Massima
Rispetto al tenore letterale di una norma incriminatrice, sottile è la linea che separa il “dentro” dell’interpretazione estensiva – laddove il caso affrontato, quand’anche “limite”, può comunque ancora essere ricondotto all’usbergo letterale della disposizione scandagliata – dal “fuori” dell’applicazione analogica, laddove il caso considerato è senz’altro oltre la portata semantica abbracciata dalla disposizione che si interpreta, e tuttavia viene “fatto disciplinare” da essa sulla base di una mera somiglianza di fattispecie, al fine di sopperire ad una lacuna del sistema normativo.
Crono-articolo
Durante tutta l’epoca repubblicana e fino al primo impero, è l’opera della giurisprudenza romana a produrre diritto positivo: sono indefiniti i rapporti giuridici in relazione ai quali i prudentes “creano” la norma da applicare, attraverso la c.d. interpretatio prudentium, e ciò prendendo sovente spunto dai precedenti resi su casi analoghi. Tanto premesso in via generale, occorre tuttavia precisare – lo è stato fatto notare dalla dottrina – come presso i Romani ogni decisione della “giurisprudenza” abbia un’efficacia particolare e trovi il proprio fondamento giuridico sull’auctoritas del singolo giurista o magistrato che la prende: da questo punto di vista, la disciplina dettata per il caso singolo non può assurgere a norma di efficacia generale idonea a disciplinare, in quanto tale, altri casi secondo il paradigma dell’analogia (siccome elaborato in epoca successiva): se per la disciplina di rapporti analoghi si è in precedenza deciso in un certo modo, ciò formalmente non rileva ai fini della decisione del nuovo caso che, seppure appunto analogo, è “normato” dal singolo giurista (magistrato, giureconsulto) che se ne occupa e dall’auctoritas che da esso promana; dal punto di vista sostanziale, nondimeno, non può negarsi il peso esercitato dalla tradizione giuridica pregressa e, con esso, la forza degli exempla resi in fattispecie analoghe già “decise” e dunque “normate” dalla giurisprudenza che contribuisce a plasmare tale tradizione. Senza dire che, dinanzi a casi che presentano una qualche somiglianza, sono le stesse esigenze di giustizia e di equità ad imporre soluzioni non dissimili. Questo significa che, quand’anche non in modo cosciente secondo i termini moderni, i Romani fanno certamente applicazione del ragionamento analogico, seppure non assumendolo mai come procedimento mentale che consente ad una conclusione raggiunta con norme generali di essere logicamente applicata a fattispecie speciali non normate. Nel tardo impero, ed in particolare nelle costituzioni imperiali del periodo di Diocleziano, compaiono poi espressioni come “ad exemplum“, “ad instar“, “ad similitudinem“, che stanno a significare come l’Imperatore disciplini una specifica fattispecie ispirandosi a quella di altra fattispecie simile, e tuttavia anche in questo caso, dal punto di vista formale, non si ha vera e propria analogia dal momento che ancora una volta è la potestas dell’Imperatore a normare il singolo caso specifico, seppure sostanzialmente rifacendosi alla disciplina di un precedente caso analogo. Ad un certo punto tuttavia, i giudici iniziano ad utilizzare la decisione contenuta in un rescritto imperiale al dichiarato fine di decidere casi analoghi, onde se il rescritto imperiale poggia “dall’alto” sull’auctoritas dell’Imperatore, l’applicazione che ne viene fatta “dal basso” dalla giurisprudenza si atteggia ormai a vera e propria estensione analogica delle relative statuizioni. Ciò spinge Giustiniano – che assume il procedimento analogico pericoloso in ottica di certezza del diritto – a vietare l’interpretazione analogica delle proprie disposizioni da parte dei giuristi e dei giudici, sul presupposto onde (Digesto, costituzione “Tanta”) “imperatori soli concessum est et leges condere et interpretari” (spetta dunque al solo Imperatore elaborare le leggi ed interpetarle).
1889
La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “espressamente” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Interessante notare come la parola “espressa”, riferita a “disposizione di legge”, viene proposta alla Commissione preparatoria del codice sin dal 1866, su impulso del prof. Giampaolo Tolomei: una proposta che viene accolta dalla Commissione confluendo nella versione finale del codice, proprio al fine di escludere ogni base all’applicazione dell’analogia in materia penale.
1930
Il codice penale all’art.1 prevede, sulla scia del precedente del 1889, che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “espressamente” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite, così indirettamente negando cittadinanza all’applicazione analogica, in perfetta continuità col codice Zanardelli. Il codice dipinge poi talune fattispecie che saranno rilevanti nella giurisprudenza successiva al fine di distinguere tra interpretazione estensiva ed applicazione analogica:
- l’art.57 in tema di reati commessi col mezzo della stampa periodica, laddove è prevista una responsabilità autonoma a titolo di colpa per il direttore che omette di esercitare sul contenuto del periodico che dirige il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati; una norma delicata già sul versante del possibile concorso tra reato doloso e colposo, oltre che dell’omissione impropria applicata ad un reato di pura condotta e non già di evento;
- l’art.593, comma 2, laddove si punisce per omissione di soccorso chi abbia “trovato” il bisognoso di tale soccorso;
- l’art.628, comma 2, in tema di rapina impropria, in connessione con il tentativo ex art.56 (tentativo di rapina impropria);
- l’art.660 laddove punisce le molestie arrecate in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il “mezzo del telefono”;
- l’art.674, che punisce il “getto pericoloso di cose”.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. 262, codice civile, le cui disposizioni preliminari annoverano l’art.14 onde le leggi penali (assieme a quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi, c.d. eccezionali) non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati: in sostanza, le leggi penali non sono applicabili in via analogica.
Importante anche l’art.12 delle c.d. preleggi in tema di interpretazione, onde nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore; se tuttavia una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe e, se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.
1948
La Costituzione, entrata in vigore il 01 gennaio, ribadisce che è una legge a dover prevedere quali comportamenti siano punibili e a quali pene sia soggetto il reo che li pone in essere; in particolare viene in rilievo la disposizione di cui all’art.25, comma 2, della Carta, anche in relazione all’art.24 sul diritto di difesa e all’art.27 sul principio di colpevolezza e sulle finalità di prevenzione della norma penale (e di connessa, tendenziale rieducazione della pena), che vengono frustrate se il cittadino non è in grado di capire cosa viene punito e se il giudice, per parte sua, può punire o non punire secondo propria, arbitraria discrezione, applicando la legge penale – giusta analogia – anche a casi ai quali essa letteralmente non dovrebbe applicarsi. In ambito più specifico, rilevante anche l’art.21, comma 3, onde si può procedere a sequestro della stampa soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.
L’8 febbraio viene varata la legge n.47, recante disposizioni sulla stampa, che disciplina lo statuto della stampa periodica cartacea, anche in termini di repressione della c.d. stampa clandestina (articoli 5 e 16).
1978
Il 31 gennaio esce la sentenza della Cassazione n.378 che si occupa dell’art.593, comma 2, c.p. in tema di omissione di soccorso. La norma punisce la fattispecie di chi abbia “trovato” un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo, ed ometta appunto di soccorrerla; sicuramente si è dinanzi ad un “trovare” allorché il soggetto agente abbia un contatto materiale diretto, attraverso gli organi sensoriali, con l’oggetto del ritrovamento, mentre i dubbi si pongono per chi non sia protagonista di tale ritrovamento in modo diretto, ma abbia piuttosto la mera notizia che qualcuno si trova in pericolo in un luogo lontano, senza poterne avere percezione diretta con i propri sensi. La Corte si trova in particolare dinanzi al caso di un medico che si trova in stazione alle 16.15 del pomeriggio e si rifiuta di attendere le 16.30, ora di arrivo di un treno in cui si trova un soggetto rimasto vittima di un malore e dunque bisognoso di soccorso; per la Corte, “trovare” può al più essere interpretato in via estensiva, onde si “trova” non solo il soggetto nel quale ci si imbatte “nunc” e che ha bisogno di soccorso, ma anche il soggetto che si trova già (ex ante) in presenza di chi dovrebbe agire allorché il pericolo insorge; oltre questi casi – come appunto nell’ipotesi in cui il soggetto agente e che dovrebbe agire è lontano dal luogo in cui il pericolo è insorto e dovrebbe attendere del tempo (ex post) per imbattersi nel soggetto bisognoso di aiuto – si deborda nella applicazione analogica in malam partem, inammissibile in materia penale.
1991
Il 3 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.9392, D’Amico, alla cui stregua – in tema di bancarotta – non è consentito equiparare la posizione dell’imprenditore che, ex art.236 della legge fallimentare, si attribuisce attività inesistenti (soggetta a sanzione penale) all’imprenditore che sopravvaluti attività esistenti (non punibile), trattandosi non già di interpretazione estensiva, ma di applicazione analogica non ammessa in materia penale. Riferire la disposizione penale a casi in alcun modo riconducibili ad alcuno dei relativi, possibili significati significa per la Corte fuoriuscire dall’interpretazione (quand’anche estensiva), per debordare nella applicazione analogica.
Il 30 dicembre viene varata la legge n.413 che inserisce nel D.p.R. 600 del 1973 in tema di imposte sui redditi l’art.37.bis in tema di elusione fiscale, onde sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. La PA, secondo tale disposizione (a valle di un contraddittorio tra Fisco e contribuente) disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1, applicando le (maggiori) imposte (lorde) determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle (minori) imposte (già di per sé) dovute per effetto del comportamento tenuto (inopponibile all’Amministrazione perché elusivo). La norma è inserita tra le disposizioni in tema di imposte sui redditi, ed in futuro si dubiterà in ordine alla relativa applicazione ad imposte diverse, in particolare alle imposte indirette, prima fra tutte l’IVA.
1993
Il 23 dicembre viene varata la legge 547, il cui articolo 4 inserisce nel codice penale l’art.615.ter che punisce l’accesso abusivo a sistema informatico.
1997
Il 24 gennaio viene varata la legge costituzionale n.1 istitutiva di una Commissione Bicamerale che, insediatasi, vara un progetto di riforma costituzionale; il relativo art.129 punta ad introdurre il generale divieto di interpretare le leggi penali in modo analogico o estensivo, così accomunando sotto il medesimo divieto tanto l’analogia quanto l’interpretazione estensiva, e peraltro collocando l’analogia nell’ambito della interpretazione.
1998
Il 01 ottobre viene varato un D.M. che nomina una Commissione ministeriale per la riforma del codice penale (c.d. “Progetto Grosso”), che propone un nuovo art.2, comma 1, del codice penale in cui viene espressamente previsto il divieto di analogia in materia penale, nel solco dell’art.14 delle disposizioni preliminari al codice civile; viene tuttavia chiarito che il divieto di analogia riguarda le sole norme incriminatrici, e non già quelle di favore, potendosi ammettere (sulla scia della dottrina più accreditata) una analogia in bonam partem.
2000
Il 10 marzo viene varato il decreto legislativo n.74 che contiene l’impianto del nuovo diritto penale tributario.
Il 27 luglio viene varata la legge n.212, c.d. statuto del contribuente, che disciplina i rapporti tra contribuenti e Fisco.
Il 12 dicembre esce la sentenza della sezione feriale della Cassazione n.12960 che assume applicabile l’art.57 c.p. in tema di responsabilità omissiva (colposa) del direttore responsabile nel settore della carta stampata anche al direttore di testata televisiva. Si tratta di una pronuncia che rimarrà isolata, anche perché più che una interpretazione estensiva sembra far luogo ad una vera e propria applicazione analogica in malam partem del ridetto art.57 c.p.
2001
L’11 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n. 33453, alla cui stregua l’interrogatorio dell’indagato, effettuato dalla polizia giudiziaria per delega del pubblico ministero ai sensi dell’art. 370 cod. proc. pen., non e’ atto idoneo ad interrompere il corso della prescrizione, non rientrando nel novero degli atti, produttivi di tale effetto, indicati nell’art. 160, comma II, cod. pen. e non essendo questi ultimi – da assumersi tassativi – suscettibili di ampliamento per via interpretativa, stante il divieto di analogia in malam partem materia penale.
2005
Il 17 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.18449, alla cui stregua l’invio in rapida sequenza di due messaggi sms di contenuto ingiurioso non appare idoneo a ledere il bene giuridico della privata tranquillità ma soltanto quello dell’onore personale; per la Corte, la previsione incriminatrice di cui all’art.660 c.p. sulle molestie col mezzo del telefono, formulata in un’epoca in cui l’impiego del telefono era concepibile soltanto mediante comunicazioni vocali, non può ritenersi estensibile anche all’ipotesi in cui detto mezzo (nella specie telefono cellulare) sia utilizzato esclusivamente per l’invio dei cosiddetti ‘sms‘, pienamente assimilabili agli scritti contemplati dall’articolo 594 c.p. piuttosto che alle comunicazioni telefoniche di cui appunto all’articolo 660 c.p., onde nel caso di specie deve assumersi integrato il diverso reato di ingiuria.
2006
Il 14 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.30663, Grimoldi, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p.; per la Corte tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “accesso” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva – anche l’abusivo “mantenersi” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “mantenimento”. Da questo punto di vista si ha “accesso” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.
2007
Il 5 giugno esce la sentenza delle SSUU n.21833, che si occupa del contrasto che si agita intorno all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con particolare riguardo alla questione se esso sia idoneo o meno ad interrompere il termine di prescrizione del reato. La Corte richiama in proposito entrambi gli orientamenti, ed in particolare quello che assume l’avviso di conclusione delle indagini preliminari idoneo ad interrompere la prescrizione ridetta, sulla base di quella giurisprudenza che – in disparte anche la sostanziale equipollenza tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, quale atto che deve sempre precedere l’esercizio dell’azione penale e che tuttavia non è espressamente previsto all’art.160 c.p., da un lato, e l’invito a presentarsi innanzi al PM per rendere l’interrogatorio di cui all’art.375 c.p.p., che è atto invece espressamente previsto al ridetto art.160 c.p., dall’altro – fa piuttosto e soprattutto leva sul fatto che l’art.415 bis c.p.p. riconosce all’indagato la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio a seguito proprio della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, onde si sarebbe al cospetto di una conferma testuale dell’effetto interruttivo in parola, sol che si consideri come nell’avviso di deposito di cui all’art.415.bis c.p.p. è sostanzialmente contenuto un avviso di presentarsi al PM, che è esplicitamente assunto dall’art.160 c.p. quale atto interruttivo della prescrizione. Le SSUU nondimeno abbracciano l’opposto orientamento inteso ad assumere l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non idoneo ad interrompere la prescrizione, tratteggiandone la figura e muovendo dal presupposto onde le norme che disciplinano la prescrizione del reato – e dunque anche la relativa interruzione – hanno natura sostanziale e non già processuale, producendo l’interruzione della prescrizione un rimarchevole effetto negativo per l’indagato (o per colui che è ormai imputato): proprio muovendo da tale premessa sistematica, per il Collegio occorre tenere ben presente il principio di legalità ed in particolare il principio di determinatezza delle fattispecie penali sostanziali, siccome consacrato nell’art.25, comma 2, Cost., in una con il collaterale divieto di applicazione analogica della legge penale di cui all’art.14 delle Preleggi, onde l’elenco degli atti che determinano l’interruzione della prescrizione del reato ex art.160 c.p. deve assumersi tassativo
2008
Il 17 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 2534, Migliazzo, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“accesso abusivo” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è ab origine legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “per estensione” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.
*Il 3 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 26797, Scimia, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“accesso abusivo” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è ab origine legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “per estensione” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.
*Il 01 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.37322, Bassani, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p. e ribadisce che tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “accesso” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva – anche l’abusivo “mantenersi” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “mantenimento”. Da questo punto di vista si ha “accesso” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.
*L’8 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 39290, Peparaio, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“accesso abusivo” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è ab origine legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “per estensione” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.
Il 23 dicembre escono le sentenze gemelle delle SSUU della Cassazione n. 30055, 30057 e 30058, che riconoscono la presenza nel sistema di un generale principio antielusivo ritraibile – per quanto concerne i tributi non armonizzati, e dunque in particolare le imposte dirette – dall’art.53 della Costituzione in tema di capacità contributiva e di imposizione tendenzialmente progressiva.
2009
*Il 30 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.18006, Russo, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p. e ribadisce che tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “accesso” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva – anche l’abusivo “mantenersi” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “mantenimento”. Da questo punto di vista si ha “accesso” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.
*Il 14 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 40078, Genchi, che torna ad occuparsi dell’accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art.615.ter c.p. e, andando in contrario avviso rispetto a diversa giurisprudenza, muove dal presupposto onde tale norma punisce il solo l’“accesso abusivo” a sistema informatico o telematico: se dunque l’accesso è ab origine legittimo e lecito in quanto avvinto alla pertinente autorizzazione che lo fonda, esso resta tale anche se poi il soggetto agente – una volta operato lecitamente l’accesso in parola – persegua finalità estranee a quelle dell’ufficio e perfino finalità illecite. In sostanza, non può essere punito “per estensione” (che nasconde una analogia) il soggetto agente che acceda al sistema munito di un titolo e poi persegua finalità estranee rispetto a quelle per le quali ha ottenuto il titolo di accesso.
Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.20106, c.d. caso Renault, che si occupa – in una fattispecie afferente a concessioni di vendita di automobili – dell’abuso del diritto (una manifestazione del quale in ambito tributario è l’elusione fiscale), onde l’esercizio di un qualunque diritto è abusivo allorché avvenga secondo modalità che, pur formalmente rispettose della cornice attributiva del diritto medesimo, risultano preordinate a conseguire scopi diversi rispetto a quelli prefissati dal legislatore allorché ne ha delineato in contorni.
2010
Il 30 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24510, che si occupa delle molestie arrecate per mezzo del computer, giusta utilizzo delle e-mail. La Corte muove dal principio di tassatività scolpito all’art.25, comma 2, Cost. onde la previsione incriminatrice delle molestie “col mezzo del telefono” non può essere dilatata fino a comprendere l’invio di posta elettronica sgradita, che provochi turbamento o quanto meno fastidio in chi la riceve. Si tratta infatti di appuntarsi sulla lettera della legge e dunque sul tenore letterale della disposizione incriminatrice che, anche laddove interpretata estensivamente, non consente di punire ai sensi dell’art.660 c.p. le molestie arrecate via computer attraverso la spedizione di e-mail moleste: la posta elettronica utilizza infatti, precisa la Corte, la rete telefonica e la rete cellulare delle bande di frequenza, ma non il telefono. A ciò va aggiunto, sempre secondo la Corte, che la posta elettronica presenta una caratteristica comune alla normale corrispondenza cartacea, compendiantesi in una comunicazione a-sincrona laddove non è configurabile alcune immediata interazione tra mittente e destinatario, potendo quest’ultimo evitare intromissioni nella propria sfera personale semplicemente omettendo di aprire il messaggio di posta elettronica non desiderato. La Corte sembra dunque affermare che applicare l’art.660 c.p. all’invio di e-mail moleste corrisponde più ad una inammissibile applicazione analogica che ad una consentita interpretazione estensiva.
Il 01 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35511 che assume non applicabile al direttore di testata telematica l’art.57 c.p. in tema di responsabilità (a titolo di colpa) del direttore di testata tradizionale (carta stampata). La stampa, giuridicamente intesa ai sensi dell’art.1 della legge n.47 del 1948, è tale a due condizioni precise, ovvero (preliminarmente) la riproduzione tipografica e (successivamente) la destinazione alla pubblicazione – e quindi alla distribuzione effettiva tra il pubblico – di tale riproduzione tipografica. Tali condizioni non sono presenti nella stampa telematica, alla quale non è appunto applicabile l’art.57 c.p., trattandosi di inammissibile applicazione analogica.
*Il 10 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.39620, Lesce, che si occupa dell’acceso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter c.p. e ribadisce che tale fattispecie si configura anche allorché colui che accede al sistema è autorizzato a farlo, ma con una specifica finalità, utilizzando poi il titolo di legittimazione all’accesso per una finalità diversa (una forma dunque di sviamento di potere, quand’anche in ambito privato). In simili fattispecie il soggetto agente, per la Corte, non rispetta le condizioni alle quali è subordinato il proprio legittimo (e lecito) accesso, stante come l’autorizzazione all’accesso in parola è finalizzata ad un determinato scopo, palesandosi allora l’ingresso abusivo laddove la pertinente autorizzazione sia utilizzata per uno scopo diverso rispetto a quello cui essa è avvinta. Secondo questo orientamento peraltro, anche se la disposizione parla di “accesso” abusivo, deve considerarsi tale – in forza di una ammissibile interpretazione estensiva – anche l’abusivo “mantenersi” nel sistema contro la volontà (espressa o tacita) di chi potrebbe escludere tale “mantenimento”. Da questo punto di vista si ha “accesso” abusivo anche quando il primo accesso al sistema è legittimo, ma il soggetto agente si mantiene nel sistema cui è legittimamente acceduto per finalità estranee ai propri fini istituzionali, che fondano appunto l’autorizzazione all’accesso in parola.
2011
Il 16 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10983, alla cui stregua è punibile ai sensi dell’art.660 c.p. per molestia recata “col mezzo del telefono” chi invia sms molesti: è vero che il legislatore del 1930 si riferiva indiscutibilmente alla comunicazione vocale, e tuttavia la norma incriminatrice va interpretata in senso evolutivo, onde si molesta “col mezzo del telefono” anche via sms, rimanendosi nell’ambito dei casi riconducibili al tenore letterale della disposizione, giusta relativa interpretazione estensiva, senza debordare in una applicazione analogica.
Il 20 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15657 che si occupa dell’applicabilità del decreto 231.01 e della responsabilità ivi prevista all’impresa individuale, ammettendola e così sconfessando un precedente orientamento inteso a negarla. Occorre per la Corte muovere da una interpretazione costituzionalmente orientata del decreto, dovendo scongiurarsi una irragionevole disparità di trattamento tra impresa individuale ed impresa organizzata in forma societaria, e ciò attraverso una considerazione dell’impresa individuale quale soggetto assimilabile ad un ente fornito di personalità giuridica. Per la Corte non può negarsi che l’impresa individuale possa essere assimilata ad una persona giuridica nella quale viene a confondersi l’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata attività economica, sol che si badi al fatto che molte imprese individuali sovente ricorrono ad una organizzazione interna di tipo complesso nella cui orbita si prescinde dal sistematico intervento del titolare dell’impresa medesima per la soluzione di determinate problematiche, con possibilità che ne resti coinvolta la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore, e che tuttavia operano nell’interesse suo e della sua azienda. Per la Corte ad opinare diversamente si correrebbe anche il rischio di un vuoto normativo capace di produrre gravi ricadute di tipo costituzionale – sul crinale della disparità di trattamento – tra coloro che ricorrono a forme (spesso, solo apparentemente) semplici di impresa, ai quali il decreto 231.01 non si applicherebbe, e coloro che invece ricorrono a strutture ben più complesse e articolate (quand’anche magari solo nella forma giuridica prescelta, di tipo societario), ai quali invece esso inesorabilmente si applicherebbe. L’art.1, comma 2, del decreto dovrebbe essere allora interpretato con portata soggettivamente ampia, anche perché è un testo che non fa alcun cenno alle imprese individuali, onde esse non possono assumersi a priori escluse dall’area precettiva del decreto, dovendo piuttosto intendersene implicitamente incluse. La dottrina contesta tuttavia questa nuova e più rigorosa presa di posizione della Corte, sia perché non risponde partitamente a tutte le argomentazioni di cui all’orientamento opposto, sia perché sembra far luogo ad una vietata applicazione analogica (assai più che una mera interpretazione estensiva) dell’art.1 del decreto 231.01.
*Il 29 luglio esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.30294, alla cui stregua è punibile ai sensi dell’art.660 c.p. per molestia recata “col mezzo del telefono” chi invia sms molesti: è vero che il legislatore del 1930 si riferiva indiscutibilmente alla comunicazione vocale, e tuttavia la norma incriminatrice va interpretata in senso evolutivo, onde si molesta “col mezzo del telefono” anche via sms, rimanendosi nell’ambito dei casi riconducibili al tenore letterale della disposizione, giusta relativa interpretazione estensiva, senza debordare in una applicazione analogica.
Il 12 ottobre esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.36779 che si occupa ancora una volta dell’art.660 c.p., con riguardo alla spedizione delle e-mail, laddove queste vengano inoltrate non già tramite computer, quanto piuttosto tramite telefoni cellulari di ultima generazione: in questa ipotesi – e-mail scambiata tra due telefoni cellulari – la fattispecie è per la Corte analoga a quella degli sms, onde la comunicazione deve intendersi avvenire “col mezzo del telefono” giusta modalità sincrona, senza che il destinatario della e-mail possa sottrarsi (quanto meno) al segnale acustico che avvisa dell’arrivo del messaggio mail, con conseguente applicabilità dell’art.660 c.p. laddove si configuri la molestia.
Il 29 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.44126 che ribadisce non applicabile al direttore di testata telematica l’art.57 c.p. in tema di responsabilità (a titolo di colpa) del direttore di testata tradizionale (carta stampata). La stampa, giuridicamente intesa ai sensi dell’art.1 della legge n.47 del 1948, è tale a due condizioni precise, ovvero (preliminarmente) la riproduzione tipografica e (successivamente) la destinazione alla pubblicazione – e quindi alla distribuzione effettiva tra il pubblico – di tale riproduzione tipografica. Tali condizioni non sono presenti nella stampa telematica, alla quale non è appunto applicabile l’art.57 c.p., trattandosi di inammissibile applicazione analogica. La Corte chiarisce infatti che non si è al cospetto di un medesimo testo redatto in originale e poi riprodotto in modo molteplice su supporti fisici per destinarlo alla distribuzione presso il pubblico, onde difetta nel caso della stampa telematica il requisito della riproduzione tipografica. Peraltro in caso di testata telematica il testo pubblicato su internet – in termini di luogo di effettiva esistenza e di divulgazione delle notizie in esso contenute – è presente esclusivamente nella relativa pagina di pubblicazione, pur essendo esso visualizzabile su un numero indefinito e molteplice di dispositivi hardware, onde non si realizza alcuna distribuzione su supporto fisico; peraltro, mentre la stampa tipografica può essere fruita in via immediata dal lettore, la stampa telematica, anche se venisse “versata” su un supporto fisico, richiederebbe comunque un apparato di lettura per poterla consultare da parte del singolo lettore: manca dunque anche il requisito della pubblicazione giusta destinazione al pubblico (per come la intende la legge del 1948 sulla stampa), in quanto il contenuto è uno e non viene “portato” ai potenziali lettori su molteplici supporti fisici, ma è solo visualizzabile da essi in modo molteplice e contemporaneo dai rispettivi dispositivi. Per la Corte si è dunque al cospetto di una lacuna normativa che non può essere colmata dal giudice penale attraverso una inammissibile applicazione analogica. Da questo punto di vista, il direttore responsabile di un giornale telematico può dunque essere eventualmente chiamato a rispondere per diffamazione, in concorso con l’autore della pubblicazione ed in presenza di dolo, ma non già per omissione colposa di controllo ex art.57 c.p.
2012
Il 7 febbraio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4694 in tema di accesso abusivo a sistema informatico, alla cui stregua l’art.615.ter c.p. punisce sia chi accede senza titolo al sistema, sia chi vi accede munito di titolo autorizzativo, ma vi si mantiene poi con finalità diverse rispetto a quelle oggetto di autorizzazione. Per le SSUU le condotte di accesso e di mantenimento nel sistema divengono penalmente rilevanti sia allorché il soggetto agente violi le indicazioni del titolare del sistema ex ante, accedendovi abusivamente, sia quando – ex post, ed operato un accesso lecito – compie attività ontologicamente diverse da quelle per le quali l’accesso in parola gli è stato consentito, poiché anche in questa seconda ipotesi egli va oltre quanto autorizzatogli, superando la soglia del penalmente lecito e divenendo punibile, dovendosi assumere implicito il dissenso del dominus autorizzante laddove chi è autorizzato violi in misura oggettiva le indicazioni al cospetto delle quali l’accesso gli è stato consentito. Va tuttavia sottolineato come, dinanzi al contrasto di giurisprudenza che esse si trovano a dipanare, le SSUU assumono la questione di diritto controversa non afferire al profilo delle finalità perseguite da chi accede o si mantiene nel sistema, e ciò in quanto la volontà del titolare del diritto di escludere si connette soltanto al dato oggettivo della permanenza dell’agente in esso; in altri termini, la volontà contraria dell’avente diritto (autorizzante) deve essere verificata solo con riferimento al risultato immediato della condotta posta in essere, non già ai fatti successivi, onde a rilevare è solo il profilo oggettivo dell’accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto non autorizzato – o non più autorizzato – ad accedervi o a permanervi, sia quando questi violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema e contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro, sia quando ponga in essere operazioni di natura diversa da quelle di cui è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso gli è consentito. Per la Corte, il giudizio sull’esistenza del dissenso del dominus loci non può essere allora formulato in base alla direzione finalistica della condotta, ma deve assumere come parametro la sussistenza di una oggettiva violazione delle prescrizioni impartite dal dominus stesso circa l’uso del sistema, onde qualora l’agente compia sul sistema un’operazione pienamente assentita dall’autorizzazione ricevuta e agisca nei limiti di questa, il reato di cui all’art. 615-ter c.p. non è per le SSUU configurabile, dovendosi prescindere dallo scopo ulteriore eventualmente perseguito; in altri termini, qualora l’attività autorizzata consista anche nella acquisizione di dati informatici e l’operatore la esegua nei limiti e nelle forme consentiti dal titolare del diritto di esclusione, il delitto in esame non può assumersi configurato, quand’anche degli stessi dati il soggetto agente si dovesse poi servire per finalità illecite, palesandosi irrilevanti gli eventuali fatti successivi ad un accesso o ad un trattenimento lecito che, se del caso, potranno essere ricondotti ad altro titolo di reato (ad esempio, alle previsioni di cui agli artt. 326, 618, 621 e 622 c.p.).
Il 28 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7739, caso Dolce & Gabbana, che – sconfessando la precedente giurisprudenza in senso contrario – attribuisce rilevanza penale all’elusione fiscale; per la Corte, più in particolare, in presenza di una elusione fiscale sono applicabili gli articoli 4 (dichiarazione infedele) e 5 (omessa dichiarazione) di cui al decreto legislativo n.74 del 2000 in tema di diritto penale tributario. L’art.1, lettera f), del decreto legislativo ridetto fornisce una ampia nozione di “imposta evasa”, quale differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella (minore) indicata in dichiarazione, che si compendia nell’intera imposta dovuta in caso di dichiarazione omessa: per la Corte, si è al cospetto di una definizione idonea a ricomprendere anche l’imposta (non evasa, ma solo) elusa, quale differenza appunto tra l’imposta effettivamente dovuta – afferente all’operazione oggetto di elusione – e quella dichiarata ed autoliquidata sull’operazione elusiva. La Corte corrobora le proprie conclusioni anche con considerazioni di politica criminale, partendo dal presupposto onde il legislatore ha incentrato la risposta punitiva sulla dichiarazione annuale: in sostanza ogni anno si dichiara al Fisco, e si hanno fattispecie penali in presenza di infedeltà dichiarativa nel singolo anno di imposta, onde se questa deriva da una elusione piuttosto che da una vera e propria evasione, essa non può comunque andare esente da sanzione penale; il legislatore tutela infatti il bene (interesse) compendiantesi nella corretta percezione annuale del tributo, onde laddove si verifichi una riduzione o financo una esclusione della base imponibile, non può non scattare l’ambito applicativo delle singole fattispecie incriminatrici che presidiano penalmente il detto bene giuridico. Né potrebbe invocarsi, al fine di scongiurare l’applicazione delle fattispecie penali tributarie in materia di elusione, il principio di legalità poiché, se si tiene conto della ratio delle norme incriminatrici da applicare, della relativa finalità e della precipua collocazione sistematica, si è al cospetto di un risultato interpretativo conforme ad una ragionevole prevedibilità. La Corte sembra dunque affermare che applicare le sanzioni penali tributarie previste per l’evasione fiscale alla mera elusione significa operare una ammissibile interpretazione estensiva, e non già una inammissibile applicazione analogica; ciò andando in contrario avviso rispetto alla dottrina maggioritaria (oltre che alla precedente giurisprudenza), che ha sempre ricondotto all’elusione fiscale effetti di mera inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, senza possibilità di applicare sanzioni penali, a meno di non volersi porre in netta frizione con il principio di legalità di cui all’art.25, comma 2, Cost., dovendosi intendere il decreto legislativo n.74.00 come inteso a sanzionare le sole condotte evasive “tipiche”, e non già quelle meramente elusive (o abusive) che sono connotate da atipicità e proprio perché tali sono in contrasto con la necessaria tipicità di ogni fattispecie penale. La dottrina ha in proposito evidenziato anche una contraddizione della quale la Corte non sembra, nel caso di specie, tenere conto: l’elusione fiscale, quale forma di abuso del diritto, va ricondotta a fatti conformi al diritto, ma connotati da finalità che contrastano con lo spirito della legge, onde assumere applicabile una fattispecie incriminatrice all’elusione fiscale significa assumerla tout court illecita, escludendo dunque la stessa configurabilità ontologica dell’elusione (che è tale proprio perché non illecita, quand’anche persegua fini non rispondenti allo spirito del sistema tributario).
Il 13 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 23230 che – dopo aver premesso, sulla scorta della giurisprudenza maggioritaria, come possa parlarsi di prodotto di stampa ai sensi della legge n.47.48 solo in presenza di una attività di riproduzione tipografica del prodotto medesimo e di successiva destinazione alla pubblicazione di tale prodotto – assume non estensibile l’obbligo di registrazione presso la cancelleria del Tribunale (nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi) di cui all’art.5 della legge in parola, previsto per la testata cartacea, al giornale telematico; ne consegue il precipitato onde, in caso di omessa registrazione di tale testata telematica, non si può applicare la fattispecie penale in tema di stampa clandestina prevista dall’art.16 della legge sulla stampa, incorrendosi in caso contrario in una interpretazione analogica della pertinente fattispecie, in frizione con l’art.14 delle preleggi e con l’art.25, comma 2, della Costituzione.
Il 21 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24670 che si occupa delle molestie col mezzo del telefono di cui all’art.660 c.p. e della relativa configurabilità nel caso in cui tali molestie siano arrecate attraverso il servizio di messaggistica istantanea (istant messaging) MSN Messenger, che mette in comunicazione due o più persone attraverso i rispettivi computer e la rete internet. Per la Corte, l’art.660 c.p. non è applicabile a tale peculiare fattispecie in quanto – se è pur vero che i soggetti che vi sono coinvolti utilizzano la rete telefonica e le bande di frequenza della rete cellulare – MSN Messenger ed il relativo servizio di telecomunicazione non è assimilabile ad una comunicazione telefonica: quest’ultima presenta come caratteristica peculiare quella di consentire la teletrasmissione in modalità sincrona di voci e di suoni creando una immediata interazione tra i due soggetti coinvolti e una conseguente, incontrollata possibilità di intrusione di uno di essi nella sfera privata dell’altro, che può scongiurare tale intrusione solo avvalendosi di un rimedio estremo, vale a dire la disattivazione della linea telefonica, evento capace di comportargli peraltro un pregiudizio alla relativa libertà di comunicazione. MSN Messenger è invece un servizio che si connota per una spiccata dose di libertà sia “in entrata” che “in uscita”: è l’utente potenziale soggetto passivo che deve abilitare preventivamente un terzo al fine di consentirgli la “messa in contatto” con lui; ed è lo stesso utente potenziale soggetto passivo che può in ogni momento bloccare qualsiasi possibilità di interazione col soggetto attivo (potenziale molestatore), inserendolo sic et simpliciter in una black list senza ad un tempo dover interrompere la comunicazione con altri interlocutori (non molesti), onde non è possibile per la Corte applicare l’art.660 c.p.
Il 12 settembre esce la sentenza delle SSUU n.34952 che, nell’ammettere la configurabilità di un tentativo di rapina impropria, esclude ad un tempo la frizione di tale fattispecie con il principio di legalità e con il divieto di analogia in materia penale. Stando all’art.628, comma 2, c.p. si ha rapina impropria quando la violenza o la minaccia vengono esercitate immediatamente dopo la sottrazione della res, come mezzo per assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero per procurare a sé o ad altri l’impunità. Poiché nella fattispecie tentata la sottrazione all’evidenza non si verifica, mentre in quella consumata è richiesta la sottrazione cui segue “immediatamente dopo” l’esercizio di violenza o minaccia da parte del soggetto attivo del reato, è evidente – per la dottrina più garantista – che solo un inammissibile procedimento analogico (finalizzato appunto a configurare il tentativo di rapina impropria) può far considerare integrato il tentativo senza che si sia in realtà realizzata alcuna sottrazione della res. Per le SSUU, che dirimono il pertinente contrasto di giurisprudenza, anche in difetto di previa sottrazione della res può configurarsi tentativo di rapina impropria, la cui fattispecie consumata presuppone invece indefettibilmente la ridetta sottrazione, dovendosi assumere suggestiva, ma infondata, la tesi del presunto contrasto tra il ridetto tentativo di rapina impropria e il divieto di analogia in materia penale, quale espressione del rigoroso principio di legalità. Quest’ultimo principio affonda per la Corte le proprie radici, oltre che nella Costituzione, nell’art.7 della CEDU siccome interpretato nei lustri dalla Corte EDU facendo leva sui due valori della accessibilità della norma violata (c.d. accessibility) e sulla connessa prevedibilità della sanzione (foreseeability), dovendosi riferire entrambi questi canoni non già alla astratta previsione normativa quanto piuttosto alla norma “vivente” siccome risulta dalla interpretazione ed applicazione concreta da parte della giurisprudenza, il cui ruolo è fondamentale al fine di precisare contenuto ed ambito applicativo della norma penale. Se il risultato ermeneutico cui perviene l’interpretazione della giurisprudenza è prevedibile, stando alla struttura della norma oggetto di ermeneusi, in termini tanto di precisione che di stretta interpretazione, il principio di legalità può dunque dirsi pienamente rispettato. Nel caso del tentativo di rapina impropria, il risultato interpretativo della giurisprudenza appare alla Corte del tutto prevedibile, in quanto ammette tale tentativo un orientamento granitico consolidatosi nel corso di diversi decenni, fino a che non sono apparse talune sentenze nel senso della non ammissibilità che hanno inaugurato il contrasto ora risolto dalla Corte medesima: in altri termini, il risultato interpretativo – ammissibilità del tentativo di rapina impropria – appare nel caso di specie “prevedibile” in quanto assistito da una consistente e pluridecennale giurisprudenza, non potendosi affermare dunque che esso contrasti con i principi di precisione e di stretta interpretazione. La dottrina più garantista criticherà tale pronunciamento laddove sembra affidare alla giurisprudenza un ruolo creativo del diritto penale, in frizione con il principio della riserva di legge e con quello compendiantesi proprio nel divieto di analogia; peraltro, a portare il ragionamento delle SSUU alle estreme conseguenze, potrebbe assumersi “risultato interpretativo prevedibile” anche quello fondato su un granitico diritto vivente di creazione pretoria (peraltro, nel caso di specie neppure tale, stanti le recenti pronunce difformi che hanno fatto luogo al contrasto risolto dalle SSUU medesime) che tuttavia frigga proprio con i principi della riserva di legge e del divieto di analogia.
Il 26 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.41249, Sallusti, alla cui stregua integra l’ipotesi di concorso nel reato di diffamazione ex art.595 c.p. – e non già quella di omesso controllo prevista dall’art. 57 c.p. – la condotta del direttore responsabile di un quotidiano che disponga la pubblicazione di un articolo di contenuto diffamatorio firmato con uno pseudonimo di autore non identificabile, quando vi sia prova della consapevole adesione dello stesso direttore al contenuto dello scritto.
2014
L’11 marzo viene varata la legge n.23 che delega il Governo (art.5) ad emanare norme che attuino la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di uniformarle al principio generale del divieto di abuso del diritto.
Il 12 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.37596 che, occupandosi di Facebook, assume tale piattaforma social quale luogo aperto al pubblico virtuale accessibile da chiunque utilizzi la rete: tale piattaforma, che nel 2008 contava già più di 100 milioni di utenti in 70 lingue, rappresenta una sorta di evoluzione scientifica che il legislatore del codice penale non è giunto ad immaginare quando ha varato l’art.660 c.p. in tema di molestie. Trattandosi di un “luogo aperto al pubblico”, seppure virtuale, la piattaforma Facebook può implicare – per chi ne fa uso arrecando molestie a terzi – l’applicazione dell’art. 660 c.p., in quanto la stessa lettera della legge parla di “luogo pubblico o aperto al pubblico”, onde si è al cospetto – al più – di una interpretazione estensiva che, a fronte della rivoluzione che ha coinvolto le forme di aggregazione e le tradizionali nozioni di comunità sociale, impone già in termini di ratio normativa di considerare “luogo” penalmente rilevante la piattaforma medesima. In sostanza, per la Corte nel caso di Facebook l’art.660 c.p. appare rilevante non già perché la comunicazione telematica della quale ivi ci si avvale è assimilabile a quella telefonica, quanto piuttosto perché la molestia viene consumata postando su Facebook messaggi, per l’appunto, molesti sulla pagina pubblica del soggetto passivo, e dunque in un luogo “aperto al pubblico”.
2015
Il 17 luglio esce la sentenza delle SSUU n. 31022 che si occupa del sequestro preventivo della stampa e delle testate internet, muovendo dall’art.21 Cost. che – dopo aver previsto in via generale al comma 1 la tutela del diritto alla libera manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto ed “ogni altro mezzo di diffusione” – prevede una tutela rafforzata nei successivi comma proprio per la stampa, stante l’importanza fondamentale da annettersi al diritto ad informare e ad essere informati nelle moderne società democratiche: la conseguenza è che proprio il sequestro preventivo della stampa può essere disposto (comma 3) solo laddove espressamente autorizzato dalla legge sulla stampa. In sostanza, le fattispecie in cui può essere disposto il sequestro della stampa sarebbero tassative, e tra queste non sarebbe annoverata l’ipotesi in cui si consumi una diffamazione, per l’appunto, a mezzo stampa; tale sequestro può infatti essere previsto laddove siano violate le norme sul diritto d’autore (art.161 della legge 633.41); quando si tratti di stampa periodica che fa apologia del fascismo (art.8 della legge 645.52); quando si tratti di stampati osceni o comunque offensivi della pubblica decenza, ovvero ancora divulganti mezzi atti a procurare aborto (art.2 del Regio Decreto 561.46); infine, allorché siano violate le norme sulla registrazione delle pubblicazioni periodiche e sull’indicazione dei relativi responsabili (articoli 3 e 16 della legge 47.48: c.d. stampa clandestina). Le SSUU precisano poi che i limiti alla sequestrabilità della stampa di cui all’art.21, comma 3, Cost., riguardano non la nozione di stampa in senso tecnico, siccome descritta dall’art.1 della legge n.47.48, quanto piuttosto una nozione più ampia che ricomprende tutta l’attività di informazione svolta in modo professionale attraverso una testata giornalistica, a prescindere dai tipi di supporto utilizzati per la divulgazione. Da questa premessa discende che l’art.21 Cost. e le garanzie per la stampa da esso previste abbraccia tutta l’informazione di tipo professionale che sia veicolata anche per il tramite di una testata giornalistica on line; discorso diverso va invece fatto per quel vasto ed eterogeneo ambito di diffusione di informazioni e notizie da parte di singoli soggetti con carattere di spontaneità; in sostanza, mentre la divulgazione di informazioni con carattere di professionalità può essere considerata “stampa” ai fini della tutela costituzionalmente prevista, la diffusione di notizie a carattere spontaneo attraverso forum, blog, mailing list, social network, newsgroup, newsletter etc, pur essendo espressione applicativa del principio di libera manifestazione del pensiero ex art.21, comma 1, Cost., non rientra invece nella tutela specificamente prevista per la stampa dal comma 3 del medesimo articolo 21. Interessante la definizione che la Corte da di forum, quale bacheca telematica o area di discussione in cui qualsiasi utente (o, nel caso di forum chiuso, il solo utente registrato) è libero di esprimere il proprio pensiero rendendolo accessibile agli altri soggetti autorizzati ad accedervi, attivando così un confronto libero di idee in una piazza virtuale; esso dunque, per struttura e finalità, non è per la Corte assimilabile ad una testata giornalistica e non è soggetto pertanto alle tutele ed agli obblighi previsti dalla legge sulla stampa; un regime analogo è riconoscibile per il blog (quale contrazione di web log, “diario in rete”), ovvero quella sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente; per i newsgroup, quali spazi virtuali in cui gruppi di utenti si trovano a discutere di argomenti di interesse comune; per le mailing list, quale metodo di comunicazione gestito per lo più da aziende ed associazioni e giusta il quale esse inviano tramite posta elettronica ad una lista di soggetti interessati e iscritti informazioni utili in ordine alle quali si esprime condivisione o si attivano discussioni o commenti. Per la Corte occorre dunque distinguere tra
- un quotidiano o un periodico che, ancorché telematico, è strutturato alla stregua di un vero e proprio giornale cartaceo tradizionale, essendo munito di un direttore responsabile e di una organizzazione redazionale (che, quando vi sia una parallela pubblicazione cartacea, sovente neppure coincidono), da intendersi soggetto alle tutele costituzionalmente previste per la stampa;
- un qualunque sito web in cui chiunque può inserire contenuti, da intendersi non soggetto alle tutele costituzionalmente previste per la stampa.
In sostanza, appare per le SSUU irragionevole ed incongruente che entrambe le fattispecie ricevano la medesima disciplina in ottica di tutela della “stampa” da essi prodotta. Fatte queste premesse, per le SSUU il concetto di stampa di cui all’art.1 della legge 47.48 va interpretato in modo evolutivo e, come tale, va fatto oggetto di una interpretazione di tipo estensivo: ciò vale con particolare riferimento proprio al concetto di “riproduzione tipografica”, che deve ormai intendersi come mera accessibilità da parte del pubblico, potendosi dunque parlare di “riproduzione tipografica” ogni qual volta l’oggetto della riproduzione, quale prodotto editoriale, sia liberamente accessibile dal pubblico, come accade anche per la stampa on line; per la Corte questa conclusione costituisce il frutto di una mera deduzione interpretativa di carattere evolutivo, non analogica, che – nel cogliere fino in fondo, in sintonia con l’evoluzione socio culturale e tecnologica, il senso autentico della legge .47 del 1948, ed in particolare del relativo articolo 1 – fa leva sull’applicazione di un criterio storico sistematico coerente con il dettato dell’art.21 della Costituzione. E’ una presa di posizione della Corte a SSUU che sembra tuttavia sovvertire le basi sistematiche sulla cui scorta essa, a sezioni semplici, ha negato l’estensibilità del regime di responsabilità penale di cui all’art.57 c.p. (e all’art.16 della legge 47.48) al direttore responsabile di testate on line; alla dottrina che la accoglie con favore, si contrappone quella che invece assume trovarsi al cospetto di una applicazione analogica mascherata da interpretazione estensiva, stante l’inequivoco tenore testuale della norma (art.1 della legge 47.48) che definisce la stampa come riproduzione tipografica, inestensibile dunque a mezzi di comunicazione e divulgazione diversi da essa, con conseguente procedimento analogico occulto ed in malam partem applicato alle testate on line giusta configurazione, anche per esse, delle responsabilità per omesso controllo e per clandestinità previste, rispettivamente, dagli articoli 57 del codice penale e 16 della legge 47.48.
Il 5 agosto viene varato il decreto legislativo n.128 che innesta nella legge n.212.00, c.d. statuto del contribuente, un art.10.bis in tema di abuso del diritto od elusione fiscale, il cui comma 13 afferma esplicitamente che le operazioni abusive (elusive) non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, pur restando ferma l’applicazione delle pertinenti sanzioni amministrative. Viene contestualmente abrogato l’art.37.bis del D.p.R. n.600.73, onde ad una disposizione concernente le sole imposte sui redditi (ormai abrogata) se ne sostituisce una più generale concernente tutti i tipi di imposte, e che dunque si occupa indiscriminatamente dell’elusione fiscale, senza che peraltro via sia più una elencazione tassativa delle operazioni che potrebbero essere elusive. L’Amministrazione finanziaria deve provare la configurabilità di una fattispecie elusiva, mentre il contribuente può provare la contemporanea esistenza di ragioni extrafiscali che giustificano l’operazione apparentemente elusiva, potendo spiccare interpello preventivo al Fisco (come da precedente regime).
Il 7 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.40272 che afferma come l’elusione fiscale – ai sensi del nuovo art.10 bis della legge 212.00, appena entrato in vigore – non è più penalmente rilevante, potendo far luogo solo all’applicazione di sanzioni amministrative (abolitio criminis). La Corte, sul crinale intertemporale, muove dall’art.1, comma 5, del decreto legislativo n.128.15, alla cui stregua il nuovo art.10.bis (appena introdotto) ha efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, applicandosi anche alle operazioni (elusive) poste in essere in data anteriore a tale efficacia, laddove tuttavia non sia stato già notificato un atto impositivo. In sostanza, laddove alla data del 01 ottobre 2015 sia già stato notificato un atto impositivo per pregresse operazioni elusive, la norma parrebbe far applicare il vecchio regime; e tuttavia i limiti alla retroattività posti dal legislatore debbono intendersi, precisa la Corte, riferiti ai soli effetti tributari dell’abuso del diritto sub specie di elusione, ma non anche a quelli penali, trattandosi peraltro di retroattività in bonam partem o in mitius. In sostanza, per la Corte si applica il principio di retroattività della legge penale più favorevole di cui all’art.2 del codice penale che – pur in astratto suscettibile di deroghe o limitazioni laddove queste si palesino sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli e, in particolare, dalla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo (art.3 Cost.) – nel caso di specie appare canone non derogabile, pena una frizione proprio con il principio di ragionevolezza. Per la Corte sarebbe infatti del tutto irragionevole far dipendere l’applicazione di un deteriore trattamento penale, in relazione ad una operazione asseritamente abusiva, da un fatto (la notifica dell’atto impositivo) che da un lato è rimesso alla discrezionalità dell’Agenzia delle Entrate (la quale, entro il termine perentorio di legge, è libera di decidere quando in concreto notificare l’atto impositivo medesimo), e che appare in ogni caso irrilevante al fine di giustificare, per l’appunto, un trattamento penale deteriore (sanzione penale piuttosto che meramente amministrativa). Importante anche la formula assolutoria utilizzata dalla Corte, che annulla senza rinvio la sentenza di merito per non essere il fatto contestato più previsto dalla legge come reato: in sostanza, la Corte afferma che in passato le fattispecie elusive dovevano assumersi rette, sul crinale penale, dagli articoli 4 e 5 del decreto legislativo 74.00 (come affermato dalla sentenza sul caso Dolce & Gabbana), ma che è ormai intervenuta una vera e propria abolitio criminis (art.2, comma 2, c.p.), con perdita di effetto in executivis financo delle sentenze di condanna già passate in giudicato ai sensi dell’art.673 c.p.p.
2017
Il 26 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.24, assai nota e molto importante, con la quale la Consulta, sollecitata dalla Corte d’Appello di Milano e dalla Cassazione, dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, talune questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato e segnatamente: se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità; se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro. La Corte ribadisce in primo luogo, nel contesto motivazionale dell’ordinanza, come l’istituto della prescrizione del reato afferisca in Italia al diritto penale sostanziale, e non già processuale, con conseguente affiorare della frizione tra quanto deciso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza Taricco e quanto è previsto dall’art.25, comma 2, Cost. laddove consacra il principio di legalità. La Corte richiama il canone di c.d. prevedibilità della decisione giudiziaria, chiedendosi se il soggetto attivo potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione europea, ed in particolare l’art.325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice penale chiamato a giudicarlo di non applicare gli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p., in presenza appunto delle condizioni enunciate dalla Corte di Giustizia UE nel caso Taricco. Altro fronte lambito dalla Corte costituzionale è quello del c.d. principio di determinatezza della fattispecie penale, ed in particolare del grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale italiano in relazione all’art.325 TFUE, segnatamente con riguardo ai poteri del giudice penale al quale, per la Corte, non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale che vanno lasciate al Parlamento; più in specie, il tempo necessario alla prescrizione del reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolare detto tempo devono sempre essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole predisposte dalla Legge e sufficientemente determinate. La Corte, nella sostanza, stigmatizza l’arresto Taricco laddove da esso discende l’obbligo per il giudice penale italiano di disapplicare la normativa sulla prescrizione del reato sul fondamento di una verifica demandata, caso per caso, al giudice stesso, laddove egli accerti che gli atti interruttivi della prescrizione determinano la non punizione delle frodi che conculcano gli interessi finanziari dell’Unione “in un numero considerevole di casi”:
Il 01 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.4873, nota come caso Facebook, che si occupa dell’art.13 della legge 47.48 laddove prevede la peculiare circostanza aggravante della diffamazione “a mezzo stampa”. La Corte parte dalla interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del concetto di “stampa” fornita dalle SSUU nel 2015 in tema di sequestro preventivo, per l’appunto, della stampa: esse hanno esteso alle testate giornalistiche telematiche le garanzie di ascendenza costituzionale ed ordinaria che assistono la tradizionale stampa cartacea. Si tratta di una presa di posizione che, per la Corte, afferisce alla “stampa” e non – più in generale – alla libertà di manifestazione del pensiero, anche laddove questa si estrinsechi attraverso nuovi mezzi informatici e telematici che consentono al pensiero medesimo di viaggiare e di essere diffuso. In sostanza, per la Corte le garanzie peculiari riconosciute dalle SSUU possono afferire solo alla stampa, seppure ampiamente intesa, ma comunque strutturalmente e finalisticamente connotata per tale. Muovendo da queste premesse, la Corte afferma come anche il social network più diffuso, vale a dire Facebook, non è inquadrabile nella nozione di stampa, compendiandosi in un servizio di rete sociale basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema. La conclusione cui perviene la Corte è che, laddove sia diffuso via Facebook (all’interno di una bacheca) un messaggio diffamatorio, si ha diffamazione aggravata ai sensi dell’art.595, comma 3, c.p., potendo il social network compendiare un “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” ivi previsto, ma non anche diffamazione aggravata ai sensi dell’art.13 della legge 47.48, non configurandosi al contrario la circostanza aggravante della diffamazione “a mezzo stampa” ivi prevista.
Il 14 marzo esce l’ordinanza della V sezione della Cassazione n.12264 che rimette nuovamente alle SSUU della Cassazione la fattispecie dell’accesso abusivo a sistema informatico o telematico di cui all’art.615.ter chiedendo alla Corte se possa davvero prescindersi dalle finalità perseguite dal soggetto agente che – autorizzato – acceda o si mantenga nel sistema medesimo per l’appunto con finalità ultronee rispetto a quelle oggetto dell’autorizzazione, anche qualora si tratti di un soggetto pubblico, e segnatamente di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio: trattasi di figure che, rivestendo una qualifica pubblicistica, qualora perseguano uno scopo diverso da quello per il quale l’autorizzazione all’accesso o al mantenimento nel sistema è stata loro rilasciata, si rendono protagoniste di uno sviamento di potere che può avere riflessi anche sul crinale penalistico.
Il 1° giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 27458 onde, in ossequio ai principi di tassatività e di legalità in materia penale, non è consentito sanzionare una condotta o ritenere sussistente una circostanza che aggravi la pena attraverso un’interpretazione di tipo analogico in malam partem, spettando al legislatore le scelte di natura sanzionatoria e dovendosi quindi rigettare quegli orientamenti interpretativi che, pur se ispirati all’ottenimento di un più efficace contrasto alla diffusione delle droghe a tutela di situazioni di maggiore vulnerabilità per le persone, conducano ad un’estensione delle aggravanti previste per fattispecie analoghe. In particolare, un’aggravante che fa riferimento a “scuole di ogni ordine e grado” quale luogo protetto in ragione dell’età dei soggetti frequentanti, non può essere applicata anche alle università stanti le diversità di sistemi e di principi applicabili alle due diverse realtà; tuttavia, il contesto universitario può far scattare l’aggravante in questione poiché rientrante nella diversa espressione “comunità giovanile” senza, in tal caso, ricorrere al ragionamento analogico.
Il 9 giugno esce la sentenza delle SSUU n.28953 che si occupa delle c.d. circostanze indipendenti e del relativo rilievo ai fini del computo del termine prescrizionale; si tratta di quelle circostanze onde la misura della pena viene determinata in modo indipendente rispetto a quella ordinaria del reato. Un problema in particolare si è posto per quelle peculiari circostanze che sono sì indipendenti nel senso anzidetto, ma che in concreto non implicano un aumento di pena superiore ad 1/3, poiché in questo caso è dubbia l’applicazione dell’art.157, comma 2, c.p., che assume rilevanti ai fini del calcolo del termine prescrizionale le sole circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e quelle ad effetto speciale, con aumento di pena per l’appunto superiore ad 1/3, sterilizzando gli effetti prescrizionali di tutte le altre aggravanti e di tutte le attenuanti. Un problema si è posto in particolare per l’art.609 ter, comma 1, c.p., che aggrava il reato di violenza sessuale ex art.609 bis c.p. in modo “indipendente” (si passa da un range tra 5 e 10 anni di reclusione ad un range aggravato tra 6 e 12 anni, con aumento di pena pari ad 1/5, e dunque inferiore ad 1/3), con riguardo in particolare ai fatti di reato commessi prima dell’ottobre 2012, e prima dunque che il problema in questione venisse quanto meno mitigato dall’inclusione di tutti i reati sessuali (ivi compresi quelli qui considerati) nel novero di quelli per i quali il termine di prescrizione è raddoppiato ai sensi dell’art.157, comma 6, c.p. Ad un orientamento più garantista, inteso in questi casi a scongiurare applicazioni della legge penale in malam partem (l’art.157, comma 2, c.p. si riferisce alle sole circostanze ad effetto speciale, e non anche a quelle indipendenti, massime dove l’aumento di pena da esse previsto sia inferiore ad 1/3) si contrappone – fanno registrare le SSUU – un’altra opzione ermeneutica più rigorosa alla cui stregua le circostanze c.d. “indipendenti” sono in realtà comunque circostanze “ad effetto speciale”, che come tali rilevano ai fini del computo del termine prescrizionale; stando a questa presa di posizione, neppure rileverebbe il fatto che l’art.157, comma 2, c.p. richiama l’art.63, comma 3, c.p. e dunque le sole circostanze con pena di specie diversa e quelle ad effetto speciale, e ciò in quanto anteriormente alla riforma del 1984 la dottrina ha sempre ricompreso tra le aggravanti ad effetto speciale tutti i casi in cui l’aumento di pena operava secondo un meccanismo diverso da quello ordinario fino ad 1/3, onde non sarebbe possibile attuare una scomposizione delle circostanze indipendenti, come categoria, distinguendole a seconda della quantità di aggravio di pena da esse prevista, così finendo con lo sconfessarne il prototipo, che in realtà ne prescinde, sulla scorta di una ratio propria ed autonoma che le contraddistingue. Ancora l’indirizzo più rigoroso richiama dal punto di vista sistematico l’art.69, comma 4, c.p., dedicato al giudizio di comparazione e bilanciamento tra le circostanze, che invece annovera esplicitamente le circostanze c.d. indipendenti (con pena determinata in modo appunto indipendente rispetto a quella ordinaria del reato) e che – laddove si abbracciasse la tesi più garantista secondo la quale le circostanze indipendenti non sono circostanze ad effetto speciale – implicherebbe, al cospetto di circostanze indipendenti con aumento inferiore ad 1/3, la inoperatività proprio del bilanciamento di tali circostanze in senso assoluto, non potendo esse essere bilanciate né con quelle (disomogenee) di cui all’art.63, comma 2, c.p. (aumenti o diminuzione frazionati di pena), né con quelle (assunte del pari disomogenee) di cui al successivo comma 3, quali circostanze con pene di specie diversa o circostanze ad effetto speciale “pure” e dunque con aumento superiore ad 1/3. Per le SSUU, nondimeno, va preferito l’indirizzo garantista, onde le circostanze c.d. indipendenti non rilevano ai fini del computo del termine prescrizionale. La Corte premette un discorso di tipo storico, andando a scandagliare la disciplina delle circostanze siccome originariamente prevista dal codice penale del 1930 e poi mutata per effetto del decreto legge 99.74 (che ha modificato l’art.69, comma 4) e della legge 400.84 (che ha modificato l’art.63, comma 3): l’originario art.63, comma 3, annoverava le circostanze “indipendenti” come ora più non fa e se l’originario art.69, comma 4, le escludeva dal bilanciamento; in origine dunque le circostanze “indipendenti” e quelle “autonome” costituiscono due categorie di circostanze che convivono armonicamente, entrambe rilevando sia sul crinale del computo della pena (art.63) sia sul versante del bilanciamento (art.69), venendo più in specie escluse proprio dal sistema del bilanciamento (art.69, comma 4); due categorie di circostanze assunte dunque dal legislatore penale quali species di un unico genus, quello delle circostanze ad efficacia speciale, allora non trovante una precisa definizione. Nella nuova versione invece – sottolinea il Collegio – l’art.63, comma 3, c.p. si riferisce alle sole circostanze “ad effetto speciale”, circoscrivendo la ridetta categoria senza richiamare quella delle circostanze “indipendenti”, e dunque dando la preferenza ad un sistema quantitativo ed aritmetico (la pena prevista per il reato base viene elevata in misura superiore ad 1/3) piuttosto che ad un sistema maggiormente qualitativo (la pena prevista viene determinata in modo autonomo ed indipendente rispetto a quella del reato base): questa evenienza ha fatto alfine dubitare della persistente autonomia sistematica e concettuale delle circostanze “indipendenti”, che potrebbero anche essere sparite in quanto tale per il relativo convogliare, laddove vi sia previsione di pena superiore ad 1/3, nella categoria delle circostanze ad effetto speciale, mentre laddove vi sia previsione di pena inferiore ad 1/3, nella categoria delle circostanze ordinarie, con l’ulteriore conseguenza onde, nella seconda ipotesi (previsione di pena maggiorata inferiore ad 1/3), non varrebbe più il richiamo operato dall’art.157, comma 2, del codice penale che, a fini di determinazione del tempo necessario a prescrivere, dà rilevanza alle sole circostanze ad effetto speciale (aumento di pena superiore ad 1/3), oltre che a quelle con pena di specie diversa. Proprio muovendo da questa analisi le SSUU concludono nel senso onde – configurando l’art.157, comma 2, c.p. una eccezione alla regola generale della irrilevanza delle circostanze a fini di computo del termine prescrizionale – non è ammessa una deroga in malam partem rispetto alle fattispecie esplicitamente previste dal legislatore (aggravanti che prevedono una pena di specie diversa rispetto a quella del reato base ed aggravanti ad effetto speciale, come tali implicanti aumento di pena superiore ad 1/3), che non sono dunque suscettibili di interpretazione estensiva, né tampoco analogica, giusta incidenza ai fini del computo della prescrizione anche delle circostanze c.d. “indipendenti”, che non rientrano in alcuna delle 2 categorie eccezionali previste dalla legge; corollario di questa affermazione è che le circostanze aggravanti “indipendenti” di cui all’art.609 ter, comma 1, c.p. non spiegano rilevanza al fine di quantificare i termini prescrizionali.
Il 22 giugno esce la sentenza delle SSUU n.31345, che si occupa della fattispecie di furto in abitazione di cui all’art.624.bis c.p., ed in particolare del concetto ivi previsto di “privata dimora”, al fine di verificare se un esercizio commerciale o comunque un luogo di lavoro aperto al pubblico può essere per l’appunto considerato una “privata dimora” in virtù di una interpretazione estensiva o se in simili ipotesi si faccia piuttosto luogo ad una inammissibile applicazione analogica. La Corte muove dal rilievo onde di privata dimora parla tanto il codice di procedura penale (art.266, comma 2) quanto – in molteplici occasioni – il codice penale sostanziale, come nelle ipotesi di cui agli articoli 52, comma 2, 614, 615, 615.bis, 628, comma 3, n.3.bis: la giurisprudenza si orienta, nell’interpretare tali fattispecie, prevalentemente in modo estensivo sul presupposto onde il concetto di “privata dimora” appare più ampio di quello di abitazione. Perno di tale concetto è il ius excludendi, genericamente inteso, dell’interno di un luogo da parte del relativo titolare, dacché egli vi si trattiene per compiere (quand’anche transitoriamente e contingentemente) atti della vita privata, tra i quali va annoverata anche l’attività lavorativa di natura professionale, commerciale o imprenditoriale. Le SSUU sconfessano tuttavia tale maggioritaria giurisprudenza dal momento che tanto il dato letterale, quanto la ratio (in ottica storico-sistematica) dell’art.625.bis ne impediscono una interpretazione ampliativa (con effetti incriminatori) di tale foggia: per la Corte, muovendo già dal tenore letterale dell’art.625.bis c.p., quando la presenza di un soggetto in un dato luogo – nell’ottica specifica del compimento di atti della vita privata – debba assumersi del tutto occasionale, difettando un rapporto stabile tra il luogo e l’individuo considerati, non può parlarsi di privata dimora, considerato anche come – dal punto di vista etimologico – la parola “dimora” richiami indefettibilmente il soggiorno, la permanenza o comunque il trattenimento in un dato luogo. Rilevante per le SSUU è anche il profilo della “destinazione” di un luogo a privata dimora, che reca seco la necessità che dal punto di vista cronologico sia appunto “privata dimora” il luogo in cui stabilmente si compiono atti della vita privata per volontà di chi tale destinazione ha inteso imprimere a quel luogo; peraltro la stessa giurisprudenza costituzionale, rammenta la Corte, interpreta la libertà di domicilio di cui all’art.14 Cost. quale diritto di un soggetto di ammettere od escludere terzi da un determinato luogo in una con il diritto alla riservatezza su quanto tale soggetto compie in quel luogo (e che in qualche modo fonda il ius excludendi ridetto). La conclusione, più garantista, cui pervengono le SSUU è dunque che non compendiano privata dimora ai fini del furto in abitazione gli esercizi commerciali e gli altri luoghi di lavoro aperti al pubblico, configurando tuttavia una eccezione per quelle aree, poste all’interno di tali luoghi, che siano riservate al soggetto passivo del reato, vale a dire quei luoghi – anche destinati ad attività lavorativa o professionale – nei quali si svolgono in modo non occasionale atti della vita privata, e che non sono aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, configurando aree riservate (sul modello dei bagni privati, dei retrobottega, degli spogliatoi e simili).
L’8 settembre esce la sentenza delle SSUU n.41210 che, in tema di accesso abusivo a sistema informatico o telematico, affermano il principio di diritto onde integra il delitto previsto dall’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali soltanto la facoltà di accesso gli è attribuita. Per la Corte, non esce dall’area di applicazione della norma incriminatrice la situazione nella quale l’accesso o il mantenimento nel sistema informatico dell’ufficio a cui è addetto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, seppur avvenuto a seguito di utilizzo di credenziali proprie dell’agente ed in assenza di ulteriori espressi divieti in ordine all’accesso ai dati (trattandosi dunque di accesso formalmente lecito ed autorizzato) si connoti precipuamente, tuttavia, per l’abuso delle proprie funzioni da parte del soggetto agente, facendo luogo ad uno sviamento di potere e dunque ad un uso del potere medesimo in violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l’azione nell’assolvimento degli specifici compiti di natura pubblicistica a lui demandati. Si è autorevolmente chiarito da parte della dottrina – prosegue la Corte – che sotto lo schema dell’eccesso di potere si raggruppano tutte le violazioni di quei limiti interni alla discrezionalità amministrativa che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato, lo sviamento di potere configurandosi come una delle tipiche manifestazioni di un tale vizio dell’azione amministrativa e ricorrendo allorché l’atto non persegue un interesse pubblico, ma un interesse diverso (di un privato, del funzionario responsabile, ecc.): si ha dunque “sviamento di potere” quando nella propria concreta attività il pubblico funzionario persegue una finalità diversa da quella che gli assegna in astratto la legge sul procedimento amministrativo (art. 1, legge n. 241 del 1990). Muovendo da questi presupposti, le SSUU assumono di dover privilegiare l’interpretazione proposta da una delle sentenze che hanno di fatto concretizzato il contrasto di giurisprudenza segnalato dalla Sezione rimettente e, in sostanza, fatto proprio dall’ordinanza di rimessione, laddove è stato evidenziato il principio di cui all’art. 1 della legge n. 241 del 1990 onde l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità, trasparenza, secondo le modalità previste dalla legge 241.90 medesima e dalle disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario; in proposito, la Corte rammenta come i principi di cui alla legge n. 241 del 1990 abbiano trovato progressive specificazioni nelle disposizioni emanate in tema di organizzazione del pubblico impiego, fra le quali assume speciale rilievo la definizione legislativa del “Codice di comportamento” dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ad opera dell’art. 54 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Testo unico sul pubblico impiego), come sostituito dall’art. 1, comma 44, legge 6 novembre 2012, n. 190, e del successivo d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, regolamento contenente appunto, in attuazione del citato art. 54 del T.U. sul pubblico impiego, il vigente Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. I principi cui si è fatto riferimento trovano la loro genesi – rammenta la Corte – nelle norme di cui agli artt. 54, 97 e 98 della Costituzione: disposizioni, queste, che chiedono l’adesione del dipendente ai “principi dell’etica pubblica“, intesa come locuzione di sintesi dei valori propri della deontologia dell’impiego pubblico, al fine di porre il funzionario nella condizione di servire gli amministrati imparzialmente e con “disciplina ed onore“; la violazione dei doveri d’ufficio, attraverso le varie tipologie di condotta idonee a produrre uno sviamento della prestazione lavorativa dai canoni di fedeltà ed esclusività del servizio, è stata ripetutamente oggetto della giurisprudenza penale, amministrativa e contabile, che ha posto al centro la prossimità teleologica tra i quei principi, considerati nelle sentenze come espressivi di valori cardine del pubblico impiego, proiezioni del legame tra funzionario e pubblica amministrazione, e tra questa e la comunità degli amministrati. La Corte rammenta ancora come si sia assunto che ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione (viene richiamata la sentenza delle SSUU n.155 del 2011). E’ su questa base “sostanzialistica” che le SSUU finiscono con l’affermare che integra il delitto previsto dall’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un servizio informatico o telematico protetto (nel caso di specie, il Re.Ge., ovvero il Registro delle notizie di reato, tenuto presso ogni Procura della Repubblica) al fine di delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel pertinente sistema per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali soltanto la facoltà di accesso gli è attribuita.
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Il 20 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.52743 che ribadisce la responsabilità per diffamazione ex art.595 c.p. – e non già ai sensi dell’art.57 c.p. (omesso controllo), stante il divieto di analogia in malam partem – del direttore responsabile di un periodico on line nel caso in cui l’articolo lesivo dell’onore e della reputazione di terzi sia sottoscritto da un autore che si è celato dietro uno pseudonimo (rimanendo in sostanza “anonimo”), a condizione che dalle circostanze generali possa dedursi che il direttore abbia fornito un meditato consenso alla pubblicazione del testo e abbia, così, aderito al relativo contenuto diffamatorio.
Per la Corte, più nel dettaglio, va assunta penalmente rilevante ex art.110 c.p., a titolo di concorso doloso, la condotta del direttore di un periodico on line che abbia fornito un contributo concorsuale consistente nel consenso e nella “meditata adesione” al contenuto dello scritto siccome elaborato dall’autore sotto pseudonimo; una meditata adesione che affiora dalla collocazione tipografica dell’articolo diffamatorio, dai titoli, dalle illustrazioni, dalla correlazione del relativo contenuto con il “contesto culturale” che qualifica l’edizione che lo ospita.
Il direttore deve assumersi per il Collegio comunque tenuto a controllare il contenuto delle pubblicazioni on line, vieppiù laddove si tratti di pubblicazioni anonime o la cui titolarità sia celata da pseudonimi capaci, in quanto tali, di consentire al relativo autore di sottrarsi alle conseguenze penali delle proprie espressioni, laddove lesive dell’altrui reputazione; si tratta di fattispecie in cui può affermarsi che la produzione dell’articolo diffamatorio sia “redazionale” e, come tale, ascrivibile al direttore, quale soggetto che conserva un potere effettivo di intervento sui contenuti pubblicati, finendo con il consapevolmente avallarne la diffusione. Peraltro, chiosa la Corte, a ragionare diversamente verrebbe a configurarsi una vera e propria “zona franca” al di fuori dall’usbergo precettivo dell’art.595 c.p., vieppiù grave in considerazione della non applicabilità alla fattispecie dell’art.57 c.p. (in forza appunto del divieto di analogia in malam partem), con conseguente sostanziale impunità di condotte diffamatorie commesse mediante pseudonimo (in quanto tale non associabile a nessuna persona determinata) ovvero anonime.
2018
Il 19 febbraio esca la sentenza della sezione V della Cassazione n.7885 che si occupa di un caso in cui un quotidiano online ha pubblicato la notizia di un parroco che guarda i social durante un funerale, assumendo come la fattispecie non configuri una diffamazione. Per la Corte, più in particolare, la pubblicazione di un articolo su un quotidiano online, con video allegato, riguardante un fatto rispondente al vero, non configura appunto diffamazione. Sotto altro profilo, per la Corte il direttore della testata online non può ritenersi responsabile ex art. 57 c.p. in tema di reati commessi col mezzo della stampa periodica, non potendosi trascurare in via più generale sul punto come – secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità – il direttore di un periodico non possa essere assunto responsabile per l’omesso controllo sul contenuto delle pubblicazioni ai sensi dell’art. 57 cod. pen. (vengono richiamati i precedenti della V sezione n. 10594/13, Montanari; n. 44126/11, Hannaui; n. 35511/10, Brambilla).
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Il 20 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8090, che – scandagliando un caso in cui una lite familiare degenera in omicidio, quest’ultimo venendo perpetrato sulla soglia di una privata abitazione – afferma appartenere alla “privata dimora” ai fini appunto della legittima difesa domiciliare (art.52, comma 2, c.p.) anche la soglia dell’abitazione onde, nel concorso degli altri requisiti (necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta) la proporzionalità tra offesa e difesa è presunta. La Corte precisa in primo luogo che la Corte territoriale ha escluso in radice – nel caso di specie – la possibilità di applicazione della legittima difesa “domiciliare” con l’affermazione onde “durante tutto lo svolgimento della discussione, fino al suo epilogo fatale, M. si mantenne sulla soglia della porta di ingresso perché validamente fronteggiato da M., dalle sue figlie e da sua moglie, sicché, e per conseguenza, l’omicidio non sarebbe avvenuto ”nei casi previsti dall’art. 614, comma 1 e 2 cod. pen.” e “nei luoghi ivi indicati”. Afferma la Cassazione al contrario – ma qui procedendo comunque “in bonam partem” – come anche gli spazi condominiali rientrino nelle “appartenenze” dell’abitazione, ai sensi dell’art. 614 comma 1, cod. pen. La medesima Corte, non a caso, ha già affermato in tema di violazione di domicilio che rientra nella nozione di “appartenenza” di privata dimora il pianerottolo condominiale antistante la porta di un’abitazione, ritenendo, quindi, consumato e non solo tentato il reato (di violazione di domicilio appunto) da parte di chi si introduca, invito domino, all’interno di un edificio condominiale sul pianerottolo e avanti alla soglia dell’abitazione di uno dei condomini, avente, come gli altri, diritto di escludere l’intruso (Sez. 5, n. 12751/98, Palmieri); in precedenza è stato ritenuto che anche l’androne di uno stabile integra il concetto di appartenenza, ad esso estendendosi la tutela prevista dalla legge per la violazione di domicilio (Sez. 2, n. 6962/87, Marocchi); una più risalente sentenza aveva specificamente ritenuto sussistente il reato (violazione di domicilio) in chi si introduce o si trattiene sulla soglia dell’abitazione altrui, contro la volontà di chi abbia il diritto di escluderlo (Sez. 5, n. 1067/81, De Sena).
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Il 22 febbraio viene pubblicata la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8770 che si occupa della responsabilità penale del medico, a titolo colposo, per morte o lesioni del paziente, e della nuova causa di non punibilità di cui all’art.590 sexies c.p. della legge c.d. Gelli-Bianco n.24.17. Per la Corte, per quanto qui di interesse, il canone intepretativo posto dall’art.12, comma 1, delle preleggi prevede la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro connessione nonché della “intenzione del legislatore”: per la Corte da tale disposizione – che va peraltro completata con la verifica di compatibilità con i principi generali che regolano la ricostruzione degli elementi costitutivi dei precetti (massime se penali) – si evince un solo vincolante divieto per l’interprete, che è quello riguardante l’andare “contro” il significato delle espressioni usate, con una modalità che sconfinerebbe nell’analogia, non consentita nella interpretazione del comando penale. Interessante il passaggio in cui le SSUU affermano che, pur non essendo consentito l’andare “contro” il significato delle espressioni usate dal legislatore, gli è invece consentito andare “oltre” la letteralità del testo: un passaggio in cui la Corte sembra voler superare il tenore letterale senza tuttavia ancora giungere all’analogia, ma che viene parzialmente rettificata laddove essa afferma che l’opzione ermeneutica deve essere comunque in linea con i canoni di cui all’art.12 delle preleggi, con un “andar oltre” (e non comunque “contro”) che – a fronte di un testo che lascia aperte più soluzioni (e che sembra dunque rimanere l’imprescindibile punto di riferimento dell’interprete) – selezioni l’unica opzione ermeneutica plausibile perché compatibile con il principio di prevedibilità del comando; tale opzione ermeneutica si configura allora come il risultato di uno sforzo che si rende necessario al giudice per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, così candidandosi a far luogo – al cospetto di un contrasto maturato tra le sezioni semplici – al “diritto vivente” di pertinenza nella materia scandagliata. Nella sentenza si fa anche un rimarchevole riferimento alla distinzione tra colpa grave e colpa lieve, presente nel Decreto Balduzzi (con qualche critica in termini di tassatività della pertinente fattispecie) e non riproposta nella legge Gelli-Bianco: per la Corte, la mancata evocazione esplicita della colpa lieve da parte del legislatore del 2017 (rispetto a quello del 2012) non preclude una ricostruzione della norma che ne tenga comunque conto, sempre che ciò sia espressione di una ratio compatibile con l’esegesi letterale e sistematica del comando espresso dall’art.590. sexies, cosa che la Corte evince dalla valorizzazione dell’art.2236 c.c. (sulla scia della stessa più recente giurisprudenza penale a sezioni semplici), cui va annessa valenza di principio di razionalità e di regola di esperienza alla quale attenersi nel valutare l’addebito di imperizia al medico, qualora il caso concreto ad esso sottoposto imponga la soluzione di problemi di particolare complessità tecnica, ovvero qualora si versi in situazioni di emergenza.
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Il 28 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.9072, che si occupa della spinosa questione dell’applicabilità all’illecito dell’ente, ai sensi del d.lgs. 231/2001, dell’art.131 bis c.p., con particolare riguardo al profilo se l’ente ridetto possa o meno giovarsi della assoluzione pronunciata nei confronti della persona fisica che nel relativo interesse o vantaggio abbia agito, appunto per particolare tenuità del fatto.
Il Collegio abbraccia la soluzione (negativa) della non estensibilità all’ente dell’eventuale riconoscimento, per l’imputato, della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131 bis c.p., la declaratoria per particolare tenuità del fatto postulando un pieno accertamento del fatto reato, cui semplicemente non segue l’irrogazione della pena, e risolvendosi dunque in una affermazione di responsabilità “senza condanna” del soggetto attivo, non idonea ad intaccare la consistenza storica e giuridica del reato siccome di volta in volta giudizialmente accertato.
Che la pronuncia ai sensi dell’art. 131 c.p. non possa assimilarsi appieno ad una assoluzione, chiosa ancora la Corte, sarebbe poi fatto palese dal fatto che il precedente risulta iscritto nel certificato del casellario giudiziale e dispiega effetti di giudicato, ex art. 651 bis c.p.p., nel giudizio civile e amministrativo.
Ad analoghe conclusioni induce poi – chiosa ancor la Corte – una lettura in chiave teleologica dell’art. 8 d.lgs. 231/2001, laddove sancisce la responsabilità dell’ente anche in caso di estinzione del reato-presupposto (fatta eccezione per i casi di amnistia), la tesi affermativa ingenerando dunque una palese irragionevolezza sistematica, sol che si consideri come si punirebbe l’ente al ricorrere di cause estintive del reato, lasciandolo invece senza sanzione in presenza di mere cause di non punibilità dell’autore persona fisica.
La Corte conclude dunque nel senso della sostanziale inidoneità della pronuncia ex art. 131 bis c.p. ad influenzare il giudizio di responsabilità nei confronti dell’ente, rispetto al quale il giudice deve, quindi, procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato.
Una presa di posizione che parte della dottrina non mancherà di criticare, sottolineando la radicale diversità tra cause di estinzione del reato – espressamente richiamate dall’art. 8 d.lgs. 231/2001 – e cause di non punibilità – sulle quali, all’opposto, il medesimo art. 8 tace – onde ammettere la responsabilità dell’ente a fronte di una causa di non punibilità, quale quella per “fatto tenue”, implicherebbe applicare la norma analogicamente in malam partem.
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Il 01 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.9427 che si occupa della circostanza aggravante di cui all’art.577, comma 1, n.1 c.p. onde si applica l’ergastolo laddove un omicidio sia stato perpetrato ai danni di un “discendente”. Si tratta di una norma che fa riferimento ai soli figli legittimi e che per la Corte non appare estendibile ai figli adottivi, come appunto nel caso sottoposto al relativo scandaglio.
Il 13 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11075 che, in tema di illecito accesso al sistema informatico richiama le recenti Sezioni unite (Sez. U , n. 41210 del 18/05/2017, Savarese ) laddove hanno dato risposta affermativa al quesito se integri o meno il delitto previsto dall’art. 615-ter, comma 2, n. 1, c.p. la condotta del soggetto abilitato all’accesso per ragioni di ufficio che, non violando le condizioni ed i limiti risultanti dalle prescrizioni impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne oggettivamente l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per scopi e finalità estranei o comunque diversi rispetto a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è attribuita. Si tratta – precisa la Corte – di rimeditazione di precedente pronuncia delle stesse Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 4694 del 27/10/2011 – dep. 07/02/2012), che aveva risolto un contrasto di giurisprudenza ritenendo che non integrasse il reato la condotta di chi, avendo titolo per accedere al sistema, se ne fosse avvalso per finalità estranee a quelle di ufficio. In particolare deve – per effetto di tale revirement – ritenersi sussistente l’illiceità penale della condotta del soggetto che abbia effettuato – come nel caso di specie – un ingresso nel sistema telematico con fini palesemente contrari agli interessi – anche patrimoniali – del titolare del sistema informatico stesso.
Il 23 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13802 secondo cui Non è possibile applicare al convivente di fatto, imputato per lesioni nei confronti del partner, l’aggravante di cui all’art. 577, comma 2, c.p., facendo riferimento detta disposizione, nel momento in cui è stata commessa la condotta, soltanto allo status di coniuge e non essendo consentito estendere con interpretazione analogica la portata di una norma penale sostanziale.
Il 26 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 14001 onde in tema di pornografia minorile, la sussistenza del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 3, deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti dei files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale, anche sotto il profilo dell’individuazione del dolo eventuale, desumibile dall’esperienza dell’imputato e dalla durata nel tempo del possesso di materiale pedopornografico, dall’entità numerica del materiale, e dalla condotta, già illecita ex art. 600 quater c.p., connaturata da accorgimenti volti alla difficoltà di individuazione dell’attività
Il 27 aprile esce la sentenza della Corte Costituzionale in tema di procedimento di messa alla prova degli adulti. In particolare, La corte ritiene inammissibile la questione prospettata in quanto il Giudice a quo non avrebbe valutato il ricorso all’analogia per sanare una ritenuta mancanza della disciplina processuale. Pur in assenza di una specifica disposizione in tal senso, ai soli fini della decisione sulla richiesta dimessa alla prova, il Giudice potrebbe infatti prendere visione degli atti del fascicolo del pubblico ministero, avvalendosi della possibilità (già ammessa dalla giurisprudenza della Cassazione nei casi di richiesta di un rito speciale presentata nell’udienza di comparizione a seguito di citazione diretta ex art. 555 c.p.p.) di una applicazione analogica dell’art. 135 del D.Lgs. n. 271 del 1989, il quale, con riferimento al patteggiamento, consente al giudice di accedere al fascicolo del p.m. per decidere sulla richiesta di applicazione della pena rinnovata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Né v’è ragione – non dovendosi procedere al dibattimento – di impedire al giudice la conoscenza degli atti contenuti in detto fascicolo necessaria ai soli fini della decisione sulla richiesta dimessa alla prova, poiché il fatto che ciò non sia espressamente previsto non significa che sia vietato.
Il 23 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 23160 onde, in tema di porto abusivo di armi, il discrimine con il mero trasporto non punibile è da rinvenirsi nell’immediata disponibilità dell’oggetto incriminato. Ne deriva che si realizza mero trasporto tutte le volte in cui l’arma non può essere con facilità ed immediatezza estratta e usata con finalità di offesa.
Il 3 luglio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 29847 onde nel caso in cui la cessione di un credito ipotecario precedentemente insorto avvenga successivamente alla trascrizione del provvedimento di sequestro o di confisca di prevenzione del bene sottoposto a garanzia, tale circostanza non è in quanto tale preclusiva dell’ammissibilità della ragione creditoria, né determina di per sè uno stato di mala fede in capo al terzo cessionario del credito, potendo quest’ultimo dimostrare la buona fede. Secondo la Corte, è in primo luogo da considerare la puntuale osservazione sul dato normativo per il quale la disciplina prevista dall’art. 52 d.lgs. n. 159 del 2011 appare testualmente riferita al credito, oggettivamente considerato, e non alla posizione creditoria del terzo. L’anteriorità rispetto al sequestro è in effetti menzionata al comma 1 quale attributo del diritto di credito; e al credito sono associate le ulteriori condizioni dell’impossibilità di soddisfacimento su beni diversi da quelli confiscati, alla lett. a), e dell’assenza di strumentalità all’attività illecita, alla lett. b). Se già questi caratteri appaiono coerenti con una visione nella quale l’eventuale cessione risulta ininfluente rispetto alla sussistenza o meno delle condizioni per l’ammissibilità del credito, va ulteriormente notato che di particolare rilevanza è il riferimento del comma 1 dell’articolo commentato ai diritti reali di garanzia gravanti sul bene confiscato, che in concreto pongono in rapporto il terzo creditore, e in quanto tale titolare di siffatti diritti, con il bene. Il requisito dell’anteriorità è specificamente previsto anche con riguardo a tali diritti; e, a questi fini, i diritti tutelati sono indicati in quelli «costituiti in epoca anteriore al sequestro». Il termine di valutazione dell’anteriorità rispetto al sequestro è dunque espressamente indicato nel momento della costituzione del diritto reale collegato al credito. E, in presenza di questa chiara espressione normativa, l’attribuzione della condizione dell’anteriorità anche alla successiva evenienza della cessione del credito presupporrebbe un’interpretazione estensiva, o addirittura analogica come rilevato in talune pronunce di legittimità, tale da richiedere ulteriori elementi indicativi dell’assimilabilità della cessione del credito alla costituzione dello stesso; laddove invece gli elementi disponibili sono di segno contrario.
Il 31 luglio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 36742 che ribadisce come la natura sessuale dell’atto deriva dalla sua attitudine ad essere oggettivamente valutato, secondo canoni scientifici e culturali, come erotico, idoneo cioè a incarnare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dal fatto che questo sia lo scopo dell’agente. Tale valutazione oggettiva costituisce il necessario presupposto del diritto alla libertà sessuale dell’individuo, ne definisce anche contenuto e ampiezza, conformandone, ad un tempo, l’oggetto mediante l’incessante osmosi con la scienza ed i mutevoli costumi sociali. Secondo la scienza non solo medica, ma anche psicologica, antropologica e sociologica e, comunque, in base al comune sentire, i genitali, i glutei e il seno oggettivamente esprimono, più di ogni altra parte del corpo ed in modo più naturale, diretto ed esplicito, la sessualità. Il loro volontario toccamento esprime, con rara immediatezza, la natura sessuale del gesto, sicchè, indipendentemente dalle intenzioni del suo autore (del tutto irrilevanti ai fini della sussistenza del reato), quando ciò avvenga senza il consenso di chi lo subisce o con l’inganno, integra il delitto di cui all’art. 609-bis, c.p..
La Corte ribadisce poi che l’atto sessuale cui l’art. 609-bis c.p., fa riferimento deve comunque coinvolgere la corporeità sessuale del soggetto passivo il quale, stabilisce l’art. 609- bis, deve essere costretto “a compiere o subire atti sessuali”. Tale requisito, infatti, distingue l’atto sessuale propriamente detto da tutti gli altri atti che, sebbene significativi di concupiscenza sessuale, siano tuttavia inidonei ad intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima, in quanto comportano esclusivamente un’offesa alla libertà morale o al sentimento pubblico del pudore, come avviene nel caso dell’esibizionismo, dell’autoerotismo praticato in presenza di altri costretti ad assistervi o del “voyeurismo”.
La nozione di atti sessuali attualmente contemplata dal codice penale comprende in sè entrambi i concetti di congiunzione carnale e atti di libidine in precedenza considerati dal legislatore, con la conseguenza che devono ritenersi estranei a tale nozione tutti gli atti o comportamenti che, pur essendo manifestazione di istinto sessuale, non si risolvano in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo o comunque non coinvolgano la corporeità sessuale di quest’ultimo. Va, altresì, precisato che i reati di violenza sessuale attualmente considerati dal codice penale offendono la libertà personale intesa come libertà di autodeterminazione della propria corporeità sessuale e non già la libertà morale della persona oppure il pudore e l’onore sessuale come specificazioni della moralità pubblica e del buon costume.
Da tale distinzione si ricava l’ulteriore conclusione che l’esibizionismo o il compimento di atti di masturbazione in presenza di terzi costretti ad assistervi, senza che vi sia alcun contatto con i genitali o le zone erogene della persona presente, non consentono di ritenere configurabile la violenza sessuale quanto, piuttosto, il delitto di atti osceni o quello di violenza privata, sempre che ne sussistano le condizioni. Il voyeurismo, invece, può essere ricondotto ad una ipotesi di molestia nei confronti delle persone oggetto della morbosa curiosità, ma non integra violenza sessuale nei confronti delle stesse.
Il 12 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 40470 che, nell’ambito dei reati informatici, traccia in modo chiaro la definizione di sistema informatico tutelato dal diritto penale, con la conseguenza dell’inapplicabilità di sanzioni penali a tutte quelle azioni commesse verso apparecchi non riconducibili a tale definizione. In particolare, ciò che viene in rilievo, per definire la nozione di sistema informatico, è l’attitudine della macchina (hardware) ad organizzare ed elaborare dati, in base ad un programma (software), per il perseguimento di finalità eterogenee. Nella definizione che qui interessa, dunque, alla funzione di registrazione e di memorizzazione dei dati, anche elettronica, si affianca l’attività di elaborazione e di organizzazione dei dati medesimi.
Il 1° ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43264 che definisce l’elemento oggettivo del delitto di devastazione. In particolare, la Corte spiega come il concetto di devastazione, ai fini penalistici, consista in qualsiasi azione, posta in essere con qualsivoglia modalità, produttiva di rovina, distruzione o anche di un danneggiamento – comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo – di una notevole quantità di cose mobili o immobili, tale da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti, e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche un’offesa e un pericolo concreti dell’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l’opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza.
L’8 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 50949 secondo la quale, dal momento che nessuna norma sanziona penalmente l’uso non autorizzato di marchi o segni distintivi autentici, il fatto rileva solo come illecito civile, atteso che, per il divieto di analogia in materia di norme incriminatrici, non può ritenersi configurabile né il reato previsto dall’art. 474 c.p., né il reato previsto dall’art. 471 c.p., sicché non è ammissibile la confisca di detti prodotti.
Il 27 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 53200 onde la stanza di ospedale non è qualificabile come luogo di privata dimora in quanto il paziente non può controllare l’accesso, essendo per natura un luogo accessibile ad una pluralità di persone; di conseguenza, non può applicarsi la relativa aggravante in caso di furto commesso in detto luogo.
2019
Il 12 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 6752 che afferma la non equiparabilità di un ciclomotore a un motoveicolo ai fini dell’applicazione della sanzione di cui all’art. 73 d.lgs. 159/11.
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Il 20 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 7653 che ribadisce il concetto di privata dimora ricordando come rientrano nella nozione di privata dimora ex all’art. 624-bis, comma 1, c.p. solo i luoghi ove, non essendo aperti al pubblico né accessibili liberamente da terzi, si svolgono abitualmente atti della vita privata. Al contrario, un ristorante, essendo un’attività commerciale, è per sua natura un luogo usualmente accessibile da una pluralità di soggetti senza una preventiva autorizzazione.
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Il 22 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 8032 onde, il discrimine tra l’arma impropria (il cui possesso è punibile quale porto di oggetti atti ad offendere ai sensi dell’art. 4 l. n. 110/1975) e quella propria è costituito dalla presenza delle caratteristiche tipiche delle armi bianche corte quali appunto i pugnali o gli stiletti, e cioè la punta acuta e la lama a due tagli.
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Il 20 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 12546 che, incontroversa la configurabilità in capo al soggetto che immette il commento diffamatorio in rete ai sensi dell’art. 595 cod. pen., affronta il tema della responsabilità dei fornitori di servizi informatici ovvero degli Internet Provider Service.
Va ovviamente chiarito che anche i providers rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona; così, il c.d. content provider, ossia il provider che fornisce contenuti, risponde direttamente per eventuali illeciti perpetrati con la diffusione dei medesimi.
Il vero problema della responsabilità del provider riguarda invece il caso in cui questo debba rispondere del fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture di comunicazione del network provider, del server dell’access provider, del sito creato sul server dell’host provider, dei servizi dei service provider o delle pagine memorizzate temporaneamente dai cache-providers.
La normativa di riferimento è contenuta nel decreto legislativo del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico. L’articolo 7 di tale direttiva definisce gli “internet service providers” quali “fornitori di servizi in internet”.
Inoltre, l’articolo 2 del citato decreto legislativo chiarisce che per “servizi della società dell’informazione” si intendono le attività economiche svolte in linea – on line – nonché i servizi indicati dall’articolo 1, comma 1, lettera b, della legge n. 317 del 1986, cioè qualunque servizio di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la fornitura dell’accesso ad Internet e a caselle di posta elettronica.
E’ stata quindi sancita l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers. Infatti, l’art. 15 della citata direttiva 2000/31/CE (recepito dall’art. 17 D.Igs. n. 70/2003), prevede quanto segue: «1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. – 2. Gli stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati».
In particolare, i providers non sono responsabili, in linea generale, quando svolgono servizi di c.d. mere conduit (art. 12), caching (art. 13) e hosting (art. 14).
Per quanto si dirà più avanti, nel sottolineare la diversa posizione dei blogger, va evidenziato che il considerando n. 42 della Direttiva in esame puntualizza che «le deroghe alla responsabilità stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate».
In particolare, l’attività di mere conduit, cioè di semplice trasporto, concerne sia la trasmissione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (a titolo d’esempio, una mail inviata da un utente), sia il fornire un accesso ad internet. Si tratta, in pratica, del ruolo svolto dall’access provider, irresponsabile per il contenuto delle informazioni trasmesse telematicamente qualora ricorrano tre condizioni, tutte negative: non dia origine alla trasmissione; non selezioni il destinatario della trasmissione; non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse. In altri termini, fin quando il provider si limita ad un ruolo passivo di mera trasmissione tecnica, senza restare coinvolto nel contenuto delle informazioni che transitano tramite il servizio offerto, non può essere ritenuto responsabile del contenuto medesimo. Purtuttavia, ciò non esclude la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri – come quello italiano, ex art. (art. 14, comma 3, d. Igs. 70/2003) – che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa pretendano che il fornitore impedisca o ponga fine alla violazione perpetrata tramite il servizio prestato.
Il servizio di caching consiste nella memorizzazione automatica, intermedia e temporanea dei dati, sotto forma di file “cache“, effettuata al solo scopo di rendere più efficace la sua successiva trasmissione ad altri destinatari del servizio. In relazione a tale successivo inoltro il fornitore è responsabile esclusivamente ove interferisca con le informazioni memorizzate ovvero non proceda alla rimozione dei dati memorizzati non appena venga effettivamente a conoscenza della circostanza che queste sono state rimosse dal luogo di origine o che verranno presto da questo rimosse.
La Direttiva europea non impone dunque al provider né l’obbligo generale di sorveglianza ex ante, né tanto meno l’obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.
La stessa normativa, tuttavia, impone ai providers di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorità competenti e a condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l’autore della violazione. Ed è significativa la circostanza per cui la mancata collaborazione con le autorità fa sì che gli stessi providers vengano ritenuti civilmente responsabili dei danni provocati.
Questa ipotesi di responsabilità ex post dell’ISP si fonda su quanto è previsto nell’art. 14 comma 1 lett. b) della Direttiva citata, il quale stabilisce una responsabilità in particolare per i c.d. hosting provider, dall’inglese “to host”, che significa “ospitare”, dal momento che il provider fornisce all’utente, ospitandolo, uno spazio telematico da gestire. La scelta delle informazioni da fornire sarà però del soggetto che stipula il contratto di hosting con i provider, i quali sono responsabili nel caso in cui, effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sui propri server, omettano di rimuoverlo. Dal punto di vista del diritto penale, si parlerebbe in tali fattispecie, laddove non si ritengano applicabili le esenzioni previste dalla Direttiva 31/2000, di una responsabilità dell’ISP per concorso omissivo nel reato commissivo dell’utente, se detto contenuto sia penalmente illecito.
La seconda forma di responsabilità sopra descritta è stata oggetto di alcune recenti pronunce giurisprudenziali, in materia penale e civile, le quali hanno individuato nella previsione dell’art. 14 della Direttiva europea (cui corrisponde quella dell’art. 16 D.Igs. n. 70/2003) la fonte di un obbligo d’impedimento a carico degli ISP, legittimante un’imputazione di responsabilità degli stessi a titolo concorsuale (Cass. Pen., Sez. 5, n. 54946 del 12/07/2016, Maffeis, di cui si parlerà più avanti).
Lo sviluppo giurisprudenziale sul tema, però, non è stato accompagnato da modifiche del testo normativo di riferimento, dimostratosi ormai inadeguato alla materia che si prefigge di regolare, è avanzato parallelamente ai cambiamenti tecnologici di Internet.
Invero, la frammentarietà delle fonti e degli interventi in materia non rendono semplice un’analisi sistematica delle fattispecie che vedono coinvolte le diverse tipologie di provider e l’atipicità delle loro attività, che – come sopra si è detto- presentano dinamiche e problematiche differenti.
La più evidente distinzione può essere riscontrata tra i cc.dd. Serch Engine Results Page ovvero i motori di ricerca come -ad esempio- Google, Bing o Qwant e i gestori dei siti sorgente ovvero piattaforme online, come ad esempio Facebook o YouTube, che ospitano o trasmettono i contenuti organizzati e messi a disposizione dal motore di ricerca.
Proprio quanto appena evidenziato rende palese l’intrinseca diversità tra gli internet providers e gli amministratori di blog, dal momento che questi ultimi non forniscono alcun servizio nel senso precisato, bensì si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) “editoriale”, impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma.
Insomma, il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero “diario di rete”) gestito quale sito personale è concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale grazie ad apposito software.
I contenuti del diario vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal più recente al più lontano nel tempo) e il sito è in genere gestito da uno o più blogger, che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale.
Quindi, il singolo intervento (pensiero, contenuto multimediale, ecc.) inserito dal blogger viene in genere definito post e l’applicazione utilizzata permette di creare i nuovi post identificandoli con un titolo, la data di pubblicazione e alcune parole chiave (tag).
Qualora l’autore del blog lo permetta, ovvero abbia configurato in questa maniera il blog, al post possono seguire i commenti dei lettori del blog.
Sempre più persone si avvicinano al mondo del blogging e indubbiamente il problema si pone perché – come si è detto- il blog consente l’interazione anche con soggetti terzi, che possono rimanere anonimi.
Orbene, qualora il blogger dovesse esser ritenuto responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a carico dello stesso.
Certamente, però, quando il blog sia stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, per evitare conseguenze penali il gestore è tenuto a vigilare ed approvare i commenti prima che questi siano pubblicati.
Va quindi esclusa una responsabilità personale del blogger quando questi, reso edotto dell’offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo.
In tal senso si è espressa la sentenza del 9 marzo 2017 (sul caso Pihl vs. Svezia) della Corte Europea dei Diritti Umani, così chiarendo i limiti della responsabilità dei gestori di siti e blog per i commenti degli utenti che abbiano contenuto diffamatorio.
Nel caso esaminato dalla citata sentenza, risalente al 2011, su un blog gestito da un’associazione senza scopo di lucro, mediante un commento in relazione ad un post in cui si attribuiva ad un cittadino svedese, Phil, l’appartenenza ad un partito nazista, un soggetto anonimo accusava il medesimo di essere un consumatore abituale di sostanze stupefacenti. Pochi giorni più tardi, il soggetto leso chiedeva la rimozione di entrambi i contenuti, poiché veicolavano informazioni mendaci. L’associazione provvedeva secondo le richieste del soggetto danneggiato, aggiungendo altresì uno scritto di scuse. Nondimeno, la persona offesa citava in giudizio il gestore del blog, dal momento che questi non aveva preventivamente controllato il contenuto del post e del commento. La domanda di risarcimento veniva respinta dai giudici nazionali, posto che la mancata rimozione di un contenuto diffamatorio pubblicato da terzi prima della segnalazione dell’interessato integrava una condotta non sanzionabile secondo il diritto svedese. La persona offesa, esauriti i rimedi nazionali, adiva la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando che la legislazione domestica, nel non prevedere una responsabilità del gestore di blog in casi di tale genere, violava l’art. 8 della Convenzione, ovvero il diritto a vedere tutelata la propria vita privata nonché la propria reputazione.
La Corte europea, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha rilevato come lo scritto in questione, sebbene presentasse profili offensivi, non conteneva affermazioni che incitavano all’odio o alla violenza, evenienza che consente, secondo la tradizionale giurisprudenza della Cedu, una maggiore limitazione della libertà di espressione.
Ciò posto, nella sentenza in esame si è fatto riferimento ad alcune decisioni precedenti (Delfi AS vs. Estonia, Magyar vs. Ungheria), specificando che il bilanciamento operato dalle Corti nazionali sull’applicazione degli articoli 8 e 10 della CEDU, rispettivamente sul diritto alla privacy e sulla libertà di espressione, può essere superato dalla Corte EDU solo se vi sono motivi gravi.
In particolare, nel valutare tale possibilità la Corte Europea deve tenere conto del contesto, delle misure applicate dal gestore per prevenire o rimuovere i commenti lesivi dei diritti altrui e della responsabilità degli autori dei commenti.
Nel caso esaminato, secondo la Corte, il fatto che il gestore avesse tempestivamente rimosso sia il post sia il commento offensivo, per di più scrivendo un nuovo post contenente la spiegazione di quanto accaduto e le scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a escluderne la responsabilità per concorso in diffamazione.
La Corte europea ha quindi escluso la possibilità di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo.
Quindi, il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente.
In ragione di ciò, rileva il fatto che l’imputato non si sia attivato tempestivamente per la rimozione dei commenti denigratori scritti da terzi utenti una volta venuto a conoscenza degli stessi.
Infine, rileva la Corte come non sia configurabile una posizione di garanzia ed un conseguente obbligo giuridico di garanzia in capo all’amministratore di blog, giacché tale figura non è investita da alcuna fonte di poteri giuridici impeditivi di eventi offensivi di beni altrui, affidati alla sua tutela per l’incapacità dei titolari di adeguatamente proteggerli.
Deve piuttosto affermarsi che la non tempestiva attivazione da parte del blogger al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell’evento diffamatorio – rilevante ex art. 40, secondo comma comma, cod. pen. – ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei contenuti pubblicati su un diario che è gestito dal blogger.
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Il 28 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 13687 che ribadisce l’orientamento secondo cui la ratio della previsione dell’art. 624-bis, comma 1, cod. pen., risiede nell’esigenza di apprestare una maggiore tutela alla sfera privata dell’individuo in tutti i luoghi dove si svolge la sua personalità, quindi anche in quelli, diversi dall’abitazione, perché destinati in modo transitorio e contingente allo svolgimento di attività che attengono alla libertà domestica.
Il Collegio richiama quindi i precedenti di legittimità che hanno qualificato il “camper” come luogo di privata dimora per la naturale destinazione all’uso abitativo quale «casa mobile» nella quale si espletano attività della vita privata, specificando che occorre accertare in concreto che in esso siano state espletate attività tipiche della vita privata, diverse dalla sua mera utilizzazione come mezzo di locomozione, sempre possibile. Analoghe considerazioni valgono per le imbarcazioni dotate di cabine, letti, cucine e wc.
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Il 31 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 24438 che si allinea con il recente arresto delle S.U. D’Amico secondo cui, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico, né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale. Si è, così, precisato che l’interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale in tema di privata dimora, nonché dalla sentenza delle Sezioni Unite, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, «consente di delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili elementi: a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata – come riposo, svago, alimentazione, studio, attiv’ ità professionale e di lavoro in genere – in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».
Quanto ai luoghi ove si svolge l’attività lavorativa è stato specificato che «i luoghi di lavoro sono, generalmente, accessibili ad una pluralità di soggetti, anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto e ad essi è, quindi, estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per definizione alla intrusione altrui».
La disciplina dettata dall’art. 624 bis cod. pen. può essere estesa ai luoghi di lavoro nei casi in cui essi presentino le caratteristiche proprie dell’abitazione. Non può, dunque, revocarsi in dubbio la possibilità che la privata dimora possa essere costituita anche dal luogo ove solitamente si svolge attività lavorativa, a condizione che in esso la persona esplichi, altresì, attività “di vita e dimora privata” e ricorrendo gli altri requisiti indicati sub 1.1 alle lettere b) e c).
Alla luce del suindicato principio, la giurisprudenza ha modulato le sue linee interpretative rispetto ai casi concreti, nei quali va accertato, di volta in volta, se il luogo in cui il soggetto svolge la propria attività costituisca, o meno, privata dimora. Si tratta di un accertamento rimesso, naturalmente, al giudice di merito, il quale, sulla base degli elementi raccolti, dovrà valutare se nel luogo in cui è stata posta in essere l’azione furtiva, in sostanza destinato ad attività lavorativa in modo tendenzialmente stabile, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e potendo precludere l’accesso a terzi, con la conseguente riconducibilità dello stesso nella categoria dei luoghi di privata dimora.
A ben vedere, quindi, il principio enucleato dalle Sezioni Unite non trova applicazione indiscriminata in ordine a tutti i luoghi di lavoro, essendo, invece, necessario condurre, caso per caso, una valutazione di fatto: un’indagine volta ad accertare la sussistenza contestuale di tutte le caratteristiche, richiamate dalle predette Sezioni Unite, proprie della privata dimora.
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Il 19 giugno esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 27211 che si pone in continuità con il consolidato orientamento secondo cui deve intendersi per incidente qualsiasi avvenimento inatteso che, interrompendo il normale svolgimento della circolazione stradale, possa provocare pericolo alla collettività, senza che assuma rilevanza l’avvenuto coinvolgimento di terzi o di altri veicoli.
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Il 29 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 34454 che conferma l’indirizzo secondo cui i luoghi di lavoro non rientrano nella nozione di privata dimora, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Rientrano nella nozione di privata dimora di cui all’art. 624-bis cod. pen., pertanto, esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, quali, ad esempio, il retrobottega, i bagni privati o spogliatoi, l’area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento.
La conferma che i luoghi di lavoro, di per sé, non costituiscano privata dimora è stata desunta anche dal terzo comma dell’art. 52 cod. pen. (aggiunto dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59), nel quale si afferma che la disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Nel richiamato secondo comma si fa riferimento, ai fini della presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa, ai luoghi previsti dall’art. 614 cod. pen. (vale a dire a quelli di privata dimora). Se, dunque, la nozione di privata dimora comprendesse, indistintamente, tutti i luoghi in cui il soggetto svolge atti della vita privata, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiungere il terzo comma nell’art. 52 per estendere l’applicazione della norma anche ai luoghi di svolgimento di attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Evidentemente tale precisazione è stata ritenuta necessaria perché, secondo il legislatore, la nozione di privata dimora non è, in generale, comprensiva dei luoghi di lavoro.
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Il 30 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 34803 che si allinea al principio di diritto espresso dalle S.U. secondo cui integra il delitto previsto dall’art. 615-ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita.
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Il 5 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 35627 secondo cui non è minimamente dubitabile la riconducibilità del farmaco omeopatico al concetto di medicinale, stante l’ampia definizione allo scopo fornita dall’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 219 del 2006, che vi include «ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane» (punto 1 della disposizione), nonché «ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica» (punto 2).
E’ dunque palesemente errato restringere il concetto di medicinale ai soli preparati che svolgono una funzione terapeutica validata, e del resto il decreto legislativo citato – che attua la direttiva europea n. 2001/83/CE, e successive modificazioni, relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano – ricomprende nel suo ambito i prodotti omeopatici, sottoponendoli a procedure di registrazione, in taluni casi semplificata, ed etichettatura, al rispetto di standard di sicurezza e, di regola, a farmaco-vigilanza. Anche il farmaco omeopatico scaduto costituisce dunque un medicinale «imperfetto», nel senso richiesto dall’art. 443 cod. pen.
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Il 29 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 36648 secondo cui non integra gli estremi del reato di cui all’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011 la condotta del soggetto sottoposto, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che conduca senza patente – o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata; un ciclomotore – non potendo tale mezzo essere ricondotto alla categoria dei motoveicoli contemplata dalla suddetta norma.
La disposizione incriminatrice contestata sanziona con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni la condotta della persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che sia sorpresa alla guida di “un autoveicolo o motoveicolo”, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata.
La nozione di “motoveicolo” riportata dall’art. 73 non è, tuttavia, tale che possa farsi rientrare in essa anche quella di “ciclomotore”, non autorizzando a tanto le norme definitorie di tali categorie estraibili dal Codice della strada.
L’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 285 del 1992, codice della strada, come modificato dalla legge n. 120 del 2010, stabilisce che, ai fini delle norme del suddetto codice, si intendono per veicoli tutte le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade, guidate dall’uomo. Poi, l’art. 47 d.lgs. cit. classifica i veicoli elencando: a) veicoli a braccia; b) veicoli a trazione animale; c) velocipedi; d) slitte; e) ciclomotori; f) motoveicoli; g) autoveicoli; h) filoveicoli; i) rimorchi; I) macchine agricole; m) macchine operatrici; n) veicoli con caratteristiche atipiche: tale elencazione individua “ciclomotori” e “motoveicoli” come sotto categorie fra loro distinte.
L’art. 52 d.lgs. cit. definisce i “ciclomotori” come “veicoli a motore a due o tre ruote”, contraddistinti da: a) motore di cilindrata non superiore a 50 cc, se termico; b) capacità di sviluppare su strada orizzontale una velocità fino a 45 km/h”. L’art. 53 stesso d.lgs. definisce i “motoveicoli” come “veicoli a motore, a due, tre o quattro ruote”, distinguendoli in varie sottocategorie, tra le quali è compresa quella dei “motocicli” (contigua a quella dei “ciclomotori”, in quanto l’unico tipo di “motoveicolo” a due ruote, ma distinta da essa), considerati come “veicoli a due ruote destinati al trasporto di persone, in numero non superiore a due, compreso il conducente” (lettera a).
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Il 9 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 41457 che, in tema di rifiuto di sottoporsi all’esame alcolimetrico richiesto dagli agenti della polizia in caso di incidente stradale, afferma come il termine “conducente” si riferisca a colui che guida o che ha guidato – fino a poco prima della richiesta degli agenti di polizia – un veicolo, come si desume, oltre che dal significato letterale della norma incriminatrice, anche dal divieto, fissato dal comma 1 dell’art. 186 c.d.s., di guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, che indica chiaramente come sia genericamente vietata qualsivoglia conduzione di veicoli nella fase in cui le capacità percettive e reattive possono essere negativamente condizionate da una precedente assunzione di quelle bevande.
In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza di Cassazione, per la quale, ai fini del reato di guida in stato di ebbrezza, rientra nella “nozione di guida” la condotta di chi si trovi all’interno del veicolo (nella specie, in stato di alterazione, nell’atto di dormire con le mani e la testa poste sul volante) quando sia accertato che egli abbia, in precedenza, deliberatamente movimentato il mezzo in area pubblica o quantomeno destinata al pubblico (Sez. 7, n. 10476 del 20/01/2010, Ongaro, Rv. 246198). In senso conforme si è sostenuto che, in materia di circolazione stradale, deve ritenersi che la “fermata” costituisca una fase della circolazione, talchè è del tutto irrilevante, ai fini della contestazione del reato di guida in stato di ebbrezza, se il veicolo condotto dall’imputato risultato positivo all’alcoltest fosse, al momento dell’effettuazione del controllo, fermo ovvero in moto (Sez. 4, n. 37631 del 25/09/2007, Savoia, Rv. 237882).
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Il 24 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 43573 in tema di qualifica di “viaggiatore” ai fini dell’operatività della circostanza aggravante del furto.
Secondo la Corte, non può escludersi la qualità di “viaggiatore” nei confronti del “capotreno”, dovendosi intendere con tale espressione qualunque persona che si muove da un luogo all’altro con qualsiasi mezzo di trasporto. Tale qualità si mantiene dall’inizio alla fine del viaggio, comprese le tappe intermedie.
Non vi è ragione per escludere dalla categoria dei “viaggiatori”, tutelati dall’aggravante, i componenti del personale di servizio di trasporto, essendo anch’essi «persone che si trovano in viaggio quale che sia il motivo dello stesso» (Sez. 2, n. 1786 del 20/12/1961, Porfido; Sez. 2 n. 885 del 05/04/1963, Contarese), avuto riguardo alla finalità della norma volta ad assicurare maggiore protezione a chi non può provvedere con attenzione alla custodia delle proprie cose per la distrazione dovuta al viaggio.
Il “trollley” e tutti gli oggetti in esso contenuti (compreso il tablet) rientrano nella nozione di “bagaglio”, trattandosi di cosa che il viaggiatore porta con sé per necessità attinenti alla propria attività lavorativa o alla finalità del viaggio
2020
Il 9 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 380 secondo cui anche i fondali di un fiume costituiscono suolo, in questo caso, demaniale e che pertanto le strutture su di esso stabilmente installate sono per ciò stesso “strutturalmente” assoggettabili al regime di cui agli artt. 3, 10 e 35 del testo unico sull’edilizia, e che anche un natante rientra nel concetto di “costruzione” elaborato dalla giurisprudenza allorquando modifichi, attraverso lo stabile ancoraggio ad un fondale, lo stato dei luoghi in quanto funzionalmente asservito ad ambiente di lavoro per la pesca dei molluschi, senza essere assistito dal del carattere di assoluta precarietà dell’esigenza che è preordinato a soddisfare: rientrano infatti tra gli interventi di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio di cui all’art.3 comma 1, lett.e.5) T.U. “l’installazione di manufatti leggeri anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, camper, case mobili, imbarcazioni che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee“.
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Il 28 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 3465 onde l’art. 291 bis, comma 1, del d.P.R. n. 43 del 1973 trova applicazione, in forza dell’art. 62- quater, commi 1-bis e 7-bis, del d.P.R. n. 504 del 1995, anche ai liquidi per sigarette elettroniche, secondo i criteri di equivalenza determinati sulla base di apposite procedure tecniche, con provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in forza dei quali 1 ml di prodotto liquido da inalazione corrisponde a 5,63 g convenzionali.
Spiega la Corte che l’art. 291-bis, comma 1, del d.P.R. n. 43 del 1973 prevede che chiunque introduce, vende, trasporta, acquista o detiene nel territorio dello Stato un quantitativo di tabacco lavorato estero di contrabbando superiore a dieci chilogrammi convenzionali è punito con la multa di lire diecimila per ogni grammo convenzionale di prodotto, come definito dall’articolo 9 della legge 7 marzo 1985, n. 76, e con la reclusione da due a cinque anni. Al tabacco lavorato estero sono da considerare equiparati i liquidi da inalazione per sigarette elettroniche, ai sensi dell’art. 62-quater, comma 7-bis, del d.P.R. n. 504 del 1995, a norma del quale, tra l’altro, l’art. 291-bis del d.P.R. n. 43 del 1973 si applica anche con riferimento ai prodotti di cui al comma 1-bis dello stesso articolo, secondo il meccanismo di equivalenza ivi previsto.
Il richiamato comma 1-bis dispone quanto segue: «I prodotti da inalazione senza combustione costituiti da sostanze liquide, contenenti o meno nicotina, esclusi quelli autorizzati all’immissione in commercio come medicinali ai sensi del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219, e successive modificazioni, sono assoggettati ad imposta di consumo in misura pari, rispettivamente, al dieci per cento e al cinque per cento dell’accisa gravante sull’equivalente quantitativo di sigarette, con riferimento al prezzo medio ponderato di un chilogrammo convenzionale di sigarette rilevato ai sensi dell’articolo 39- quinquies e alla equivalenza di consumo convenzionale determinata sulla base di apposite procedure tecniche, definite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in ragione del tempo medio necessario, in condizioni di aspirazione conformi a quelle adottate per l’analisi dei contenuti delle sigarette, per il consumo di un campione composto da almeno dieci tipologie di prodotto tra quelle in commercio, di cui sette contenenti diverse gradazioni di nicotina e tre con contenuti diversi dalla nicotina, mediante tre dispositivi per inalazione di potenza non inferiore a 10 watt. Con provvedimento dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli è indicata la misura dell’imposta di consumo, determinata ai sensi del presente comma. Entro il primo marzo di ogni anno, con provvedimento dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli è rideterminata, per i prodotti di cui al presente comma, la misura dell’imposta di consumo in riferimento alla variazione del prezzo medio ponderato delle sigarette».
Dunque, la disposizione non prevede espressamente un meccanismo di equivalenza tra liquido da inalazione e tabacco lavorato estero, ma rinvia a tale scopo all’equivalenza di consumo convenzionale determinata sulla base di apposite procedure tecniche, definite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli. Tale determinazione è contenuta nella direttiva doganale n. 11038/RU del 25 gennaio 2018 del Direttore dell’Agenzia delle dogane e monopoli, che richiama la correlata direttiva n. 6615 del 10 gennaio 2015 del Direttore dell’Agenzia delle dogane e monopoli, con cui è stata prevista l’equivalenza di 1 ml di prodotto liquido da inalazione con 5,63 sigarette convenzionali, ovvero con 5,63 g convenzionali (sulla base delle procedure tecniche fissate con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli in data 24 dicembre 2014).
Né si può sostenere che, nel determinare detta equivalenza, le menzionate direttive direttoriali siano dirette al solo fine di fornire parametri utili alla quantificazione dell’imposta sul consumo, perché esse richiamano entrambe l’art. 62-quater, comma 1-bis, del d.P.R. n. 504 del 1995, il quale è a sua volta richiamato dal successivo comma 7-bis, al più ampio scopo di estendere ai prodotti da inalazione ivi contemplati la disciplina penale dei tabacchi, di cui all’art. 291-bis del d.P.R. n. 43 del 1973. In tale quadro, i commi 1-bis e 7-bis rappresentano norme penali in bianco, le quali, ai fini dell’applicazione dell’art. 291- bis, sono integrate da provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle dogane e monopoli, che si basano sul raffronto fra i tempi medi per il consumo di sigarette tradizionali (con un campione composto dalla cinque marche più vendute) e quelli per il consumo di sigarette elettroniche (con un campione composto da dieci marche di liquido in commercio).
Si tratta di una tecnica normativa che deve essere ritenuta consentita, perché, in linea di principio, le norme penali possono essere rivestite di contenuti in base a norme extrapenali integratrici del precetto penale (ex multis, Sez. 2, n. 4296 del 02/12/2003, dep. 04/02/2004, Rv. 228152; Sez. 6, n. 1632 del 06/12/1996, dep. 21/02/1997, Rv. 208185), che possono essere emanate anche da autorità amministrative o sovranazionali, le quali dettano disposizioni regolatrici od impongono divieti anche in base ad accertamenti scientifici relativi a situazioni storiche determinate (Sez. 1, n. 19107 del 16/05/2006, Rv. 234217), come avviene, appunto, nel caso del raffronto fra sigarette tradizionali e sigarette elettroniche in commercio in un determinato momento. E sono pienamente rispettati, nel caso di specie, i presupposti individuati dalla giurisprudenza costituzionale (cfr. in particolare C. cost., n. 21 del 2009) per l’introduzione, nella descrizione del fatto incriminato, del riferimento ad elementi esterni al precetto, con funzione integratrice dello stesso; elementi che possono consistere anche in un richiamo a circolari amministrative. Infatti, la fonte legislativa, nel rispetto dei principi di riserva di legge e determinatezza della fattispecie, individua il nucleo di disvalore della condotta (contrabbando) e consente, tramite la tecnica del rinvio, l’adeguata identificazione del quadro normativo applicabile, comprensivo dei provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle dogane e monopoli.
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Il 5 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.4927 alla cui stregua che richiama ribadendolo il principio di diritto – di recente puntualizzato in sede di legittimità da alcune decisioni che il Collegio condivide – secondo cui non integra gli estremi del reato di cui all’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011 la condotta del soggetto sottoposto, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che conduca senza patente – o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, un ciclomotore – non potendo tale mezzo essere ricondotto alla categoria dei motoveicoli contemplata dalla suddetta norma (Sez. 1, n. 6752 del 19/11/2018, dep. 2019, Miceli, Rv. 274803; Sez. 1 n. 58468 del 05/11/2018, Signorelli, Rv. 276152; v., fra le altre, anche Sez. 1, n. 38204 del 01/04/2019, Mazzù, n. m.; Sez. 1, n. 49473 del 16/07/2018, Grillo, n. m.). L’analisi letterale e l’inquadramento sistematico della norma danno ragione di tale approdo.
La disposizione incriminatrice contestata – precisa la Corte – sanziona con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni la condotta della persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale che sia sorpresa alla guida di “un autoveicolo o motoveicolo”, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata. La nozione di “motoveicolo” riportata dall’art. 73 non è, tuttavia, tale che possa farsi rientrare in essa anche quella di “ciclomotore”, non autorizzando a tanto le norme definitorie di tali categorie estraibili dal Codice della strada.
L’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 285 del 1992, codice della strada, come modificato dalla legge n. 120 del 2010, stabilisce che, ai fini delle norme del suddetto codice, si intendono per veicoli tutte le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade, guidate dall’uomo. Poi, l’art. 47 d.lgs. cit. classifica i veicoli elencando: a) veicoli a braccia; b) veicoli a trazione animale; c) velocipedi; d) slitte; e) ciclomotori; f) motoveicoli; g) autoveicoli; h) filoveicoli; i) rimorchi; I) macchine agricole; m) macchine operatrici; n) veicoli con caratteristiche atipiche: tale elencazione individua, dunque, i ciclomotori e i motoveicoli come sottocategorie fra loro distinte.
L’art. 52 d.lgs. cit. definisce i “ciclomotori” come “veicoli a motore a due o tre ruote”, contraddistinti da: a) motore di cilindrata non superiore a 50 cc, se termico; b) capacità di sviluppare su strada orizzontale una velocità fino a 45 km/h. L’art. 53 stesso d.lgs. definisce i “motoveicoli” come “veicoli a motore, a due, tre o quattro ruote”, distinguendoli in varie specie, tra le quali è compresa quella dei “motocicli” (contigua a quella dei “ciclomotori”, in quanto costituisce l’unico tipo di “motoveicolo” a due ruote, ma distinta da essa), considerati come “veicoli a due ruote destinati al trasporto di persone, in numero non superiore a due, compreso il conducente” (lettera a).
Come ha evidenziato la prima delle decisioni richiamate (Sez. 1, n. 6752 del 19/11/2018, dep. 2019, cit.), nessuna modifica sostanziale alle disposizioni indicate è stata apportata dalle integrazioni determinate dall’art. 1, commi 2 e 3, del Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti 31 gennaio 2003 (pubblicato nel Supplemento Ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 123 del 29 maggio 2003), emanato in recepimento della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2002/24/CE del 18 marzo 2002, relativa all’omologazione dei veicoli a motore a due o tre ruote.
Anche sulla scorta di tale fonte, ciclomotori e motocicli restano distinti, rispettivamente, sotto le lettere a) e b). Alla lettera a) i ciclomotori sono classificati come veicoli a due ruote (categoria Lie) o veicoli a tre ruote (categoria L2e) aventi una velocità massima per costruzione non superiore a 45 km/h e caratterizzati: 1) nel caso dei veicoli a due ruote, da un motore: 1.1) la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cmc se a combustione interna, oppure 1.2) la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici; 2) nel caso dei veicoli a tre ruote, da un motore: 2.1) la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cmc se ad accensione comandata, oppure 2.2) la cui potenza massima netta è inferiore o uguale a 4 kW per gli altri motori a combustione interna, oppure 2.3) la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici. Alla lettera b) sono definiti i motocicli, ossia veicoli a due ruote, senza carrozzetta (categoria L3e) o con carrozzetta (categoria L4e), muniti di un motore con cilindrata superiore a 50 cmc se a combustione interna e/o aventi una velocità massima per costruzione superiore a 45 km/h.
In modo corrispondente, le differenze fra le suddette categorie di veicoli hanno avuto il loro riflesso sulla disciplina dell’abilitazione alla guida, quanto meno fino al 19 gennaio 2013, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 59 del 2011, il cui art. 3 ha integralmente sostituito le disposizioni delineate dall’art. 116 d.lgs. n. 285 del 1992. 3.2.1. Secondo la disciplina previgente, costituita dagli artt. 116 e 121 d.lgs. n. 285 del 1992, non si potevano guidare autoveicoli e motoveicoli – dunque, non anche i ciclomotori – senza avere conseguito la patente di guida e l’idoneità tecnica necessaria per il rilascio della patente medesima si conseguiva superando una prova di verifica delle capacità e dei comportamenti ed una prova di controllo delle relative cognizioni. Per guidare un motoveicolo di massa complessiva sino a 1,3 t. era previsto il conseguimento della patente di categoria Diversamente, per condurre un ciclomotore, il minore di età che aveva compiuto 14 anni doveva conseguire un titolo diverso dalla patente, costituito dal “certificato di idoneità alla guida … a seguito di specifico corso con prova finale, organizzato secondo le modalità di cui al comma 11 -bis”.
In tale assetto normativo, del tutto coerentemente, non si riteneva che potesse integrare il reato (allora) previsto dall’art. 116, comma 13, d.lgs. n. 285 del 1992, ma soltanto la violazione amministrativa sanzionata dall’art. 116, comma 13-bis, la guida di un ciclomotore con cilindrata fino a 50 cc. senza aver conseguito il prescritto certificato di idoneità (Sez. 4, n. 23631 del 19/4/2012, Geanta, Rv. 253129), mentre alla fattispecie penale era ricondotto il diverso caso di guida di un ciclomotore maggiorato nella cilindrata e, comunque, non corrispondente alle sue caratteristiche originarie, previste dall’art. 52 d.lgs. n. 285 del 1992, trattandosi di mezzo rientrante, di fatto, nella categoria dei motoveicoli di cui all’art. 53, per la conduzione del quale era prescritta la patente di categoria “A” (Sez. 4, n. 255 del 18/09/1997, dep. 1998, Fichera, Rv. 210156).
L’attuale disciplina, in vigore dal 19 gennaio 2013 per effetto del d.lgs. n. 59 del 2011, all’art. 116, comma 1, stabilisce, mutando parzialmente la prospettiva rispetto alla situazione precedente, che non si possono guidare ciclomotori, motocicli, tricicli, quadricicli e autoveicoli senza aver conseguito la patente di guida e, ove richieste, le abilitazioni professionali. Il complesso veicolare viene così ricondotto a unità tendenziale, in cui, diversamente dal regime previgente, per tutti i veicoli, compresi i ciclomotori, è previsto il conseguimento della patente di guida “conforme al modello UE” (art.116, comma 3): in pari tempo, però, il legislatore ha conservato le distinzioni derivanti dalle differenti caratteristiche tecniche dei veicoli stessi e dall’età dei conducenti, individuando diverse categorie di patenti abilitanti alla guida.
In particolare, mentre per i ciclomotori a due ruote (categoria Lie), con velocità massima di costruzione non superiore a 45 km/h, la cui cilindrata è inferiore o uguale a 50 cmc se a combustione interna, oppure la cui potenza nominale continua massima è inferiore o uguale a 4 kW per i motori elettrici, è prevista la patente “AM” (art. 116, comma 3, lett. a, n. 1), per i motocicli di cilindrata massima di 125 cmc, di potenza massima di 11 kW e con un rapporto potenza/peso non superiore a 0,1 kW/kg, è prevista la patente “Al” (art. 116, comma 3, lett. b, n. 1), per i motocicli di potenza non superiore a 35 kW con un rapporto potenza/peso non superiore a 0,2 kW/kg e che non siano derivati da una versione che sviluppa oltre il doppio della potenza massima, è prevista la patente “A2” (art. 116, comma 3, lett. c) e per i motocicli, ossia veicoli a due ruote, senza carrozzetta (categoria L3e) o con carrozzetta (categoria L4e), muniti di un motore con cilindrata superiore a 50 cmc, se a combustione interna e/o aventi una velocità massima per costruzione superiore a 45 km/h, è prevista la patente “A” (art. 116, comma 3, lett. d).
Assodato quanto precede, la Corte ritiene a questo punto che, alla stregua del quadro normativo di riferimento, il mero fatto dell’intervenuta previsione del conseguimento di una patente di guida anche per i conducenti di ciclomotori, con decorrenza dal 19 gennaio 2013 (quindi, vigente alla data di commissione del fatto ascritto a Cattareggia) non legittimi un’interpretazione in virtù della quale il soggetto che, sottoposto a misura di prevenzione in via definitiva, sia stato colto alla guida di un ciclomotore senza patente, possa essere chiamato a rispondere del reato previsto dall’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011.
In effetti, anche a seguito delle illustrate innovazioni normative, il conducente del ciclomotore, che si trovi nelle condizioni e tenga la condotta descritte nell’art. 73 cit., non deve rispondere del reato, perché il suddetto veicolo non può essere, comunque, ricondotto alla nozione di motoveicolo.
A corroborare, sempre sotto il profilo sistematico, tale conclusione vale rilevare per la Corte che l’art. 73 cit. non ha fatto altro che operare la ricognizione e l’attrazione nel testo unico dell’art. 6 legge n. 575 del 1965, norma, la quale, nel caso di guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, ai sensi dell’art. 82 e dell’art. 91 secondo e terzo comma, n. 2, d.P.R. n. 393 del 1959, comminava la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni, qualora si trattasse di persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a misure di prevenzione. La struttura di quella fattispecie penale rimandando alle norme integratrici dell’allora vigente “Testo unico sulla circolazione stradale” – fonte che, come da artt. 21 (che lo elencava, sotto la lettera d, tra le categorie dei veicoli) e 24 (che lo definiva come veicolo a due o tre ruote con cilindrata fino a 50 cc e capacità di sviluppare su strada piana una velocità fino a 40 km/h), già conosceva il concetto tecnico-giuridico di “ciclomotore”, distinguendolo da quello di “motoveicolo” (descritto dall’art. 25) – prevedeva, proprio in virtù di tale distinzione, solo per i motoveicoli il possesso della patente quale documento necessario per procedere alla corrispondente guida (art. 90, secondo comma, d.P.R. n. 393 del. 1959 cit.), laddove per il conducente del ciclomotore era sufficiente, a mente dell’art. 90, primo comma, d.P.R. cit., avere con sé un documento dal quale si potesse rilevare l’età del conducente.
Il chiaro riferimento, operato dalla norma, al duplice presupposto oggettivo (che si aggiunge a quello della definitività del provvedimento di prevenzione) della guida di un motoveicolo – categoria normativamente distinta da quella di ciclomotore – e del difetto di patente in capo al conducente sottoposto a misura di prevenzione definitiva – documento necessario per la guida dei motoveicoli, ma non per quella dei ciclomotori – costituiva l’evidente esito di una scelta legislativa volta a escludere per il conducente del ciclomotore le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 6 legge n. 575 del 1965. Il legislatore delegato del 2011, procedendo alla ricognizione delle norme vigenti in materia di misure di prevenzione, ha riprodotto l’art. 6 cit. nell’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011, senza alcuna sostanziale innovazione.
Peraltro, chiosa ancora la Corte, non è superfluo rilevare che, nella successione degli atti normativi emanati nel corso dell’anno 2011, il d.lgs. n. 159 del 2011 risale al 6 settembre 2011 (e la relativa entrata in vigore, per la parte che qui rileva, è del 13 ottobre 2011). Intanto, era stato emesso il 18 aprile 2011 il decreto legislativo n. 59 del 2011, fonte che ha previsto, a far data dal 19 gennaio 2013, la necessità del conseguimento della patente di guida (sia pure, con i minimi requisiti autorizzativi della categoria “AM”) per i conducenti dei ciclomotori.
Ebbene, è ineludibile per il Collegio osservare che, ove il d.lgs. n. 159 del 2011 avesse avuto l’obiettivo di rimodellare la fattispecie di cui all’art. 73 cit. recependo e coordinando la novità normativa introdotta nel Codice della Strada al fine di (estendere la punibilità della condotta sanzionata dall’art. 73 ai conducenti di ciclomotori, lo avrebbe fatto modificando i dati strutturali della fattispecie incriminatrice., essendo già nota la novità normativa riguardante la necessità di abilitazione (anche) per la guida dei ciclomotori. Ma ciò non è avvenuto.
L’esito di questo ragionamento è che tutti gli indici interpretativi rilevanti per chiarire l’ambito di applicazione dell’art. 73 d.lgs. n. 159 del 2011 inducono a concludere che, in mancanza di un intervento normativo, rimangono immutate le distinzioni riguardanti le categorie dei motoveicoli e dei ciclomotori, con l’effetto che la platea dei destinatari della norma incriminatrice in esame non può ritenersi suscettibile di ampliamento sulla scorta di un’esegesi sistematica spinta al punto tale da inserire nella relativa sfera di disciplina anche i conducenti dei ciclomotori per il solo fatto che pure per loro è ora necessario il conseguimento del titolo per l’abilitazione alla guida, ove poi il titolo manchi o sia revocato per l’effetto della misura di prevenzione.
Va, dunque, ritenuto che estendere l’applicazione dell’art. 73 cit. anche ai prevenuti che siano stati sorpresi alla guida di ciclomotori senza patente di guida sarebbe approdo contrario all’insuperabile divieto di analogia in malam partem in materia penale risultante dall’art. 1 cod. pen., dall’art. 14 disp. prel. cod. civ. e dall’art. 25 Cost. Nella prospettiva configurata, è da condividere senz’altro il rilievo che la depenalizzazione del reato di guida senza patente ex art. 116 cod. strada a seguito del d.lgs. n. 8 del 2016 non si estende all’ipotesi in cui la guida senza patente venga posta in essere da persona sottoposta a misura di prevenzione personale, in relazione a cui l’art. 73 del d.lgs. n. 159 del 2011 prevede un autonomo reato (Sez. 6, n. 8223 del 12/12/2017, dep. 2018, Cavallo, Rv. 272233); rilievo che va, secondo le considerazioni che precedono, specificato nel senso che esso non riguarda la guida del ciclomotore, poiché tale condotta è, nella disciplina vigente, estranea all’ambito di applicazione dell’art. 73 cit.
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L’11 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 1825 che rimette alle Sezioni Unite la questione circa l’applicabilità della causa scriminante o scusante di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen. al convivente more uxorio.
Secondo un primo orientamento prevalente, non può essere applicata al convivente “more uxorio”, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente “more uxorio”. Ciò quanto esistono, nell’ordinamento, ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi, trovando il rapporto coniugale tutela diretta nell’art. 29 Cost., mentre il rapporto di fatto fruisce della tutela apprestata dall’art.2 Cost. ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali, con la conseguenza che ogni intervento diretto a rendere una identità di disciplina rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore.
Secondo l’opposto orientamento, la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente “more uxorio”, confutando così l’attualità dell’opinione espressa dal Giudice delle leggi in ordine alla concezione di famiglia cui fare riferimento e richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale considera la famiglia in senso dinamico, come una formazione sociale in perenne divenire, e non come un istituto statico ed immutabile, essendo irrilevante che il rapporto familiare sia sanzionato dall’accordo matrimoniale.
L’orientamento minoritario da ultimo citato è stato criticato dalla dottrina secondo la quale il discostamento dal precedente consolidato orientamento, innanzitutto, si pone in tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare un necessario interpello della Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore.
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Il 2 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 8421 secondo cui il riferimento contenuto nell’art. 624 bis c.p. “…o nelle pertinenze di essa….” (privata dimora), tenuto conto delle ragioni di maggior tutela apprestata per i beni collocati nei luoghi di privata dimora o in quelli “vicini”, che di tale tutela estensivamente beneficiano, non ricomprende solo il luogo rientrante nella nozione civilistica di pertinenza ex art. 817 c.c., ma anche quello più ampio, avente un rapporto di strumentalità con l’abitazione (o le abitazioni) od anche solo di servizio, arrecando una “utilità” al bene principale (ovvero ai beni principali). E’ stato, all’uopo, evidenziato che la nozione di pertinenza, valevole ai fini dell’art. 624 bis c.p., non coincide con quella civilistica, non richiedendo essa l’uso esclusivo del bene da parte di un solo proprietario. Piuttosto, essa deve essere accostata alla nozione di “appartenenza”, di cui all’art. 614 c.p., sicchè elemento caratterizzante è, dunque, quello della strumentalità, anche non continuativa e non esclusiva, del bene alle esigenze di vita domestica del proprietario.
In proposito, è stato ritenuto rientrante nel concetto di “pertinenza” di privata dimora il pianerottolo condominiale, antistante la porta dell’abitazione di uno dei condomini, avente, come gli altri, diritto di escludere l’intruso, nonché l’androne del palazzo per la sua natura pertinenziale delle abitazioni collocate nello stabile, sebbene pro quota, per tutti gli appartamenti dell’anzidetto complesso e le aree condominiali in genere, ivi comprese quelle destinate a parcheggio che non siano nella disponibilità dei singoli condomini.
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Il 10 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 11959 che per la prima volta affronta in modo specifico la questione se i files possano formare oggetto del reato di cui all’art. 624 cod. pen..
Un primo orientamento, più risalente, propende per una risposta negativa osservando che, rispetto alla condotta tipica della sottrazione, la particolare natura dei documenti informatici rappresenta un ostacolo logico alla realizzazione dell’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice, ad esempio nel caso di semplice copiatura non autorizzata di “files” contenuti in un supporto informatico altrui, poiché in tale ipotesi non si realizza la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore.
Un orientamento più recente afferma invece possibilità che oggetto della condotta di furto possono essere anche i files, senza peraltro alcuno specifico approfondimento della questione.
Gli argomenti che legano tra loro le pronunce allineatesi al primo orientamento citato traggono spunto in primo luogo, quanto alla specificità del delitto di appropriazione indebita, dal tenore testuale della norma incriminatrice che individua l’oggetto materiale della condotta nel “denaro od altra cosa mobile”; si richiamano alla nozione di “cosa mobile” nella materia penale, nozione caratterizzata dalla necessità che la cosa sia suscettibile di fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione; ne fanno conseguire l’esclusione delle entità immateriali – le opere dell’ingegno, le idee, le informazioni in senso lato – dal novero delle cose mobili suscettibili di appropriazione, considerata anche l’unica espressa disposizione normativa che equipara alle cose mobili le energie (previsione contenuta nell’art. 624, comma 2, cod. pen.)
A questo punto la Corte, pur richiamando le ragioni di ordine testuale, sistematico e di rispetto dei principi fondamentali di stretta legalità e tassatività delle norme incriminatrici, che potrebbero contrastare la possibilità di qualificare i files come beni suscettibili di rappresentare l’oggetto materiale dei reati contro il patrimonio, ritiene necessario approfondire la valutazione considerando la struttura del file, inteso quale insieme di dati numerici tra loro collegati che non solo nella rappresentazione (grafica, visiva, sonora) assumono carattere, evidentemente, materiale; considera, altresì, presa in esame la trasferibilità dei files tra dispositivi che li contengono, oltre che nell’ambiente informatico rappresentato dalla rete Internet; allo stesso tempo, ritiene di dover interpretare talune categorie giuridiche che, coniate in epoche in cui erano del tutto sconosciute le attuali tecnologie informatiche, necessitano di esser nuovamente considerate, al fine di render effettiva la tutela cui mirano le disposizioni incriminatrici dei delitti contro il patrimonio.
Nel sistema del codice penale la nozione di cosa mobile non è positivamente definita dalla legge, se non dalla ricordata disposizione che equipara alla cosa mobile l’energia elettrica e ogni altra energia economicamente valutabile (“Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica
e ogni altra energia che abbia un valore economico“: art. 624, comma 2, cod. pen.). Per altro, le più accreditate correnti dottrinali e lo stesso formante giurisprudenziale hanno delimitato la nozione penalistica di “cosa mobile” attraverso l’individuazione di alcuni caratteri minimi, rappresentati dalla materialità e fisicità dell’oggetto, che deve risultare definibile nello spazio e suscettibile di essere spostato da un luogo ad un altro (così rendendo possibile una delle caratteristiche tipiche delle condotte di aggressione al patrimonio, che è costituita dalla sottrazione della cosa al controllo del proprietario o del soggetto titolare di diritti sulla cosa).
Secondo le nozioni informatiche comunemente accolte (per tutte, le specifiche ISO), il file è l’insieme di dati, archiviati o elaborati (ISO/IEC 2382-1:1993), cui sia stata attribuita una denominazione secondo le regole tecniche uniformi; si tratta della struttura principale con cui si archiviano i dati su un determinato supporto di memorizzazione digitale. Questa struttura possiede una dimensione fisica che è determinata dal numero delle componenti, necessarie per l’archiviazione e la lettura dei dati inseriti nel file. Le apparecchiature informatiche, infatti, elaborano i dati in essi inseriti mediante il sistema binario, classificando e attribuendo ai dati il corrispondente valore mediante l’utilizzo delle cifre binarie (0 oppure 1: v. ISO/IEC 2382:2015 – 2121573).
Le cifre binarie (bit, dall’acronimo inglese corrispondente all’espressione binary digit) rappresentano l’unità fondamentale di misura all’interno di un qualsiasi dispositivo in grado di elaborare o conservare dati informatici; lo spazio in cui vengono collocati i bit è costituito da celle ciascuna da 8 bit, denominata convenzionalmente byte (ISO/IEC 2382:2015 – 2121333). Com’è stato segnalato dalla dottrina più accorta che si è interessata di questa tematica, «tali elementi non sono entità astratte, ma entità dotate di una propria fisicità: essi occupano fisicamente una porzione di memoria quantificabile, la dimensione della quale dipende dalla quantità di dati che in essa possono esser contenuti, e possono subire operazioni (ad esempio, la creazione, la copiatura e l’eliminazione) tecnicamente registrate o registrabili dal sistema operativo».
Questi elementi descrittivi consentono di giungere ad una prima conclusione: il file, pur non potendo essere materialmente percepito dal punto di vista sensoriale, possiede una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui i files possono essere conservati e elaborati. L’assunto da cui muove l’orientamento maggioritario, giurisprudenziale e della dottrina, nel ritenere che il dato informatico non possieda i caratteri della fisicità, propri della “cosa mobile” (nella nozione penalistica di quel termine) non è, dunque, condivisibile; al contrario, una più accorta analisi della nozione scientifica del dato informatico conduce a conclusioni del tutto diverse.
Resta, insuperabile, la caratteristica assente nel file, ossia la capacità di materiale apprensione del dato informatico e, quindi, del file; ma occorre riflettere sulla necessità del riscontro di un tale requisito – non desumibile dai testi di legge che regolano la materia – perché l’oggetto considerato possa esser qualificato come “cosa mobile” suscettibile di divenire l’oggetto materiale delle condotte di reato e, in particolare, di quella di appropriazione.
Tra i presupposti che la tradizione giuridica riconosce come necessari per ravvisare le condotte di sottrazione e impossessamento (o appropriazione) di cose mobili, il criterio della necessaria detenzione fisica della cosa è quello che desta maggiori perplessità. Se la ratio, sottesa alla selezione delle classi di beni suscettibili di formare oggetto delle condotte di reato di aggressione all’altrui patrimonio, è agevolmente individuabile nella prospettiva della correlazione delle condotte penalmente rilevanti (essenzialmente, quelle che mirano alla sottrazione della disponibilità di beni ai soggetti che siano titolari dei diritti di proprietà o di possesso sulle cose considerate) all’attività diretta a spogliare il titolare del bene dalla possibilità di esercitare i diritti connessi all’utilizzazione del bene, è chiaro che la sottrazione (violenta o mediante attività fraudolente o, comunque, dirette ad abusare della cooperazione della vittima) debba presupporre in via logica la disponibilità, da parte dei soggetti titolari, dei beni su cui cade la condotta penalmente rilevante; ma anche in questo contesto deve prendersi atto che il mutato panorama delle attività che l’uomo è in grado di svolgere mediante le apparecchiature informatiche determina la necessità di considerare in modo più appropriato i criteri classificatori utilizzati per la definizione di nozioni che non possono rimanere immutabili nel tempo.
In questa prospettiva, dunque, si è giunti da parte delle più accorte opinioni dottrinali – in modo coerente con la struttura dei fatti tipici considerati dall’ordinamento (caratterizzati dall’elemento della sottrazione e dal successivo impossessamento) e dei beni giuridici che l’ordinamento intende tutelare sanzionando le condotte contemplate nel titolo XIII del codice penale – a rilevare che «l’elemento della materialità e della tangibilità ad essa collegata, della quale l’entità digitale è sprovvista, perde notevolmente peso: il dato può essere oggetto di diritti penalmente tutelati e possiede tutti i requisiti della mobilità della cosa».
A questo riguardo va considerata la capacità del file di essere trasferito da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali, così come la possibilità che lo stesso dato viaggi attraverso la rete Internet per essere inviato da un sistema o dispositivo ad un altro sistema, a distanze rilevanti, oppure per essere “custodito” in ambienti “virtuali” (corrispondenti a luoghi fisici in cui gli elaboratori conservano e trattano i dati informatici); caratteristiche che confermano il presupposto logico della possibilità del dato informatico di formare oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione.
In conclusione, pur se difetta il requisito della apprensione materialmente percepibile del file in sé considerato (se non quando esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), di certo il file rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l’estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l’intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall’uomo.
Occorre, infine, verificare se l’interpretazione proposta nei termini su indicati si ponga in contrasto con i principi volti a garantire l’intervento della legge penale quale extrema ratio, subordinando l’applicazione della sanzione penale al principio di legalità, nel suo principale corollario del rispetto del principio di tassatività e determinatezza.
L’analisi delle questioni interpretative sinora condotta mette in luce che sia il profilo della precisione linguistica del contenuto della norma (con riferimento all’indicazione della nozione di “cosa mobile”), sia quello della sua determinatezza (intesa come necessità che «nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili», non potendosi «concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili»: Corte cost., n. 96 del 1981), non sono esposti a pericolo di compromissione. Ciò che va soppesato è il rispetto del principio di tassatività, che governa l’attività interpretativa giurisdizionale affinché l’applicazione della fattispecie incriminatrice non avvenga al di fuori dei casi espressamente considerati.
In ordine al contenuto di tale principio, la Corte costituzionale ha ancora di recente ricordato che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (Corte cost., n. 25 del 2019). Ciò che rileva, come insegna il Giudice delle leggi, è che «la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.» (Corte cost., n. 327 del 2008).
L’interpretazione della nozione di cosa mobile, agli effetti della legge penale, fondata sullo specifico carattere della cosa, che consente alla stessa di formare oggetto sia di condotte di sottrazione alla disponibilità del legittimo titolare, sia di impossessamento da parte del soggetto responsabile della condotta illecita, risulta in sintonia con l’unico dato testuale che la legge penale riproduce nella definizione della categoria dei beni suscettibili di costituire l’oggetto delle condotte tipiche dei delitti contro il patrimonio.
Indiscusso il valore patrimoniale che il dato informatico possiede, in ragione delle facoltà di utilizzazione e del contenuto specifico del singolo dato, la limitazione che deriverebbe dal difetto del requisito della “fisicità” della detenzione non costituisce elemento in grado di ostacolare la riconducibilità del dato informatico alla categoria della cosa mobile.
A questo riguardo, va considerato che anche rispetto al denaro, che la legge equipara alla cosa mobile in più disposizioni e, quel che rileva in questa sede, nella norma incriminatrice dell’art. 646 cod. pen., si pongono in astratto le medesime questioni sollevate in relazione ai dati informatici. Si intende far riferimento alla circostanza per cui anche il denaro (che pur è fisicamente suscettibile di diretta apprensione materiale), nella sua componente espressiva del valore di scambio tra beni, è suscettibile di operazioni contabili, così come di trasferimenti giuridicamente efficaci, anche in assenza di una materiale apprensione delle unità fisiche che rappresentano l’ammontare del denaro oggetto di quelle operazioni giuridiche. Le operazioni realizzate mediante i contratti bancari, attraverso le disposizioni impartite dalle parti del rapporto, un tempo esclusivamente scritte e riprodotte su documenti cartacei, ed attualmente eseguite attraverso disposizioni inviate in via telematica, oggi così come in passato consentono di trasferire, senza la sua materiale apprensione, il denaro che forma oggetto delle singole disposizioni.
Allo stesso tempo, è pacifico che le condotte dirette alla sottrazione, ovvero all’impossessamento del denaro, possono esser realizzate anche senza alcun contatto fisico con il denaro, attraverso operazioni bancarie o disposizioni impartite, anche telematicamente; ciò che non impedisce certo di ravvisare in tali condotte le ipotesi di reato corrispondenti.
Infine, dal punto di vista dell’effettiva realizzazione, attraverso le condotte appropriative di dati informatici, dell’effetto di definitiva sottrazione del bene patrimoniale al titolare del diritto di godimento ed utilizzo del bene stesso, le ipotesi di appropriazione indebita possono differenziarsi dalla generalità delle ipotesi di “furto di informazioni”, in cui si è frequentemente rilevato che il pericolo della perdita definitiva da parte del titolare dei dati informatici è escluso in quanto attraverso la sottrazione l’agente si procura sostanzialmente un mezzo per acquisire la conoscenza delle informazioni contenute nel dato informatico, che resta comunque nella disponibilità materiale e giuridica del titolare (valutazione che aveva indotto il legislatore, nel corso del procedimento di discussione ed approvazione della I. 23 dicembre 1993, n. 547 – recante modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica – , ad escludere che alle condotte di sottrazione di dati, programmi e informazioni fosse applicabile l’art. 624 cod. pen. «pur nell’ampio concetto di «cosa mobile» da esso previsto», in quanto «la sottrazione di dati, quando non si estenda ai supporti materiali su cui i dati sono impressi (nel qual caso si configura con evidenza il reato di furto), altro non è che una «presa di conoscenza» di notizie, ossia un fatto intellettivo rientrante, se del caso, nelle previsioni concernenti la violazione dei segreti»: così la relazione al relativo disegno di legge n. 2773). Infatti, ove l’appropriazione venga realizzata mediante condotte che mirano non solo all’interversione del possesso legittimamente acquisito dei dati informatici, in virtù di accordi negoziali e convenzioni che legittimano la disponibilità temporanea di quei dati, con obbligo della successiva restituzione, ma altresì a sottrarre definitivamente i dati informatici mediante la loro cancellazione, previamente duplicati e acquisiti autonomamente nella disponibilità del soggetto agente, si realizza il fatto tipico della materiale sottrazione del bene, che entra a far parte in via esclusiva del patrimonio del responsabile della condotta illecita.
Ritiene, pertanto, la Corte che nell’interpretazione della nozione di cosa mobile, contenuta nell’art. 646 cod. pen., in relazione alle caratteristiche del dato informatico (file) come sopra individuate, ricorre quello che la Corte costituzionale ebbe a definire il «fenomeno della descrizione della fattispecie penale mediante ricorso ad elementi (scientifici, etici, di fatto o di linguaggio comune), nonché a nozioni proprie di discipline giuridiche non penali», situazione in cui «il rinvio, anche implicito, ad altre fonti o ad esterni contrassegni naturalistici non viol[a] il principio di legalità della norma penale – ancorché si sia verificato mutamento di quelle fonti e di quei contrassegni rispetto al momento in cui la legge penale fu emanata – una volta che la reale situazione non si sia alterata sostanzialmente, essendo invece rimasto fermo lo stesso contenuto significativo dell’espressione usata per indicare gli estremi costitutivi delle fattispecie ed il disvalore della figura criminosa. In tal caso l’evolversi delle fonti di rinvio viene utilizzato mediante interpretazione logico-sistematica, assiologica e per il principio dell’unità dell’ordinamento, non in via analogica» (Corte cost. n. 414 del 1995).
Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: “i dati informatici (files) sono qualificabili cose mobili ai sensi della legge penale e, pertanto, costituisce condotta di appropriazione indebita la sottrazione da un personal computer aziendale, affidato per motivi dì lavoro, dei dati informatici ivi collocati, provvedendo successivamente alla cancellazione dei medesimi dati e alla restituzione del computer “formattato””.
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Il 4 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 16953 che richiama l’orientamento secondo cui, in tema di lesioni personali volontarie, ricorre la circostanza aggravante dell’uso di uno strumento atto ad offendere di cui all’art. 585, comma secondo, n. 2, cod. pen., laddove la condotta lesiva sia in concreto realizzata adoperando qualsiasi oggetto, anche di uso comune e privo di apparente idoneità all’offesa. Ne consegue che anche una croce lignea, se usata – come nella specie- in un contesto aggressivo, costituisce arma impropria ai fini dell’applicazione dell’aggravante in esame. D’altronde non rileva affatto che si tratti di un uso momentaneo od occasionale dello strumento atto ad offendere, poiché per la configurabilità della suddetta aggravante non si richiede che concorra la contravvenzione di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975.
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Il 4 novembre esce la sentenza dalla V sezione della Cassazione Penale n. 30735, alla stregua della quale non integra il delitto di violazione di corrispondenza di cui all’art. 616, commi 1 e 4, c.p., l’intercettazione e la presa visione, da parte del marito, delle e-mail della moglie nel momento in cui la loro trasmissione è in corso, in quanto la norma incriminatrice considera la “corrispondenza” in senso statico, quando cioè il pensiero è già stato comunicato.
2021
Il 4 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 8799, onde il reato di violazione di sigilli è configurabile anche nel caso in cui i sigilli siano stati apposti esclusivamente per impedire l’uso illegittimo della cosa, poiché tale finalità deve ritenersi compresa in quella, menzionata nell’art. 349 cod. pen., di assicurare la conservazione o la identità della cosa, senza che siffatta interpretazione possa dirsi frutto di interpretazione analogica in malam partem.
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Il 17 marzo esce l’’importantissima sentenza delle SSUU n.10381 alla cui stregua l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
La Sezione rimettente – principia il Collegio – ha correttamente rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto l’ambito applicativo dell’art. 384, primo comma, cod. pen., con riferimento alla possibilità di farvi rientrare anche i casi di convivenze di fatto.
L’orientamento, allo stato prevalente, che esclude l’applicabilità dei casi di non punibilità previsti dalla norma in questione alle situazioni di convivenza more uxorio, giustifica tale soluzione in base ad almeno tre ordini di ragione.
Innanzitutto, si ritiene determinante l’espresso riferimento contenuto nell’art. 384 cod. pen. ai “prossimi congiunti“, la cui definizione è offerta dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., disposizione generale all’interno del codice penale, che identifica la categoria dei prossimi congiunti esclusivamente nel coniuge, oltre che negli ascendenti, discendenti, fratelli, affini nello stesso grado, zii e nipoti, senza ricomprendervi il convivente.
In questo modo la nozione di prossimi congiunti viene ricondotta esclusivamente ai membri della famiglia fondata sul matrimonio, negando ogni possibile parificazione della convivenza more uxorio (in questo senso, Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, Turatello, Rv. 154880; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/1988, Melilli, Rv. 178467; Sez. 1, n. 9475 del 05/05/1989, Creglia, Rv. 181759; Sez. 6, n. 132 del 18/01/1991, Izzo, Rv. 187017; Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, Agate, Rv. 244725, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903).
In secondo luogo, le decisioni che formano oggetto di questo indirizzo interpretativo escludono l’assimilabilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale e, richiamando la giurisprudenza costituzionale che in più occasioni ha ritenuto infondate le questioni di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sottolineano la diversità tra il rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e reciprocità di diritti e doveri, e la convivenza di fatto, fondata, invece, su una affectio che può essere revocata in ogni momento, evidenziando, inoltre, la differente tutela riservata alle due situazioni dalla stessa Costituzione, che solo nell’art. 29 riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, mentre la famiglia di fatto viene presa in considerazione sulla base dell’art. 2 Cost. (cfr., Corte cost. n. 8 del 1996 e n. 121 del 2004).
Proprio sulla base di questi argomenti – prosegue il Collegio – la Corte ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., tenendo conto della diversa copertura costituzionale del rapporto di convivenza e di quello coniugale, rilevando come la piena assimilazione di tali situazioni rientri nelle scelte discrezionali del legislatore (Sez. 6, n. 35967 del 28/09/2006, Cantale, Rv. 234862).
L’esclusione dell’equiparazione sul piano interpretativo del convivente al coniuge, in vista dell’applicabilità della causa di non punibilità ai sensi dell’art.384 cod. pen., viene motivata evidenziando anche le conseguenze in malam partem di una tale operazione, conseguenze rinvenibili in tutti quei casi in cui il vincolo familiare rileva per la configurabilità di taluni reati, come ad esempio quelli previsti dagli artt. 570, 577, secondo comma, n. 1, 605, primo comma , n. 1, cod. pen.
Infine, prosegue la Corte, l’esclusione della estensibilità fa leva sulla qualificazione della norma come causa di non punibilità che, in quanto norma eccezionale, non può essere applicata analogicamente (in questo senso si esprime anche l’ordinanza di rimessione).
Si sostiene che spetterebbe sempre al legislatore prevedere l’estensione della non punibilità attraverso un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse, sicché andrebbe operato un confronto tra «l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro», rilevando come non possa dirsi «che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità».
Per queste ragioni si assume che debbano ritenersi legittime soluzioni legislative differenziate con riferimento alla causa di non punibilità di cui all’art. 384 cit. (così, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Rv. 248903, nonché Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, cit.; in termini analoghi, Sez. 1, n. 9475, del 05/05/1989, cit.; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/ 1988, cit. e Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, cit.), non essendo consentito al giudice ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833).
Da ultimo, si è sottolineato il rilievo che deve essere attribuito al recente intervento legislativo con cui, a seguito della riforma che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e regolamentato le convivenze (legge 20 maggio 2016, n. 76, c.d. legge Cirinnà), è stata espressamente ampliata la cerchia dei “prossimi congiunti” di cui all’art. 307, quarto comma, cod. pen., ricomprendendovi i soggetti uniti civilmente, ma non anche i conviventi di fatto (d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6): secondo l’ordinanza di rimessione, si sarebbe trattato di una scelta ben precisa del legislatore, non di una semplice “svista“, dal momento che la legge delega non lasciava alcun margine per includere anche i conviventi di fatto nell’art. 307 cit.
L’orientamento favorevole all’estensione della causa di non punibilità anche al convivente more uxorio – prosegue a questo punto la Corte – si è sviluppato più di recente ed annovera un minor numero di decisioni. La prima in ordine temporale è Sez. 6, n. 22398 del 22/01/2004, Esposito, Rv. 229676, che però afferma il principio della applicabilità dell’art. 384 cod. pen. al convivente senza un particolare approfondimento, prospettando una possibile applicazione analogica della causa di non punibilità.
Più articolato è il ragionamento condotto da Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264630: in questo caso la Corte di cassazione, disattendendo la soluzione offerta dalla precedente sentenza Esposito, riconosce che l’art. 384 cod. pen., in quanto causa speciale di non punibilità, ha natura di norma eccezionale che, quindi, non può ricevere un’applicazione analogica, e si basa, invece, su una lettura aperta delle nozioni di famiglia e di coniugio, sottolineando come oggi termini come “matrimonio” e “famiglia” hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello risalente all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale, evidenziando, inoltre, come «la stabilità del rapporto, con il venire meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più una caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio».
La sentenza registra una vistosa contraddizione nella stessa giurisprudenza di legittimità, che, da un lato, nega l’equiparazione tra famiglia di fatto e famiglia legittima, dall’altro, invece, attribuisce rilievo alla convivenza: questa giurisprudenza ondivaga, anche quando è produttiva di effetti in malam partem, come è avvenuto ritenendo configurabile il reato di maltrattamenti anche nel caso in cui la condotta delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente (prima dell’ultima modifica dell’art. 572 cod. pen.), ha fornito comunque una nozione “moderna” di famiglia, intesa come un consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (tra le tante, Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, Rv. 239726); lo stesso è accaduto in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in cui la Corte di cassazione ha preso in considerazione tra i redditi dei familiari anche quello del convivente more uxorio (cfr., nell’ambito di un orientamento consolidato, Sez. 4, n. 109 del 26/10/2005, Curatolo, Rv. 232787).
Analoga tendenza a favore di una assimilazione tra le due tipologie di “famiglia” si è verificata, secondo la sentenza Agostino, nelle interpretazioni che hanno portato ad effetti in bonam partem, ad esempio in materia di riconoscimento dell’attenuante della provocazione e dell’estensione della causa di non punibilità dell’art. 649 cod. pen. al convivente: anche in questi casi la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato l’esistenza di un rapporto affettivo che può dar luogo ad una convivenza more uxorio.
Nei due esempi sopra indicati, prosegue il Collegio, l’attenuante della provocazione e la causa di non punibilità ex art. 649 cod. pen. hanno trovato applicazione con riguardo a soggetti legati da un vincolo non matrimoniale, ma comunque caratterizzato da una convivenza duratura, fondata sulla reciproca assistenza e su comuni ideali e stili di vita (cfr., Sez. 6, n. 12477 dl 18/10/1985, Cito, Rv. 171450 e Sez. 4, n. 32190 del 21/05/2009, Trasatti, Rv. 244692).
A sostegno di questa interpretazione estensiva la sentenza Agostino ha invocato anche la nozione di famiglia accolta dall’art. 8 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che vi fa rientrare anche i legami di fatto particolarmente stretti, fondati su una stabile convivenza (Corte EDU, 13/06/1979, Marchx c. Belgio; Corte EDU, 13/12/2007, Emonet c. Svizzera). In conclusione, la sentenza in esame, in presenza della «mutevole rilevanza penale della famiglia di fatto emergente dalle applicazioni giurisprudenziali» conclude ritenendo che solo accogliendo una nozione di famiglia e di coniugio in linea con i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi anni è possibile «ricondurre il sistema a coerenza, evitando soluzioni che contrastano – prima ancora che con una visione unitaria del tema – con il senso comune».
Alle medesime conclusioni è pervenuta, più recentemente, Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, Rv. 275206, che per la prima volta ha esaminato la questione relativa alla estensibilità della causa di non punibilità alla luce della nuova normativa introdotta dalla legge 20 maggio 2016, n. 76, che, come è noto, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso e ha, inoltre, offerto una regolamentazione anche per le convivenze di fatto.
La sentenza, preso atto che a seguito della legge n. 76 del 2016 il coordinamento circa le ricadute sul piano penale della nuova disciplina ha riguardato solo le unioni civili, prevedendo, in particolare, l’inclusione, ad opera del d.lgs. n. 6 del 2017, di tale nuova formazione sociale nella nozione di “prossimi congiunti” attraverso la modifica dell’art. 307, quarto comma, cod. pen., nonché l’introduzione, per mezzo dello stesso d.lgs. cit., di una disposizione generale come il nuovo art. 574-ter cod. pen. – che riferisce, agli effetti penali, il termine matrimonio anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso -, senza operare alcun coordinamento dei profili penali con lo statuto delle convivenze more uxorio, ha comunque escluso che i “silenzi” sulle convivenze di fatto attribuibili alla legge n. 76 del 2016 e ai provvedimenti successivi possano «costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della materia».
In sostanza, prosegue la Corte, il riferimento è soprattutto al quadro e ai principi cui è pervenuta quella giurisprudenza di legittimità che, seppure in limitati settori, ha riconosciuto la parificazione giuridica delle convivenze di fatto al coniugio.
Secondo la sentenza in esame «una diversa impostazione, fondata sul dato formale, obiettivamente significativo, ma, tuttavia, non conformata con il sistema normativo di riferimento (…) porta con sé il rischio di implicare – quanto meno con riguardo agli effetti in “bonam partem” – profili di incerta compatibilità costituzionale in punto di diversificazione delle tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto».
In altri termini, si assume come la ricerca di una effettiva coerenza all’interno del sistema non può che condurre ad una parità di trattamento, anche sul terreno penale, della famiglia legittima e di quella more uxorio ed è la stessa sentenza a sostenere che, attraverso quella che definisce “interpretazione valoriale“, può essere superato il contrasto con la Costituzione e riconoscere applicabile l’istituto dell’art. 384, primo comma, cod. peri. ai rapporti di convivenza, anche dopo la legge n. 76 del 2016.
Segue l’impostazione della sentenza Cavassa anche Sez. 1, n. 40122 del 16/05/2019, Balice (non mass.), che ai fini della verifica della sussistenza di un effettivo rapporto di convivenza richiama l’art. 1, comma 37, legge n. 76 del 2016, secondo cui per l’accertamento della stabile convivenza deve farsi riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13, comma 1, lett. b), del d.P.R. 23 maggio 1989, n. 223.
Possono essere ricomprese in questo secondo orientamento anche Sez. 4, n. 23118 del 21/03/2017, De Paola (non mass.) e Sez. 3, n. 6218 del 12/01/2018, Giacono (non mass.) che si limitano a ribadire, senza ulteriori argomentazioni, le conclusioni della sentenza Agostino.
Nell’ordinanza di rimessione – chiosa il Collegio – questo orientamento viene criticato, riportando le perplessità della dottrina secondo cui il tentativo di operare il superamento della giurisprudenza consolidata rischia di porsi in «tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare (…) un necessario interpello del Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore».
Prima di procedere all’esame della questione rimessa, appare necessario alla Corte – a questo punto verificare se la fattispecie concreta possa essere comunque risolta attraverso l’applicazione del secondo comma dell’art. 384 cod. pen., così come ipotizzato dalla difesa nella memoria da ultimo depositata.
Tale norma, che prevede una speciale causa di non punibilità in favore, tra l’altro, di soggetti che per legge avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere informazioni al pubblico ministero o dichiarazioni nel corso delle indagini difensive ovvero testimonianza al giudice, richiamando i corrispondenti reati di cui agli artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen. (oltre all’art. 373 cod. pen., che riguarda la falsa perizia), è stata, come noto, dichiarata costituzionalmente illegittima, perché contraria al canone di razionalità delle scelte legislative (art. 3 Cost.), nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni fornite alla polizia giudiziaria da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi a norma dell’art. 199 cod. proc. pen. (Corte cost. n. 416 del 1996).
Con l’aggiunta di questo nuovo caso di non punibilità, per effetto della sentenza costituzionale citata, sono oggi ricomprese nell’art. 384, secondo comma, cod. pen. anche le condotte di favoreggiamento poste in essere attraverso false informazioni rese alla polizia giudiziaria da parte dei soggetti indicati nell’art. 199 cod. proc. pen., tra cui è menzionato espressamente anche il convivente.
E’ evidente – prosegue la Corte – che, se si dovesse ritenere applicabile il secondo comma del citato art. 384, sarebbe superata la questione oggetto della rimessione.
Nondimeno, un tale esito non può trovare spazio per il Collegio nella fattispecie concreta, in quanto deve escludersi che l’imputata dovesse essere avvertita della facoltà di astenersi. Infatti, nel corso delle indagini preliminari l’avvertimento della facoltà di astenersi di cui all’art. 199 cod. proc. pen., che si riferisce alle c.d. dichiarazioni endo-processuali, non è dovuto ai prossimi congiunti – e ai conviventi – del soggetto che non abbia ancora assunto la qualità di indagato (cfr., Sez. 1, n. 41142 del 17/07/2017, Z., Rv. 273971; Sez. 1, n. 16215 del 30/01/2008, Taddeo, Rv. 239497).
Nella specie, F. ha reso informazioni alla polizia giudiziaria nell’immediatezza dell’incidente stradale, in una fase di primissimo accertamento, in cui non vi era alcun elemento indiziario o di mero sospetto che potesse far ritenere sussistente un reato, tanto è vero che le relative dichiarazioni non risultano formalmente verbalizzate dalla polizia giudiziaria, bensì raccolte come “osservazioni delle parti interessate“, cioè come dichiarazioni rese ai fini della responsabilità civile da incidente stradale.
Peraltro, in quella fase non era emerso alcun elemento da cui la polizia giudiziaria avrebbe potuto desumere l’esistenza di un rapporto di convivenza tra F. e T. , tale da giustificare l’avvertimento di cui all’art. 199 cod. proc. per).
L’esame della questione posta dall’ordinanza di rimessione, che ha il proprio fulcro nell’ampiezza applicativa dell’art. 384 cod. pen., si intreccia, necessariamente, con il tema della mancata equiparazione, nel nostro ordinamento, della convivenza more uxorio alla famiglia legittima.
La famiglia di fatto condivide con la famiglia legittima la scelta di una condivisione di un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla responsabilità della cura ed educazione dei figli. La differenza attiene alla formalizzazione del rapporto, un elemento che non assume una veste solo convenzionale, ma rappresenta l’esteriorizzazione del diverso atteggiamento che caratterizza le due convivenze, la prima, quella matrimoniale, basata su una dichiarata volontà di assumere reciproci obblighi di “fedeltà, di assistenza morale e materiale e di collaborazione“, la seconda connotata dalla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti.
E’ questa distinzione che impedisce, nelle decisioni della giurisprudenza costituzionale a cui si è già fatto cenno (Corte cost. n. 45 del 1980; n. 237 del 1986; n. 423 e n. 404 del 1988; n. 140 del 2009; n. 138 del 2010), che le due situazioni possano trovare uguale fondamento nell’art. 29 Cost., con la conseguenza che, pur riconoscendo “la rilevanza costituzionale del ‘consolidato rapporto’ di convivenza“, occorre tenerlo distinto dal rapporto coniugale, riconducendo il primo nell’ambito della protezione, offerta dall’art.2 Cost., dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo nello schema del citato art. 29.
Le due situazioni non differiscono soltanto in ragione del dato estrinseco della sanzione formale del vincolo, poiché, fermi in ogni caso i diritti e i doveri che ne derivano verso i figli e i terzi, nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale, mentre in quella del rapporto di coniugio si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, intesa cioè come stabile comunità di persone legate da vincoli di solidarietà, di fedeltà e di condivisione su base paritaria.
L’indirizzo che porta a negare l’estensione della causa di non punibilità alle semplici convivenze di fatto, indirizzo a cui sembra ispirata anche l’ordinanza che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, trova forza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha sempre escluso la irragionevolezza della mancata inclusione nell’art. 384, primo comma, cod. pen. dei conviventi more uxorio, sostenendo, reiteratamente, che una tale questione fuoriuscisse dai limiti delle sue attribuzioni, spettando al legislatore la scelta di operare una simile modifica rientrante nella materia penale (Corte cost., n. 237 del 1986; n. 352 del 1989; n. 8 del 1996; n. 121 del 2004, n. 140 del 2009).
In sostanza, la giustificazione circa la diversa regolamentazione viene rintracciata nella maggiore “stabilità” della famiglia legittima – anche dopo che è venuta meno l’indissolubilità del vincolo coniugale -, considerando che il differente regime della famiglia more uxorio si fonda sulla volontà delle parti, che liberamente decidono di non contrarre matrimonio, optando per una tipologia di unione con minori vincoli giuridici, ma in una comunione materiale e spirituale di vita che può coincidere in ciò che caratterizza il matrimonio stesso.
Si è precisato che «quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza, anziché intervenire sulla definizione generale della nozione di “prossimi congiunti” contenuta nell’art. 307, quarto comma, cod. pen. includendovi anche il convivente, ha ritenuto operare scelte selettive e mirate a casi determinati» (così, Corte cost. n. 140 del 2009).
Peraltro, sempre secondo la Corte costituzionale «un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità», in quanto l’estensione al convivente del complesso delle norme penali che si riferiscono al rapporto di coniugio avrebbe forti ricadute sull’intero sistema – anche relativamente a disposizioni extrapenali – compresi possibili effetti in malam partem, con conseguenze che solo il legislatore potrebbe regolare attraverso una riforma organica (Corte cost., n. 352 del 2000).
Le decisioni della Corte di cassazione favorevoli ad un allargamento della portata applicativa dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto richiamano spesso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che invece dalle sentenze ascrivibili nell’orientamento contrario, tra cui la stessa ordinanza di rimessione, viene svalutata o, meglio, ritenuta scarsamente significativa.
Invero, chiosa ancora la Corte, anche la Corte EDU, così come la Corte costituzionale, riconosce la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i contro-interessi in gioco.
La Corte EDU, infatti, da un lato riconduce nella sfera applicativa dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la “vita familiare“, la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto; dall’altro lato, tuttavia, considera legittima la limitazione di tale diritto in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi connessi all’amministrazione della giustizia penale, riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 03/04/ 2012, Van der Heijdel c. Netherlands).
Risulta interessante rilevare come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU (cfr., Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Irlanda; Corte EDU, 05/01/2010, Jaremowicz c. Polonia; Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 24/06/2010, Schalk and Kopf c. Austria; da ultimo, Corte EDU, 21/07/2015, Oliari ed altri c. Italia).
L’ambito soggettivo della nozione di “vita familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU include, secondo la giurisprudenza europea, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.
Una nozione, dunque, dalla portata applicativa assai ampia, senza dubbio più estesa rispetto a quella cui fa riferimento la diversa disposizione normativa dell’art. 12 CEDU (riferibile alla sola famiglia fondata sul matrimonio), che permette alla Corte europea di ricomprendervi sia quest’ultima, sia quella basata sulla relazione di fatto tra conviventi (Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Ireland; Corte EDU, 18/12/1986, Johnston c. Irlanda, § 55; Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; v., inoltre, Corte EDU, 13/12/2007, Emonet ed altri c. Svizzera).
Tuttavia, prosegue la Corte, la prospettiva seguita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – con le su citate disposizioni di cui agli artt. 8 e 12, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo – non presenta, in relazione alla materia qui esaminata, sostanziali punti di divergenza rispetto alle linee direttrici del modello normativo disegnato nella Costituzione italiana (ex artt. 2 e 29 Cost.), poiché sia nel sistema convenzionale che in quello interno sono riconosciuti, e costituiscono oggetto di tutela, i diritti dei singoli che nascono, si esprimono e si sviluppano all’interno di un nucleo familiare, fatta salva la possibilità di un trattamento non omogeneo correlato alla diversità dei modelli di relazioni familiari, alla luce di un giusto bilanciamento operato, a livello nazionale, fra le legittime istanze di tutela di interessi generali (ad es., sicurezza nazionale, protezione della salute o della morale, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, ecc.) e le esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona (Corte EDU, 07/07/ 1989, Soering c. Regno Unito).
Non è riconoscibile, allora, alcun contrasto nel panorama delle ragioni argomentative che sorreggono i moduli interpretativi utilizzati dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU, poiché sia nel sistema interno che in quello convenzionale le diverse tipologie di unioni familiari rappresentano fenomeni distinti l’uno dall’altro, il cui pacifico riconoscimento, fondato sulla non esclusività della specifica tutela garantita alla famiglia fondata sul matrimonio e, al contempo, sulla consapevolezza della pari dignità delle scelte legate all’avvio di una convivenza senza matrimonio, non determina l’effetto di una generale equiparazione fra modelli che restano comunque diversi e, come tali, non possono essere appiattiti l’uno sull’altro, né fra loro integralmente assimilati.
Invece, chiosa a questo punto il Collegio, un significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare si registra nella più recente previsione normativa dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a Nizza il 7-8 dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
La su citata disposizione normativa – peraltro rafforzata dall’ulteriore previsione di garanzia dettata nell’art. 33, par. 1, della Carta (secondo cui “è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale“) – pur ispirandosi al contenuto di altre norme internazionali (ad es., l’art. 12 CEDU, l’art. 23, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, ratificato con I. n. 881/1977, nonchè l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), che regolano la materia enunciando in forma unitaria il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, presenta una formulazione letterale più ampia, poiché, nel rinviare alle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano l’esercizio, riconosce e garantisce separatamente i due diritti, isolando il diritto di fondare una famiglia dal vincolo matrimoniale stricto sensu inteso e in tal modo creando le condizioni per estenderne la tutela anche in favore di altre forme di relazione familiare.
Il “diritto di sposarsi“, infatti, viene riconosciuto, tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia“, così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari.
Al tradizionale favor per il matrimonio, come si è osservato in dottrina, si sostituisce in tal modo la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.
Si è visto – prosegue la Corte – come sia nell’ordinanza di rimessione, sia nella memoria dell’Avvocato generale, una delle critiche più “forti” alla possibile estensione dell’art. 384 cit. alle coppie di fatto riguardi la circostanza che il legislatore, con la legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), ha introdotto una disciplina per le unioni civili tra persone dello stesso sesso, dettando anche una minima regolamentazione relativa alle convivenze di fatto, senza tuttavia inserire nessuna disposizione riguardante una piena equiparazione tra le due diverse situazioni, riscrivendo l’art. 307 cod. pen. con l’inserimento tra i “prossimi congiunti” anche della «parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma omettendo ogni riferimento alle coppie di fatto e senza “toccare” l’art. 384 cod. pen.
In questo modo, si assume, il legislatore avrebbe manifestato la sua volontà di non operare alcuna equiparazione delle convivenze di fatto, escludendo definitivamente ogni possibile interpretazione estensiva della nozione di “coniuge” che ricomprenda anche il “convivente“.
Come dire che non si è in presenza di una “lacuna” dell’ordinamento, dal momento che il legislatore non vuole alcuna equiparazione, tanto meno ai fini dell’applicazione della scusante ex art. 384 cod. pen. (N, 16 Invero, deve ritenersi che con la legge c.d. Cirinnà il legislatore ha inteso offrire una tutela legale a situazioni affettive mai regolamentate prima, offrendo una disciplina, di fatto, analoga a quella prevista per le famiglie legittime, prevedendo anche le necessarie ricadute penalistiche, con il successivo d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6.
Si è trattato, quindi, di un intervento volto ad occuparsi di situazioni del tutto diverse dalle convivenze di fatto, che, come si è visto, basano la loro unione sulla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti; la disciplina delle “unioni civili” si è basata, invece, proprio sulla richiesta di stabilità del rapporto, sul modello della famiglia legittima.
Il fatto che con la legge del 2016 il legislatore nulla abbia previsto per le convivenze, ad eccezione di un tentativo di definizione e della equiparazione alle coppie coniugate per una serie di profili analiticamente elencati, tra cui l’unico riguardante la materia penale è quello sulla parificazione dei diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (art. 1, comma 38, legge n. 76 del 2016), per la Corte non può certo significare una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze more uxorio, né tanto meno alla estensibilità della scusante di cui all’art. 384 cod. pen. al convivente.
Il legislatore, semplicemente, si è occupato di disciplinare le situazioni riguardanti le unioni tra persone dello stesso sesso, avendo ben presente il percorso legislativo e giurisprudenziale che ha condotto verso una tendenziale equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio, ferme restando le differenze di base delle due situazioni.
L’assenza di una legge che disciplini organicamente il fenomeno della convivenza more uxorio non significa che tale modello di relazione ed i relativi effetti giuridici siano sforniti di tutela nel diritto positivo. I numerosi interventi normativi e la stessa evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali hanno consentito, sia pure frammentariamente, di riconoscere ai componenti la famiglia di fatto singole posizioni soggettive meritevoli di tutela analogamente a quelle proprie dei membri della famiglia legittima.
Si pensi sul piano normativo, chiosa ancora la Corte, al tema della filiazione. In questo delicatissimo settore si è stabilito nell’ordinamento una completa identità tra la famiglia matrimoniale e quella non matrimoniale con riguardo al rapporto genitori-figli, che oggi risulta unitariamente disciplinato dagli artt. 315-bis ss. cod. civ., uniche essendo le regola in materia di diritti e doveri del figlio e di responsabilità genitoriale.
Fra le disposizioni normative espressamente riferite ai conviventi devono poi menzionarsi, per la loro oggettiva rilevanza, quelle che consentono:
- a) di richiedere l’interdizione o la nomina di un amministratore di sostegno per il partner (art. 417 cod. civ.);
- b) di ammettere la coppia non coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (art. 5 della I. 15 febbraio 2004, n. 40);
- c) di astenersi dal rendere dichiarazioni nel processo penale (art. 199, comma 3, cod. proc. pen., per il convivente dell’imputato);
- d) di presentare domanda di grazia al Presidente della Repubblica in favore del condannato (art. 681 cod. proc. pen.).
Nella medesima linea vanno altresì richiamate, a mero titolo esemplificativo, le disposizioni normative che riguardano la possibilità di adottare ordini di protezione contro gli abusi familiari, pur se commessi da conviventi o in danno di conviventi (legge 4 aprile 2001, n. 154); quella che prevede la rilevanza del periodo di mera convivenza ai fini della verificazione della stabilità della coppia in vista dell’adozione (art. 6, legge n. 149/2001); quelle, infine, dettate dal legislatore in tema di disciplina dei congedi parentali (legge n. 53/2000; d.lgs. n. 151/2001) e di assicurazione sulla responsabilità civile (ex art. 129, comma 2, lett. b), della legge n. 209/2005).
E’ soprattutto nella giurisprudenza, sia civile che penale, che si assiste ad una progressiva e continua tendenza a garantire analoghi diritti alle convivenze di fatto. A titolo esemplificativo, si pensi che la giurisprudenza civile riconosce al convivente separato l’assegnazione della casa familiare, analogamente a quanto si prevede per il coniuge separato o divorziato, in presenza di prole (Sez. civ. 1, n. 10102 del 26/05/2004, Rv. 573134).
L’assegnazione della casa familiare in favore del convivente separato è stata poi normativamente regolata ex art. 337-sexies cod. civ.
Va evidenziato anche l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Sez. civ. 3, n. 12278 del 07/06/2011, Rv. 618134); Sez. civ. 3, n. 23725 del 16/09/2008, Rv. 604690; v., inoltre, Sez. civ. 3, n. 7128 del 21/03/2013, Rv. 625496).
Nella giurisprudenza penale, che più interessa in questa sede, si afferma – chiosa ancora la Corte – un’esplicita equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio a proposito della valutazione della sussistenza dei requisiti per l’ammissione al gratuito patrocinio per i non abbienti. (tra le tante, Sez. 4, n. 15715 del 20/03/2015, Rv. 263153; v., inoltre, Sez. 4, n. 44121 del 20/09/2012, Rv. 253643).
Analoga estensione, ancora, è avvenuta in tema di costituzione di parte civile, ove si è precisato che la lesione di qualsiasi forma di convivenza, purché dotata di un minimo di stabilità tale da fondare una ragionevole aspettativa di un futuro apporto economico, rappresenta legittima causa petendi di un’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice penale competente per l’illecito che ha causato detta lesione (Sez. 4, n. 33305 del 08/07/2002, dep. 04/10/2002, Rv. 222366; Sez. 4, n. 19487 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 262350).
Ulteriori ampliamenti della tutela penale riconosciuta alla convivenza di fatto sono riscontrabili con riferimento al diritto all’inviolabilità del domicilio, con il riconoscimento anche al convivente dell’esercizio del diritto di esclusione (Sez. 5, n. 6419 del 05/04/1974, Rv. 128059).
Particolarmente rilevante deve poi ritenersi l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità formatasi in merito ai presupposti di configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen., che nel perseguire la condotta di colui che “maltratta una persona della famiglia” considera famiglia — sulla base di una pacifica linea interpretativa – non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto tendenzialmente stabile, fondato su legami di reciproca assistenza e protezione.
Si è così affermato che sono da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune e di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 21239 del 24/01/2007, Gatto Rv. 236757; Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, B., Rv 239726; Sez. 5, n. <24688 del 17/03/2010, B., Rv. 248312; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472;).
Si tratta di una giurisprudenza risalente già agli anni settanta, che questa volta, nell’equiparare la convivenza al rapporto coniugale vero e proprio, di fatto ha operato una estensione in malam partem, seppur finalizzata alla tutela della vittima del reato, fino a quando il legislatore con la novella del 1 ottobre 2012, n. 172, ha parzialmente riformato la previsione della norma incriminatrice in esame, cambiando la rubrica da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi“, così precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto “una persona della famiglia“, ma “una persona della famiglia o comunque convivente“.
Il legislatore del 2016, con la legge c.d. Cirinnà è, quindi, intervenuto in presenza di un quadro complessivo, normativo e giurisprudenziale, in cui risulta evidente l’interesse di salvaguardare la famiglia, sia legittima che di fatto, come pure, sotto altro e più specifico versante, tutelare l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento dei rapporti che lo legano, affettivamente, ma non solo, con altra persona con la quale ha istaurato uno stabile rapporto di convivenza e dalla quale può e deve pretendere assoluto rispetto verso condotte che risultino abitualmente lesive della propria integrità fisica o morale.
Un quadro complesso, sicuramente disorganico, che non poteva essere ignorato, sicché il relativo “silenzio” sulle coppie di fatto acquista un significato neutro, spiegabile con l’obiettivo principale della legge di occuparsi delle c.d. unioni civili e con la consapevolezza che le convivenze di fatto non sono certo prive di tutela, anzi sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, ma non solo, agli interventi della giurisprudenza.
L’ordinamento, dunque, sia pure all’infuori di una visione organica del fenomeno, e procedendo sempre attraverso interventi eterogenei e settoriali posti in essere nelle più varie direzioni, avverte il rilievo delle implicazioni legate alla esigenza di preservare la sostanza delle strutture fondamentali della società, non mancando di valorizzare, entro tale prospettiva, anche le numerose potenzialità applicative sottese alla progressiva introduzione di specifiche forme di garanzia della tendenziale continuità dei rapporti a vario titolo riconducibili al diverso modello della relazione familiare de facto.
Le forme di tutela sinora illustrate, assai spesso ricorrenti nella prassi, confermano la rilevanza assunta dal riconoscimento del carattere “familiare” delle relazioni che si sviluppano all’interno della convivenza di fatto e delle connesse esigenze di protezione che, in quanto “relazioni di famiglia“, ad essa competono.
Tuttavia, l’assenza di una disciplina organica della materia lascia trasparire evidenti incoerenze del sistema, se non veri e propri “effetti paradossali“, alcuni dei quali, nei limiti dell’attività interpretativa, possono essere quantomeno ridotti.
Escluso – chiosa a questo punto il Collegio – che la disciplina introdotta dalla legge c.d. Cirinnà sulle unioni civili, con le successive, conseguenti integrazioni inserite nel codice penale, possano avere l’effetto di “impedire” un’interpretazione estensiva dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto e ricostruito il quadro normativo complessivo, così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e anche da quella europea, nonché dalla giurisprudenza di legittimità, il Collegio rileva come entrambi gli orientamenti contrapposti, cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti, sebbene con approcci diversi, diano per scontato il carattere eccezionale della norma contenuta nell’art. 384, primo comma, cod. pen.
Così, la stessa ordinanza che ha rimesso la questione, coerentemente, indica come uno dei principali ostacoli all’estensione applicativa del primo comma dell’art. 384 la natura eccezionale della disposizione, che ne preclude l’applicazione analogica in favore delle coppie di fatto, rifacendosi peraltro alla stessa giurisprudenza costituzionale, secondo cui «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore» (Corte cost., n. 140 del 2009).
Peraltro, anche le sentenze che propongono di estendere l’ambito applicativo dell’art. 384 facendo leva sull’evoluzione normativa, attraverso una lettura aperta dell’istituto della “famiglia” nella Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, finiscono per riconoscere il carattere eccezionale della norma in questione (così, Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, cit.).
Ebbene, riprende a questo punto la Corte, se si dovesse convenire che siamo in presenza di una disposizione avente natura di norma eccezionale occorrerebbe riconoscere l’estrema difficoltà di operare un’estensione dell’«esimente» al di là del suo tenore letterale, perché si violerebbe il disposto dell’art. 14 delle preleggi.
La questione, invece, deve essere affrontata verificando la natura dell’art. 384, primo comma, cod. pen., attraverso una lettura costituzionalmente orientata che valorizzi l’elemento della colpevolezza e, soprattutto, inserita nell’ambito delle disposizioni penali che regolamentano istituti analoghi.
Sembra definitivamente superato l’orientamento secondo cui l’art. 384, primo comma, cod. pen. contiene una causa di non punibilità in senso stretto, in cui la rinuncia alla pena ubbidisce a ragioni di opportunità politica, che sono del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o della “situazione esistenziale psicologica dell’agente“, come pure l’altro, meno recente, che qualifica la disposizione come una causa di giustificazione, in cui vengono bilanciati contrapposti interessi, istituto somigliante allo stato di necessità, in cui pure viene esclusa la responsabilità di colui che pone in essere una condotta costretto dalla necessità di evitare un grave nocumento.
Vanno, invece, condivise le riflessioni della dottrina più avvertita che ravvisa nella previsione in esame una causa di esclusione della colpevolezza, meglio una “scusante” soggettiva, che investe la colpevolezza.
Come è noto, vengono ricomprese in questa definizione le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla relativa volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo.
Con riferimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., i legami di natura affettiva che legano l’agente con il prossimo congiunto (sia esso il genitore o il figlio o il fratelli o il coniuge o lo zio o il nipote…) fanno sì che l’ordinamento sceglie di non punire i reati considerati nella disposizione citata quando siano stati realizzati per salvare la libertà o l’onore di un prossimo congiunto.
A queste conclusioni è pervenuta anche la giurisprudenza di legittimità più recente, che in alcune decisioni ha stabilito che l’art. 384, primo comma, cod. pen., esclude la colpevolezza, non l’antigiuridicità della condotta, trattandosi di una esimente «connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate dal comma 1 dello stesso art. 384» (Sez. 5, n. 18110 del 12/03/2018, Esposito, Rv.273181, in un caso in cui si è negato che l’esimente in questione potesse essere applicata anche al concorrente nel reato commesso dal soggetto non punibile; nello stesso senso, Sez. 6, n. 34543 del 23/05/2019, Germino, non mass.; Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019, Quaranta, Rv. 275320; Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019, Buonaiuto, Rv. 278062; Sez. 6, n. 34777 del 23/09/2020, Nitti, Rv. 280148 che, proprio in tema di favoreggiamento personale, ha precisato che l’art. 384 cod. pen., quale causa di esclusione della colpevolezza e non di esclusione della antigiuridicità della condotta, opera solo nel caso in cui, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, valutate secondo il parametro della massima diligenza esigibile, si presenti all’agente come l’unica in grado di evitare un grave pregiudizio per la libertà o per l’onore proprio o altrui; inoltre, v., Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, cit., in motivazione).
Si tratta di sentenze che, seppure con motivazioni non sempre dedicate specificamente alla questione, prendono una posizione decisa sulla natura dell’esimente, dando luogo ad un vero indirizzo giurisprudenziale.
Peraltro, analogo orientamento lo si rintraccia anche in decisioni meno recenti che, nel considerare l’art. 384, primo comma, oltre a negarne la natura di causa oggettiva di esclusione dell’antigiuridicità, lo qualificano come un’esimente «basata sul principio dell’inesigibilità di un comportamento diverso, come tale da escludere la colpevolezza» (così, Sez. 1, n. 11855 del 03/07/1980, Mastini, Rv. 146627; nonché Sez. 6, 25/10/1989, Milioto; Sez. 6, 10/02/1997, Puzone).
Infine, su questa stessa linea interpretativa si sono poste le Sezioni Unite (Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, dep. 2008, Genovese, non massimata sul punto), le quali hanno asserito che «coglie certamente nel segno» quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ad es., Sez. 6, n. 44761 del 04/10/2001, Mariotti, Rv. 220326) che afferma, concordemente con la dottrina, che l’art. 384 cod. pen. trova la propria giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà “familiare” in senso lato, essendo l’intenzione del legislatore quella di riconoscere prevalenti e quindi tutelare i motivi di ordine affettivo.
In questa decisione, le Sezioni Unite hanno affermato che «deve darsi atto della sussistenza di una strettissima connessione tra l’istituto, di natura sostanziale, dell’art. 384 c.p. e la prescrizione processuale contenuta nell’art.199 c.p.p.», dal momento che a fondamento di tali disposizioni vi è la medesima giustificazione e perché la ratio dell’astensione dal rendere testimonianza in capo ai prossimi congiunti dell’imputato, riconosciuta dalla citata norma del codice di rito, va «unanimemente ravvisata proprio nella tutela del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del conflitto che può determinare, in colui che è chiamato a rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto».
Il riconoscimento alla disposizione di cui al primo comma dell’art. 384 della valenza di causa di esclusione della colpevolezza, comporta che la ragione della non punibilità va ricercata nella «particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto», tale da rendere “inesigibile” l’osservanza del comando penale.
Spiega la Corte come a differenza delle cause di giustificazione, in cui la rinuncia alla pena avviene perché, in presenza di quelle situazioni considerate dal legislatore, l’ordinamento non riconosce più l’antigiuridicità della condotta, invece nelle cause di esclusione della colpevolezza (c.d. scusanti soggettive) il disvalore oggettivo della condotta non viene meno, ma l’ordinamento prende in considerazione «i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere» ed è proprio in considerazione di questa particolare situazione che, come è stato efficacemente detto da autorevole dottrina, «l’ordinamento penale non se la sente di incrudelire con la sua sanzione».
L’art. 384 cod. pen. non si basa su considerazioni di mera opportunità che giustificano la non punibilità, né appare fondato su un bilanciamento di interessi contrapposti, che lo farebbero qualificare come una causa di giustificazione, ma tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta “alterato“, tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico: infatti, l’esimente prevede che il soggetto deve aver commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un nocumento grave che attenti alla libertà o all’onore, presupposti e condizioni che danno rilievo a situazioni che, come già si è detto, determinano una alterazione della “motivabilità” della condotta realizzata dall’agente.
Alla condotta dell’agente, che risulti “motivata” secondo quanto prevede la norma, corrisponde un abbassamento della pretesa statuale, in base alla ratio dell’inesigibilità.
Il superamento di quelle posizioni che attribuiscono alla disposizione in questione natura di causa di non punibilità in senso stretto e il riconoscimento all’esimente in parola della natura di scusante a struttura soggettiva, quindi che investe direttamente la colpevolezza, ha delle importanti ricadute sul piano ermeneutico quando si va a verificarne l’applicabilità ai casi non espressamente considerati.
Il tema è quello della possibilità di applicazione analogica in bonam partem dell’art. 384, primo comma, cod. pen., una volta che sia stata esclusa la relativa natura di causa di non punibilità in senso stretto.
A seguito di un lungo dibattito – prosegue la Corte – oggi può dirsi superata l’opinione che attribuisce al divieto di analogia un carattere assoluto, nel senso che sia rivolto tanto alle norme penali incriminatrici, quanto alle norme di “favore“, funzionale ad assicurare la certezza del comando penale; infatti, il divieto di analogia è finalizzato ad assicurare, più che la certezza, l’esigenza di garantire le libertà del cittadino, libertà che vengono messe in pericolo se si riconosce al giudice il potere di applicare analogicamente – in senso sfavorevole – norme incriminatrici, mentre un tale pericolo non ricorre in presenza di una applicazione di norme di favore.
Il divieto di analogia in materia penale, ricondotto all’art. 25 Cost., del quale si sottolinea, appunto, la dimensione garantistica, non si riferisce all’intera materia penale, ma si rivolge alle sole disposizioni punitive: in sostanza, si esclude che vi siano impedimenti di carattere costituzionale che consentano operazioni di interpretazione analogica che operino nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante, ammettendo l’esperibilità di un intervento analogico in bonam partem.
In sostanza, l’art. 25, comma 2, Cost. proibisce solo l’analogia in malam partem.
Si tratta di posizioni condivise dalla giurisprudenza di legittimità che considera l’interpretazione analogica in bonam partem pacificamente ammessa nel campo penale (tra le tante, Sez. 5, n. 10054 del 22/05/1980, Taormina, Rv. 146121).
Riconosciuto il carattere “relativo” del divieto di analogia, riferito alla sola interpretazione delle norme penali sfavorevoli, occorre verificare i limiti di un’interpretazione analogica in bonam partem, in presenza di una disposizione generale, come l’art. 14 preleggi, che esclude comunque l’applicazione analogica delle leggi eccezionali.
In altri termini, si tratta di vedere se anche l’interpretazione analogica in bonam partem sia ostacolata in presenza di leggi eccezionali. Si è visto che proprio il riconoscimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., della natura di norma di carattere eccezionale ha costituito una delle ragioni prevalenti per far negare alla Corte costituzionale (sent. n. 140 del 2009) la possibilità di applicazione dell’esimente alle coppie di fatto, impostazione seguita, in parte, dalla giurisprudenza di legittimità e ripresa in questo processo anche nell’ordinanza di rimessione nonché nella memoria dell’Avvocato generale.
Tradizionalmente sono ritenute eccezionali quelle norme che introducono discipline derogatorie rispetto alla portata di leggi generali, sebbene in questo caso il rapporto che viene a stabilirsi è tra legge speciale e legge generale; più corretta appare l’impostazione, suggerita da un’attenta e autorevole dottrina, che individua la disposizione eccezionale là dove deroga ad un principio generale dell’ordinamento.
Dall’eccezionalità della norma deriva l’impossibilità di attivare il procedimento di interpretazione analogica. Le cause di non punibilità in senso stretto, in quanto norme eccezionali, sono considerate escluse dall’applicazione analogica. In questo caso, l’esclusione del ricorso all’analogia è affermato in quanto esse derivano il carattere eccezionale dal fatto che sono «riconducibili a valutazioni di opportunità estrinseche rispetto al fatto di reato».
Al contrario, si ritiene che non abbiano carattere eccezionale le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza, per le quali può riconoscersi uno spazio per l’applicazione analogica.
In particolare, per le scusanti si ritiene che possa negarsi la natura di norme eccezionali ogni qualvolta siano espressione di un principio generale dell’ordinamento, sebbene non manchino opinioni contrarie, secondo cui le «eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore e non dal giudice in via analogica», opinioni che, d’altra parte, non sono condivise da chi sottolinea come la stessa “inesigibilità” sia una causa generale di esclusione della colpevolezza.
Si è visto che la disposizione dell’art. 384, primo comma, cod. pen., non può essere considerata come una causa di non punibilità in senso stretto, ma piuttosto una scusante soggettiva, che investe la colpevolezza, impedendo la punizione in presenza di una condotta che viene percepita come inesigibile. Queste – per la Corte – caratteristiche portano ad escludere la valenza eccezionale della norma – così come intesa dall’art. 14 preleggi — che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost., sotto il profilo della necessaria valutazione della possibilità per il soggetto di poter agire diversamente.
L’esimente in questione costituisce manifestazione di un principio immanente al sistema penale, quello cioè della “inesigibilità” di una condotta conforme a diritto in presenza di circostanze particolari, tali da esercitare una forte pressione sulla motivazione dell’agente, condizionando la sua libertà di autodeterminazione. Nel nostro ordinamento è ben presente il principio generale volto ad escludere che possa esservi una condotta colpevole in presenza di un precetto penale che non risulti esigibile. La causa di esclusione della colpevolezza di cui al citato art. 384 è espressione del principio generale contenuto nell’art. 27 Cost. (Corte cost. n. 364 del 1988), tale da giustificare un’applicazione analogica nei “casi simili“.
Una volta riconosciuta all’art. 384, primo comma, cod. pen. la natura di scusante soggettiva ed esclusa di conseguenza ogni valenza eccezionale della disposizione stessa, la relativa applicazione anche alle coppie di fatto trova per il Collegio piena giustificazione.
Una giustificazione la cui legittimazione trova forza non solo nel complessivo quadro normativo e giurisprudenziale cui si è fatto riferimento – univocamente diretto a offrire una piena tutela alle situazioni di convivenza di fatto -, quanto piuttosto nella stessa struttura, funzione e natura della disposizione in esame.
Va riconosciuto che nella specie l’applicazione della scusante al “convivente” si pone in linea proprio con la ratio della causa di esclusione della colpevolezza. Insomma, si tratta di operare una interpretazione di una norma di favore concernente la colpevolezza in piena conformità alla ratio della scusante stessa, che determina una lettura “analogica” della norma che le consente di esplicare tutta la propria portata con coerenza e razionalità.
Infatti, in presenza di una scusante basata su una situazione soggettiva della persona chiamata a rendere una dichiarazione all’autorità giudiziaria ovvero a fornire indicazioni alla polizia giudiziaria contro un proprio parente, che si trovi dinanzi alla alternativa – che può risultare drammatica – tra l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente e la protezione dei propri affetti, risulta del tutto “incoerente” negare che non ricorra la medesima condizione soggettiva, sia che si tratti di persone coniugate, sia che si tratti di persone conviventi. In entrambi i casi il conflitto interiore è identico.
In entrambi i casi l’art. 384 cit. considera inesigibile la condotta oggetto della norma penale violata, per mancanza della “colpevolezza” dell’agente. D’altra parte, l’art. 384, primo comma, cod. pen. più che funzionale alla tutela dell’«unità familiare», appare volto a garantire il singolo componente che si trovi nell’alternativa di porre in essere un reato ovvero di non nuocere a un prossimo congiunto. In questo senso, si è evidenziato come la disposizione sia posta a «tutela del singolo familiare sull’interesse della collettività e dello Stato alla punizione».
La ratio corrisponde perfettamente a quella dell’art. 199 cod. proc. pen., come hanno evidenziato le Sezioni Unite (sent. n. 7208 del 29/08/2007, Genovese, cit.), riconoscendo che l’art. 384 cod. pen. si ricollega al principio generale dell’ordinamento nemo tenetur se detegere, allo scopo di salvaguardare i vincoli di solidarietà “familiare“, scopo che ha di mira anche l’art. 199 cit., relativo alla facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato dal rendere testimonianza.
Anche nella disposizione processuale l’oggetto della tutela è il “sentimento affettivo“, la motivabilità dell’agente, in presenza di un conflitto interiore tra rendere una dichiarazione pregiudizievole per il “parente” e non danneggiarlo. Una simile lettura del rapporto tra le due norme citate e dell’inserimento di esse nella tematica della “famiglia“, trova conferma anche nella sentenza n. 352 del 2000 della Corte costituzionale, secondo cui «la disposizione del codice di rito sancisce la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia, chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (…) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto».
Può dirsi che l’art. 199 cod. proc. pen. acquista una funzione di indirizzo interpretativo in ordine alla estensione della scusante prevista dall’art. 384 alle coppie di fatto, considerato che la facoltà di astensione è riferita anche a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, conviva o abbia convissuto con lui. Il mancato riconoscimento dell’estensione della scusante di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., anche al convivente determinerebbe un problematico rapporto con il secondo comma dello stesso articolo, dal momento che il convivente more uxorio, sebbene gli sia riconosciuto, come per il coniuge, il diritto all’avvertimento in funzione dell’astensione di cui all’art. 199 cod. proc. pen., con conseguente non punibilità in caso di omissione, non sarebbe invece tutelato nell’ipotesi prevista dal primo comma in cui abbia posto in essere un comportamento che sia ritenuto inesigibile.
Insomma, l’art. 384, primo comma, così come l’art. 199 cod. proc. pen., è volto a tutelare la libertà del singolo componente della “famiglia“.
Ciò avviene valorizzando il coinvolgimento psicologico dell’agente, dando rilievo alla situazione di conflitto che altera “il procedimento di motivabilità“, che coinvolge la sfera della “colpevolezza“. La struttura, la funzione e la natura della scusante dell’art. 384, primo comma, così come ricostruita, consente di concludere riconoscendo una assoluta parità delle situazioni in cui possono venirsi a trovare il coniuge e il convivente, nel senso che l’esistenza di un conflitto determinato da sentimenti affettivi, non può essere valutato differentemente a seconda che l’unione tra due persone sia fondata o meno sul vincolo matrimoniale.
Affermata la possibilità di applicare “analogicamente” la causa di esclusione della colpevolezza anche nei confronti di chi abbia commesso uno dei reati indicati nell’art. 384, primo comma, cod. pen. per “salvare” il convivente di fatto, ne deriva la necessità che la situazione di “convivenza” risulti in base ad elementi di prova rigorosi.
La dimostrazione della ricorrenza della situazione della convivenza potrà essere dimostrata anche dall’imputato, attraverso allegazioni da cui risultino elementi specifici che pongano il giudice in condizione di accertarne l’esistenza. Riguardo ai caratteri della “convivenza“, la legge n. 76 del 2016 definisce conviventi due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, di fatto utilizzando i risultati di una consolidata giurisprudenza civile e anche penale, che richiede la sussistenza di un grado di stabilità e di continuatività del legame affettivo, in qualche modo assimilabile al rapporto coniugale.
A seguito della citata legge del 2016 la stabilità della convivenza può oggi essere accertata anche attraverso la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 13 del regolamento di cui al d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, dichiarazione che, secondo alcuni, avrebbe istituito il nuovo genere di coppie di fatto “registrate“, sebbene sia discussa la valenza costitutiva di tale dichiarazione, tuttavia ai fini penali potrà costituire un forte elemento di prova, ferma restando che la convivenza potrà comunque essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova.
Può quindi alfine formularsi per la Corte il seguente principio di diritto: “l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore“.
Passando all’esame del ricorso, preliminarmente deve escludersi per il Collegio che il reato, commesso il 31 luglio 2012, sia estinto per prescrizione: infatti, al termine massimo di sette anni e sei mesi previsto per la prescrizione del reato di favoreggiamento personale, vanno aggiunti i periodi di sospensione verificatisi nel corso del primo grado di giudizio, come già indicati dalla Corte di appello (per complessivi 343 giorni), nonché le sospensioni di ufficio dal 9 marzo all’il maggio 2020 (pari a 64 giorni), per effetto dei “rinvii di ufficio” disposti con i decreti legge n. 11 dell’8 marzo 2020, n. 18 del 17 marzo 2020 e n. 23 dell’8 aprile 2020, e quella dal 12 maggio al 30 giugno (pari a 50 giorni), in base alla previsione contenuta nell’art. 83, comma 9, del decreto legge n. 18 cit., in considerazione del rinvio dell’udienza al 26 giugno 2020 (v., Sez. U, n. 5292, del 27/11/2020, Sanna); infine, va calcolata la sospensione dal 24 settembre 2020 al 26 novembre 2020 (pari a 62 giorni) per il rinvio di cortesia dell’udienza richiesto dalla difesa.
Ciò premesso, il ricorso per la Corte è fondato.
La Corte di appello di Cagliari ha ritenuto inapplicabile l’estensione dell’art. 384, primo comma, cod. pen., al convivente more uxorio, assumendo trattarsi di una norma eccezionale, che prevede la non punibilità in casi ben individuati e caratterizzati da presupposti formali indiscutibili, riferendosi, a titolo esemplificativo, al matrimonio, all’unione civile, al rapporto di filiazione, sottolineando, al contrario, la «fluidità e fragilità del rapporto di mera convivenza».
Ha, inoltre, rilevato che all’imputata incombeva l’onere di dare una dimostrazione dell’esistenza della convivenza, dimostrazione che non vi è stata, non avendo chiesto neppure la rinnovazione dell’istruttoria in appello. Infine, ha ritenuto non decisivo il fatto che F. avesse la residenza anagrafica presso T..
L’interpretazione che la Corte di appello ha dato dell’art. 384 cit. si rivela per il Collegio erronea alla luce del principio di diritto che esso ha testé affermato.
Inoltre, va evidenziato per la Corte che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di secondo grado, la difesa della ricorrente nell’atto di appello, dopo aver sostenuto che la esistenza della convivenza more uxorio tra T. e F. avrebbe potuto essere desunta dal certificato anagrafico e dalla carta di identità di quest’ultima, depositati in atti, ha espressamente richiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire la testimonianza di L.T., padre di N.T., sul rapporto di convivenza tra i due.
Ne deriva che l’erronea applicazione dell’art. 384, primo comma, cit., unitamente all’omessa considerazione del motivo di appello sulla rinnovazione, oggetto di una specifica deduzione con il ricorso per cassazione, determina l’annullamento della sentenza impugnata, con il rinvio degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Cagliari che, nel caso in cui risulterà accertata la convivenza della ricorrente con N.T., al momento della dichiarazione resa alla polizia giudiziaria, applicherà il principio di diritto affermato con la presente sentenza.
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Il 26 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione Civile n. 8561, secondo la quale la presentazione dell’istanza di distrazione delle spese, proposta dal difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non costituisce rinuncia implicita al beneficio da parte dell’assistito, attesa la diversa finalità ed il diverso piano di operatività del gratuito patrocinio e della distrazione delle spese – l’uno volto a garantire alla parte non abbiente l’effettività del diritto di difesa e l’altra ad attribuire al difensore un diritto in rem propriam, con la conseguenza che il difensore è privo del potere di disporre dei diritti sostanziali della parte, compreso il diritto soggettivo all’assistenza dello Stato per le spese del processo, potendo la rinuncia allo stesso provenire solo dal titolare del beneficio, e tenuto conto, peraltro, che l’istituto del gratuito patrocinio è revocabile solo nelle tre ipotesi tipizzate nell’art. 136, d.P.R. n. 115 del 2002, norma eccezionale, come tale non applicabile analogicamente.
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Il 14 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 98, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica.
Ad avviso della Corte, le questioni sono inammissibili per non essersi l’ordinanza di rimessione adeguatamente confrontata con gli argomenti contrari alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nel giudizio a quo, riqualificazione dalla quale dipende la rilevanza delle questioni prospettate.
Più nel dettaglio, precisa la Corte, l’imputato è chiamato a rispondere del delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, primo e secondo comma, del codice penale. In esito al dibattimento, il rimettente ritiene di dover riqualificare i fatti contestati – immutati nella loro materialità – nella diversa e più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 cod. pen. Avendo prospettato alla difesa dell’imputato tale possibile riqualificazione, e avendo il difensore chiesto – a fronte di tale modifica in iure – di essere ammesso al rito abbreviato, il rimettente solleva le questioni di legittimità costituzionale sopra indicate, aventi ad oggetto la disposizione del codice di procedura penale – l’art. 521, comma 1 – che consente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto così come diversamente qualificato.
La riqualificazione – da atti persecutori aggravati a maltrattamenti in famiglia – dei fatti contestati all’imputato costituisce dunque il presupposto logico che condiziona l’applicazione nel giudizio a quo della disposizione, della cui legittimità costituzionale il giudice dubita.
Tale riqualificazione, osserva la Corte, riposa sul rilievo, svolto con ricchezza di argomenti dall’ordinanza di rimessione, che le condotte – moleste, minacciose, ingiuriose e violente – contestate all’imputato siano state commesse nel quadro di una relazione affettiva stabile tra l’imputato e la persona offesa, pur nella riconosciuta assenza di convivenza.
Secondo quanto riferisce il rimettente, dall’istruttoria dibattimentale è emersa l’esistenza di un rapporto affettivo tra i due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso del quale – in particolare – la donna era solita frequentare la casa ove l’uomo viveva con la madre e la sorella, e nella quale lei stessa talvolta si tratteneva.
Il pubblico ministero aveva qualificato le condotte contestate all’imputato come atti persecutori ai sensi dell’art. 612-bis cod. pen., con l’aggravante prevista dal secondo comma di tale disposizione, che prevede l’aumento della pena quando il fatto sia commesso, tra l’altro, «da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».
Ritiene invece il rimettente che la stabilità della relazione affettiva, desunta in particolare dall’assidua frequentazione da parte della persona offesa della famiglia dell’imputato, imponga di riqualificare le condotte come maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572, primo comma, cod. pen.: disposizione, quest’ultima, applicabile a chiunque «maltratta», per la parte che qui rileva, «una persona della famiglia o comunque convivente». Ciò in quanto il sintagma «una persona […] comunque convivente» andrebbe letto come riferito a un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire».
In tale ipotesi, dunque, il più grave delitto di maltrattamenti in famiglia assorbirebbe l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che verrebbe dunque ad abbracciare le sole ipotesi di relazioni affettive non caratterizzate (o non più caratterizzate) da una «attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima».
Questa lettura troverebbe conforto, osserva il rimettente, in varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno ricondotto allo spettro applicativo dell’art. 572 cod. pen. fatti commessi nell’ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di progetti di vita», e hanno affermato il principio secondo cui l’art. 572 cod. pen. «è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale».
Pertanto, il delitto sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9 maggio 2019, n. 19922, nonché – nello stesso senso – sezione sesta penale, sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n. 31121 e, pur escludendo nel caso di specie il reato de quo, sezione sesta penale, sentenza 7 maggio-27 maggio 2013, n. 22915. Si vedano altresì, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, sezione sesta penale, sentenza 21 ottobre-1° dicembre 2020, n. 34086, concernente una coppia che, pur non convivendo, pagava congiuntamente un appartamento utilizzato come base per incontri clandestini; sezione sesta penale, sentenza 6 novembre 2019-11 febbraio 2020, n. 5457, relativa a una coppia non convivente, la cui relazione durava da appena due mesi).
Tuttavia, tale orientamento risale, come correttamente osserva il rimettente, ad epoca antecedente alla introduzione dell’art. 612-bis cod. pen., e si è formato in larga misura con riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno di una preesistente convivenza (la sentenza n. 19922 del 2019 sopra citata concerneva, ad esempio, una coppia che aveva convissuto per circa dieci anni; e parimenti concernono ex conviventi Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 3 novembre-22 dicembre 2020, n. 37077; sezione terza penale, sentenza 12 giugno-28 ottobre 2019, n. 43701; sezione sesta penale, sentenza 13 dicembre 2017-24 gennaio 2018, n. 3356), specie quando dalla convivenza siano nati anche dei figli (ex aliis Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 6 ottobre 2020-4 febbraio 2021, n. 4424; sezione sesta penale, sentenza 28 settembre-20 novembre 2017, n. 52723; sezione sesta penale, sentenza 20 aprile-22 maggio 2017, n. 25498).
Non a caso, una recente sentenza della Corte di cassazione – invero successiva all’ordinanza di rimessione – ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un’ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione «instaurata da non molto tempo» e da una “coabitazione” consistita soltanto «nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi nella casa dell’uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911).
La giurisprudenza di legittimità, considerata alla luce dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione circa la possibilità di sussumere entro la figura legale descritta dall’art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate nell’ordinanza di rimessione, ove si dà atto in particolare dell’assenza di convivenza (presente o passata) tra i due protagonisti della vicenda.
Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998).
Il divieto di analogia, osserva la Corte, non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.
Ciò vale non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice» (BVerfGE 73, 206, (235); in senso conforme, più recentemente, BVerfGE 130, 1 (43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)).
Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988).
È evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.
Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004).
Tanto che proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.
E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.
Il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”.
In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti – in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.
Il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie comporta dunque una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne determina l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021).
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Il 15 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione Penale n. 27326, onde, in relazione al furto in abitazione, la nozione di “pertinenza di luogo destinato a privata dimora”, di cui all’art. 624 bis, c.p., si riferisce a ogni bene idoneo ad arrecare una diretta utilità economica ovvero funzionale al bene principale, per essere destinato in modo durevole al servizio o all’ornamento di esso, resa possibile da una contiguità, anche solo di servizio, tra bene principale e bene pertinenziale.
Questioni intriganti
In cosa consiste la c.d. interpretazione estensiva e cosa la differenzia dall’analogia?
- ogni disposizione normativa ha un proprio tenore letterale, ovvero una propria cornice descrittiva sulla quale si innesta l’attività dell’interprete, che opera con criterio storico (la storia della norma), teleologico (lo scopo della norma) e sistematico (i rapporti con le altre norme del sistema);
- il tenore letterale può essere univoco, e dunque esprimere un solo possibile significato;
- il tenore letterale può essere plurivoco o plurisenso, palesandosi compatibile con più significati possibili;
- se a valle dell’interpretazione si attribuisce al tenore letterale della norma uno dei relativi significati possibili, si è ancora nel campo della interpretazione;
- il testo letterale ha dei significati possibili, e se l’interpretazione-risultato è estensiva la norma viene assunta applicabile a tutti i casi in qualche modo riconducibili a ciascuno di tali significati possibili, comprendendo nella relativa egida precettiva i casi “in penombra” rispetto al significato certo espresso dalla disposizione;
- se l’interpretazione-risultato è restrittiva, la norma viene invece assunta applicabile soltanto ad alcuni (e non a tutti) i casi in qualche modo riconducibili a ciascuno dei significati possibili della norma, escludendo dalla relativa egida precettiva, per primi, proprio i casi “in penombra” rispetto al significato certo espresso dalla disposizione;
- vi è anche chi in dottrina isola una interpretazione “dichiarativa”, ovvero quella che conferma ex post – in termini di significati e di casi ad essi riconducibili – quanto affiora da una prima sommaria indagine sulla norma, rivelandosi in tal modo né estensiva, né restrittiva: se ne contesta tuttavia la reale utilità pratica;
- si resta dunque nell’ambito della interpretazione, quand’anche estensiva, laddove – data l’articolazione dell’enunciato normativo ed il significato ontologico delle parole che lo compongono – non si supera comunque l’invalicabile limite del significato letterale delle parole stesse, in termini di possibile espansione del linguaggio che esse compendiano: dietro un significato certo perché apparente, ve ne è uno nascosto che viene fatto affiorare, e che tuttavia non è meno certo, onde anche i casi ad esso ricondotti possono essere disciplinati dalla norma interpretata;
- quando un caso non rientra in nessuno dei possibili significati in qualche modo annettibili al tenore letterale della norma interpretata, applicare tale norma non significa più interpretare, ma fare applicazione analogica;
- in sostanza, il caso in questione non è disciplinato dalla norma in questione perché non riconducibile ad uno dei possibili significati espressi dalla norma stessa, stando alle parole con le quali essa è formulata, e tuttavia gli si applica la norma – in via integrativa – per colmare una lacuna del sistema, stante l’assunta identità di ratio (c.d. eadem ratio);
- in sostanza, si ritiene che se il legislatore avesse disciplinato il caso in questione, avrebbe trovato parole analoghe ma non identiche a quelle della norma della quale viene fatta applicazione, e non identiche proprio in quanto capaci di esprimere anche un significato tale da rendere applicabile la norma stessa in via interpretativa, visto l’obiettivo che il legislatore stesso si è posto prevedendo la norma che viene applicata analogicamente;
- l’interpretazione estensiva spiega il significato della norma per applicarla anche ai casi meno evidenti; l’analogia applica la norma anche a casi che certamente non vi rientrano, per colmare una lacuna dell’ordinamento, finendo peraltro con l’aggirare il principio di tassatività della fattispecie penale;
- sia l’interpretazione estensiva che, a fortiori, l’analogia, sembrano per parte della dottrina entrare in rotta di collisione con il principio di “extrema ratio” che connoterebbe il diritto penale: in realtà se il discorso pare reggere con riguardo all’analogia, esso sembra meno convincente per quanto concerne l’interpretazione estensiva, sottraendo al giudice la possibilità di ricondurre determinati casi al tenore letterale della norma, pur essendovi essi riconducibili, così applicando in modo eccessivamente garantista il canone letterale e ad un tempo dequotando i crinali storico e sistematico del procedimento ermeneutico, peraltro tradendo lo stesso legislatore penale laddove non viene in tal modo garantita la tutela di determinati beni giuridici (interessi) assunti ex lege meritevoli del presidio penale.
Quali altri principi intercetta il divieto di analogia in malam partem?
- il principio della riserva di legge: è discorrendo di riserva di legge (in rapporto all’azione amministrativa) che si affronta normalmente il problema della assimilabilità in malam partem dell’assenza di permesso di costruire (già concessione edilizia) al permesso di costruire che è stato rilasciato, ma che è illegittimo (art.44 del D.p.R. 380.01); la fattispecie intercetta tuttavia anche la questione del discrimen tra interpretazione estensiva ed applicazione analogica, discutendosi se si sia al cospetto della prima (ammissibile) o della seconda (inammissibile); le coordinate della questione si semplificano nondimeno laddove il vizio che affetta il permesso di costruire sia particolarmente grave, come nel caso in cui esso sia stato rilasciato in carenza di potere ovvero a valle di una attività criminosa perpetrata dal soggetto pubblico che rilascia il titolo in accordo con quello privato che lo riceve: in queste ipotesi si fa meno difficoltà ad ammettere che in realtà si tratta di interpretazione estensiva (e non di applicazione analogica);
- il principio di offensività: è discorrendo di offensività, specie in rapporto al superamento (o mancato superamento) di specifici limiti tabellari, che si affronta normalmente il problema dell’emissione nell’ambiente di onde elettromagnetiche e della relativa assimilabilità al “getto di cose” previsto come contravvenzione dall’art.674 c.p.; la fattispecie intercetta tuttavia anche la questione del discrimen tra interpretazione estensiva ed applicazione analogica, discutendosi se si sia al cospetto della prima (ammissibile) o della seconda (inammissibile), specie in relazione alla ermeneusi del verbo “gettare”, che è discusso se possa interpretarsi nel senso di ricomprendere anche l’emissione, giusta impianti all’uopo, di onde elettromagnetiche; e a quella del sostantivo “cosa”, che è discusso se possa interpretarsi nel senso di ricomprendere anche un campo elettromagnetico.