttavia, considerare, innanzitutto, che, ai fini dell’inadempimento del promittente venditore, è necessario che, al momento della data fissata per la stipula, sussista un impedimento effettivo e non solo formale, ed, in secondo luogo, che i promittenti venditori avevano ottenuto in data 29/9/1999, e cioè prima della scadenza del termine del 30/9/1999 fissato per il definitivo, l’assenso della banca alla cancellazione dell’ipoteca e del pignoramento accesi sull’immobile.
5.2. Con il terzo motivo, i ricorrenti, lamentando il travisamento di un fatto determinante per la decisione della controversia, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che la trascrizione del pignoramento sull’immobile impediva la stipulazione del contratto definitivo di compravendita senza, tuttavia, considerare che, in realtà, come emerge dagli atti di causa, la banca aveva rinunciato all’ipoteca giudiziale e che il procedimento esecutivo si era estinto con ordinanza del 8/11/1999, per cui il contratto definitivo poteva essere senz’altro stipulato entro il termine del 10/12/1999 fissato per il pagamento del prezzo.
6.1. Il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente, sono infondati.
I ricorrenti, in effetti, tanto con l’una, quanto con l’altra censura, hanno finito, in sostanza, per lamentare l’erronea ricognizione dei fatti che, alla luce delle prove raccolte, ha operato la corte d’appello, lì dove, in particolare, questa, ad onta delle asserite emergenze delle stesse, ha escluso l’inadempimento del promissario acquirente ritenendo che erano stati piuttosto i promittenti venditori a non adempire all’obbligazione assunta con il contratto preliminare di garantire che i beni promessi in vendita erano liberi da ipoteche e da trascrizioni pregiudizievoli. La valutazione delle prove raccolte, però, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione se non per il vizio, nel caso in esame neppure invocato specificamente come tale, consistito, come stabilito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’avere del tutto omesso, in sede di accertamento della fattispecie concreta, l’esame di uno o più fatti storici, principali o secondari, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti e abbiano carattere decisivo, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia.
La valutazione delle risultanze delle prove, precisa la Corte, al pari della scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, in effetti, apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (v. Cass. n. 42 del 2009; Cass. n. 11511 del 2014; Cass. n. 16467 del 2017).
Il compito di questa Corte, del resto, non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), anche se il ricorrente prospetta un migliore e più appagante (ma pur sempre soggettivo) coordinamento dei dati fattuali acquisiti in giudizio (Cass. n. 12052 del 2007), dovendo, invece, solo controllare, a norma dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 360 c.p.c., n. 4, se costoro abbiano dato effettivamente conto delle ragioni in fatto della loro decisione e se la motivazione al riguardo fornita sia solo apparente ovvero perplessa o contraddittoria (ma non più se sia sufficiente: Cass. SU n. 8053 del 2014), e cioè, in definitiva, se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto, com’è in effetti accaduto nel caso in esame, nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.).
6.2. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato le prove raccolte in giudizio, ha ritenuto, senza che tale apprezzamento in fatto sia stato censurato (nell’unico modo possibile, e cioè, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5) per omesso esame di una o più circostanze decisive, che il T. avesse giustificatamene lasciato decorrere il termine, fissato per il 30/9/1999, per la stipulazione del contratto definitivo.
Secondo la corte territoriale, infatti, pur a fronte della clausola in forza della quale i promittenti venditori avevano garantito che i beni promessi in vendita erano liberi da ipoteche e da trascrizioni pregiudizievoli, era emerso che il compendio immobiliare oggetto del contratto preliminare era gravato da ipoteca (iscritta in data 30/9/1996) e da pignoramento (trascritto in data 30/10/1996) e che tale circostanza era stata contestata ai promittenti venditori. Ed una volta accertato che, ad onta di quanto garantito dai promittenti venditori, il bene promesso in vendita era gravato da formalità pregiudizievoli e che tale circostanza era stata contestata ai promittenti venditori, non si presta, evidentemente, a censure la decisione che la stessa corte ha conseguentemente assunto, e cioè il rigetto della domanda proposta dagli attori in quanto volta, appunto, alla risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del promissario acquirente.
Il promissario acquirente di un immobile, garantito libero da ipoteche ma, in realtà, da esse gravato, può, infatti, legittimamente rifiutare di stipulare il contratto definitivo se, come accertato nel caso in esame, alla data fissata per la relativa stipulazione, tali formalità pregiudizievoli non siano cancellate dal promittente venditore (cfr. Cass. n. 20961 del 2017; Cass. n. 1431 del 1979), avendo, in tale ipotesi, solo la facoltà, non l’obbligo, ai sensi dell’art. 1482 c.c., comma 1 (applicabile al contratto preliminare), di chiedere al giudice la fissazione di un termine per la liberazione dal vincolo da parte del promittente venditore (Cass. n. 19097 del 2009; Cass. n. 20961 del 2017).
- Il ricorso, conclude la Corte, dev’essere, quindi, rigettato.
- Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
- La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.