Massima
Il principio di legalità tende a lasciare alla legge il monopolio della selezione dei fatti penalmente rilevanti, che devono essere descritti in modo preciso e tassativo, consentendo al cittadino di sapere sempre quale è il comportamento punito e al giudice di poter sussumere un dato contegno concreto del soggetto attivo, assunto punibile, nella astratta, corrispondente fattispecie penale (c.d. inadempimento-reato).
Crono-articolo
Il principio nullum crimen sine lege, nulla poene sine lege, non trae origine dal diritto romano, ma è di origine illuministica, essendo il diritto romano maggiormente legato alla c.d. legalità sostanziale. In particolare, il diritto romano di età prerepubblicana e repubblicana, fondandosi sulla casistica, rifiuta la codificazione ed ammette il ricorso all’analogia, seppure formalmente non riconoscendola come tale, sia per i crimina (gli odierni reati) che per le pene giusta punizione c.d. “ad exemplum legis”, disconoscendo così il principio di legalità formale (in ottica garantista) per come lo intendiamo oggi.
1889
La codificazione liberale Zanardelli, all’art.1, prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “espressamente” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.
1930
Il codice penale all’art.1 prevede, sulla scia del precedente del 1889, che nessuno può essere punito per un fatto che non sia “espressamente” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Prevede poi tutta una serie di disposizioni nelle quali appare più o meno inafferrabile il comportamento punibile, come accade – paradigmaticamente – nella fattispecie di “plagio” di cui all’art.603 onde è punito gravemente (con la reclusione da 5 a 15 anni) chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione.
1948
La Costituzione ribadisce che è una legge a dover prevedere quali comportamenti siano punibili e a quali pene sia soggetto il reo; in particolare viene in rilievo la disposizione di cui all’art.25, comma 2, della Carta, anche in relazione all’art.24 sul diritto di difesa e all’art.27 sul principio di colpevolezza e sulle finalità di prevenzione della norma penale (e di connessa, tendenziale rieducazione della pena), che vengono frustrate se il cittadino non è in grado di capire cosa viene punito e se il giudice, per parte sua, rischia di punire o non punire a propria completa ed arbitraria discrezione.
1973
Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 15 che, in tema di grida, manifestazioni e radunate sediziose (articoli 654 e 655 c.p.) emette una sentenza interpretativa di rigetto, così salvando le norme, orientando il giudice al singolo caso e, in qualche modo, sostituendolo al legislatore nell’opera di delineare con sufficiente precisione il comportamento punibile. Ciò attraverso una interpretazione del termine “sedizione”, che tradizionalmente implica ribellione, ostilità ed eccitazione al sovvertimento delle pubbliche istituzioni, compendiandosi in un comportamento concretamente idoneo a produrre un evento pericoloso per l’ordine pubblico.
1975
L’8 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n. 188 che – giudicando in tema di offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone (art.403 c.p.) – salva la disposizione ritenendo che l’esigenza di una previsione “tipica” del fatto costituente reato può essere operata anche con una descrizione sommaria o con l’uso di espressioni meramente indicative.
1980
Il 22 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 177 che inaugura un atteggiamento di svolta garantista in termini di determinatezza e tassatività della fattispecie penale: viene dichiarato incostituzionale l’art. 1, n.3, della legge 1423.56 in tema di misure di prevenzione, laddove ritiene applicabile una tal misura al non meglio specificato soggetto “proclive a delinquere”, sulla base di generiche manifestazioni di questa inclinazione delinquenziale non collegate a circostanze di fatto chiare dalle quali dedurre la pericolosità del prevenuto.
1981
L’8 giugno esce la nota sentenza della Corte costituzionale n.96 sul plagio, con la quale viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 603 del c.p.: il fatto penalmente sanzionato, per la Corte, appare non verificabile tanto nella relativa concreta effettuazione che nel relativo risultato. La parola plagio in astratto ha un significato, ma – per come è formulata la norma (riduzione di una persona in totale stato di soggezione psichica) – nessun fatto concreto accertabile dal giudice penale corrisponde in realtà a quel significato. Il legislatore deve descrivere fatti che, sulla base dello stato attuale delle conoscenze, appaiono verificabili: solo in questo modo viene consentito al giudice penale di sussumere il fatto concretamente accertato (e verificabile) nella fattispecie astratta descritta dal legislatore, dovendo quest’ultima essere descritta in modo intellegibile (quand’anche attraverso l’impiego di espressioni indicative o di valore).
1988
Il 27 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.475 in tema di rumorosità ed igiene acustica negli ambienti di lavoro che, richiamando taluni precedenti (sentenze 27 del 1961 e 49 del 1980) , salva le norme impugnate sul presupposto onde il principio di legalità non sarebbe attuato nella legislazione penale seguendo sempre un criterio di rigorosa descrizione del fatto: spesso infatti le norme penali si limitano ad una descrizione sommaria e all’uso di espressioni meramente indicative, realizzando nel miglior modo possibile l’esigenza di una previsione tipica dei fatti costituenti reato. Secondo la Corte la necessaria integrazione della norma operata dal prudente, concreto apprezzamento del giudice che utilizza nozioni e concetti di comune esperienza o le indicazioni della tecnica, non comporta certo invasione dei poteri riservati al legislatore, trattandosi anzi di attività propria del processo interpretativo, che del magistero giudiziario é fondamentale espressione.
1989
Il 18 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.11 in tema di armi giocattolo, che dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 4 e 6, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi): secondo la Corte il deficit di determinatezza della fattispecie penale può aprire le porte al giudizio di costituzionalità solo laddove non esista un diritto vivente (nel caso di specie, si registra invece un consolidato orientamento della Cassazione) che provveda ad inverare la sufficiente determinatezza del fatto penalmente sanzionato. Nella fattispecie, si tratta di individuare quale sia il comportamento punibile in capo a soggetti diversi dai fabbricanti di armi giocattolo (per i quali ultimi invece il comportamento punibile risulta pianamente definito), e la Corte assume il “diritto vivente” capace di surrogare il deficit di tassatività della fattispecie legislativa, con orientamento tuttavia criticato dalla dottrina più garantista.
1990
Il 9 ottobre vede la luce il D.P.R. n. 309 in materia di stupefacenti che, all’art.80, prevede una fattispecie aggravata specifica se il fatto riguarda “quantità ingenti” di sostanze stupefacenti o psicotrope: una dicitura generica in potenziale frizione con il principio di tassatività della fattispecie penale.
1996
Il 2 novembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 370 che, in tema di possesso ingiustificato di oggetti e valori (art. 708 c.p.), dichiara la norma incostituzionale per deficit di determinatezza laddove prevede che sia punibile il possesso, oltre che di denaro ed oggetti di valore, di non meglio specificate “altre cose”. La sentenza appare tuttavia più incentrata sulla irragionevole discriminazione (art.3 Cost.) tra chi ha già subito una condanna per reati contro il patrimonio e chi è invece incensurato.
2001
Il 13 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 10311 in tema di riduzione in schiavitù ex art. 600 c.p., che ritiene manifestamente infondata la relativa questione di legittimità costituzionale, salvando dunque la norma: la questione riguarda la riduzione di taluno “in condizione analoga alla schiavitù”, ed il contrasto con gli articoli 3 e 25 della Costituzione (presunto deficit di tassatività della fattispecie) viene escluso attraverso un richiamo alla Convenzione di Ginevra del 1956 (ratificata dall’Italia con legge 1304.57), che prevede un elenco di ipotesi a riguardo. Peraltro, a differenza del plagio (che richiama una conculcazione dell’intimo volere difficilmente verificabile), la condizione analoga alla schiavitù si compendia nel costringere una persona al proprio esclusivo servizio avvalendosi di prassi, tradizioni, circostanze ambientali e simili, attraverso un comportamento concretamente verificabile.
2004
Il 13 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.5 che vaglia la legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5.ter, del decreto legislativo n.286.98 in tema di immigrazione, laddove lo straniero – a seguito dell’ordine espulsivo impartito dal Questore – si trattiene sul territorio dello Stato “senza giustificato motivo”. La Corte salva la norma ritenendola compatibile con il principio di tassatività, partendo dal fatto che nel sistema penale sovente il legislatore utilizza delle valvole di sicurezza, delle clausole generali sintetizzate in espressioni come “senza giusta causa”, “arbitrariamente”, “senza giustificato motivo” ed altre ancora: in questi casi non si è al cospetto di cause di giustificazione, ma in ogni caso di elementi che rendono inesigibile una determinata condotta penalmente sanzionata (e quindi, nel caso di specie, rendono inesigibile il “non trattenersi” sul territorio dello Stato, e quindi l’uscire dal territorio stesso): se tali clausole generali non fossero inserite dal legislatore, le contingenze della vita potrebbero creare lacune che andrebbero a svantaggio dello stesso reo il quale – per situazioni ostative a carattere oggettivo o soggettivo, per la presenza di obblighi di segno contrario rispetto al comportamento imposto dalla norma penale, ovvero per la necessità di bilanciare in valori in gioco con riguardo ad interessi di rango almeno pari a quello tutelato dalla norma incriminatrice – deve assumersi giustificato per l’inosservanza nel caso concreto del precetto penale. Si tratta di clausole che tuttavia, ove rimettenti all’arbitrio del giudice la definizione dei casi di relativa, concreta applicabilità (nel caso di specie, il giustificato motivo che autorizza il trattenimento sul territorio dello Stato), possono finire col ridondare a svantaggio del reo; la patente di legittimazione costituzionale di dette clausole passa allora proprio dal vaglio in ordine alla tassatività della fattispecie che esse dipingono. Da questo punto di vista, la clausola elastica o l’espressione sommaria non va valutata isolatamente, ma insieme agli elementi costitutivi della fattispecie penale ed alla disciplina complessiva in cui essa si inserisce: occorre partire, secondo la Corte, dalle finalità della singola fattispecie e dal quadro normativo complessivo in cui essa si colloca, al fine di verificare se la descrizione del fatto incriminato sia tale da consentire:
- a) al giudice, di ricondurre una fattispecie concreta alla fattispecie astratta;
- b) al destinatario della norma, di percepire in modo sufficientemente chiaro ed immediato il valore precettivo.
Distinguendo allora i migranti economici da quelli che chiedono asilo, nel quadro dei molteplici interessi pubblici connessi al fenomeno migratorio, mentre per chi rischia persecuzioni fuori dall’Italia e conseguente lesione dei relativi diritti inviolabili il “giustificato motivo” di trattenimento si atteggia in un certo modo, diversa è la situazione per i migranti economici che non rischiano di veder conculcati i loro diritti fondamentali. Anche se non si è in presenza di scriminanti a tutti gli effetti, che opererebbero in modo oggettivo, per la Corte nel caso del richiedente asilo possono configurarsi situazioni ostative di peculiare pregnanza che rendono impossibile sul piano oggettivo o soggettivo adempiere alla singola intimazione penale: rispettare il precetto si configura come impossibile ovvero rischioso o difficoltoso, e dunque il contegno diventa inesigibile sul piano penale. La giurisprudenza successiva alla sentenza della Corte chiarirà poi i limiti di configurabilità del giustificato motivo di trattenimento dello straniero con peculiare riguardo alle ipotesi di difficile condizione economica dello straniero (in relazione all’acquisto del titolo di viaggio per l’uscita dal territorio dello Stato), distinguendo nella sostanza i casi di mera difficoltà (inidonei all’uopo) da quelli di grave e assoluta impossidenza (capaci invece di rendere il trattenimento giustificato), alla costante ricerca di un punto di equilibrio tra i diversi valori in campo (sicurezza pubblica da un lato e diritti fondamentali dell’individuo dall’altro).
Il 19 febbraio viene varata la legge n.40 recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita, secondo il cui art.12, comma 6, chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità e’ punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro. La dottrina più avvertita farà rilevare come con l’espressione “surrogazione di maternità” possano in realtà indicarsi fenomeni variegati, come tali destinati ad una rilevanza giuridica non solo differenziata, ma sovente anche problematica, con conseguente deficit di tassatività, come accade proprio nella fattispecie incriminatrice in rassegna. Un inquadramento – sul crinale penalistico – vieppiù complesso laddove ci si trovi dinanzi ad un caso (tutt’altro che infrequente) di “turismo procreativo”, ovvero finalizzato ad usufruire di una “gestazione per altri” in luoghi ove la ridetta pratica è legittima e disciplinata, affiorandovi ulteriori questioni di diritto penale transnazionale, anch’esse condizionate, per tale dottrina, dalle difficoltà nella definizione del fatto tipico e, con esso, del locus commissi delicti.
2006
Il 17 maggio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 4675 (caso Porto Marghera) che assume ricadente nell’ambito della fattispecie di disastro “innominato” di cui all’art.434 c.p. (un “altro disastro”) il c.d. disastro ambientale (progressiva ed imponente contaminazione dei suoli, dell’acqua e dell’aria con sostanze pericolose per la pubblica incolumità, tramite condotte reiterate e diluite nel tempo), anche se esso non ha caratteristiche di (devastante) immediatezza e può realizzarsi in un arco di tempo molto ampio e prolungato; in sostanza, l’evento disastroso può anche non essere immediatamente percepibile (come è normalmente il caso di una frana o di una valanga) ma è comunque “altro disastro” in quanto ad essere compromessi sono quei contesti di sicurezza per la salute e per altri valori della persona e della collettività che consentono di predicare la configurabilità di una ipotesi, per l’appunto, di reato contro la pubblica incolumità. In sostanza, anche se non si tratta di un evento di immediata eccezionalità, si è comunque al cospetto di un macroevento punibile ai sensi dell’art.434 c.p., la cui fattispecie “elastica” (non tassativa) è idonea a ricomprenderlo.
2007
Il 5 giugno esce la sentenza delle SSUU n.21833, che si occupa del contrasto che si agita intorno all’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con particolare riguardo alla questione se esso sia idoneo o meno ad interrompere il termine di prescrizione del reato. La Corte richiama in proposito entrambi gli orientamenti, ed in particolare quello che assume l’avviso di conclusione delle indagini preliminari idoneo ad interrompere la prescrizione ridetta, sulla base di quella giurisprudenza che – in disparte anche la sostanziale equipollenza tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, quale atto che deve sempre precedere l’esercizio dell’azione penale e che tuttavia non è espressamente previsto all’art.160 c.p., da un lato, e l’invito a presentarsi innanzi al PM per rendere l’interrogatorio di cui all’art.375 c.p.p., che è atto invece espressamente previsto al ridetto art.160 c.p., dall’altro – fa piuttosto e soprattutto leva sul fatto che l’art.415 bis c.p.p. riconosce all’indagato la facoltà di chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio a seguito proprio della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, onde si sarebbe al cospetto di una conferma testuale dell’effetto interruttivo in parola, sol che si consideri come nell’avviso di deposito di cui all’art.415.bis c.p.p. è sostanzialmente contenuto un avviso di presentarsi al PM, che è esplicitamente assunto dall’art.160 c.p. quale atto interruttivo della prescrizione. Le SSUU nondimeno abbracciano l’opposto orientamento inteso ad assumere l’avviso di conclusione delle indagini preliminari non idoneo ad interrompere la prescrizione, tratteggiandone la figura e muovendo dal presupposto onde le norme che disciplinano la prescrizione del reato – e dunque anche la relativa interruzione – hanno natura sostanziale e non già processuale, producendo l’interruzione della prescrizione un rimarchevole effetto negativo per l’indagato (o per colui che è ormai imputato): proprio muovendo da tale premessa sistematica, per il Collegio occorre tenere ben presente il principio di legalità ed in particolare il principio di determinatezza delle fattispecie penali sostanziali, siccome consacrato nell’art.25, comma 2, Cost., in una con il collaterale divieto di applicazione analogica della legge penale di cui all’art.14 delle Preleggi, onde l’elenco degli atti che determinano l’interruzione della prescrizione del reato ex art.160 c.p. deve assumersi tassativo
2008
Il 01 agosto esce la sentenza della Corte costituzionale n. 327 che – pronunciandosi sul c.d. disastro innominato di cui all’art.434 c.p. – torna sugli elementi descrittivi elastici della fattispecie: il problema si pone da quella parte della norma che richiama genericamente, punendolo, un “altro disastro”. La Corte salva anche in questo caso la norma, interpretandola in modo costituzionalmente orientato e ribadendo che l’elemento descrittivo della fattispecie tacciato di frizione con il principio di determinatezza non va letto in modo isolato, ma nel contesto complessivo della figura criminosa siccome disegnata dal legislatore e dei fini che essa si propone in termini di tutela di specifici interessi. Quello che conta è che:
- a) il giudice possa ricondurre la fattispecie concreta a quella astratta attraverso una operazione interpretativa controllabile: il giudice penale non crea la norma, ma la applica;
- b) il destinatario della norma possa percepire il precetto penale in modo chiaro ed immediato, venendo così messo nelle condizioni di non comportarsi in modo da soggiacere a pena.
Il disastro “innominato”, secondo la Corte, persegue un determinato fine ed è collocato nel novero dei delitti contro la pubblica incolumità, ed è in questo complessivo quadro sistematico che la norma penale va letta, interpretata ed applicata ai casi concreti. Si tratterà pure di un disastro “innominato”, ma esso non potrà – strutturalmente – che compendiarsi in un evento omogeneo ai disastri nominati: sul crinale dimensionale, non potrà che essere (come lo è una frana, una inondazione, una valanga, un disastro aviatorio) un evento distruttivo straordinario idoneo a produrre effetti di danno gravi, estesi e complessi; poiché poi la fattispecie è inserita tra quelle contro la “pubblica incolumità”, detto evento dovrà anche palesare una proiezione offensiva di tipo diffusivo (pericolo per la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, quand’anche nessun soggetto in concreto muoia o venga leso). Nella stessa pronuncia la Corte solleva dubbi in ordine alla riconducibilità del disastro ambientale (proprio in ottica di omogeneità rispetto ai disastri nominati, secondo le critiche della più avvertita dottrina) tra i disastri innominati costituzionalmente legittimi, e ciò a cagione della eccessiva dilatazione della portata applicativa dell’art.434, con conseguente deficit di tassatività della fattispecie: viene allora invitato il legislatore a disciplinare ex professo il disastro ambientale, in modo da scongiurarne la punizione giusta applicazione “a maglie larghe” dell’art.434 c.p.
2011
Il 01 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 9927 che, in tema di aggravante della ingente quantità di stupefacenti, ritiene la norma (art. 80 del D.P.R.309/90) costituzionalmente legittima (questione manifestamente infondata) seguendo i parametri di cui alla sentenza della Corte costituzionale n.327.08: il destinatario della norma può percepire in modo sufficientemente chiaro ed immediato il precetto sanzionato, mentre il giudice ha dinanzi una fattispecie resa sufficientemente concreta dalla giurisprudenza che si è via via formata sul punto (quantitativo oggettivamente eccezionale sotto il profilo ponderale; grave pericolo per la salute pubblica; dosi ricavabili elevatissime e conseguente, elevatissimo numero di consumatori potenzialmente soddisfacibili), sì da potersi assumere scongiurato il pericolo di interpretazioni arbitrarie basata su una formulazione generica del precetto.
2012
Esce il 20 settembre la sentenza delle SSUU n. 36258 in tema di aggravante della ingente quantità di stupefacenti, che si occupa anche del profilo della tassatività della fattispecie: secondo la Corte, occorre valorizzare il “diritto vivente” quando ci si trovi dinanzi a previsioni legislative (oltre che astratte, anche) indeterminate che vanno rese concrete proprio in ossequio al principio di tassatività della fattispecie penale. Muovendo da questo presupposto, poiché il legislatore del 1990 ha inteso discriminare, giusta criterio tabellare (e, dunque, quantitativo) l’uso personale da quello, penalmente represso, che va oltre gli stretti bisogni dell’individuo, anche ai fini dell’aggravamento di pena di cui alla ingente quantità occorre giocoforza fare riferimento ad un parametro di tipo numerico: la punibilità è prevista, ex lege, attraverso un limite quantitativo “verso il basso” (e cioè al di sotto del quale la condotta non è punibile), ed è compito della giurisprudenza individuare in limite quantitativo “verso l’alto” (e cioè al di sopra del quale la punizione non solo è prevista, ma è addirittura aggravata): prendendo a parametro la giurisprudenza più accreditata, le SSUU finiscono col dire che solo quando, rispetto al valore tabellare espresso in milligrammi, la quantità detenuta supera di 2000 volte il valore soglia (e non al di sotto di questo limite) potrà parlarsi, se il giudice di merito lo accerti in concreto, di una rilevante quantità di sostanza stupefacente. Si assiste dunque ad una tendenza alla concretizzazione numerica delle fattispecie indeterminate, al fine di garantire al massimo grado proprio il principio di tassatività della fattispecie penale.
2014
L’11 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n. 172 che, in tema di stalking ex art. 612.bis c.p., salva la norma dandone una interpretazione costituzionalmente orientata sì da renderla conforme all’art. 25, comma 2, Cost. Ancora una volta la Corte – a differenza del giudice remittente, che palesa un approccio atomistico alla fattispecie – si accosta alla fattispecie medesima in modo integrato e sistemico, evitando l’isolamento dei singoli elementi descrittivi maggiormente sospetti e, piuttosto, leggendoli in collegamento con gli altri elementi costitutivi del fatto tipico e con l’integrale disciplina della figura. Da questo punto di vista, il fatto tipico è verificabile in termini di sussunzione ad esso della fattispecie concreta ope iudicis; il destinatario della norma, per parte sua, può adeguatamente percepire il senso del precetto ed astenersi da comportamenti penalmente sanzionati. Se per definire i concetti di “minaccia” e “molestia” è sufficiente fare riferimento, per la Corte, alla giurisprudenza formatasi – rispettivamente – sugli articoli 612 e 660 c.p., la “reiterazione” implica un disvalore aggravato rispetto alle singole minaccia o molestia, sicché occorrono per compendiarla almeno due condotte (di minaccia o molestia) in successione tra loro; per quanto poi concerne i tre eventi alternativi (perdurante e grave stato di ansia e di paura; fondato timore per l’incolumità propria o altrui; alterazione delle abitudini di vita), il coefficiente emotivo e psicologico che li connota (specie i primi due) impone la verifica del grado di destabilizzazione che la vittima ha subito giusta il comportamento del molestatore.
Il 21 luglio viene pubblicata la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 32170 che, in un caso di dispersione incontrollata di polveri di amianto, assume configurarsi un disastro innominato ex art. 434 c.p. anche al cospetto non di un macroevento immediato, singolo, unico, dirompente, ma di singoli episodi di inquinamento dell’ecosistema prolungati nel tempo, purché la loro complessiva valutazione possa farli considerare di eccezionale gravità (disastro ambientale) per essere essi capaci di produrre un concreto pericolo per la vita o la salute di un numero indeterminato di persone.
2015
Il 23 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 7941 (caso Eternit), che conferma la giurisprudenza intesa ad assumere configurabile un “disastro innominato” ex art.434 c.p. non solo dinanzi a macroeventi dalla portata distruttiva immediata e devastante (arco di tempo ristretto), ma anche dinanzi ad eventi che in un periodo di tempo prolungato e senza immediata percezione visiva siano comunque idonei, alla lunga, a compromettere il bene sicurezza per la salute (e per altri interessi della persona costituzionalmente tutelati), sì da far luogo ad un reato contro la “pubblica incolumità” attraverso imponenti processi di deterioramento dell’habitat umano attraverso un torno temporale anche di lunga o lunghissima durata.
Il 22 maggio esce la legge n. 68 che, raccogliendo l’invito della Corte costituzionale del 2008, disciplina la figura di reato del disastro ambientale, collocandola all’art. 452.quater c.p. e prevedendo la punibilità, a titolo alternativo, del macroevento (di dimensioni consistenti), ovvero dell’evento non macroscopico ma comunque in grado di essere offensivo del bene giuridico dell’ambiente (che, pur se contermine a quello della pubblica incolumità, non si sovrappone integralmente ad esso, sicché l’ambiente, a differenza della pubblica incolumità, sarebbe potenzialmente aggredibile anche da eventi di tipologia non macro, magari diluiti nel tempo).
L’8 settembre esce la sentenza della Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, C-105/14, caso Taricco con la quale la Corte – muovendo dall’art.325 del TFUE in tema di tutela degli interessi finanziari dell’Unione – dichiara l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli articoli 160, ultimo comma, e 161, comma 2, c.p. in tema di prescrizione quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini prescrizionali più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledano interessi finanziari dell’Unione. Si tratta di un caso di disapplicazione in malam partem imposta a livello europeo che incide sui diritti dei singoli imputati nei processi penali pertinenti. E’ dubbio altresì, secondo la dottrina, quando una frode possa assumersi “grave” ai fini dell’applicazione di questa sentenza, ed è altresì dubbio il “numero considerevole di casi” in cui il limite prescrizionale è da considerarsi tale da pregiudicare la tutela degli interessi finanziari della UE, con ovvi riflessi anche su tassatività e principio di legalità penalistico.
2016
Il 3 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 46170 che, nel rendere una prima interpretazione dell’art. 452 bis c.p., fornisce chiarimenti per definire l’esatta portata di alcuni elementi della fattispecie. L’avverbio “abusivamente” (“chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi”), secondo la Corte, deve essere inteso in un’accezione ampia, comprendente la violazione tanto di leggi (statali o regionali) quanto di prescrizioni amministrative. Con riferimento, invece, ai concetti di “compromissione” e “deterioramento”, entrambi indicano una modifica del bene ambiente, ma secondo una scala di gravità crescente essendo caratterizzati il primo da un condizione di squilibrio funzionale, perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema e il secondo in uno squilibrio strutturale, caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di quest’ultimi. Infine, la “significatività” (intesa come incidenza e rilevanza) e la “misurabilità” (intesa come apprezzabilità quantitativa oggettivamente rilevante) della compromissione o del deterioramento della matrice ambientale o dell’ecosistema possono essere valutate liberamente dal giudice, non essendo egli vincolato per la Corte a parametri imposti dalla disciplina di settore, pur potendo tuttavia trarre dai medesimi elementi di giudizio.
2017
Il 26 gennaio esce l’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 che rinvia nuovamente in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE al fine di ottenere la corretta interpretazione della sentenza resa sul caso Taricco in materia di prescrizione dei reati connessi a frodi finanziarie gravi e tali da pregiudicare la tutela degli interessi finanziari dell’UE. In particolare la Corte sottopone alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del TFUE, le seguenti questioni di interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato: a) se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata; b) se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale ed è soggetta al principio di legalità; c) se la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco, debba essere interpretata nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato, anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro (c.d. controlimiti).
Il 1° giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 27458 onde, in ossequio ai principi di tassatività e di legalità in materia penale, non è consentito sanzionare una condotta o ritenere sussistente una circostanza che aggravi la pena attraverso un’interpretazione di tipo analogico in malam partem, spettando al legislatore le scelte di natura sanzionatoria e dovendosi quindi rigettare quegli orientamenti interpretativi che, pur se ispirati all’ottenimento di un più efficace contrasto alla diffusione delle droghe a tutela di situazioni di maggiore vulnerabilità per le persone, conducano ad un’estensione delle aggravanti previste per fattispecie analoghe. In particolare, un’aggravante che fa riferimento a “scuole di ogni ordine e grado” quale luogo protetto in ragione dell’età dei soggetti frequentanti, non può essere applicata anche alle università stanti le diversità di sistemi e di principi applicabili alle due diverse realtà; tuttavia, il contesto universitario può far scattare l’aggravante in questione poiché rientrante nella diversa espressione “comunità giovanile” senza, in tal caso, ricorrere al ragionamento analogico.
Il 14 luglio viene varata la legge n.110, con la quale viene introdotto nel sistema penale italiano il reato di tortura, come reato di natura abituale. Più in specie, con l’art.1 viene innestato nel codice penale l’art.613.bis, secondo il cui comma 1 chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona: si tratta di una norma incriminatrice che viene tacciata dalla più attenta dottrina come deficitaria sul crinale della tassatività, sia laddove prevede la crudeltà come elemento costitutivo della fattispecie (meno problemi pone l’indefinito concetto di crudeltà laddove compendi mera circostanza aggravante, come nell’ipotesi di cui all’art.61, n.4, c.p.); sia laddove parla di trattamento inumano e degradante, sulla scia dell’art.3 della CEDU che tuttavia, secondo l’interpretazione fornitane dalla stessa Corte EDU, non appare nozione confinabile in una definizione rigida.
Il 5 settembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 40076 che, mutando la giurisprudenza fino ad allora consolidata, dichiara che l’inosservanza delle prescrizioni generiche di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, non configura il reato previsto dall’art. 75, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011, il cui contenuto precettivo è integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche; la predetta inosservanza può, tuttavia, rilevare ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione. Tale pronuncia aprirà la strada all’intervento della Corte Costituzionale, in quanto la dottrina rileva immediatamente come si sia di fronte ad una portata ‘para-costituzionale’ della sentenza che ribadisce il sacrosanto principio della illegittimità di formulazioni incriminatrici vaghe ed indeterminate attraverso la strada sbagliata della interpretazione conforme, piuttosto che devolvere la questione all’organo deputato a sindacare la legittimità costituzionale delle leggi. Oltre ad entrare in collisione con l’architettura dei poteri delineata dalla Carta repubblicana, la soluzione sperimentata dalle Sezioni Unite non tutela i diritti dei destinatari di giudicati di condanna emessi in epoca antecedente.
Il 20 novembre viene varata la legge n. 167 “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea”. Con tale intervento il legislatore amplia il novero delle condotte punibili con il reato di negazionismo, inserendo anche la “minimizzazione” e la “apologia”. La portata effettiva della novella è tuttavia limitata, in quanto, trattandosi di un’aggravante e non di una fattispecie autonoma di negazionismo, le condotte tipiche devono innestarsi su quelle “principali” di propaganda, istigazione e incitamento. Inoltre, il legislatore inserisce il reato di cui all’art. 3 della Legge Reale-Mancino e la relativa aggravante di negazionismo fra i reati presupposto della responsabilità degli enti.
Il 5 dicembre esce la sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia UE nella causa C-42/17, M.A.S. e M.B., relativa alla rimessione della Corte Costituzionale del gennaio dello stesso anno in tema di prescrizione (c.d. Taricco II), ove viene affermata la prevalenza dei principi di non-retroattività e di determinatezza, quali specificazioni del principio di legalità dei reati e delle pene rispetto agli interessi dell’Unione, fermi tuttavia gli impegni degli Stati membri ad adeguare le proprie normative al contrasto di fenomeni elusivi. In sostanza, per la Corte il principio di legalità prevale sull’obbligo di tutelare gli interessi finanziari dell’Unione Europea. Per la Corte l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso di imporre al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di IVA, disposizioni interne sulla prescrizione rientranti nel diritto sostanziale nazionale che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i ridetti casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato; ciò a meno che una disapplicazione siffatta – che è ovviamente in malam partem – comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.
2018
Il 31 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 115 che chiude la c.d. “vicenda Taricco” in tema di prescrizione. La Corte di giustizia nel 2017 ha chiarito che, in virtù del divieto di retroattività in malam partem della legge penale, la c.d. “regola Taricco” non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l’ha dichiarata, ovvero anteriormente all’8 settembre 2015. Ciò però non equivale a ritenere la questione priva di rilevanza, perché riconoscere solo sulla base della sentenza M.A.S. l’avvenuta prescrizione significherebbe comunque fare applicazione della “regola Taricco”, sia pure individuandone i limiti temporali. Indipendentemente dalla collocazione dei fatti, il giudice comune non può applicare loro la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, comma 2, Cost. Ciò posto, appare evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (per la parte da cui si evince la “regola Taricco”), sia la “regola Taricco” in sé. Quest’ultima, per la porzione che discende dal paragrafo 1 dell’art. 325 TFUE, è irrimediabilmente indeterminata nella definizione del “numero considerevole di casi” in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita. Né a tale giudice può essere attribuito il compito di perseguire un obiettivo di politica criminale svincolandosi dal governo della legge al quale è invece soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.).
La Corte evidenzia come sia indeterminato l’art. 325 TFUE perché il suo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della “regola Taricco”. Il principio di determinatezza ha una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell’attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque “una percezione sufficientemente chiara ed immediata” dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta. Pertanto, quand’anche la “regola Taricco” potesse assumere, grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale, un contorno meno sfocato, ciò non varrebbe a “colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale”. Peraltro, conclude la Consulta, è persino intuitivo (anche alla luce della sorpresa manifestata dalla comunità dei giuristi nel vasto dibattito dottrinale seguito alla sentenza Taricco, pur nelle sfumature delle diverse posizioni) che la persona, prendendo contezza dell’art. 325 TFUE, non potesse (e neppure possa oggi in base a quel solo testo) immaginare che da esso sarebbe stata estrapolata la regola che impone di disapplicare un particolare aspetto del regime legale della prescrizione, in presenza di condizioni del tutto peculiari. Se è vero che anche “la più certa delle leggi ha bisogno di “letture” ed interpretazioni sistematiche”, resta fermo che esse non possono surrogarsi integralmente alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire alle persone “la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione”. Ciò è come dire che una scelta relativa alla punibilità deve essere autonomamente ricavabile dal testo legislativo al quale i consociati hanno accesso, diversamente da quanto accade con la “regola Taricco”. Fermo restando che compete alla sola Corte di giustizia interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e specificare se esso abbia effetto diretto, è anche indiscutibile che, come ha riconosciuto la sentenza M.A. S., un esito interpretativo non conforme al principio di determinatezza in campo penale non possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento.
Il 13 luglio esce la sentenza della Cassazione Penale, Sez. II, n. 32170, che si pronuncia sul reato di adescamento di minorenni, dichiarando manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale del reato di adescamento di minorenne previsto dall’art. 609 undecies, c.p. in relazione agli artt. 13, 25, 21, 27 Cost. perché, integrando un reato di pericolo concreto, volto a neutralizzare il rischio di commissione dei più gravi reati a sfondo sessuale lesivi del corretto sviluppo psicofisico del minore e della sua autodeterminazione, non contrasta con il principio di offensività; necessitando, ai fini della verifica del dolo specifico, del ricorso a parametri oggettivi, dai quali possa dedursi il movente sessuale della condotta, non viola il principio di determinatezza della fattispecie penale; punendo, con una cornice edittale equa proporzionatamente inferiore rispetto a quella prevista per i reati fine, comportamenti idonei a mettere in pericolo un bene giuridico primario, meritevole di intensa tutela, è compatibile con il principio della rieducazione della pena. La Cassazione sancisce perciò la compatibilità del delitto di adescamento diminorenni (art. 609 undecies c.p.), introdotto dalla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, con i principi costituzionali di offensività e di determinatezza. La Corte, nel ribadire la discrezionalità del legislatore nel ricorrere a fattispecie di pericolo, valorizza il carattere “poliforme” del dolo specifico per una più chiara definizione del precetto.
Il 1° ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43264 che definisce l’elemento oggettivo del delitto di devastazione. In particolare, la Corte spiega come il concetto di devastazione, ai fini penalistici, consista in qualsiasi azione, posta in essere con qualsivoglia modalità, produttiva di rovina, distruzione o anche di un danneggiamento – comunque complessivo, indiscriminato, vasto e profondo – di una notevole quantità di cose mobili o immobili, tale da determinare non solo un pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti, e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata, ma anche un’offesa e un pericolo concreti dell’ordine pubblico, inteso come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l’opinione e in senso della tranquillità e della sicurezza.
Il 24 ottobre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 207, in tema di reato di aiuto al suicidio. Sostiene la Corte che il reato di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) non è incostituzionale, in quanto funzionale alla tutela del diritto alla vita, specialmente di persone che potrebbero essere indotte a una scelta estrema e irreparabile da condizioni di debolezza e vulnerabilità. Queste esigenze di tutela vengono meno, tuttavia, nei casi in cui sia già ammesso il diritto di lasciarsi morire rifiutando trattamenti di sostegno vitale. Al soggetto capace di autodeterminarsi, dipendente da tali trattamenti, e che sia altresì affetto da una patologia irreversibile, fonte di insopportabili e non lenibili sofferenze, deve dunque essere riconosciuta la facoltà di ottenere un aiuto nel morire. Trattandosi, tuttavia, di materia che richiede un’articolata disciplina di dettaglio, ad evitare il rischio di abusi e vuoti di tutela, è compito del Parlamento intervenire. Il giudice costituzionale rinvia dunque a una successiva udienza l’eventuale decisione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p., lasciando al legislatore il tempo per approvare una legge rispettosa di tali indicazioni, ed evitando altresì che, nel frattempo, la norma penale possa trovare ancora applicazione ai casi individuati in motivazione. La Corte costituzionale ha “messo in mora” il legislatore affinché disciplini modalità di accesso al suicidio medicalmente assistito da parte di chi sia affetto da patologie irreversibili e sofferenze intollerabili, in deroga al reato di agevolazione del suicidio (deroga desunta, con esiti problematici, dall’ormai consolidato,mainvero differente, diritto di rifiutare trattamenti anche salvavita). Aquel reato però, in linea di principio, si riconosce la valida funzione di salvaguardare la vita di soggetti vulnerabili. Quest’ultima considerazione sembra trovare un fondamento empirico e scientifico in certe acquisizioni suicidologiche, che invitano a non assecondare dinamiche psichiche indotte dalla c.d. suicidal vulnerability; la ratio puniendi ricavabile in virtù di questo approccio segna peraltro, al contempo, un limite di tipicità dell’art. 580 c.p., la cui estensione al caso di chi chieda un aiuto al morire perché versa in una condizione patologica di irrimediabile dolore globale finisce con l’apparire irragionevole. Si può dunque ritenere che, rispetto a questa differente situazione, sia opportuno semmai far operare un diritto non “costrittivo”, che non muove da generalizzazioni e non minaccia pene, ed invece delinea procedure – ispirate dalle migliori prassi di cure palliative – entro le quali la scelta di libertà sul proprio morire da parte di chi sia capace di intendere e volere (art. 8 CEDU) venga orientata da un dialogo rispettoso della sua dignità e della sua singolare, angosciosa esperienza, anche attraverso l’offerta di valide alternative. La norma incriminatrice, in quest’ambito, potrebbe al più operare “a tutela di funzioni”.
2019
Il 17 gennaio esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 2124 che, sulla scorta dell’evoluzione avutasi con la sentenza delle SU Paternò, rimette alle Sezioni Unite la questione relativa alla definizione dei “pubblica riunione” dal momento che in giurisprudenza si rinvengono due orientamenti contrastanti e che tale incertezza è in grado di incidere sulla determinatezza della norma.
Il 31 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 4878 che ribadisce, ai fini del rispetto del canone della tassatività della norma, l’orientamento secondo il quale, nel reato di fronte tossica, per sostanze nocive devono intendersi quelle che possono arrecare concreto pericolo alla salute dei consumatori. Tale pericolosità, quindi, non è data dalla ipotetica ed astratta possibilità di nocumento della sostanza alimentare, ma dalla attitudine concreta di essa a provocare danno alla salute pubblica.
Il 27 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 25 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del d.lgs 159/11 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; dichiara altresì incostituzionale, in via consequenziale, l’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.
La Corte premette che l’abolitio criminis – per ius superveniens o a seguito di pronuncia di illegittimità costituzionale – è cosa diversa dallo sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente di legittimità, che approdi all’esito (simile) di ritenere che una determinata condotta non costituisca reato. In un ordinamento in cui il giudice è soggetto alla legge e solo alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato; l’attività interpretativa del giudice, anche nella forma dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì perimetrare i confini della fattispecie penale circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante, ma rimane pur sempre un’attività dichiarativa, non assimilabile alla successione della legge penale nel tempo. La Corte (sentenza n. 230 del 2012) − in una situazione similare che vedeva la sopravvenienza di un orientamento delle Sezioni unite penali secondo cui non costituiva reato la condotta oggetto di una sentenza di condanna passata in giudicato, di cui era chiesta la revoca ex art. 673 cod. proc. pen. per abolizione del reato − ha sottolineato che, pure in presenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», il giudice rimettente ha soltanto la facoltà, e non già l’obbligo di uniformarsi a esso. E ha ribadito che «[a]l pari della creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la loro abrogazione – totale o parziale – non può, infatti, dipendere, nel disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma soltanto da un atto di volontà del legislatore (eius est abrogare cuius est condere)». Inoltre, si è affermato che l’ordinamento nazionale «conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato» (sentenza n. 210 del 2013). E, con riferimento al procedimento di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, originato da una pronuncia della Grande camera della Corte EDU, ha aggiunto che «il giudicato non costituisce un ostacolo insuperabile che […] limiti gli effetti dell’obbligo conformativo ai soli casi ancora sub iudice»; a maggior ragione è allora rilevante un dubbio di legittimità costituzionale della norma incriminatrice in tutti i casi in cui il giudicato non si è ancora formato, ma sta per formarsi proprio in ragione della pronuncia di inammissibilità del ricorso per cassazione che la Corte rimettente ritiene debba essere emessa, a meno che non sia accolta la questione di costituzionalità e sia dichiarata l’illegittimità della norma incriminatrice.
Entrando nel merito della questione, il parametro nazionale evocato dalla Corte rimettente è il principio di legalità in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che vuole che sia la legge a prevedere che il fatto commesso sia punito come reato, da ciò discendendo il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale. La Corte costituzionale ha valutato la conformità a tale principio della fattispecie penale prevista dall’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, all’epoca vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito in legge 31 luglio 2005, n. 155, che disponeva nel comma 1 che il «contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno» e nel comma 2, allora censurato, che se «l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni». Tra le prescrizioni della sorveglianza speciale la cui violazione poteva integrare il reato era già previsto – dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956 − l’obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. Tali disposizioni (l’art. 5 e l’art. 9) si ritrovano riprodotte negli stessi termini, in parte qua, nell’art. 8 e nel censurato art. 75 cod. antimafia. La Corte ha ricordato che per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce; e, in particolare, ha ribadito che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo»; ha, quindi, concluso ritenendo che la prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi non violasse il principio di legalità in materia penale: da una parte, le «leggi» sono tutte le norme a contenuto precettivo, non solo quelle la cui violazione è sanzionata penalmente; d’altra parte, l’obbligo di «vivere onestamente» va «collocat[o] nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5» e quindi ha il valore di un monito rafforzativo di queste ultime senza un autonomo contenuto prescrittivo.
Dei due parametri convenzionali, evocati nell’ordinanza di rimessione, che però esprimono lo stesso canone di prevedibilità della condotta prevista dalla norma nazionale perché possa giustificarsi una limitazione della libertà personale, è stato preso in considerazione dalla sentenza de Tommaso della Corte EDU, in particolare, l’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione, nella parte in cui pone il principio di legalità con riferimento specifico alla libertà di circolazione che può subire solo le restrizioni «previste dalla legge». Il sistema nazionale delle misure di prevenzione ‒ quanto ai presupposti soggettivi e al loro contenuto − è stato censurato per essere formulato «in termini vaghi ed eccessivamente ampi» tali da non rispettare il criterio della «prevedibilità», come enunciato dalla giurisprudenza di quella Corte. La quale in particolare − pur dando atto della (non collimante) interpretazione accolta dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 282 del 2010 con riferimento all’omologo principio di legalità dell’art. 25, secondo comma, Cost. − ha ritenuto, all’opposto, che gli obblighi di «vivere onestamente e rispettare le leggi» (oltre che di «non dare ragione alcuna ai sospetti», prescrizione questa non più rilevante perché non riprodotta nel citato art. 8 cod. antimafia) non fossero delimitati in modo sufficiente e che, pertanto, fosse violato il principio di prevedibilità della condotta da cui consegue la limitazione della libertà personale, segnatamente quello posto dall’art. 2 del Protocollo n. 4. La pronuncia della Corte EDU è stata decisiva nell’orientare la puntualizzazione giurisprudenziale espressa dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, n. 40076 del 2017 (cosiddetta “sentenza Paternò”); le Sezioni unite penali si sono pronunciate con riferimento alla fattispecie penale di violazione delle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, del tutto analoga a quella oggetto dell’ordinanza di rimessione. La Corte di cassazione si confronta con la sentenza de Tommaso, avendo ben presente che – come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 239 del 2009) − compete al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla CEDU; considera, in particolare, che «la Corte europea, riferendosi al contenuto del “vivere onestamente nel rispetto delle leggi”, sottolinea, quindi, come tali prescrizioni non siano state sufficientemente delimitate dall’interpretazione della Corte costituzionale, in quanto permane una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal sorvegliato speciale, soprattutto nella misura in cui possono integrare la fattispecie penale di cui all’art. 9 legge n. 1423 del 1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011)». La Corte procede quindi a una «rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU» e perviene alla conclusione che «il richiamo “agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno” può essere riferito soltanto a quegli obblighi e a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui poter attribuire valore precettivo. Tali caratteri difettano alle prescrizioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi”». La conclusione è che «le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011». Aggiungono le Sezioni unite: «ad esse tuttavia può essere data indiretta rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale». Quindi, la giurisprudenza di legittimità ha già compiuto il processo di adeguamento e maggiore conformità ai principi della CEDU proprio con riferimento alla fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione: non sussiste il reato previsto dal censurato art. 75, comma 2, allorché la violazione degli obblighi e delle prescrizioni della misura della sorveglianza speciale consista nell’inosservanza dell’obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi.
Tuttavia – per quanto sopra ritenuto in ordine alla rilevanza e all’ammissibilità delle questioni – non si è di fronte a un’abolitio criminis per successione nel tempo della legge penale; ciò comporta che, proprio per l’affermata non riconducibilità dell’orientamento giurisprudenziale sopravvenuto a uno ius superveniens, sussiste non di meno una limitata area in cui occorre ancora domandarsi se la fattispecie penale suddetta, schermata solo dall’interpretazione giurisprudenziale, sia conforme, o no, al principio di legalità in materia penale, vuoi costituzionale che convenzionale. Area questa costituita – come già sopra rilevato − sia dall’esecuzione del giudicato penale di condanna, sia dalla rilevabilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. in caso di ricorso per cassazione recante solo censure manifestamente infondate e quindi inammissibili. In questi stretti limiti si pone, in sostanza, la questione di costituzionalità come possibile completamento dell’operazione di adeguamento dell’ordinamento interno alla CEDU, già fatta dalle Sezioni unite nei limiti in cui l’interpretazione giurisprudenziale può ritagliare la fattispecie penale escludendo dal reato condotte che prima si riteneva vi fossero comprese. L’interpretazione del giudice comune, ordinario o speciale, orientata alla conformità alla CEDU non implica anche necessariamente l’illegittimità costituzionale della disposizione oggetto dell’interpretazione per violazione di un principio o di una previsione della CEDU, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. È ricorrente che gli stessi principi o analoghe previsioni si rinvengano nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia. La Corte costituzionale ha già affermato che, quando viene in rilievo un diritto fondamentale, «il rispetto degli obblighi internazionali […] può e deve […] costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317 del 2009). È quanto si è verificato da ultimo (sentenza n. 120 del 2018) con riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia dalla Costituzione (art. 39) che dalla CEDU (art. 11). Non c’è però, nel progressivo adeguamento alla CEDU, alcun automatismo, come risulta già dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, stante, nell’ordinamento nazionale, il «predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» (sentenza n. 49 del 2015). Da una parte, la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce della Corte costituzionale sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va verificato che il bilanciamento, in una prospettiva generale, con altri principi presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di sistema diversa – o comunque non necessariamente convergente − rispetto a quella sottesa all’accertamento, riferito al caso di specie, della violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla CEDU. Va infatti ribadito che, «[a] differenza della Corte EDU, questa Corte […] opera una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante» (sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l’altro il «margine di apprezzamento» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009).
Vi è poi da considerare che la previsione come reato della violazione, da parte del sorvegliato speciale, dell’obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le leggi» ha, da una parte, l’effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia violazione amministrativa e, dall’altra parte, comporta, ove la violazione dell’obbligo costituisca di per sé reato, di aggravare indistintamente la pena, laddove l’art. 71 cod. antimafia già prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il periodo previsto di applicazione della misura. Può, pertanto, pervenirsi alla conclusione che la norma censurata viola il canone di prevedibilità della condotta sanzionata con la limitazione della libertà personale, quale contenuto in generale nell’art. 7 CEDU e in particolare nell’art. 2 del Protocollo n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost..
Il 27 febbraio esce la sentenza n. 24 della Corte Costituzionale, che si pronuncia dichiarando illegittimo sottoporre alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e alla misura di prevenzione della confisca dei beni le persone che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi”, dovendosi condividere la valutazione di eccessiva genericità dei potenziali destinatari delle disposizioni ora censurate, già espressa nel 2017 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia De Tommaso contro Italia: l’espressione “traffici delittuosi” non è, in particolare, in grado di indicare con sufficiente precisione quali comportamenti criminosi possano dar luogo all’applicazione della sorveglianza speciale o della confisca dei beni, conseguendone la violazione del principio di legalità, che esige che ogni misura restrittiva della libertà personale o della proprietà dell’individuo si fondi su di una legge che ne determini con precisione i presupposti di applicazione. Vanno assunte sufficientemente precise, e dunque conformi al principio di legalità, le disposizioni che consentono di applicare le stesse misure a chi vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose dacché, secondo la giurisprudenza più recente, le misure in questione possono essere applicate solo a chi, sulla base di precisi elementi di fatto, si può ritenere che abbia commesso, in un significativo arco temporale, delitti fonte di profitti che abbiano costituito il suo unico reddito, o quanto meno una componete significativa del reddito: tutti questi elementi devono dunque essere dimostrati dal pubblico ministero o dall’autorità di polizia nel procedimento di prevenzione affinché il Tribunale possa applicare la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza o la confisca dei beni presumibilmente acquistati grazie alle attività delittuose e dei quali il soggetto non possa giustificare l’origine lecita. Restano impregiudicate le norme che consentono di applicare misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di delitti di mafia, terrorismo, violazioni della disciplina sulle armi, violenza sportiva, corruzione, atti persecutori. Va dichiarata dunque l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1); va dichiarata altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 19 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dall’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nell’art. 1, numero 1), della legge n. 1423 del 1956. Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a); va dichiarata altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).
Il 22 marzo esce la sentenza della Cassazione Penale, sez. V, che attua una interpretazione estensiva della responsabilità penale prevista per il direttore del periodico, ai sensi dell’art. 57 c.p.. L’applicabilità dell’art. 57 c.p. all’editoria periodica on line ha subito un revirement interpretativo per mezzo di tale sentenza della V Sezione della Cassazione. Si tratta di una piccola “rivoluzione copernicana”, se si considera che la giurisprudenza di legittimità aveva sempre mantenuto una piena aderenza al principio di tassatività nel negare la responsabilità penale del direttore di un periodico telematico.
Il 27 maggio viene pubblicata in G.U. la legge 21 maggio n. 43, sul “Voto di scambio”, che
modifica all’art. 416 ter c.p. in materia di voto di scambio politico-mafioso Per la terza volta nel giro di appena un lustro, il legislatore è tornato a modificare il delitto di
scambio elettorale politico-mafioso. Pur avendo emendato alcune evidenti imprecisioni contenute
nelle originarie versioni dei disegni di legge presentati in Parlamento, la riforma appena varata si
rivela, però, tutt’altro che soddisfacente. Per un verso, la maggior parte delle novità introdotte
risulta meramente simbolica, nulla apportando in termini di maggiore estensione delle condotte
punibili come invece immaginato dal legislatore; per altro verso, le modifiche relative alla
condotta incriminata ed al piano sanzionatorio appaiono irragionevoli e difficilmente compatibili
con i principî, rispettivamente, di determinatezza, offensività ed extrema ratio, e di proporzionalità
e rieducazione della pena. Ed invero la scelta di incriminare anche la mera disponibilità del
promissario a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione, così come la previsione per
le parti del patto illecito delle stesse pene previste per la partecipazione mafiosa, nonché di
un’aggravante della ‘elezione’ con aumento fisso della metà della pena sembrano entrare in
frizione con i principî costituzionali prima richiamati.
Il 7 giugno esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 141, sulla legge c.d. Merlin. Nell’ambito del caso Tarantini, la Corte d’Appello di Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, nn. 4) e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (c.d. Legge Merlin), nella parte in cui si attribuisce rilevanza penale alla condotta di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione “volontariamente e consapevolmente esercitata”, ravvisando, inter alia, una possibile violazione del principio di necessaria offensività, considerato (già) nella sua dimensione di offensività “in astratto”. Il Giudice delle Leggi ha ritenuto, tuttavia, non fondate le eccezioni in quanto «anche nell’attuale momento storico, quando pure non si sia al cospetto di vere e proprie forme di prostituzione forzata, la scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo». La Consulta, inoltre, nel riaffermare la costituzionalità delle scelte di criminalizzazione in materia di prostituzione, sembra valorizzare una nozione oggettiva (o impersonale) del bene “dignità”.
Il 25 settembre esce la sentenza n. 27 febbraio della Corte Costituzionale, n. 25, che si pronuncia sulla violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, tassatività e frizione con la giurisprudenza CEDU. Sostiene la Corte che l’ inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” non può integrare il delitto di violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, dovendo dunque essere dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 75, secondo comma, del Dlgs n. 59/2011 (Codice antimafia); ciò anche nell’ottica del processo di adeguamento ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo nella sentenza “de Tommaso”, laddove ha riscontrato la vaghezza e la genericità delle prescrizioni di “vivere onestamente e “rispettare le leggi” ed ha perciò affermato la violazione della CEDU; anche le Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza “Paternò’” hanno riconosciuto che tali prescrizioni sono prive di quel contenuto determinato e specifico che sarebbe stato necessario per dare loro un valore precettivo. L’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati – ragion d’essere delle misure di prevenzione – resta comunque soddisfatta dalla facoltà per il giudice di indicare e modulare prescrizioni specifiche nell’ambito della sorveglianza speciale. La pertinente dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa anche al meno grave reato contravvenzionale che si configura quando la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” è commessa dal sorvegliato speciale, senza obbligo o divieto di soggiorno.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui prevede come delitto la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; va dichiarata altresì , in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 1, cod. antimafia, nella parte in cui prevede come reato contravvenzionale la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.
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Il 18 novembre esce la sentenza della Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, n. 46595, che affronta la tematica delle misure di sicurezza e prevenzione, ovvero sulla applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ex art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159/2011, principio di tassatività, CEDU e prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni. La corte afferma il seguente principio di diritto: la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico.La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni unite è la seguente: “Se, ed in quali limiti, la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile, in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli artt. 8 e 75 d. Igs. n. 159 del 2011”.
Sostiene la Corte che l’art. 75, comma 2, d. Igs. n. 159 del 2011 punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni l’inosservanza degli obblighi e prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno. Gli obblighi e le prescrizioni sono dettati dal tribunale che dispone la misura di prevenzione: l’art. 8, comma 2 del d. Igs. n. 159, infatti, prevede che «qualora il tribunale disponga l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 6, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare»; il comma 4 elenca le prescrizioni che il tribunale deve dettare «in ogni caso», tra cui quella «di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza» e quella «di non partecipare alle pubbliche riunioni». La rimessione alle Sezioni Unite è stata disposta per le questioni interpretative concernenti la seconda prescrizione, ma i due ricorrenti sono stati condannati anche per la violazione della prima, di cui si tratterà nella parte finale della presente sentenza. I commi 5 e 6 della norma permettono, inoltre, al tribunale di imporre altre prescrizioni al sorvegliato speciale: tutte quelle «che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale»; alcune di esse sono tipizzate dal legislatore. Il contenuto precettivo del reato di cui all’art. 75 cit., quindi, è costruito per relationem agli obblighi e alle prescrizioni previsti dall’art. 8 dello stesso decreto.
La norma in esame – che costituisce la integrale trasposizione della fattispecie originariamente prevista dall’art. 9, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 – è stata oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; tali pronunce, peraltro, non hanno valutato soltanto la fattispecie penale in sé, ma il complesso normativo relativo alle misure di prevenzione: quindi, la selezione dei destinatari della misura di prevenzione, l’individuazione e la natura delle prescrizioni e degli obblighi che possono o devono essere dettati, la loro sanzionabilità penale in base alla fattispecie incriminatrice in esame. Anche il legislatore è intervenuto su tali tematiche. Si sono, quindi, limitate le categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione cancellando quella dei «proclivi a delinquere» (Corte Cost., sent. n. 177 del 1980) e quella di coloro che dovevano ritenersi «abitualmente dediti a traffici delittuosi» (Corte Cost., sent. n. 24 del 2019); il legislatore del 2011 non ha riprodotto, tra le prescrizioni che devono essere dettate in sede di applicazione della misura della sorveglianza speciale, quelle «di non dare ragioni di sospetto» e «di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in casi di prostituzione», previste dall’art. 5, comma terzo, legge n. 1423 del 1956; le Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò hanno escluso, in via interpretativa, che la fattispecie penale punisca anche la violazione dell’obbligo del sorvegliato speciale di portare con sé ed esibire la carta di permanenza (art. 8, comma 7 D. Igs. n. 159 del 2011), qualificando la condotta come violazione dell’art. 650 cod. pen. (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014, Sinigaglia, Rv. 260019), nonché la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”; con la sentenza n. 25 del 2019 la Corte Costituzionale è intervenuta su tali ultime prescrizioni, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, commi 1 e 2 d. Igs. n. 159 del 2011 nella parte in cui puniscono come contravvenzione o come delitto la loro inosservanza.
Le diverse pronunce hanno affrontato, innanzitutto, il tema della precisione delle norme e della possibilità per l’interessato di conoscere e individuare le condotte vietate e di prevedere le decisioni giudiziarie. La tematica, peraltro, viene in rilievo sotto due profili: l’individuazione delle categorie di soggetti che possono essere sottoposti alle misure di prevenzione e la descrizione degli obblighi e delle prescrizioni dettate al sottoposto alla misura di prevenzione, la cui violazione è sanzionata penalmente.Le due sentenze della Corte Costituzionale già ricordate hanno espunto le categorie dei «proclivi a delinquere» e di coloro «che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi» proprio per la «radicale imprecisione» della descrizione normativa con la conseguente discrezionalità per gli operatori. In conseguenza dei due interventi, l’applicazione delle misure di prevenzione dovrebbe essere ormai limitata a persone effettivamente pericolose nonché in grado di prevedere, in conseguenza delle loro condotte, una decisione in questo senso. Il secondo profilo interessa in questa sede. La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò ha distinto tra le prescrizioni generiche e le prescrizioni specifiche, negando un reale contenuto precettivo delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, in quanto indeterminate e imprecise e non indicanti alcun comportamento specifico da osservare.
Una seconda tematica affrontata è quella del rispetto dei principi di offensività e di proporzionalità. Anche se le misure di prevenzione vengono applicate a soggetti effettivamente pericolosi, non tutte le violazioni delle prescrizioni dettate dal Tribunale possono essere penalmente sanzionate: le Sezioni Unite, Sinigaglia hanno evidenziato che, per essere penalmente sanzionate, le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni devono consistere in condotte «eloquenti, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno»; non è possibile, cioè, «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a soggetto qualitativamente pericoloso»: piuttosto, devono essere puniti soltanto quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità, quelle inosservanze che determinano un “annullamento” di fatto della misura. Sulla base di tali considerazioni, unite all’interpretazione testuale delle norme, è stato affermato che il mancato porto della carta di permanenza non integra il reato di cui all’art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011, ma la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen.
Una terza problematica – contigua, ma non coincidente con la precedente – si interroga sulla legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelare altri diritti costituzionalmente riconosciuti. Proprio con riferimento al divieto di partecipare alle pubbliche riunioni, la Corte EDU, De Tommaso ha espresso preoccupazione per il fatto «che le misure previste dalla legge e applicate al ricorrente comprendono l’assoluto divieto di partecipare a riunioni pubbliche. La legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice». Come osserva incidentalmente l’ordinanza di rimessione, il precetto viene criticato per la eccessiva ampiezza del divieto piuttosto che in rapporto al deficit di conoscibilità: mentre, quanto agli obblighi di vivere onestamente e di rispettare le leggi, la Corte EDU censura la norma che li prevede perché «non formulata in modo sufficientemente dettagliato e [perché] non chiarisce con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere applicate ad una persona», la «preoccupazione» espressa dalla Corte EDU con riferimento al divieto di partecipare a pubbliche riunioni riguarda soprattutto l’assolutezza della compressione della relativa libertà. Non vi è dubbio che il riferimento finale alla «restrizione […] lasciata interamente alla discrezione del giudice» sembra evocare anche il vizio della incertezza del contenuto della prescrizione: si tratta, tuttavia, di un accenno non del tutto chiaro, tenuto conto, da una parte, che il tribunale che applica la misura di prevenzione non ha discrezionalità nel graduare la restrizione della libertà di partecipare alle riunioni pubbliche (che «deve in ogni caso prescrivere» ai sensi dell’art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011), dall’altra che – salva la tematica dell’interpretazione della nozione di “pubbliche riunioni” – la prescrizione, per essere concretamente applicabile, non necessita di ulteriori specificazioni (come, invece, avviene, ad esempio, per la prescrizione «di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una determinata ora», per la quale occorre la specificazione dell’orario nel decreto).
La Corte Costituzionale è ripetutamente intervenuta sul complesso della normativa, come già anticipato, valutandola alla luce delle tre tematiche appena enucleate. Con la sentenza n. 27 del 1959, la Corte risolse in senso affermativo il quesito relativo alla compatibilità delle due prescrizioni in esame con il dettato costituzionale, pur in presenza di limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione, affermando che esse trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge. La Corte osservò che l’art. 13 della Costituzione riconosce la possibilità di restrizioni alla libertà personale, così come gli articoli 16 e 17 ammettono limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno e consentono il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. La Corte escluse che la riserva di legge prevista dalla Costituzione desse luogo ad una «potestà illimitata del legislatore ordinario» e, in qualche modo, delimitò la portata della pronuncia sotto due profili: la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti nelle ipotesi concrete giunte all’esame del giudice e il criterio di interpretazione delle norme in questione. Affrontando il quesito «se […] nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili», la Corte riconobbe un ruolo specifico al giudice penale: «codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte»; il criterio interpretativo da adottare è, comunque, restrittivo: «al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi é sottoposto a misure detentive».
Le due sentenze emesse a seguito della pronuncia della Corte EDU, De Tommaso hanno permesso alla Corte Costituzionale di riassumere e precisare i principi fin qui riportati. In particolare, le due pronunce hanno affrontato il tema della tassatività e della precisione delle fattispecie di pericolosità generica (sentenza n. 24 del 2019) e della legittimità della sanzione penale per la violazione delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» (sent. n. 25 del 2019). Con riferimento alla prima questione, la Corte ha ritenuto che, al di fuori della materia penale, l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto può essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione, risultando essenziale che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa. Quanto, invece, alla legittimità della sanzione penale per le violazioni delle prescrizioni generiche, la Corte, dando atto del giudizio negativo della Corte EDU, ha ritenuto necessario completare l’adeguamento della normativa alla CEDU operato, in via interpretativa, dalle Sezioni Unite, Paternò, osservando che l’esigenza di contrastare il rischio che siano commessi reati «è comunque soddisfatta alle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno».
È già stato ricordato il contenuto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. La prima rimarcava l’importanza dei principi di offensività e di proporzionalità per l’interpretazione delle norme che in questa sede rilevano: richiamando «i severi presidi costituzionali costituiti dagli artt. 13 e 25 della Carta Costituzionale» ed osservando che, così come chiarito dalla Corte Costituzionale, «le prescrizioni imposte al sorvegliato hanno la funzione di garantire la effettività della tutela preventiva, allo scopo di scongiurare (o, almeno, limitare) la commissione di futuri reati», la sentenza affermava che la sanzione penale nei confronti del sorvegliato che non si conformi alle direttive può riguardare solo «condotte “eloquenti”, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle significative misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano o connotano, misure la cui elusione comporterebbe quella sostanziale vanificazione di cui fa parola la sentenza Da Silva» (richiamando un passaggio incidentale della sentenza Sez. 1, n. 793 del 20/3/1985, De Silva, Rv. 170592). Veniva richiamata anche la sentenza della Corte EDU, Labita c. Italia per confermare «la necessità di una stretta correlazione tra misura restrittiva – repressiva e scopo perseguito». La sentenza delle Sezioni Unite, Paternò riprendeva queste considerazioni, sottolineando che la sentenza SU, Sinigaglia supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di “vanificazione” della misura cui si riferisce. Pertanto, non tutte le “inottemperanze” del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità. Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche, la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un “annullamento” di fatto della misura. La norma incriminatrice è posta a tutela dell’interesse dell’autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell’ordine e della sicurezza pubblica, sicché deve escludersi ogni automatismo nella relativa applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato.
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale fin qui riassunto, è possibile rispondere alla questione di diritto sollevata con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite. L’orientamento espresso dalla sentenza Sez. 1, Pellegrini non può essere accolto. La ricognizione della normativa che fa riferimento alle “pubbliche riunioni”, svolta al fine di evidenziare la mancanza di una definizione univoca della nozione, non appare convincente sotto diversi profili. Di per sé, il fatto che un concetto assuma significati differenti (o parzialmente differenti) in diversi settori della normativa non costituisce una anomalia inaccettabile e si riscontra frequentemente; appare, quindi, improprio accostare normative differenti e rivolte a destinatari diversi. In ogni caso, la sentenza non verifica la possibilità di individuare una definizione di “pubblica riunione” che possa essere valida per tutte le norme evidenziate: se il problema è la conoscibilità della norma da parte del destinatario, occorre verificare se le diverse nozioni di “pubblica riunione” costituiscano o meno degli insiemi che presentano un’intersezione comune a tutti; in altre parole, era necessario accertare se esiste una nozione di “pubblica riunione” – ovviamente più ristretta – che tutte le norme contengono, espressamente o meno. Se tale nozione esiste, è possibile ritenere che i destinatari della prescrizione siano in grado di conoscerne il contenuto; non possano, cioè, avere dubbi sul fatto che in una situazione corrispondente a quella nozione ristretta essi stiano sicuramente partecipando ad una “pubblica riunione”.
Questa nozione ristretta e comune a tutte le norme menzionate esiste: è la riunione non occasionale di più persone in luogo pubblico. Ripercorrendo l’analisi delle norme menzionate dalla sentenza citata, si può rilevare, quanto all’art. 266, comma 3, cod. pen., che l’ipotesi di istigazione commessa in luogo pubblico e alla presenza di più persone è espressamente contemplata dal n. 2; quanto all’art. 18 T.U.L.P.S., che la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1958, dichiarando illegittima la norma nella parte in cui impone il preavviso della riunione al questione anche per le riunioni non tenute in luogo pubblico, ha limitato l’obbligo solo a quelle tenute in luogo pubblico; quanto all’art. 4 legge 18 aprile 1975, n. 110, che il divieto di portare armi si applica certamente anche alle riunioni in luogo pubblico. Contrariamente a quanto sostiene la sentenza Sez. 1, Pellegrini, quindi, esiste una soluzione interpretativa che rende determinato il contenuto della norma incriminatrice, elimina l’eccessiva discrezionalità del giudice penale nell’applicazione della norma e permette la conoscibilità del precetto, così orientando il comportamento dei destinatari. 14. Inoltre la sentenza, per sopperire al vizio di indeterminatezza, adotta una “interpretazione convenzionalmente orientata” con la quale sostanzialmente disapplica la previsione normativa senza sollevare una questione di legittimità costituzionale.
Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, la disapplicazione di una disposizione di legge interna da parte del giudice, perché ritenuta non conforme alle previsioni della CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, è illegittima, perché in contrasto con la stessa Costituzione. Alle norme della Convenzione EDU deve, invece, assegnarsi il rango di «fonti interposte», destinate ad integrare il parametro di cui all’art. 117 della Costituzione, il cui primo comma impone al legislatore di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Proprio perché si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi. Pertanto, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, non possa essere risolto in via interpretativa, va esclusa la possibilità di applicare direttamente la norma convenzionale interposta «obliterando il contrario disposto di una norma interna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, non mass. sul punto; Sez. U, n. 34472 del 19/04/2012, Ercolano, non mass. sul punto; Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012, Nicosia, Rv. 25328901, non mass. sul punto): in questo caso, dovrà essere sollevato l’incidente di costituzionalità, e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano. Non si può dimenticare che la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato la legittimità della norma in questione; con la sentenza n. 126 del 1983, anche con riferimento alla possibile violazione del principio di legalità, ritenendo la prescrizione espressa in termini tassativi. Del resto, come già osservato al par. 6, la censura mossa dalla Corte EDU, De Tommaso in ordine alla prescrizione in esame era di natura differente rispetto a quelle formulate per le prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”.
In effetti, la prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni non può essere equiparata all’obbligo di portare la carta di permanenza e alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi, oggetto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò. Nel primo caso la decisione delle Sezioni Unite era basata sul dato formale della mancata inclusione dell’obbligo nelle prescrizioni, sul fatto che la previsione di legge è rivolta principalmente all’autorità che deve compilare e consegnare la carta di permanenza al soggetto e solo dopo al sottoposto e, ancora, sull’estraneità di quell’obbligo alla ratio della misura di prevenzione di sottoporre a sorveglianza particolare il soggetto al fine di prevenire la consumazione di reati. Le Sezioni Unite, Paternò, invece, avevano escluso che gli obblighi di vivere onestamente e rispettare le leggi potessero considerarsi vere e proprie prescrizioni, aventi reale contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici, ma contenendo un mero ammonimento “morale” che, per di più, vale per ogni consociato: la norma, in definitiva, non individua condotte socialmente dannose che devono essere evitate né prescrive quelle socialmente utili che devono essere perseguite. Invece il divieto di partecipare a pubbliche riunioni non grava su tutti gli associati; al contrario, la Costituzione tutela il contrario diritto di riunirsi, anche in luoghi aperti al pubblico. All’esistenza di un diritto corrisponde la possibilità di formulare un divieto, perché la condotta può essere delimitata oggettivamente, il concetto di “riunione” presupponendo una realtà fisica, concreta; in sostanza, si tratta di una prescrizione specifica e non generica. Per di più, la prescrizione è strettamente connessa alla finalità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, poiché la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficoltosa proprio la sorveglianza del sottoposto alla misura di prevenzione, che deve essere rafforzata soprattutto se si tratta di misura accompagnata dall’obbligo o divieto di soggiorno; quindi rende più facile e meno controllabile la consumazione di reati oppure l’incontro con soggetti pregiudicati o sottoposti a misure.
Per quanto appena osservato, la soluzione interpretativa adottata rende superflua la soluzione proposta da Sez. 1, Sassano di una verifica obbligatoria da parte del giudice penale della concreta offensività della violazione della prescrizione. In effetti, si tratta di soluzione che appare forzata e non necessaria. A ben vedere, in conseguenza della riduzione del numero delle prescrizioni obbligatorie penalmente sanzionate ad opera del legislatore, dell’interpretazione delle Sezioni Unite Sinigaglia e Paternò e dell’intervento della Corte Costituzionale, l’art. 8, comma 4 d. Igs. 159 del 2011 ne prevede cinque (di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso, di non associarsi ai pregiudicati o sottoposti a misure, di rimanere la notte in casa, di non detenere e portare armi e di non partecipare a pubbliche riunioni), tutte significative rispetto alla finalità perseguita dal legislatore di consentire una sorveglianza sul soggetto pericoloso al fine di evitare la commissione di reati. Appare ragionevole, quindi, la sanzione penale delle violazioni di quelle prescrizioni che il legislatore indica, appunto, come sintomo della pericolosità del soggetto e finalizzata ad annullare la sorveglianza speciale disposta dal tribunale.
In definitiva, viene affermato il seguente principio di diritto: La prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico».
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Il 20 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale, n. 278, che ribadisce le argomentazioni recentemente sviluppate con la sentenza n. 141 del 2019, affermando la legittimità dell’incriminazione, cui all’art. 3, comma 1, n. 3) e n. 8), prima parte, l. n. 75/1958. Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 3) e 8), prima parte, della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), sollevate, in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Reggio Emilia. Con la sentenza n. 141 del 2019, successiva all’ordinanza di rimessione, la Corte ha già dichiarato non fondate questioni analoghe, sollevate in rapporto alle ipotesi criminose del reclutamento e del favoreggiamento della prostituzione, di cui all’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), prima parte, della legge n. 75 del 1958 (disposizioni che puniscono, rispettivamente, «chiunque recluti una persona al fine di farle esercitare la prostituzione» e «chiunque in qualsiasi modo favorisca […] la prostituzione altrui»). La Corte ha rilevato come tali figure delittuose costituiscano espressione della generale strategia di intervento adottata in materia dalla legge n. 75 del 1958: quella, cioè, di configurare la prostituzione come attività in sé lecita, vietando, però, nel contempo, sotto minaccia di sanzione penale, qualsiasi interazione di terzi con essa, sia sul piano materiale (in termini di promozione, agevolazione o sfruttamento), sia sul piano morale (in termini di induzione). Ciò, nella prospettiva di non consentire alla prostituzione stessa «di svilupparsi e di proliferare». In simile cornice, le fattispecie criminose in discussione – anche nella parte in cui risultano riferibili alla prostituzione volontariamente esercitata – sono state ritenute, dalla Corte, compatibili con il principio di offensività, inteso come precetto che impone al legislatore di limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, presentino un contenuto offensivo di beni o interessi meritevoli di protezione (cosiddetta offensività “in astratto”): precetto che non esclude il ricorso al modello del reato di pericolo (sentenza n. 225 del 2008), anche presunto (sentenze n. 133 del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986), a condizione che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto non risulti irrazionale o arbitraria (sentenza n. 109 del 2016). Di là dalle oscillazioni della giurisprudenza in ordine all’individuazione del bene protetto dalle norme penali della legge n. 75 del 1958 – cui accenna anche l’odierno rimettente – le previsioni punitive in discorso sono apparse rispettose dei canoni dianzi indicati, ove riguardate «nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la prostituzione per scelta». In tale prospettiva, l’incriminazione delle cosiddette “condotte parallele” alla prostituzione, senza rappresentare una soluzione costituzionalmente imposta (potendo il legislatore fronteggiare anche in altro modo i pericoli insiti nel fenomeno considerato), rientra, però, «nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non contrastanti con la Costituzione». Resta ferma, in ogni caso, con riguardo alla disciplina vigente, l’operatività del principio di offensività nella sua proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente prive di ogni potenzialità lesiva (sentenza n. 141 del 2019). Le considerazioni ora ricordate risultano estensibili anche alla fattispecie della tolleranza abituale dell’esercizio della prostituzione, che l’odierno rimettente coinvolge nella verifica di compatibilità con il principio di offensività unitamente a quella del favoreggiamento, già in precedenza scrutinata da questa Corte. A mente dell’art. 3, primo comma, numero 3), della legge n. 75 del 1958, risponde di tale reato «chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si dànno alla prostituzione».La previsione punitiva si colloca specificamente nell’ambito della terna di figure criminose poste a presidio del divieto di esercizio delle case di prostituzione. Il numero 1) dell’art. 3 punisce la costituzione di case di prostituzione; il numero 2), la cessione di un locale a tale scopo; il numero 3) – oggi in esame – il consentire, per acquiescenza abituale dell’esercente, che la prostituzione si svolga all’interno di un pubblico esercizio. La norma incriminatrice censurata costituisce, pertanto, anch’essa espressione della strategia d’intervento, dianzi indicata, che ispira la legge n. 75 del 1958: strategia alla quale è globalmente riferibile la valutazione già operata da questa Corte, in punto di esclusione del contrasto con il principio di offensività. Nessun argomento a sostegno della tesi dell’indeterminatezza del precetto può essere, d’altra parte, ricavato dall’indirizzo giurisprudenziale – cui si fa riferimento anche dall’odierno rimettente – secondo il quale, ai fini della punibilità, la condotta di favoreggiamento deve essersi risolta in un aiuto alla prostituzione, e non già alla persona dedita ad essa. «L’affermazione è, infatti, sintonica al testo della norma censurata – il quale esige che la condotta incriminata favorisca l’attività, e non la persona che la esercita – e mira proprio ad evitare indebite dilatazioni della sfera applicativa della figura criminosa» (sentenza n. 141 del 2019). Le questioni vanno dichiarate, di conseguenza, non fondate.
2020
Il 20 gennaio esce la sentenza della Corte europea diritti dell’uomo, n. 201/17, in tema di app per monitorare le intenziosi di voto. Pronunciandosi su un caso “unghrese” in cui si discuteva della legittimità della decisione delle autorità giudiziarie di infliggere una multa nei confronti di un partito politico che aveva lanciato un’applicazione per gli smartphone che consentiva agli elettori di fotografare, caricare in modo anonimo e commentare i voti non validi espressi durante un referendum sull’immigrazione nell’anno 2016, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con una schiacciante maggioranza (16 voti favorevoli e 1 contrario), ha riscontrato la violazione dell’art. 10 (diritto alla libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha riscontrato in particolare che la disposizione del diritto elettorale nazionale invocata dalle autorità (una violazione del principio dell’esercizio del diritto conformemente allo scopo normativamente richiesto) non aveva consentito al partito politico di prevedere la possibilità di essere sanzionato per aver fornito tale “app”, che aveva costituito un esercizio della libertà di espressione. La notevole incertezza sui potenziali effetti della disposizione aveva superato ciò che era accettabile ai sensi della Convenzione e la mancanza di sufficiente tassatività nella previsione di legge, idonea ad escludere qualsiasi possibile arbitrio e consentire al partito politico di regolare di conseguenza il proprio comportamento, aveva determinato una violazione della norma della Convenzione.
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Il 3 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8544, onde I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla (non) prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata.
Le Sezioni Unite premettono di esser chiamate a risolvere la seguente questione di diritto: «se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna e, conseguentemente, qualora sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile».
Sul tema principale posto dal procedimento si registra effettivamente un contrasto di opinioni nella giurisprudenza di legittimità.
Secondo una prima linea interpretativa, sostenuta da Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, (cui si è uniformata anche Sez. 1, n. 53610 del 10/04/2017, Gorgone), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del diniego di revoca della sentenza di condanna definitiva, inflitta al ricorrente per il delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, commesso prima del 1994, è inammissibile il ricorso all’incidente di esecuzione in quanto, nonostante la contestazione all’imputato di condotta illecita in termini analoghi per titolo di reato e per estensione temporale rispetto a quella ascritta al Contrada, l’accertato deficit di prevedibilità dell’illecito e della pena conseguibile dalla relativa commissione, riscontrato per quest’ultimo condannato, richiede la valutazione della concreta vicenda fattuale e processuale del soggetto che invochi l’applicazione degli stessi principi, che nel caso specifico differiva da quella del Contrada.
La pronuncia in questione non ha natura di sentenza “pilota” e non ha rilevato una carenza strutturale dell’ordinamento italiano da superare mediante una riforma di valenza generale, -uniche situazioni nelle quali possono invocarsi gli effetti favorevoli di una sentenza della Corte EDU richiedendone l’applicabilità a casi non direttamente esaminati, ma analoghi-, ma ha riscontrato il difetto di prevedibilità della qualificazione giuridica del comportamento di agevolazione di un’associazione mafiosa in termini di concorso esterno, piuttosto che di partecipazione all’associazione stessa o di favoreggiamento.
Per poter beneficiare degli effetti di siffatta pronuncia, in cui il limitato deficit strutturale rilevato dal giudice europeo è dipendente da una norma di legge sostanziale, è comunque necessario attivare l’incidente di costituzionalità della disposizione per violazione dell’art. 117 Cost. e, solo qualora intervenga la declaratoria di illegittimità costituzionale, la rimozione o la modifica del giudicato di condanna potranno essere conseguiti mediante proposizione della domanda di revisione europea, – strumento da esperire in via privilegiata ed in termini di priorità logica, secondo le indicazioni della Corte costituzionale nella sentenza n. 113 del 2011- se la rimozione della lesione debba avvenire mediante la riapertura del processo di cognizione, già a suo tempo definito, oppure, in alternativa, dell’incidente di esecuzione in presenza di altre disposizioni di legge che prestabiliscano e consentano di conseguire l’effetto sperato, come nel caso dell’abolitio criminis o dell’adattamento del solo trattamento sanzionatorio, fermo restando il giudizio di responsabilità.
In termini adesivi si pone anche la successiva sentenza sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019, Dell’Utri, che, nel respingere la domanda di revisione europea proposta dal predetto ricorrente, ha interpretato il contenuto della decisione Contrada come privo di valenza generalizzante e riferibile tout court ad ogni caso di condanna per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, pronunciata per fatti verificatisi prima dell’ottobre 1994 e ne ha negato la collocazione nell’ambito di una linea interpretativa consolidata.
Secondo un diverso orientamento invece, prosegue la Corte, l’obbligo di conformazione nascente dall’art. 46 CEDU riguarda soltanto il caso specifico affrontato dalla Corte EDU, i cui principi, privi di portata generale, non sono esportabili in riferimento a situazioni processuali analoghe. Nel caso specifico della sentenza Contrada, in senso ostativo all’estensione si pone la considerazione che nell’ordinamento interno, governato dal principio di legalità formale e di tassatività, non può trovare ingresso una fattispecie penale di creazione giurisprudenziale, tale comunque non potendo definirsi il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, che è frutto della combinazione della norma speciale incriminatrice e della clausola più generale di cui all’art. 110 cod. pen.
In continuità con tale posizione interpretativa si colloca anche la sentenza sez. 1, n. 13856 del n. 13856 del 27/2/2019, con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dall’odierno ricorrente S. G. avverso il provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva respinto la sua richiesta di revoca del giudicato di condanna sul presupposto della negazione della portata generale della sentenza della Corte EDU nel caso Contrada e della relativa esportabilità per la decisione di casi analoghi.
Con l’ordinanza di rimessione – chiosa a questo punto il Collegio – la Sesta Sezione Penale si è confrontata in termini dissenzienti con entrambe le impostazioni citate: alla ricostruzione offerta dalla sentenza Esti e da quelle successive ad essa conformi ha addebitato il fraintendimento della nozione di diritto, in relazione alla quale si è ravvisata da parte della sentenza Corte EDU nel caso Contrada la violazione del principio di legalità, perché, in continuità con quanto già riconosciuto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, nella giurisprudenza della Corte europea tale principio viene riconosciuto e garantito in relazione, sia al diritto di produzione legislativa, sia a quello creato dall’interpretazione giurisprudenziale nell’ambito dell’intervento ricognitivo del contenuto e dell’esatta portata applicativa della disposizione di legge in riferimento ad un caso concreto.
Per la Sezione rimettente, l’essenza della decisione europea sta piuttosto nell’aver posto l’accento, non sulla natura della fonte di produzione, quanto sulle inalienabili qualità di accessibilità e prevedibilità della legge, che, se insussistenti, rendono la pronuncia di condanna in contrasto con la norma convenzionale dell’art. 7.
Anche alla soluzione ermeneutica espressa dalla sentenza Dell’Utri del 2016 l’ordinanza di rimessione ha mosso articolate obiezioni; pur riconoscendo che tale pronuncia ha correttamente individuato nella carenza di prevedibilità della punizione penale la ratio decidendi della determinazione assunta dalla Corte europea, la stessa avrebbe errato nel riferire la prevedibilità dell’incriminazione al piano soggettivo ed individuale dell’imputato, ossia alla relativa condizione ed esperienza personale ed alla linea di condotta difensiva assunta nel processo di cognizione, e non al profilo oggettivo della struttura della disposizione quanto a dato formale ed all’interpretazione giurisprudenziale affermatasi al momento del compimento della condotta.
Al contrario, per la Sesta Sezione Penale, facendo leva sulla nozione di prevedibilità in senso oggettivo e sulla relativa accertata carenza per la ravvisata incertezza circa la riconducibilità dei comportamenti contestati alla fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, oppure ad altre ipotesi criminose di minore gravità quali il favoreggiamento personale, in alternativa alla loro liceità, la Corte europea ha riscontrato un deficit sistemico nell’ordinamento giuridico interno in termini di non prevedibilità della norma incriminatrice e della relativa pena, sicché la pertinente pronuncia riveste portata generale, tale da poter essere estesa anche ad altri condannati per la medesima fattispecie, realizzata prima del febbraio 1994, risultando soltanto di incerta individuazione lo strumento processuale per conseguire tale risultato.
La soluzione del quesito giuridico sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite postula a questo punto, per il Collegio, la preventiva ricognizione dei contenuti decisori della sentenza del 14/04/2015, emessa nel caso Contrada contro Italia dalla Quarta Sezione della Corte EDU, cui era stata devoluta la questione della compatibilità con il diritto convenzionale della condanna, pronunciata dalla Corte di appello di Palermo in data 25/02/2006 per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, commesso da Contrada tra il 1979 ed il 1988, sul presupposto che in riferimento a tale arco temporale in giurisprudenza non era stato ancora univocamente risolto il quesito circa la configurabilità della fattispecie ravvisata e di conseguenza non era possibile prevedere il carattere illecito della condotta e la connessa sanzione, che sarebbero stati oggetto di interventi risolutivi da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione soltanto in epoca successiva con la pronuncia n. 16 del 5/10/1994, Demitry.
La Corte EDU ha accolto la domanda e le ragioni di doglianza di Contrada, cui ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale sofferto a causa della violazione dell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, ritenendo che: «l’evoluzione giurisprudenziale in questa materia, posteriore ai fatti ascritti al ricorrente, dimostra che all’epoca in cui tali fatti sarebbero avvenuti il ricorrente non poteva ragionevolmente prevedere le conseguenze, in termini di sanzione, delle sue presunte azioni, in quanto l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso all’epoca dei fatti era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali divergenti».
Passati in rassegna i principi tratti dalla propria giurisprudenza in ordine alle garanzie riconosciute dall’art. 7 della Convenzione, definite «un elemento essenziale dello stato di diritto» non derogabile nemmeno in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico, la Corte EDU ha precisato che la disposizione non esaurisce la propria portata nella proibizione dell’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato, ma sancisce il principio della legalità dei delitti e delle pene nullum crimen, nulla poena sine lege, vietando di estendere il campo di applicazione dei reati già esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano illecito penale ed anche di applicare la legge penale in modo estensivo a sfavore dell’imputato, come nel caso del ricorso all’analogia.
La chiara definizione dei reati e delle pene con le quali essi sono puniti si realizza se la persona sottoposta a giudizio può conoscere dal testo della disposizione pertinente, con l’ausilio dell’interpretazione giudiziale e di consulenti, per quali atti e omissioni viene attribuita la responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti. Ed è compito della stessa Corte europea, non già di interpretare il diritto di ciascuno Stato membro o di offrire qualificazione giuridica ai fatti oggetto del processo, funzione demandata ai giudici nazionali, ma di verificare che all’epoca della commissione del comportamento, oggetto di incriminazione e di condanna, «esistesse una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione», in modo tale che il risultato dell’attività cognitiva giudiziale sia stato rispettoso dell’art. 7 della Convenzione.
Premesse tali affermazioni di principio – chiosa ancor il Collegio – la Corte sovranazionale ha osservato che nel caso del Contrada, secondo indicazione concorde e pacifica tra le parti, il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso ha origine giurisprudenziale e che la relativa sussistenza era stata oggetto di soluzioni divergenti nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità nel lasso temporale in cui l’imputato aveva tenuto i comportamenti incriminati.
Ha quindi affermato che solo con la sentenza delle Sezioni Unite Demitry si è ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno, mentre la sentenza di condanna, emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, per pervenire al giudizio di colpevolezza si era basata su affermazioni di principio desunte da pronunce delle Sezioni Unite, tutte posteriori ai fatti ascritti all’imputato.
Ha, infine, concluso nel senso che «il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry», sostenendo che all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti (1979-1988) «il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo», così escludendo che il ricorrente avesse potuto conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti e in tal modo ha riconosciuto la lamentata violazione dell’art. 7 della Convenzione.
La vicenda personale del ricorrente Contrada è proseguita anche dopo la citata sentenza della Corte EDU a seguito della proposizione presso gli organi giudiziari interni, da un lato della domanda di revisione della condanna, che, una volta respinta dalla Corte di appello di Caltanissetta, era stata coltivata mediante ricorso per cassazione, cui però l’interessato aveva rinunciato, dall’altro di incidente di esecuzione per ottenere la conformazione alla pronuncia della Corte sovranazionale: in riferimento a quest’ultima iniziativa, respinta dalla Corte di appello di Palermo, il successivo ricorso è stato accolto dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione, che, con sentenza n. 43112 del 6/07/2017, Contrada, ha dichiarato ineseguibile nei suoi confronti la sentenza di condanna passata in giudicato.
Il quesito all’odierno esame richiede per la Corte di affrontare il tema preliminare dell’individuazione della natura e della portata della decisione della Corte EDU nel caso Contrada contro Italia.
Il ricorrente S.G., senza essere destinatario di una pronuncia favorevole della Corte EDU di contenuto sovrapponibile a quella conseguita dal Contrada, ne invoca gli effetti vantaggiosi per conseguire la revoca della sentenza definitiva di condanna sul presupposto del riscontro da parte della Corte sovranazionale di una violazione di ordine generale, tale da travalicare il singolo caso risolto e da imporre allo Stato convenuto l’obbligo giuridico di conformazione ai principi affermati dalla stessa Corte EDU in favore del Contrada, in modo da impedire il futuro ripetersi di analoghe trasgressioni nell’interesse generale dei soggetti che, pur senza avere adito la Corte europea, versino in situazione identica a quella già da questa vagliata.
Ad avviso delle Sezioni Unite, non può convenirsi con la tesi difensiva, come recepita dalla Sezione rimettente. Il ricorrente non può invocare in proprio favore l’applicazione diretta dell’art. 46 della CEDU, per il quale «gli Stati contraenti sono tenuti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte», non essendo stato parte del giudizio al cui esito è stata pronunciata la sentenza Contrada.
S’impone quindi la verifica circa la sussistenza delle condizioni che legittimino l’attribuzione alla stessa decisione dell’idoneità all’applicazione generalizzata degli affermati principi e la riferibilità della violazione dell’art. 7 CEDU a tutti i casi di condanna già irrevocabile per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, consumato in epoca antecedente al febbraio 1994. La soluzione risiede nella considerazione della natura della violazione della norma convenzionale riscontrata e dei rimedi per la relativa eliminazione.
E’ opportuno premettere – chiosa ancora il Collegio – che nel sistema convenzionale l’espansione degli effetti di una decisione della Corte EDU ad altri casi non oggetto di specifica disamina rinviene una base normativa nell’art. 61 del regolamento CEDU, per il quale, ove venga rilevata una violazione strutturale dell’ordinamento statale, causa della proposizione di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, é possibile adottare una sentenza “pilota“, che indichi allo Stato convenuto la natura della questione sistemica riscontrata e le misure riparatorie da adottare a livello generalizzato per conformarsi al decisum della sentenza stessa con eventuale rinvio dell’esame di tutti i ricorsi, fondati sulle medesime ragioni, in attesa dell’adozione dei rimedi indicati.
Oltre a tale strumento, è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perché, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all’esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione.
La nozione di sentenza a portata generale trova fondamento positivo nel comma 9 del predetto art. 61, il quale stabilisce testualmente che: «Il Comitato dei Ministri, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il Segretario generale del Consiglio d’Europa e il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa sono informati sistematicamente dell’adozione di una sentenza pilota o di qualsiasi altra sentenza in cui la Corte segnali l’esistenza di un problema strutturale o sistemico all’interno di una Parte contraente».
In tali situazioni il riscontro della violazione dei diritti individuali del proponente il ricorso contiene in sé anche l’accertamento di lacune ed imperfezioni normative o di prassi giudiziarie, proprie dell’ordinamento interno scrutinato, contrarie ai precetti della Convenzione, che assumono rilevanza anche per tutti coloro che subiscano identica violazione, sicché l’obbligo di adeguamento dello Stato convenuto trascende la posizione del singolo coinvolto nel caso risolto, ed investe tutti quelli caratterizzati dalla sussistenza di una medesima situazione interna a portata generale di contrarietà alle previsioni convenzionali.
Se ne trae conferma dalla giurisprudenza della Corte EDU che, sin dalla sentenza della Grande Camera del 13/07/2000 nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, ha affermato il principio, poi più volte ribadito, per il quale «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell’equa soddisfazione prevista dall’art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» aventi contenuto ripristinatorio, ossia quegli interventi specificamente suggeriti dalla Corte europea, oppure individuati in via autonoma dallo Stato condannato, purché idonei ad eliminare il pregiudizio subito dal ricorrente, che deve essere posto, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non si fosse verificata l’inosservanza delle norme della Convenzione (in termini Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, GC, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, GC, 08/04/2004, Assanidze c. Georgia).
Ulteriori significative indicazioni provengono in tal senso anche dalla giurisprudenza costituzionale, che, impegnatasi più volte nel definire i rapporti tra giudice europeo e giudice interno nell’attività di interpretazione della legge nel rispetto della gerarchia delle fonti di produzione normativa, ha assegnato valore vincolante e fondante l’obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale alla statuizione contenuta in sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l’ha originata, «tenda ad assumere un valore generale e di principio» (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; sent. n. 49 del 2015).
A fronte di tali presupposti, allo Stato convenuto ed al relativo giudice non è consentito negare di dar corso alla decisione adottata dalla Corte di Strasburgo e di eliminare la violazione patita dal cittadino mediante i rimedi apprestati dall’ordinamento interno.
Qualora, invece, non ricorrano tali presupposti, compete al giudice interno applicare ed interpretare le disposizioni di legge, operazione da condursi in conformità alle norme convenzionali ed al significato loro attribuito dall’attività esegetica compiuta dalla Corte EDU, alla quale è rimessa una «funzione interpretativa eminente» sui diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione e dai relativi Protocolli secondo quanto previsto dall’art. 32 CEDU, al fine di realizzare la certezza e la stabilità del diritto (Corte cost., sent. nn. 348 e 349 del 2007).
Gli approdi, definitivamente acquisiti, della giurisprudenza costituzionale mostrano lo sforzo compiuto per conciliare autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione con la Corte europea, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso e riceva effettiva attuazione.
Si è affermato che il giudice comune, nell’interpretare la disposizione del proprio ordinamento interno deve recepire i contenuti della «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» e, qualora, facendo ricorso a tutti gli strumenti di ermeneutica praticabili, la ravvisi in contrasto con i precetti della Carta costituzionale, non potendo disapplicarla, deve investire il giudice delle leggi della questione di costituzionalità della norma stessa in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost., spettando poi a quest’ultimo pronunciarsi in adesione alla giurisprudenza europea, se uniforme e consolidata, salvo che in via eccezionale non ne riconosca la difformità dalla Costituzione.
In questa residuale ipotesi, il giudice delle leggi non può sostituirsi alla Corte EDU nell’interpretare le disposizioni della Convenzione, pena l’usurpazione di prerogative altrui in violazione dell’impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione del trattato internazionale, ma deve operare un giudizio di bilanciamento, finalizzato a verificare la sussistenza di un vuoto di tutela normativa rilevante in relazione ad un diritto costituzionalmente garantito.
Nel diverso caso, in cui il giudice interno ravvisi l’incompatibilità tra la norma nella lettura offertane dal diritto vivente europeo e la Costituzione, in assenza di un “diritto consolidato” il relativo dubbio è sufficiente per negarvi i potenziali contenuti assegnabili secondo la giurisprudenza sovranazionale e per operarne l’interpretazione costituzionalmente orientata, -doverosa e prioritaria rispetto a qualsiasi altra possibile-, che esclude la necessità di sollevare incidente di costituzionalità (Corte cost., sent. n. 113 del 2011; sent. n. 311 del 2009).
Rileva che, nel condurre tali verifiche, il giudice comune non resta relegato nella posizione di mero esecutore o di recettore passivo del comando contenuto nella pronuncia del giudice europeo, poiché una tale subordinazione finirebbe per violare la funzione assegnatagli dall’art. 101, comma 2, Cost. ed eludere il principio che ne prevede la soggezione soltanto alla legge e non ad altra fonte autoritativa, principio che non soffre eccezioni neppure in riferimento alle norme della CEDU, che hanno valenza nell’ordinamento interno grazie ad una legge ordinaria di adattamento.
Il giudice nazionale dispone quindi di un margine di apprezzamento del significato e delle conseguenze della pronuncia della Corte EDU, purché ne rispetti la sostanza e la stessa esprima una decisione che si collochi nell’ambito del diritto consolidato e dell’uniformità dei precedenti, mentre «nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo» (Corte cost., sent. n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009).
Ha avvertito la Consulta che l’esigenza di rispettare indicazioni esegetiche conformi e costanti, stabili rispetto ad altre pronunce della stessa Corte sovranazionale, nasce dalla constatazione della vocazione casistica dei relativi interventi decisori, legati alla situazione concreta esaminata e del loro flusso continuo di produzione in riferimento ad una pluralità e varietà di corpi legislativi di riferimento; non dipende, pertanto, dalla negazione della natura vincolante delle pronunce emesse dalle singole sezioni, piuttosto che dalla Grande Camera, quanto dalla necessità di individuare un pronunciamento che non sia isolato o contraddetto da altri di segno diverso (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; n. 49 del 2015).
Del resto, è l’art. 28, comma 1 lett. b), come modificato dal Protocollo addizionale n. 14 della CEDU, a conferire un maggiore grado di autorevolezza e di capacità persuasiva alle pronunce espressive di un principio consolidato, tanto da consentire che la decisione sul ricorso individuale sia adottata da un comitato di tre giudici, anzichè da una Camera nella composizione ordinaria di sette giudici, e che la stessa sia direttamente definitiva, quando la questione di interpretazione ed applicazione delle norme della Convenzione o dei relativi Protocolli all’origine della causa è oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte.
Nozione questa che è stata costantemente richiamata e considerata quale criterio selettivo degli obblighi di adeguamento per il giudice interno dalla Consulta sino alle sue più recenti pronunce (Corte cost., sent. nn. 187/2015; 36/2016; 102/2016; 200/2016; 68/2017; 43/2018; 25/2019; 66/2019), per le quali «la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce di quella Corte sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011)» (sent. n. 25/2019), nonché dalle Sezioni Unite, sia civili (n. 9142 del 06/05/2016), che penali (n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta).
La Corte costituzionale, consapevole delle difficoltà per il singolo interprete di riconoscere nel contesto della giurisprudenza europea sui diritti fondamentali un orientamento contrassegnato da adeguato consolidamento, ha individuato i seguenti criteri negativi da impiegare a tal fine: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano» (sent. n. 49/2015).
La ricorrenza di tutti o di alcuni di tali indici svincola il giudice comune dal dovere di osservanza della linea interpretativa adottata dalla Corte EDU nella risoluzione della singola fattispecie concreta.
La Sezione rimettente – prosegue la Corte – ha evidenziato al riguardo che la portata interpretativa della citata sentenza n. 49 del 2015 nei termini come sopra riassunti avrebbe ricevuto smentita ad opera della sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 28/06/2018, G.I.E.M. ed altri c. Italia, per la quale le proprie «sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate» (§ 252).
Osservano a questo punto le Sezioni Unite che, non soltanto tale lapidaria affermazione non è corredata da nessun rilievo esplicativo, che ne chiarisca il significato in correlazione ed a confutazione delle diffuse e puntuali argomentazioni del giudice costituzionale italiano, ad eccezione delle annotazioni di un giudice di minoranza dissenziente, ma la stessa non pare avere nemmeno colto l’essenza del principio enunciato dalla Corte costituzionale, affidato, non già alla composizione numerica dell’organo giudicante ed alla relativa maggiore autorevolezza, quanto all’inserimento della singola pronuncia in un orientamento coerente con i precedenti, che renda acquisito il principio di diritto enunciato.
Inoltre, non può sostenersi che la teoria del diritto consolidato costituisca un espediente per avvalorare prassi esegetiche elusive dell’obbligo di dare piena esecuzione alle sentenze della Corte EDU. Attenta dottrina ha evidenziato che proprio la sentenza G.I.E.M. contro Italia offre conferma della fondatezza del criterio prudenziale, prescelto dal giudice costituzionale, allorché nel 2015 non aveva recepito i principi dettati dalla sentenza Varvara contro Italia del 29/10/2015, laddove si era affermato che la confisca di terreni abusivamente lottizzati, misura che realizza una pena, pretende che il reato non sia prescritto e che sia pronunciata una condanna, e non aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380: tali principi non si ascrivono, infatti, al diritto consolidato, perché successivamente smentiti o fortemente limitati nella loro portata proprio dalla Grande Camera nel 2018, i cui esiti, differenti dal precedente pronunciamento, non avrebbero potuto vanificare gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale nel frattempo eventualmente intervenuta, per loro natura definitivi e non suscettibili di revoca.
La considerazione della sentenza nel caso Contrada in base ai principi esposti consente per le SSUU di escludere che essa rientri nello schema formale della sentenza pilota e che sul piano contenutistico contenga l’affermazione, esplicita e chiaramente rintracciabile dall’interprete, della natura generale della violazione riscontrata.
Al contrario, prosegue il Collegio, essa si sviluppa mediante l’esame del caso specifico ed analizza l’imputazione elevata al ricorrente nel processo celebrato a relativo carico, la linea di difesa adottata, le risposte giudiziarie ottenute ed i relativi percorsi giustificativi, incentrati sul tema della definizione giuridica del fatto e della sua prevedibilità. Esprime quindi il giudizio finale di violazione dell’art. 7 CEDU in termini strettamente individuali, ma senza specificare se la trasgressione rilevata riguardi il primo o il secondo periodo dell’art. 7, § 1, ossia se risieda nell’accertamento in sé di responsabilità penale, oppure nel titolo e nella connessa punizione, come pare potersi dedurre dal seguente inciso conclusivo della motivazione, secondo cui «Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti» (§ 74, cit.).
Infine, la sentenza non è corredata da una qualsiasi indicazione in ordine ai rimedi adottabili, suscettibili di applicazione individuale a favore del ricorrente vittorioso, oppure generalizzata nei riguardi di soggetti protagonisti di casi identici o similari per prevenire il futuro ripetersi di violazioni analoghe a quella accertata. Queste ultime considerazioni sono state rappresentate dal Governo italiano in replica alla richiesta, formulata dal Dipartimento per l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU 1’8 febbraio 2018, di informazioni sullo stato dell’adozione di misure generali, conseguenti alla sentenza sul caso Contrada, come già detto non specificate nella loro consistenza, nel senso della non necessità di rimedi sistemici e della sollecitazione ad una revisione del pronunciamento, siccome affetto da errori di fatto e di diritto.
Resta allora da verificare – chiosa ancora la Corte – se alla pronuncia in esame possa assegnarsi portata generale, secondo quanto previsto dal comma 9 del citato art. 61, e se vi sia ricavabile il riscontro di una carenza di ordine strutturale nel sistema giuridico italiano, derivante dal testo delle norme di legge pertinenti, lesiva dell’interesse non soltanto del singolo ricorrente, ma di una pluralità di soggetti trovatisi nella medesima situazione processuale.
L’unico profilo che potrebbe autorizzare siffatta conclusione riguarda la stigmatizzazione del contrasto interpretativo, emerso nella giurisprudenza interna, sulla configurabilità quale fattispecie di reato autonoma del concorso esterno in associazione mafiosa, con la conseguente incertezza sulla relativa illiceità penale e sulla pena conseguente, pregiudizievole per l’imputato per l’origine giurisprudenziale della fattispecie stessa.
A ben vedere però – chiosa ancora il Collegio – il giudizio espresso nella sentenza Contrada si sviluppa, sia sul piano oggettivo, allorché rileva la carenza di sufficiente chiarezza del reato, sia al contempo su quello soggettivo per la ritenuta imprevedibilità dell’incriminazione delle condotte compiute e della loro punizione da parte dell’imputato alla stregua dell’andamento del processo di cognizione, delle difese articolate e dei contenuti motivazionali delle decisioni susseguitesi. Come puntualmente osservato nella citata sentenza Dell’Utri del 2016, la Corte EDU «pur evidenziando le criticità derivanti dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa non realizza – a ben vedere — una considerazione generalizzata di illegittimità convenzionale di qualsiasi affermazione di responsabilità, per fatti antecedenti al 1994, divenuta irrevocabile».
Tale considerazione, che si condivide perché aderente alle statuizioni della pronuncia, priva dell’indicazione di misure ripristinatorie, impersonali ed universali, sarebbe già in sé sufficiente per negare l’efficacia estensiva della decisione Contrada nei riguardi di altri condannati per la medesima fattispecie di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, ravvisata per comportamenti agevolativi dell’organizzazione, realizzati prima dell’anno 1994.
Ma ulteriore e non meno rilevante ragione – precisa ancora la Corte – milita a favore di tale conclusione.
Considerata alla stregua dei criteri orientativi, formulati dalla giurisprudenza costituzionale, la pronuncia non costituisce espressione di un diritto consolidato, ossia non si inserisce in un filone interpretativo uniforme, costantemente rintracciabile in pronunce di analogo tenore argomentativo e dispositivo. Non risultano, infatti, in precedenza, ma nemmeno dal 2015 ad ora, ulteriori decisioni di accoglimento di ricorsi proposti da soggetti, condannati dallo Stato italiano per la identica fattispecie di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., quanto alla carente prevedibilità della natura di illecito penale delle condotte compiute ed alla pena discendente.
Ed anche il ricorso proposto da Marcello Dell’Utri in data 30 dicembre 2014 per far valere analoga violazione, sovrapponibile a quella del Contrada, a distanza di oltre cinque anni è tuttora pendente e non è stato deciso.
Inoltre, come segnalato in più contributi dottrinali, nella giurisprudenza europea non è dato nemmeno rinvenire una univoca e costante impostazione interpretativa ed applicativa dei concetti di accessibilità e prevedibilità del diritto penale, intesi quale possibilità materiale per il cittadino di prendere anticipata conoscenza del comando normativo penale e precognizione delle conseguenze punitive in caso di relativa trasgressione, entrambi requisiti qualitativi del principio di legalità.
Se è ricorrente nelle sentenze della Corte EDU l’affermazione che, privilegiando l’approccio sostanzialistico rispetto a quello formale e la tradizione giuridica dei paesi di common law, intende il diritto nella più ampia accezione di corpo precettivo e sanzionatorio di formazione, sia legale, che giurisprudenziale, sul presupposto che le pronunce giudiziali contribuiscono a chiarire il significato e l’ambito applicativo della regola generale ed astratta, promanante dalla fonte di produzione parlamentare, non altrettanto unico ed invariato è il criterio in base al quale si è esercitato il sindacato sulla prevedibilità del comando e della sanzione nel valutare i casi giudiziari già risolti dai giudici nazionali, così come non sono costanti e sovrapponibili gli esiti di tale verifica, raggiunti in base ai medesimi criteri.
In numerose pronunce, sia precedenti, che successive a quella resa nei confronti del Contrada, è accolta la concezione soggettiva della prevedibilità, apprezzata in riferimento ad attività professionali, qualifiche ed esperienze individuali, dalle quali si è ricostruito il dovere per l’imputato, nonché la materiale possibilità, di conoscere l’illiceità penale dei comportamenti che aveva in animo di tenere, nonostante la relativa proibizione non fosse stata ancora trasfusa in un testo normativo o non fosse stata oggetto di precedenti interpretazioni giudiziali (Corte EDU, 01/09/2016, X e Y c. Francia; 6/10/2011, Soros c. Francia; 10/10/2006, Pessino c. Francia; 28/03/1990, Groppera Radio AG c. Svizzera).
In altre situazioni la Corte europea ha fatto ricorso, non al patrimonio di conoscenze personali del soggetto giudicato, ma al dato formale del contenuto precettivo della legge, puntuale e determinato, e dell’interpretazione giudiziale già formatasi in precedenza (Corte EDU, 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; GC, 15/11/1996, Cantoni c. Francia; GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna).
In altre ancora è stata oggetto di valutazione l’evoluzione della considerazione sociale del comportamento come antigiuridico, ritenendo prevedibile l’incriminazione persino se in contrasto con un testo normativo dal tenore liberatorio e pur in assenza di indicatori orientativi oggettivi (Corte EDU, 22/11/1995, S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito; 24/05/1988, Muller c. Svizzera).
La sentenza Contrada rivela, come già detto, l’impiego di una combinazione di criteri, quello soggettivo incentrato sulla condotta processuale del ricorrente e quello, che è preponderante, propriamente oggettivo, basato sull’assenza di una norma precisa e chiara e di una interpretazione giurisprudenziale univoca, situazione superata soltanto da un intervento giudiziale delle Sezioni Unite successivo ai fatti accertati.
Nel panorama delle decisioni della Corte dei diritti fondamentali l’inedito rigore col quale è stata risolta la vicenda Contrada, che avrebbe conseguito un ben diverso epilogo, se soltanto fosse stata apprezzata alla luce del criterio soggettivo o di quello basato sulla considerazione sociale, si contraddistingue, oltre che per il metro di apprezzamento della prevedibilità, anche per il fatto di avere superato i rilievi in precedenza ed anche in seguito espressi sul necessario ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all’interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell’art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l’essenza del reato e quale sviluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata.
La Corte EDU aveva in precedenza sostenuto: «per quanto chiaramente formulata sia una previsione, in ogni sistema legale, ivi incluso il diritto penale, esiste un inevitabile elemento di interpretazione giudiziale L’art. 7 della Convenzione non può essere inteso nel senso che pone fuori dal quadro convenzionale la graduale chiarificazione delle regole relative alla responsabilità penale attraverso l’interpretazione giudiziale, in relazione ai casi concreti, quante volte lo sviluppo conseguente sia coerente con l’essenza dell’incriminazione e possa essere ragionevolmente previsto» (S.W. c. Regno Unito, citata, § 36).
Analoghi concetti – prosegue la Corte – erano stati espressi nella nota sentenza della Grande Camera, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna (si vedano altresì Kokkinakis, sopra citata, § 40, e Cantoni, sopra citata, § 31), con la quale la medesima Corte aveva ravvisato la violazione dell’art. 7 CEDU a ragione di un improvviso mutamento giurisprudenziale nel diniego di benefici penitenziari, che, per la relativa subitaneità ed il contrasto con le prassi applicative a lungo osservate in precedenza, non era «equivalso a un’interpretazione del diritto penale che seguiva una linea percettibile dello sviluppo giurisprudenziale» (§ 115).
Indicazioni conformi sono leggibili nelle pronunce della Grande Camera, 22/03/2001, Streletz, Kessler e Krenz c. Germania (§ 50 e 82) e 17/05/2010, Kononov c. Lituania (§ 185) e, proprio in riferimento a questioni insorte in riferimento all’ordinamento giuridico italiano, 17/9/2009, Scoppola c. Italia, mentre anche la recente pronuncia, resa il 17/10/2017 nel caso Navalnyye c. Russia, si è posta nel solco di quelle sopra citate.
Va poi aggiunto – chiosa ancora il Collegio – che è nota una pronuncia della medesima Corte, nella quale l’esistenza contestuale negli interpreti di visioni esegetiche difformi in ordine alla configurabilità di un reato, nella specie quello di genocidio nell’ambito dell’ordinamento tedesco, non disciplinato espressamente, ma tratto da norme internazionali pubbliche, non è stata ritenuta causa di violazione del principio di legalità, sebbene quella accolta nei confronti del ricorrente fosse stata l’interpretazione sfavorevole all’imputato, non restrittiva e mai applicata in precedenza (Corte EDU, 12/07/2007, Jorgic c. Germania).
Le superiori considerazioni convincono le SSUU del carattere peculiare della decisione in esame, condivisibilmente definito atipico o anomalo da parte della dottrina e meritevole di più attenta rielaborazione, anche perché basato su presupposti di fatto non correttamente percepiti: essa si inserisce in un contesto in cui, per la vocazione naturalmente casistica delle decisioni, risulta mutevole e di volta in volta diverso il criterio adottato per riconoscere la prevedibilità dell’esito giudiziario e di tale variabilità di valutazioni è consapevole anche la Sesta Sezione Penale nell’ordinanza di rimessione, che le richiama, pur senza trarne la dovuta conseguenza dell’impossibilità di estrarne un principio di diritto consolidato, oltre che chiaramente espresso in ordine alla tipologia di violazione ravvisata.
Né in senso contrario è sufficiente il solo dato dell’inserimento della sentenza Contrada nella guida all’interpretazione dell’art. 7 CEDU, predisposta dalla stessa Corte europea, in riferimento al concetto di prevedibilità, posto che tale catalogazione attiene all’individuazione della norma convenzionale ritenuta violata, senza che se ne possa inferire la riconducibilità della decisione ad un indirizzo uniforme e coerente.
Ne discende che, ad avviso delle Sezioni Unite, la statuizione adottata nei confronti del ricorrente Contrada dalla Corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori dello specifico caso risolto e non consente di affermare in termini generalizzati l’imprevedibilità dell’incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per avere commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale prima della sentenza Demitry e che non abbiano adito la Corte europea, ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole.
Plurimi profili di criticità, non considerati nell’ordinanza di rimessione e nemmeno nelle pur articolate prospettazioni difensive, inducono la Corte a ritenere che l’applicazione del concetto di prevedibilità, contenuto nella sentenza Contrada, non sia esportabile nei riguardi di altri soggetti già condannati irrevocabilmente per la stessa fattispecie e nello specifico dell’odierno ricorrente G., nemmeno ai fini di un’interpretazione convenzionalmente orientata del principio di legalità, che possa condurre al positivo apprezzamento della relativa istanza di revisione della condanna.
In primo luogo, è singolare e non rispondente al reale contenuto delle decisioni adottate nel panorama giurisprudenziale interno sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa, intervenute prima del 1994, l’affermazione circa la «creazione giurisprudenziale» della fattispecie. L’errore che vi si annida, indotto dalla concorde deduzione delle parti, non riguarda tanto l’individuazione del formante della regola applicata, pronuncia giudiziale in luogo di atto legislativo, che di per sé non si concilia col principio, proprio dell’ordinamento nazionale, di riserva di legge di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e crea insormontabili difficoltà di adattamento al sistema di legalità interno, in cui la giurisprudenza ha soltanto una funzione dichiarativa (Corte cost., sent. n. 25 del 2019) e di cui la Corte europea pare non essersi avveduta, quanto piuttosto la totale pretermissione della considerazione della base legislativa dalla quale muoveva l’interpretazione poi accolta dalle Sezioni Unite Demitry.
La configurabilità come reato del concorso esterno in associazione mafiosa – chiariscono le SSUU – non è stato l’esito di operazioni ermeneutiche originali e svincolate dal dato normativo, operate dalla giurisprudenza di legittimità ex abrupto in termini innovativi rispetto allo spettro delle soluzioni praticabili già affermate; al contrario, discende dall’applicazione in combinazione di due disposizioni già esistenti nel sistema codicistico della legge scritta, pubblicata ed accessibile a chiunque, ossia degli artt. 110 e 416-bis cod. pen., la prima norma generale sul concorso di persone, la seconda avente funzione più specificamente incriminatrice ed è l’approdo di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che si era svolto in parallelo anche sul tema sulla definizione della condotta punibile di partecipazione, rientrante nell’ipotesi di cui all’art. 416-bis cod. pen..
Come evidenziato in dottrina e da sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, tale esito è stato il portato di una riflessione teorica, che, dall’epoca postunitaria, si è sviluppata mediante plurimi riconoscimenti giudiziari dell’ammissibilità del concorso nel reato a plurisoggettività necessaria a fronte di condotte in vario modo agevolatrici, compiute in favore o del singolo associato, ovvero dell’attività dell’associazione di per sé considerata, non integranti il fatto tipico della partecipazione.
Riconoscimento operato in riferimento, sia all’associazione a delinquere, sia a quella di tipo politico eversivo. Tale percorso era giunto già nel corso degli anni ottanta del secolo scorso a riferire i medesimi concetti anche alla fattispecie di associazione di stampo mafioso, introdotta nell’ordinamento dalla legge 13 settembre 1982, n. 646, in relazione a fenomeni di contiguità con la mafia, aventi come protagonisti soggetti non formalmente affiliati, ma di estrazione imprenditoriale, politico-amministrativa o appartenenti alle forze dell’ordine: in tal senso si erano espresse la sentenza sez. 1, n. 3492 del 13/06/1987, dep. 1988, Altivalle, Rv. 177889 ed altre coeve e successive, ma antecedenti alla pronuncia Demitry.
Inoltre, la prima decisione del giudice di legittimità ad avere esaminato l’ipotesi del concorso esterno (Sez. 1, n. 8092 del 19/01/1987, Cillari), aveva rielaborato principi già affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nei precedenti decenni a partire da Sez. 1, n. 1569 del 27/11/1968, dep. 1969, Muther.
I superiori rilievi convincono che i contrasti interpretativi, considerati dalla Corte EDU, non avevano pregiudicato la possibilità di comprendere e conoscere la possibile punizione per le condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione di stampo mafioso, ritenute integrare la fattispecie del concorso esterno, ma al contrario costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione mediante qualsiasi utile accertamento, e, nella persistenza dell’incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale dalla commissione di comportamenti, che vi era il rischio incorressero nella contestazione dello stesso reato, rischio tanto più percepito con chiarezza dall’agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale e relazionale.
E’ altresì sfuggito alla considerazione dei giudici europei – chiosa ancora il Collegio – che, sia la citata sentenza Cillari, sia quelle successive pur richiamate nella sentenza Contrada, avevano risolto negativamente il tema dell’autonomia concettuale del concorso eventuale nel delitto associativo mafioso, ma non perché le condotte di agevolazione o comunque di ausilio alla vita ed all’operato dell’organizzazione, compiute dell’estraneo, fossero ritenute integrare comportamenti leciti e quindi da mandare esenti da responsabilità, ma perché ricomprese nella nozione di partecipazione, penalmente rilevante e punibile e ravvisata in tutti i casi in cui il soggetto prestasse un contributo all’organizzazione.
Può quindi condividersi quanto osservato nelle due sentenze Dell’Utri (Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016 e Sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019) e da parte della dottrina, ossia che il contrasto composto dalle Sezioni Unite nel 1994 in ordine alla condotta che, al di fuori dello stabile inserimento nei ranghi dell’organizzazione criminosa, ne realizzasse il rafforzamento ed il mantenimento in vita, non presupponeva l’alternativa decisoria tra l’incriminazione a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa ai sensi degli artt. 110 e 416-bis cod. pen. secondo la tesi che l’ammetteva e l’assoluzione da ogni forma di responsabilità penale per quella che la negava, poiché quest’ultima impostazione faceva rientrare il concorso nel fatto tipico di partecipazione e comportava la punizione del reo.
In base agli arresti giurisprudenziali e dottrinali dell’epoca di commissione dei fatti ascritti al ricorrente G. le conseguenze giuridiche del comportamento, causalmente rilevante e volto al consolidamento ed al mantenimento in essere della organizzazione mafiosa, ipotizzabili anche con l’assistenza di consulenti giuristi da parte dell’agente nel periodo antecedente la sentenza Demitry, comportavano la relativa incriminazione quale delitto, potendo variare soltanto la definizione giuridica tra le due opzioni della partecipazione concorsuale piena da un lato e del concorso eventuale o del favoreggiamento personale, continuato ed aggravato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203/91, dall’altro.
Contrariamente a quanto sostenuto dalle difese, non potevano residuare dubbi o insuperabili incertezze sul carattere illecito della condotta e sulla pertinente rilevanza penale, sicchè l’unico esito non prevedibile in quel contesto interpretativo della fattispecie era l’assoluzione, senza riflessi pregiudizievoli nemmeno sotto il profilo sanzionatorio, stante l’invariata punizione della partecipazione del concorrente necessario e dell’apporto del concorrente eventuale.
Il che è tanto più vero nel caso del G., al quale, a differenza che per la posizione del Contrada, nel processo di cognizione erano state ascritte plurime condotte, poste in essere in un arco temporale protrattosi sino al febbraio 1994, ossia sino a pochi mesi prima dell’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza Demitry, quando il dibattito tra gli interpreti aveva già ben delineato la fattispecie di concorso esterno poi ravvisata a relativo carico.
Nella sentenza della Corte EDU non si rinviene nemmeno una posizione coerente con i propri precedenti pronunciamenti quanto all’incidenza del contrasto interpretativo, attinente al solo profilo della qualificazione giuridica del fatto illecito, sulla reale capacità di previsione dell’esito giudiziario da parte del cittadino.
Si è osservato da parte della dottrina, e si condivide dalla Corte il rilievo, che le divergenti definizioni giuridiche date al contributo dell’extraneus ed il numero limitato di opzioni alternative, individuate in giurisprudenza, rendevano conoscibile in via anticipata al momento del compimento della condotta la possibile adozione di una delle soluzioni in discussione, conducenti in ogni caso all’incriminazione ed alla punizione, senza che la stessa potesse manifestarsi quale effetto a sorpresa, quale risposta giudiziaria postuma, improvvisa ed inedita, tale da sorprendere l’affidamento del soggetto agente come formatosi al momento del compimento dei fatti, in cui erano già presenti segnali discernibili, anticipatori del realizzarsi dell’incriminazione e della punizione.
In altri termini, come sottolineato dal Procuratore Generale, la tesi accolta dalla sentenza Demitry nel 1994 si presenta, non come un mutamento normativo, ma quale mera evoluzione nell’interpretazione della disposizione di legge vigente, coerente con l’essenza della fattispecie tipizzata dagli artt. 110 e 416-bis cod. pen., possibile e conoscibile in anticipo, oltre che consentita dalla Convenzione nel significato attribuitole dalla Corte EDU, che ha sanzionato sino ad ora soltanto gli interventi decisori dei giudici nazionali dissonanti rispetto ai precedenti costanti orientamenti, sia per il loro contenuto radicalmente innovativo, sia per gli effetti peggiorativi per l’imputato, frutto di un’applicazione in via retroattiva, non consentita dall’art. 7 della Convenzione (Corte EDU, GC, Del Rio Prada, § 116; 24/05/2007, Dragotoniu e Militaru-Pidhorni c. Romania, § 44; GC, 20/10/2005, Vasiliauskas c. Lituania, § 181; 05/05/1993, Kokkinakis c. Grecia, § 52).
Per quanto già esposto, chiosa ancora la Corte, nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa la sentenza Demitry non ha operato in via esegetica una ricostruzione in malam partem della fattispecie di reato in riferimento a comportamenti tenuti in un periodo temporale in cui gli stessi erano considerati leciti ed esenti da pena, ma ha recepito una delle possibili soluzioni, già nota ed ampiamente illustrata nel relativo fondamento giuridico, quindi conoscibile e tale da avvertire il cittadino del rischio di punizione in sede penale.
Convincenti conferme della correttezza della lettura qui proposta, non isolata nel panorama dei precedenti di legittimità, sono ricavabili dalla giurisprudenza già occupatasi di casi, in cui si era dedotto l’intervento di un c.d. overruling giurisprudenziale, ossia di un mutamento ermeneutico, ascrivibile alla Corte di cassazione e foriero di un’applicazione retroattiva sfavorevole della disposizione di legge, sia processuale, che sostanziale, denunciata dalle difese come trasgressiva degli artt. 2 cod. pen. 25 Cost. e 7 CEDU.
Singole sezioni penali della Corte, chiamate a pronunciarsi in relazione a decisioni giudiziali, assunte dalle Sezioni Unite in un momento successivo alla violazione dei precetti che aveva dato luogo al processo, quindi giocoforza retroattive, in tema di imprescrittibilità della pena dell’ergastolo (Sez. U. n. 19756 del 24/09/2015, Trubia), di corretta interpretazione del delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. (Sez. U. n. 41210 del 18/05/2017, Savarese) e di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi (Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli), hanno rilevato che l’overruling non consentito, perché non prevedibile per l’imputato, è ravvisabile nei soli casi di radicale innovazione della soluzione giurisprudenziale, inconciliabile con le precedenti decisioni, mentre va esclusa qualora la soluzione offerta si collochi nel solco di interventi già noti e risalenti, di cui costituisca uno sviluppo prefigurabile pur nel contrasto di opinioni, che di per sé rende l’esito conseguito comunque presente e possibile, anche se non accolto dall’indirizzo maggioritario.
Altrettanto conformi i precedenti della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, le quali, seppur in riferimento al limitato campo applicativo del diritto processuale e non sostanziale, e con la precisazione della relativa valenza circoscritta agli interventi interpretativi in malam partem, hanno di recente ribadito che: «Il prospective overruling è finalizzato a porre la parte al riparo dagli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) di mutamenti imprevedibili della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo sterilizzandoli, così consentendosi all’atto compiuto con modalità ed in forme ossequiose dell’orientamento giurisprudenziale successivamente ripudiato, ma dominante al momento del compimento dell’atto, di produrre ugualmente i suoi effetti» (Sez. U. civ. n. 4135 del 12/02/2019; Sez. U. civ., n. 28575 del 08/11/2018; Sez. U. civ., n. 15144 del 11/07/2011).
Al contrario, precisa il Collegio, si è negata tutela alla parte incorsa in sanzioni processuali nei casi di innovazioni esegetiche, postesi quale sviluppo non irragionevole di un pregresso indirizzo già affermato.
In aggiunta ai superiori rilievi s’impone per le SSUU l’ulteriore considerazione delle difficoltà di individuare il momento in cui, a fronte di divergenti interpretazioni del dato normativo, affermatesi contestualmente, il grado di consolidamento del quadro ermeneutico in sede giudiziaria sia sufficiente per garantire la prefigurazione per il soggetto agente della punizione penale: nell’ambito dell’ordinamento interno, contrassegnato dal valore non vincolante del precedente, dall’efficacia soltanto persuasiva, per la profondità ed accuratezza dei pertinenti argomenti, dell’interpretazione giurisprudenziale, il cui avvento non soggiace di per sé al divieto di retroattività e non è assimilabile ad una nuova disposizione di legge, un eccessivo irrigidimento del criterio della prevedibilità dell’esito processuale in senso oggettivo finirebbe per precludere alla Corte di cassazione, cui questa attività compete istituzionalmente, di individuare una nuova soluzione esegetica sfavorevole all’imputato, ma rispettosa dell’essenza del reato tipizzato dalla legge, quindi perfettamente ragionevole e coerente con il testo normativo, ciò solo per il suo carattere innovativo, per l’assenza di casi precedenti già risolti, o perché preceduta da contrasti sulla corretta lettura del testo stesso.
Tanto comporterebbe una limitazione dei poteri decisori del giudice di legittimità ed il vincolo del rispetto del precedente in chiara collisione col disposto dell’art. 101, comma 2, Cost., finendo per assegnare al principio di legalità un contenuto contrastante con il precetto costituzionale, che, come tale, non può essere recepito (Sez. 5, n. 42996 del 14/09/2016, Ciancio Sanfilippo).
L’eventualità di un sindacato postumo sulla formazione del giudicato di condanna per verificare il rispetto dei diritti di garanzia dell’individuo, considerati nell’ottica del principio di legalità convenzionale, come inteso nella sentenza Contrada, costituisce altresì un freno al dibattito giuridico ed all’evoluzione del diritto vivente nella relativa accezione siccome fornita dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 276/1974), che postula la funzione di «mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente ‘creativa’ della interpretazione, la quale, senza varcare la ‘linea di rottura’ col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima» (Sez. U. n. 18288 del 12/01/2010, Beschi).
A convincere che nel sistema giuridico italiano non è possibile riscontrare una carenza strutturale, universalmente rintracciabile in tutti i giudicati di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti il 1994 e verificatasi anche nella situazione del G., è anche la considerazione che all’epoca l’unico profilo di incertezza in presenza di definizioni giuridiche del fatto di reato non uniformi, ma nessuna comportante l’esenzione da responsabilità e nemmeno variazioni di pena, era confinato a quale di esse avrebbe potuto essere recepita in sede giudiziaria, dubbio che però non eliminava la colpevolezza, perché evitabile attraverso consulenze giuridiche e la considerazione dell’evoluzione della riflessione giurisprudenziale sul tema e tale da imporre di astenersi dai comportamenti poi incriminati.
Il concetto di prevedibilità delle conseguenze penali della condotta non è estraneo all’ordinamento nazionale, ma è veicolato attraverso la nozione di errore di diritto incolpevole, come elaborata dalla giurisprudenza costituzionale nella sentenza n. 364 del 1988, poi ripresa nella sentenza n. 185 del 1992, che ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 5 cod. pen. «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile».
La decisione si basa sulla considerazione che il principio di legalità dei reati e delle pene, inteso quale riserva di legge statale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., costituisce presidio a tutela della persona e della libertà individuale, che viene posta al riparo da interventi creativi delle fattispecie di illecito, compiuti dal giudice contro o al di là del dato testuale della norma e dall’imputazione di responsabilità per la violazione di precetti non conoscibili o inevitabilmente ignorati; esso pretende la determinatezza della norma penale ed impone al legislatore l’obbligo di formulare testi di legge precisi sotto il profilo semantico della chiarezza e della intelligibilità delle espressioni, in modo che il soggetto vi possa «trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento».
Se difettino tali requisiti, la indeterminatezza della fattispecie pregiudica la relativa conoscibilità e la prevedibilità delle conseguenze penali delle azioni, sicché vengono meno la relazione tra soggetto e legge penale, la personalità dell’illecito, la possibilità di muovere un rimprovero per l’infrazione commessa ed il fondamento legale della punizione per la mancanza del requisito della colpevolezza, costituzionalmente preteso dall’art. 27, comma 1, che «compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d’imputazione».
Rileva poi che, secondo il giudice delle leggi, per identificare l’errore inevitabile sul divieto normativo, occorre fare riferimento a criteri oggettivi, “puri“, o “misti“, ossia basati su obiettiva oscurità del testo di legge, su irrisolti e gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, su “assicurazioni erronee” delle competenti autorità pubbliche, ma anche sulle condizioni e conoscenze personali del singolo soggetto agente; dalla combinazione di tali parametri discende che l’ignoranza può essere inescusabile anche in presenza di un generalizzato errore sul divieto quando l’agente si rappresenti comunque la possibilità che il fatto sia antigiuridico, mentre è inevitabile se il dubbio sia oggettivamente irrisolvibile, oppure se l’assenza di dubbio dipenda da carente socializzazione della persona.
Concetti non dissimili – chiarisce ancora il Collegio – sono stati espressi più di recente dalla Grande Camera della Corte EDU nella citata sentenza G.I.E.M. c. Italia, per la quale, come già affermato nel precedente arresto 20/01/2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri c. Italia, l’art. 7 della Convenzione, pur senza menzionare testualmente «il legame morale esistente tra l’elemento oggettivo del reato e la persona che ne è considerata l’autore» (§ 241), lo presuppone.
Infatti, la logica della punizione e la nozione di colpevolezza autorizzano a ritenere che l’art. 7 pretenda, per poter infliggere la pena, «un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato», così riconoscendo la «correlazione tra il grado di prevedibilità di una norma penale e il grado di responsabilità personale dell’autore del reato» (§ 242).
Può dunque concludersi che la Corte europea ha ricondotto al principio di legalità convenzionale quella nozione di prevedibilità che la giurisprudenza costituzionale italiana aveva già riconosciuto, pur se correlata al principio di colpevolezza, in termini altrettanto funzionali per la garanzia del cittadino, ma che non possono assumere rilievo per la soluzione del caso rimesso odiernamente alle Sezioni Unite: l’apprezzamento di un errore incolpevole dell’imputato, indotto dalla pretesa oscurità o incertezza del dato normativo e della relativa interpretazione, dovrebbe tradursi nella rivisitazione del giudizio ricostruttivo del fatto di reato e dell’atteggiamento soggettivo dell’autore, operazione preclusa dalla già avvenuta formazione del giudicato, quindi non conducibile nella fase esecutiva, tranne che non ricorrano i presupposti di attivazione della revisione speciale di cui all’art. 630 cod. proc. pen., che nella presente vicenda per la Corte e non ricorrono per quanto già esposto.
A tale ostacolo, evidenziato anche nell’ordinanza di rimessione, si aggiunge l’ulteriore difficoltà di intendere l’errore incolpevole di diritto in base ai costanti insegnamenti della giurisprudenza della Corte. Invero, nelle applicazioni della nozione di prevedibilità, successive alla pronuncia della Corte costituzionale, è stata esclusa la colpevolezza quando l’errore di diritto sia dipeso da ignoranza inevitabile della legge penale, giustificata da una pacifica posizione giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria condotta; per contro, a fronte di difformi orientamenti interpretativi accolti nelle pronunce giudiziali, si è esclusa la possibilità di invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, poiché lo stato di incertezza impone al soggetto di astenersi dall’agire e di condurre qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia anche attraverso la mediazione applicativa operatane dalla giurisprudenza.
Deve conclusivamente escludersi che dal giudicato della Corte europea nel caso Contrada sia possibile rintracciarvi contenuti che consentano di estrarvi, per espressa indicazione, oppure in base al complessivo percorso ermeneutico seguito, la individuazione di una fonte generale di violazione dei diritti individuali, garantiti dalla Convenzione.
Con riferimento alla questione principale oggetto del ricorso deve dunque per le SSUU essere enunciato il seguente principio di diritto: «I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata».
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L’11 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 9736 onde fattispecie descritta dall’art. 452-bis cod. pen. è posta tutela dell’ambiente, come chiaramente emerge sia dalla sua collocazione tra i “Delitti contro l’ambiente”, oggetto di considerazione da parte del Titolo VI-bis del libro secondo del codice penale, sia dalla struttura stessa dell’illecito, come si desume, in particolare, dall’oggetto del reato.
Si tratta infatti di un reato di danno, e non già di pericolo, integrato da un evento di danneggiamento, essendo punito il cagionare abusivamente una “compromissione” o un “deterioramento”; che siano “significativi” e “misurabili”, di uno dei profili in cui si declina il bene “ambiente”, come descritti al n. 1 e al n. 2 del comma 1, tra cui, ai fini che qui interessano, un ecosistema.
Si è poi precisato che la “compromissione” e il “deterioramento” consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e che attiene alla relazione del bene aggredito con l’uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare; nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi e che consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l’uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole.
Per la sussistenza del reato, non è richiesta anche l’irreversibilità del danno, requisito non contemplato tra i requisiti del fatto.
Ne consegue che le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione del bene non costituiscono un post factum non punibile, ma integrano invece singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione, sino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili, o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo reato di disastro ambientale di cui all’art. 452-quater cod. pen..
A tal proposito, va evidenziato che l’evento può assumere il carattere di “significatività” anche a seguito di un’attività seriale ripetuta nel tempo, ciascuna delle quali, isolatamente considerata, non è in grado di incidere sul bene tutelato in termini, appunto, di “significatività”.
Da ciò deriva che l’evento è unico, allorquando sia il risultato della sommatoria di una pluralità di condotte, all’esito delle quali il deterioramento o la compromissione di un medesimo contesto ambientale raggiunge il grado di compromissione richiesto per l’integrazione del fatto.
Una volta che il reato è consumato, avendo l’offesa raggiunto un livello di “significatività”, le condotte successive, ad oggetto il medesimo ecosistema, hanno l’effetto per un verso di incidere sulla gravità dell’unico reato, e quindi sono valutabili ex art. 133 cod. pen., e, dall’altro, spostano in avanti il momento consumativo del reato medesimo, ciò che rileva sulla decorrenza del termine di prescrizione, ferma restando, ricorrendone i presupposti, la configurabilità del più grave delitto di cui all’452-quater cod. pen..
Quanto ad eventuali censure di determinatezza, ricorda la Corte che, per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce.
In particolare, «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero […] di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 5 del 2004).
Orbene, la fattispecie in esame non confligge con l’art. 25, comma 2, Cost., in quanto le espressioni impiegate dal legislatore appaiono sufficientemente univoche nella descrizione del fatto vietato, che, essendo modellato come reato di evento a forma libera, si incentra sulla causazione di una “compromissione” o di un “deterioramento”: locuzioni che rimandano a un fatto di danneggiamento – prova ne è che art. 635 cod. pen., considera, tra le condotte punite anche il “deterioramento”, senza che mai si sia posto un problema di individuazione del fatto punito – e in relazione alle quali la giurisprudenza di questa Corte ha fornito un’interpretazione uniforme e costante, nel senso dinanzi indicato al par. 6.
L’impiego di aggettivi riferiti a quegli eventi, alternativamente previsti dalla norma, quali “significativi” e “misurabili”, pone dei vincoli – qualitativi e di accertamento – all’offesa, in termini, per un verso, di gravità – il che comporta un restringimento del perimetro della tipicità, da cui sono estromessi eventi che non incidano in maniera apprezzabile sul bene protetto -, e, per altro verso, di verificabilità, da compiersi sulla base di dati oggettivi, e quindi controllabili e confutabili.
Parimenti preciso è l’oggetto della condotta, che deve aggredire o le matrici ambientali (acque, aria, porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo), ovvero un ecosistema o una biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.
Ne segue, che, gli elementi costitutivi della fattispecie rimandano a un fatto descritto in maniera sufficientemente precisa, ciò che consente di ritenere rispettato il vincolo imposto dall’art. 25, comma 2, Cost. nella descrizione dell’illecito penale.
* * *
Il 12 maggio esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 14722 che, in tema di circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente, risponde a due quesiti diversi, strettamente collegati:
“– se mantenga validità il criterio per la determinazione dell’ingente quantità fissato dalla sentenza delle Sezioni Unite Biondi, fondato sul rapporto (1 a 2000) fra quantità massima detenibile come prevista nell'”elenco” allegato al D.M. 11 aprile 2006 e quantità di principio attivo contenuto nella sostanza oggetto della condotta, ferma la discrezionalità giudiziale in caso di superamento del limite così ottenuto;
– come debbano essere individuati i fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c. d. “droghe leggere“.
Le Sezioni Unite Biondi avevano risolto il contrasto interpretativo sorto nella giurisprudenza di legittimità dopo che le medesime Sezioni Unite, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, avevano affermato il principio secondo cui la circostanza aggravante speciale dell’ingente quantità di sostanza stupefacente prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, comma 2, la cui ratio legis è da ravvisare nell’incremento del pericolo per la salute pubblica, ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo l’apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza.
La sentenza Primavera, pur superando apparentemente il riferimento all’incerta nozione di saturazione di un “mercato illecito” di aleatoria definizione sulla quale la giurisprudenza si era fin lì in sostanziale continuità assestata, aveva concluso nel senso che, perchè potesse parlarsi di quantità “ingente” di stupefacente, fosse necessario che il dato ponderale di sostanza tossica oggetto del procedimento superasse notevolmente, con accento di eccezionalità, la quantità usualmente trattata in transazioni del genere nell’ambito territoriale nel quale il giudice del fatto opera: ma con ciò, sostanzialmente, da un lato, riconducendo nuovamente il concetto a valutazioni collegate a realtà locali, necessariamente differenti, “apprezzate specificamente” dal giudice e riaffidandolo, da un altro, all'”abilità dialettica di chi fornisce la motivazione della decisione”.
A tale pronunzia si era conformata a lungo la giurisprudenza successiva, senza che sulla uniformità di tale orientamento – posto in discussione solo a far data dal 2010 – incidesse in qualche misura l’entrata in vigore del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (c.d. “Fini-Giovanardi”).
Detto intervento normativo aveva disposto (art. 4-vicies ter) che le sostanze stupefacenti “pesanti” e “leggere” fossero raggruppate senza distinzioni nella medesima tabella, di formazione ministeriale, allegata al D.P.R. n. 309 del 1990 (artt. 13 e 14 D.P.R. cit. come allora novellati) ed unificava la sanzione per i reati ad esse relativi (D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 come emendato dall’art. 4-bis).
Nello stesso tempo la riforma aveva sostanzialmente ripristinato l’originario sistema della predeterminazione della quantità detenibile per uso personale, cioè quello dell’individuazione numerica del limite di irrilevanza penale, attribuendo ad un decreto del Ministro della Salute (D.M. 11 aprile 2006) ed all'”elenco” ad esso allegato il compito di fissare i limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili a tale uso esclusivo (art. 73, comma 1 bis, lett. a): del tutto analogo era infatti il sistema precedente – introdotto con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1, e art. 78, comma 1, lett. c), venuto meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171) nel quale l’irrilevanza penale era riconosciuta a condotte aventi ad oggetto sostanze “in dose non superiore a quella media giornaliera”, l’individuazione della quantità massima del cui principio attivo tollerato era sempre attribuita ad un decreto ministeriale ed alle tabelle ad esso allegate (si emanò in attuazione il D.M. 12 luglio 1990, n. 186).
Solo con la sentenza Sez. 6, n. 20119 del 02/03/2010, Castrogiovanni si era manifestata l’esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità ad un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi e ciò anche per evitare un insanabile contrasto fra la circostanza aggravante in questione ed il principio di determinatezza, aspetto del più generale principio di legalità presidiato dall’art. 25 Cost., comma 2.
Si sottolineava come ai fini di un’applicazione giurisprudenziale che non offrisse il fianco a critiche di opinabilità di valutazioni, se non addirittura casuale arbitrarietà, fosse necessario meglio definire l’ambito di apprezzamento rimesso al giudice del merito e, di riflesso, quello proprio del sindacato di legittimità; il tutto considerando che la giurisprudenza prodottasi successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite Primavera, pur prestandovi formalmente adesione, presentava talvolta risultati di evidente disarmonia a fronte di dati qualitativi/quantitativi e di realtà territoriali in tutto assimilabili.
Ritenendo pertanto che ai fini della configurabilità della circostanza aggravante debba rilevare il criterio oggettivo del numero dei possibili fruitori finali e non l’area dove essi insistono e dunque essenzialmente il valore ponderale dello stupefacente considerato in relazione alla qualità della sostanza e specificato in relazione al grado di purezza, la Sezione sesta prendeva atto dei dati derivanti dall’esperienza giudiziaria, apprezzabili a maggior ragione dalla Corte di cassazione, sede privilegiata di conoscenza in quanto terminale di confluenza di una rappresentazione casistica generale, per concludere che ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non possano di regola definirsi “ingenti” i quantitativi di droghe “pesanti” o “leggere” che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di 2 kg. e 50 kg.
Altre sentenze, tuttavia, contrastavano espressamente tale orientamento, riproponendo i principi della sentenza “Primavera” e ritenendoli idonei a superare i dubbi di determinatezza della norma; ad avviso di questo secondo filone interpretativo, la predeterminazione dell’indice quantitativo che oggettivamente segna il confine tra la quantità ingente e quella non ingente, finendo col proporsi in sostanza come dato avente valenza normativa, non potrebbe che essere prerogativa del legislatore.
In tale quadro di decisioni confliggenti interveniva la sentenza n. 35258 del 24/05/2012, Biondi. Con essa le Sezioni Unite, preso atto dei perduranti contrasti giurisprudenziali e difformità applicative anche risalenti in ordine al significato da attribuire all’espressione “ingente quantità”, su cui si fonda una circostanza aggravante oggettiva “molto soggettivamente interpretata”, alla quale si ricollegano rilevanti effetti commisurativi in pejus, hanno ricercato e rinvenuto la soluzione del quesito all’interno del sistema approntato dalla legislazione (allora) vigente in tema di stupefacenti.
Il punto di partenza del ragionamento espresso in sentenza è stata la constatazione che la normativa prevedesse espressamente indicatori precisi per la determinazione dei limiti quantitativi entro i quali le condotte descritte dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, potevano considerarsi di regola penalmente irrilevanti, così fornendo attraverso dati numerici il discrimine tendenziale fra l'”uso personale”, che non comporta sanzione penale, e le condotte viceversa penalmente represse.
Le Sezioni Unite hanno dunque preso le mosse dal riferimento testuale operato dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), (come introdotto dalla “Fini-Giovanardi”) ai limiti massimi di stupefacente la cui detenzione è tendenzialmente presunta per uso personale, i quali sono indicati con decreto del Ministro della Salute – adottato di concerto con altre autorità di governo – in un “elenco” ad esso allegato contenente la specificazione del quantitativo massimo di principio attivo detenibile: quantitativo definito espressamente come “soglia” e ricavato – per ogni sostanza – dal prodotto della moltiplicazione del valore della dose media singola espresso in milligrammi per un fattore (“moltiplicatore” variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza) individuato dal ministero competente.
Dal rilievo diretto e riflesso che il sistema tabellare così delineato ha assunto all’interno della disciplina repressiva dei reati in tema di stupefacenti, le Sezioni Unite hanno considerato di potere e dovere trarre la conclusione della necessità di individuare un parametro numerico anche per la determinazione del concetto di ingente quantità: se il legislatore ha infatti positivamente fissato la soglia quantitativa della punibilità (dunque un limite “verso il basso”), consegue che l’interprete ha il compito di individuare una soglia quantitativa definita al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa intendersi l’ingente quantità (un limite, quindi, “verso l’alto”).
Assumendo come riferimento il valore-soglia previsto dalla predetta “tabella” (in quanto “unità di misura” rapportabile al singolo cliente/consumatore), le Sezioni Unite hanno pertanto ritenuto di individuare, sulla base dei dati esperienziali relativi al traffico di sostanze stupefacenti come risultante dai casi affluiti alla Corte (riferibili all’intero territorio nazionale e tenuto conto del grado di “purezza” medio relativo alle singole sostanze), una soglia ponderalmente determinata al di sotto della quale non possa di regola parlarsi di quantità “ingente”.
Hanno quindi affermato che, specificando di non usurpare con ciò una funzione normativa ma di svolgere semplicemente un’opera ricognitiva dei dati empirici raccolti, avendo riferimento alle singole sostanze indicate nella “tabella” allegata al D.M. 11 aprile 2006 (cioè il provvedimento previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), non possa di norma ritenersi “ingente” un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2000 volte il predetto valore-soglia espresso in milligrammi di principio attivo (750 mg. per la cocaina, 250 mg. per l’eroina, 1000 mg. per l’hashish: così testualmente in sentenza).
Tale conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, soddisfaceva i criteri di ragionevolezza, proporzionalità ed equità che le stesse Sezioni Unite avevano già ritenuto in materia fondanti (Sezioni Unite n. 17 del 21/06/2000, Primavera); con la specificazione che la soglia in tal modo individuata, proprio perchè volta a definire tendenzialmente la quantità minima indispensabile al fine di ritenere la sussistenza della circostanza de qua, può valere solo “in negativo”, nel senso che il suo superamento non comporta di per sè automaticamente la configurabilità dell’ipotesi aggravata, dovendo comunque soccorrere la valutazione in concreto del giudice di merito.
La giurisprudenza delle sezioni semplici si è adeguata ai principi così espressi, i quali sono stati, tuttavia, posti in discussione in seguito alla vicenda normativa originata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4-bis e 4-vicies ter, come convertito dalla L. n. 49 del 2006, art. 1, comma 1, in riferimento all’art. 77 Cost., comma 2, per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto legge e quelle, impugnate, introdotte nella legge di conversione.
Ed invero, pur avendo il giudice delle leggi espressamente affermato che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, dovesse tornare ad applicarsi non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo, il legislatore ha ritenuto di dover ancora intervenire per regolamentare la materia.
Il D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, nel riscrivere il D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 ha così espressamente ripristinato la distinzione, per quanto qui interessa, fra sostanze di tipo “pesante” e sostanze di tipo “leggero”, prevedendo la loro indicazione in tabelle diverse (I e II), inserite nel D.P.R. n. 309 del 1990 ai sensi dell’art. 1, comma 30, del predetto D.L., il cui completamento ed aggiornamento è assegnato ad un D.M., secondo i criteri per la loro formazione fissati dall’emendato art. 14.
Alla rinnovata distinzione tabellare ha quindi fatto seguito – per effetto della “riviviscenza” della disciplina pregressa – la medesima distinzione sanzionatoria per i reati concernenti i diversi tipi di sostanze così come era prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 prima della modifica operata dalla normativa dichiarata incostituzionale.
La novella ha pure parzialmente ridefinito la regolamentazione delle sanzioni amministrative per le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti per uso personale, ricollocandola nell’originaria sede del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, ma sostanzialmente reiterando la previsione già contenuta nell’art. 73, comma 1 bis, lett. a) della Legge “Fini-Giovanardi”, secondo cui agli effetti dell’accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale deve tenersi conto, insieme ad elementi circostanziali rivelatori dell’intenzione, del dato oggettivo che la quantità della sostanza non sia superiore ai limiti massimi di principio attivo (valori-soglia) indicati con decreto emanato dal Ministro della Salute di concerto con altre autorità di governo.
Il D.L. n. 36 del 2014, come convertito, ha altresì disposto all’art. 2, comma 1, la perdurante efficacia del decreto ministeriale fissante valori-soglia emanato nel vigore della “Fini-Giovanardi”.
All’indomani della riforma si è dunque manifestato un orientamento giurisprudenziale – la cui segnalazione è oggetto dell’ordinanza di rimessione – teso a sollecitare il superamento delle conclusioni cui erano pervenute le Sezioni Unite.
Si deve subito precisare come questo filone interpretativo si sia sviluppato attraverso alcune decisioni, anche graficamente sovrapponibili, per un assai ristretto periodo di tempo e che il contrasto sia stato interamente e definitivamente riassorbito dalla giurisprudenza successiva, univocamente orientata, come si vedrà, nel confermare la persistente validità dei principi affermati dalle Sezioni Unite Biondi.
Secondo detto orientamento, poichè a seguito della sentenza costituzionale n. 32 del 2014 il legislatore ha modificato il “sistema tabellare” che era seguito alla legge “Fini-Giovanardi” ed introdotto quattro nuove tabelle in ordine alle sostanze stupefacenti e psicotrope, la determinazione dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante della ingente quantità non potrebbe prescindere da questa impostazione normativa differente.
Non può non rilevarsi, si afferma, che in un quadro che smentisce la ratio della normativa vigente all’epoca dell’approdo giurisprudenziale delle Sezioni Unite – spezzando la sostanziale equiparazione tra il reato attinente a droghe pesanti ed il reato relativo a “droghe leggere”, per di più enucleando come reato autonomo, anche sotto il profilo delle modalità di esecuzione, e non solo dell’entità, del trattamento sanzionatorio, la fattispecie lieve – “tale giurisprudenza dovrà essere rimeditata, in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’aggravante dell’ingente quantità”.
A questo primo indirizzo se ne è sincronicamente contrapposto un altro secondo il quale per effetto dell’espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come modificato dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, di conversione, con modificazioni, del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, mantengono validità i criteri enunciati dalla sentenza “Biondi” basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile al fine di verificare la sussistenza della circostanza aggravante della ingente quantità, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Come già anticipato quest’ultimo orientamento, consapevolmente discostatosi da quello opposto, è in breve divenuto univoco.
Le Sezioni Unite condividono le argomentazioni del secondo orientamento citato e le relative conclusioni circa la persistente validità dei criteri fissati nella sentenza “Biondi” per la configurabilità della circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Si rileva, infatti, l’erroneo presupposto dal quale muove l’orientamento rimasto minoritario per derivarne la necessità di ridefinire i criteri per l’applicazione della circostanza de qua, e cioè la considerazione che la riforma del 2014 abbia determinato una modifica del sistema tabellare introdotto con la c.d. legge “Fini-Giovanardi” nella vigenza della quale si erano pronunciate le Sezioni Unite.
Il recente intervento legislativo e la L. n. 49 del 2006 (di conversione del D.L. n. 272 del 2005), infatti, si pongono entrambi in continuità con il sistema tabellare già prefigurato fin nella L. 22 ottobre 1954, n. 1041 (in cui si disciplina la compilazione di un “elenco” delle sostanze e preparati ad azione stupefacente a cura del Ministero della Sanità, pubblicato nella G.U. ed inserito nella Farmacopea ufficiale) e quindi realizzato compiutamente con la L. 22 dicembre 1975, n. 685, la quale agli artt. 11 e 12 prevedeva che le sostanze fossero raggruppate in sei tabelle, la prima e la terza delle quali indicanti sostanze stupefacenti e psicotrope di tipo “pesante”, la seconda e la quarta di tipo “leggero”, ricollegando sanzioni di differente gravità alle rispettive violazioni; sistema peraltro integralmente replicato nel T.U. stup. del 1990 (artt. 13, 14 e 73).
In tale continuità di sistema si collocano sia la discrezionale opzione del legislatore del 2006 di unificare la pena per i reati concernenti sostanze “pesanti” o “leggere” mediante lo strumento di tecnica legislativa di indicarle tutte nella medesima tabella, sia quella del legislatore del 2014 il quale, sempre attraverso lo strumento di intervenire sul contenuto delle tabelle, questa volta tornando a distinguerlo, ha realizzato l’intento di nuovamente differenziare la sanzione a seconda dell’efficacia drogante delle sostanze “vigilate” dal Ministero della salute ed ivi elencate.
Nessuna “modifica di sistema” può dunque evocarsi in proposito e così, sotto questo profilo, nessun effetto ermeneutico può riconoscersi alla riforma del 2014 sul significato di “ingente quantità”, intorno alla cui definizione non può attribuirsi influenza alcuna alla rinnovata differenziazione della pena comminata a seconda del tipo di sostanza oggetto del reato: non a caso il concetto di “ingente quantità” definito dalle Sezioni Unite “Primavera” era rimasto del tutto insensibile – come si è più su precisato – all’introduzione della “Fini-Giovanardi”, venendo rimeditato, nelle successive ampie cadenze temporali sopra descritte, non in funzione del disposto accorpamento delle sostanze proibite nella medesima tabella bensì dalla necessità di elaborare un’interpretazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, maggiormente aderente al principio costituzionale di determinatezza.
Unica conseguenza discendente dalla riforma del 2014, del tutto estranea alla ricostruzione teorica per la parte che qui interessa, è dunque esclusivamente quella di differenziare, a seconda della sostanza, la pena base sulla quale deve essere applicato l’aumento per la ricorrenza della circostanza aggravante e non certo quella di riscrivere i criteri per la sua configurabilità, a fronte di un dato normativo rimasto testualmente invariato sin dalla disciplina posta dalla L. n. 685 del 1975, art. 74, il quale al comma 2 espressamente contemplava che “se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope le pene sono aumentate dalla metà a due terzi”, con formula identica a quella contenuta nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non modificato nè dalla L. n. 49 del 2006 di conversione del D.L. n. 272 del 2005 (poi dichiarata incostituzionale) nè dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, dalla L. 16 maggio 2014, n. 79.
Alcuna interferenza, poi, è dato individuare – nè la giurisprudenza qui non condivisa lo esplica, limitandosi semplicemente ad affermarne valenza ermeneutica – fra la “trasformazione” in reato autonomo della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ed i criteri di valutazione dell’ingente quantità: si tratta di vicenda normativa del tutto eccentrica rispetto alla questione di diritto affrontata dalle Sezioni Unite “Biondi” e conseguentemente del tutto ininfluente sulla sua risoluzione.
E così è a dirsi anche a proposito dei pur evocati ma non precisati effetti interpretativi derivanti dalla nuova disciplina (art. 73, comma 5 bis) delle modalità di esecuzione della pena irrogata o applicata per il predetto reato ove commesso da tossicodipendente o assuntore.
Per esigenze di chiarezza è opportuno altresì precisare che detta “trasformazione” risale ad intervento legislativo precedente alla sentenza costituzionale n. 32 del 2014 e che la riforma ad essa successiva si è limitata a modificare in melius la sanzione ivi prevista.
Tutto ciò premesso, le Sezioni Unite passano a chiarire un equivoco, peraltro diffuso nella giurisprudenza di legittimità e caratterizzante anche le decisioni appartenenti all’orientamento minoritario, che induce a confondere il sistema delle tabelle disciplinato dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 con il sub-sistema concernente l’individuazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale.
Le tabelle previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 e ad esso allegate (ora “inserite”, ex D.L. n. 36 del 2014, art. 30) hanno costituito (in tutte le versioni succedutesi a far data dalla emanazione del T.U. stup.) la fonte legislativa per l’individuazione delle sostanze vietate ed oggetto delle disposizioni sanzionatorie previste nel titolo VIII (“Della repressione delle attività illecite”).
Del tutto diversa è la funzione dell'”elenco” allegato al decreto ministeriale previsto dall’art. 73, comma 1 bis, lett. a) Legge “Fini-Giovanardi”, nel cui vigore si sono pronunciate le Sezioni Unite con la più volte citata sentenza “Biondi”, la quale proprio sull’indicazione normativa della quantità massima di principio attivo detenibile ha fondato la ricostruzione della nozione di “ingente quantità” ricavandola dalla moltiplicazione del valore-soglia per un fattore ricavato dalla concreta esperienza giudiziaria.
Tale sub-sistema è rimasto inalterato dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge “Fini Giovanardi” ed il varo della riforma.
Assume decisivo rilievo, ai fini della risoluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite, la circostanza che il D.L. n. 36 del 2014, art. 2, comma 1, come convertito dalla L. n. 79 del 2014, abbia espressamente previsto che riprendano a produrre effetti gli atti amministrativi adottati ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990 sino alla data della pubblicazione della sentenza costituzionale n. 32/14; è stata così integralmente “recuperata” dal legislatore primario l’efficacia del D.M. 11 aprile 2006 contenente “Indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale”, cioè proprio l’atto di normazione secondaria che la sentenza “Biondi” aveva posto a base del proprio argomentare partendo dal dato testuale della specifica indicazione numerica di un limite massimo di principio attivo detenibile per giungere, come si è detto, alla fissazione di un limite minimo – pur esso coerentemente fondato su dati numerici – per il riconoscimento della circostanza aggravante dell’ingente quantità.
Al citato decreto ministeriale deve operarsi ora riferimento nell’applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, comma 1 bis, come novellato, il quale pure si pone in continuità normativa, confermandone effetti e ratio, con l’art. 73, comma 1 bis, lett. a), legge “Fini-Giovanardi”, chiaro indice dell’intento del legislatore di mantenere inalterato non solo il sistema tabellare nella sua funzione di selezione delle sostanze proibite (D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14) ma anche il sub-sistema dell’indicazione – in apposito “elenco” allegato al decreto ministeriale ora previsto dall’art. 75 – dei “limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope riferibili ad un uso esclusivamente personale” (così l’intestazione del vigente D.M. 11 aprile 2006).
Escluso dunque che sia individuabile quello che, con formula invero generica, l’indirizzo minoritario definisce “accresciuto tasso di modulazione normativa” per derivarne il superamento del principio fissato dalle Sezioni Unite, deve necessariamente escludersi la ulteriore conseguenza che se ne trae, e cioè quella della sopravvenuta incompatibilità con il sistema delineato dal D.P.R. n. 309 del 1990, come novellato, di un’interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’ingente quantità.
Solo per completezza si aggiunge come sul punto la giurisprudenza di legittimità, con argomentazione integralmente qui condivisa, abbia da tempo chiarito che il superamento dei parametri enucleati dalla sentenza “Biondi” per l’individuazione del limite minimo dell’ingente quantità, come peraltro nella stessa espressamente affermato, non determini automaticamente la sussistenza dell’ipotesi aggravata, dovendosi in ogni caso avere riguardo alle circostanze del caso da valutarsi con riferimento alla pericolosità della condotta ed al livello di potenziale compromissione della salute e dell’ordine pubblico; e che il giudice, nell’esercizio del potere di valutazione in concreto cui è tenuto possa valorizzare, per corroborare il dato rappresentato dal superamento del limite, tutti quegli elementi di fatto mirati a considerare la realtà specifica che già la giurisprudenza, in assenza di specifici parametri quantitativi, aveva individuato anteriormente all’elaborazione alle Sezioni Unite del 2012 quali indici di per sè esaustivi della ricorrenza dell’aggravante.
Rimane dunque di perdurante attualità ed efficacia dimostrativa la base sostanziale e formale delle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite nella sentenza “Biondi” del 2012 per la definizione dei criteri di individuazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità; conclusioni che – collegando l’entità della sanzione anche a dati oggettivi i quali indirizzano in funzione di garanzia la discrezionalità del giudice – soddisfano insieme, come rilevato, ineludibili esigenze costituzionali e convenzionali di determinatezza del precetto penale e parità di trattamento.
Non può sfuggire, a questo proposito, il limite intrinseco dell’indirizzo rimasto minoritario il quale, pur sollecitando un ripensamento della giurisprudenza “Biondi” in ragione, come si è detto, del ritenuto “accresciuto tasso di modulazione normativa” conseguente alla riforma del 2014, di tale ripensamento non indica la direzione, limitandosi ad assegnare genericamente al giudice di rinvio la ricostruzione di un criterio alternativo, così tornando a rendere “vaga” una norma “elastica” alla quale l’interpretazione sistematica delle Sezioni Unite ha dato concretezza e determinatezza.
Le Sezioni Unite passano poi ad affrontare il contrasto interpretativo concernente la individuazione precisa dei fattori della moltiplicazione il cui prodotto determina il confine inferiore dell’ingente quantità nell’ipotesi di reati concernenti le c.d. “droghe leggere”.
Tale contrasto ha avuto origine da un’imprecisione contenuta nella sentenza resa in causa Biondi la quale, individuato in 2000 il moltiplicatore del dato numerico (costituito dal valore soglia di principio attivo, cioè la quantità massima detenibile) da utilizzare come primo fattore dell’operazione per determinare il livello ponderale minimo, pure numerico, dell’ingente quantità, ha indicato per le c.d. droghe leggere un “valore soglia”, espresso in milligrammi, pari a 1000.
Ed invero, pur avendo la sentenza operato, al fine di individuare i dati dei valori-soglia, un generico riferimento alle tabelle di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 13 e 14 le quali, come si è detto, hanno solo la diversa funzione di individuare le sostanze “vietate” o comunque sottoposte a controllo, appare evidente come le Sezioni Unite abbiano tratto tali valori dall'”elenco” allegato al più volte citato D.M. 11 aprile 2006 previsto dall’art. 73, comma 1 bis, legge “Fini Giovanardi (ed ora “recuperato” dalla riforma del 2014) il quale tuttavia, al momento della decisione, prevedeva per le c.d. “droghe leggere” (THC) un valore-soglia di principio attivo, espresso in milligrammi, pari 500 e non a 1000, come invece indicato in sentenza.
Tutto ciò in quanto il D.M. 4 agosto 2006 il quale – aumentando da 20 a 40 il moltiplicatore del valore di principio attivo della dose media singola (25 mg.) da applicarsi per ottenere la quantità massima detenibile – aveva portato a 1000 il valore-soglia del THC espresso in milligrammi, era stato annullato per vizi della motivazione dal Tribunale amministrativo del Lazio, Sez. III quater, con sentenza n. 2487 del 21 marzo 2007.
Immediatamente dopo la pronuncia delle Sezioni Unite la giurisprudenza di legittimità ha quindi preso atto della circostanza che prima della decisione fosse già intervenuto l’annullamento del D.M. 4 agosto 2006 ed ha così ricondotto il valore-soglia delle “droghe leggere” all’originaria previsione di 500 milligrammi, con la conseguenza che, operata la moltiplicazione di quest’ultimo dato per il fattore 2000 indicato da Sezioni Unite “Biondi” per tutte le sostanze, il limite minimo dell’ingente quantità è stato fissato in 1 kg. di principio attivo.
Alcune decisioni hanno espressamente motivato il disallineamento (meramente numerico e non di principio) dalla sentenza Biondi proprio con specifico riferimento all’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, mentre altre hanno sostanzialmente dato per scontata l’applicazione del dato numerico pari a 500 milligrammi indicato nel D.M. 11 aprile 2006 come vigente al momento della pronuncia delle Sezioni Unite per ribadire il limite minimo dell’ingente quantità nel caso di “droga leggera” in 1 kg. di principio attivo.
A far data da Sez. 3, n. 47978 del 28/09/2016, Hrim, tale indirizzo è stato tuttavia integralmente sostituito da altro (tanto che il contrasto segnalato dalla sezione rimettente può ben definirsi diacronico e considerato ormai riassorbito), secondo il quale, seguendo il filo logico della motivazione della sentenza “Biondi”, per rispettare le proporzioni e rendere omogeneo il principio con essa affermato alle conseguenze dell’annullamento del D.M. 4 agosto 2006, il quantitativo minimo di principio attivo di sostanza stupefacente del tipo “leggero” al di sotto del quale non è ravvisabile la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, “deve essere necessariamente pari al doppio di quello da essa (erroneamente) indicato e dunque a 4.000 (e non 2.000) volte il quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno (corrispondente a 2 kg. di principio attivo, che del resto corrisponde a quanto ipotizzato immaginando un quantitativo lordo di sostanza pura al 5%)”.
A tale decisione si è conformata la giurisprudenza successiva, anche in questo caso con motivazioni tutte lessicalmente sovrapponibili a quella di cui si è appena dato conto.
Le Sezioni Unite, con la precisazione che seguirà, ritengono la correttezza di quest’ultimo orientamento, perchè aderente al reale contenuto dell’analisi effettuata dalla sentenza “Biondi” del 2012 come riferita alle caratteristiche oggettive della sostanza (qualità, quantità, concentrazione) idonee a rendere applicabile il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.
Detta analisi, svolta come già precisato su dati giudiziari empirici, ma altamente dimostrativi del fenomeno, si è sviluppata da parte delle Sezioni Unite dapprima commisurando il dato oggettivo delle quantità di stupefacente alle quali attribuire – secondo la verifica effettuata in concreto da un osservatorio privilegiato – rilievo ponderale tale da poter integrare il valore minimo per la configurabilità della circostanza aggravante de qua; e quindi, in successione logica e partendo dalla premessa teorica della fissazione normativa della quantità massima detenibile, individuando un moltiplicatore di questa che consentisse di ricostruire e rappresentare in termini numerici proprio quel valore ponderale minimo come determinato attraverso l’esame dell’esperienza giudiziaria.
In altre parole, nel ragionamento della Corte è venuta prima la verifica delle quantità definibili ingenti (significativo il riferimento esemplificativo ai 50 kg. di “droghe leggere”) e poi quella dei numeri atti a rappresentarle, sicchè l’evidente errore di lettura del D.M. quanto al valore-soglia di principio attivo del THC non può inficiare in alcun modo l’accertamento empirico delle quantità rilevanti effettuato dalle Sezioni Unite, ma impone solo una correzione dei fattori del calcolo per ricostruirlo secondo i principi espressi in sentenza; e che questa correzione riguardi il moltiplicatore normativo della dose media singola (20 divenuto 40 e poi tornato 20) per ottenere la dose-soglia o, in alternativa, il moltiplicatore empirico di questa (2000 o 4000) poco importa, perchè il risultato aderente all’esito dell’indagine induttiva delle Sezioni Unite cristallizzato nella sentenza “Biondi” è che la soglia minima perchè si possa intendere ingente una quantità di “droga leggera” è di 2 kg. di principio attivo.
La precisazione infine formulata dalle Sezioni Unite concerne la reiterata definizione in motivazione della dose-soglia come “quantitativo di principio attivo che può essere detenuto in un giorno” e si palesa necessaria, più che per ragioni di correttezza terminologica, per il contributo che essa può fornire al giudice nell’ambito dell’esercizio della residua discrezionalità valutativa della sussistenza o meno della circostanza aggravante dell’ingente quantità nei casi in cui risulti superato il valore minimo ponderale determinato secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite.
E’ d’uopo qui rammentare che la figura giuridica della “dose media giornaliera” quale limite alla detenzione per uso esclusivamente personale sia stata introdotta con la L. 26 giugno 1990, n. 162, poi confluita nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 comma 1 e art. 78, comma 1, lett. c) e sia venuta meno all’esito di referendum popolare (D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171).
La normativa attuale, come si ricava dalla lettura del preambolo al più volte citato D.M. 11 aprile 2006, contiene nell'”elenco” ad esso allegato l’indicazione, per ogni sostanza, in primis di una dose media singola, intesa come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo; e, di seguito, quella di una dose-soglia, significante la quantità massima detenibile, la quale è data dall’incremento della dose media singola in base ad un moltiplicatore variabile in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza: essa prescinde totalmente dalla frequenza delle assunzioni nell’arco della giornata e perciò sembra anzi consentire (tollerare) anche un modesto accumulo per più giorni, sempre presunto come destinato all’uso personale.
L’unità di misura rapportabile al singolo cliente-consumatore è e deve pertanto essere non quella della non più normativamente esistente e perciò giuridicamente irrilevante “dose media giornaliera” (il cui valore era stato fissato dal D.M. 12 luglio 1990, n. 186), bensì quella del valore soglia (la quantità massima detenibile) posto a base del percorso argomentativo delle Sezioni Unite Biondi e ricavato dalla moltiplicazione del valore espresso in milligrammi della dose media singola per un fattore – di individuazione ministeriale sulla base di scelte di discrezionalità tecnica – pari a 5 per la cocaina, 10 per l’eroina, 20 per il THC, la cui determinazione già sconta la differente pericolosità o efficacia drogante dei vari tipi di stupefacente.
Vengono, pertanto, affermati i seguenti principi:
“a seguito della riforma introdotta nel sistema della legislazione in tema di stupefacenti dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, mantengono validità i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi, per l’individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell’ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2; con riferimento alle c.d. droghe leggere la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo“.
* * *
Il 10 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 145 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), c.p.c., sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98.
L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., stabilisce: «A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende».
L’art. 709-ter cod. proc. civ. demanda, nel primo comma, al giudice del procedimento in corso il potere di risolvere le controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale ovvero alle modalità dell’affidamento. Tali “controversie” sono costituite da disaccordi e contrasti che insorgono di frequente tra i genitori quando si tratta di individuare le modalità attuative dell’affidamento, ossia le forme di esercizio della responsabilità genitoriale ogni qual volta sia stato pronunciato un provvedimento di affidamento.
Nelle ipotesi in cui vengano accertate, poi, gravi inadempienze rispetto agli obblighi contenuti nei provvedimenti sull’esercizio della potestà genitoriale o sull’affidamento della prole o, in alternativa, il compimento di atti che arrechino pregiudizio al minore ovvero ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il medesimo giudice può non soltanto modificare i provvedimenti in vigore, ma anche pronunciare, a carico del genitore inadempiente, le misure sanzionatorie di cui ai numeri da 1) a 4) della stessa disposizione.
Proprio da questi poteri demandati all’autorità giudiziaria dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. si evince che lo scopo principale della norma è quello di superare le difficoltà da lungo tempo emerse nella prassi applicativa rispetto alla possibilità di assicurare l’effettività del diritto della prole ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori – in linea con le finalità generali della stessa legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso – anche ove tale diritto sia riconosciuto in un provvedimento di carattere giurisdizionale che disciplina le modalità di affidamento, per tutti gli aspetti diversi da quelli economici, e il diritto/dovere di visita del genitore non collocatario, ossia profili afferenti a obbligazioni complesse di carattere infungibile, incidenti su diritti di carattere non patrimoniale.
Le evidenziate difficoltà si correlavano soprattutto alla sostanziale inidoneità del modello dell’esecuzione forzata delineato dal Terzo libro del codice di procedura civile per l’attuazione delle decisioni giudiziarie in tema di affidamento e responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori (o maggiorenni portatori di handicap) – inidoneità riconosciuta, pur incidentalmente, da questa Corte (ordinanza n. 68 del 1987) – almeno per tutti gli aspetti diversi dalle questioni di carattere economico. Per queste ultime, invece, oltre all’esecuzione per espropriazione forzata, sono previsti vari meccanismi volti ad assicurare una adeguata tutela del diritto di credito quali, ad esempio, il sequestro o il pagamento diretto da parte di terzi ai sensi dell’art. 156 del codice civile, e la possibilità ex art. 545 cod. proc. civ. di pignorare il trattamento stipendiale anche al di là del limite generale del cosiddetto quinto, oltre alla tutela penale di cui, attualmente, agli artt. 570 e 570-bis cod. pen.
Quanto alla «sanzione amministrativa pecuniaria», dell’importo ricompreso tra un minimo di 75 euro ed un massimo di 5.000 euro in favore della Cassa delle ammende, prevista dalla disposizione censurata in parte qua, la stessa realizza innanzi tutto – sul modello di altri sistemi processuali – una forma di indiretto rafforzamento dell’esecuzione delle obbligazioni di carattere infungibile. Si tratta di obbligazioni il cui adempimento dipende in via esclusiva dalla volontà dell’obbligato e l’esecuzione indiretta si realizza, previa necessaria istanza di parte, attraverso un sistema di compulsione all’adempimento spontaneo prevedendo, in mancanza dello stesso, l’obbligo di corrispondere una somma in favore dello Stato. In ciò tale modello si accosta nella finalità – pur divergendo nel meccanismo processuale – alle misure di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare introdotte successivamente dall’art. 614-bis cod. proc. civ., ad opera della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che – poi divenute misure di coercizione indiretta – hanno invece vocazione generale, consentono l’esercizio di un potere d’ufficio del giudice e prevedono la corresponsione delle somme liquidate in favore dell’altra parte.
L’ordinanza di rimessione richiamava, quale parametro interposto ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., il divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. n. 7 CEDU secondo cui «[n]essuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato».
Tale garanzia – operante anche per l’Italia stante l’invalidità, ritenuta dalla giurisprudenza della Corte EDU, della riserva a suo tempo presentata – è stata interpretata dalla Corte di Strasburgo in modo da non correlarsi esclusivamente alla qualificazione, nel diritto interno degli Stati contraenti, di una sanzione come penale, nel senso che possono assumere rilievo, in via alternativa, la natura della misura e la gravità delle conseguenze in cui l’accusato rischia di incorrere. Una sanzione può pertanto essere qualificata come sostanzialmente penale, ove ciò possa desumersi, alternativamente, dalla natura dell’infrazione (rispetto alla quale occorre considerare il carattere e la struttura della norma trasgredita, ad esempio verificando se essa si caratterizza in termini di generalità dei destinatari o valutando la caratura degli interessi che essa tutela), ovvero dalla natura e dalla gravità della sanzione.
È noto che inizialmente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha declinato in una prospettiva prevalentemente processuale il principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU, affermando che lo stesso tutela l’individuo non tanto contro la possibilità di essere sanzionato due volte per il medesimo reato, ma ancor prima di essere sottoposto una seconda volta a processo per un reato per il quale è stato già giudicato, non importa se con esito assolutorio o di condanna (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia).
In seguito, tuttavia, nella giurisprudenza della stessa Corte si è registrata una significativa evoluzione nell’interpretazione della portata del divieto convenzionale di bis in idem rispetto ai procedimenti sanzionatori misti, evoluzione che è stata suggellata dalla pronuncia della grande camera, resa il 15 novembre 2016 in relazione al caso A. e B. contro Norvegia, la quale – avvicinandosi armonicamente a quelle che, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, erano le declinazioni del medesimo divieto, per come espresso dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – ha affermato che sottoporre a processo penale una persona già sanzionata a livello amministrativo con l’applicazione di una sanzione sostanzialmente penale non viola di per sé il divieto di bis in idem, purché tra i due procedimenti vi sia una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, nel quadro di un approccio unitario e coerente e le risposte sanzionatorie cumulate non comportino un sacrificio eccessivo per l’interessato.
Ne deriva che i due procedimenti possono non solo essere avviati, ma anche concludersi con l’irrogazione di due distinte sanzioni purché ricorrano, congiuntamente, le seguenti condizioni: le sanzioni perseguano finalità differenti ed abbiano in concreto ad oggetto profili diversi della medesima condotta antisociale; la duplicità dei procedimenti costituisca una conseguenza prevedibile della condotta; vi sia un’interazione probatoria tra i procedimenti, realizzata mediante la collaborazione tra le autorità preposte alla definizione degli stessi; ricorra una stretta connessione sul piano temporale tra i due procedimenti, pur non strettamente paralleli, tale da non assoggettare l’incolpato ad un “eterno giudizio” per il medesimo fatto; la sanzione comminata nel primo procedimento sia tenuta in considerazione nell’altro, in modo che venga rispettata una proporzionalità complessiva della pena.
Pertanto, la previsione di un duplice binario sanzionatorio per il medesimo fatto non viola il principio di ne bis in idem allorché si tratti di procedimenti paralleli e integrati sotto l’aspetto sia sostanziale che temporale.
Il principio del ne bis in idem ha quindi finito con l’acquisire una forte connotazione sostanziale pur non perdendo quella processuale, posto che presuppone l’esistenza di un duplice procedimento.
Inoltre, il principio del ne bis in idem trova, sebbene ivi non espressamente contemplato, saldo fondamento nella Costituzione.
Come incisivamente sottolineato dalla sentenza n. 200 del 2016 della Consulta, tale principio si correla agli artt. 24 e 111 Cost., in quanto «è immanente alla funzione ordinante cui la Carta ha dato vita, perché non è compatibile con tale funzione dell’ordinamento giuridico una normativa nel cui ambito la medesima situazione giuridica possa divenire oggetto di statuizioni giurisdizionali in perpetuo divenire» ed è volto a evitare che il singolo possa essere esposto ad una spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto.
Sotto un distinto profilo, non può trascurarsi che nell’ordinamento nazionale il medesimo principio, inteso secondo un connotato anche sostanziale, si salda, seppur a livello di normazione primaria, con il generale canone di specialità espresso non solo per i reati dall’art. 15 cod. pen., ma, con riferimento ai rapporti tra sanzioni amministrative e sanzioni penali dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), finalizzato ad impedire tendenzialmente una “doppia incriminazione” sostanziale per il medesimo fatto. Il principio di specialità tra sanzioni amministrative e penali è inoltre ribadito dall’art. 19 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), avente anch’esso lo scopo di evitare che un identico fatto venga punito due volte in capo al medesimo soggetto, tanto come illecito amministrativo, quanto come illecito penale.
Pertanto, costituisce principio cardine del nostro sistema quello per il quale un doppio binario sanzionatorio rappresenta non già una regola, bensì un’eccezione, che però deve trovare giustificazione in esigenze di complementarità del trattamento punitivo complessivo.
Anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la previsione di un duplice binario sanzionatorio non confligge con il principio di ne bis in idem ove: la normativa di riferimento persegua un obiettivo di interesse generale, tale da giustificare il cumulo di procedimenti e di sanzioni, che devono avere uno scopo complementare; contenga norme che garantiscano un coordinamento che limiti a quanto strettamente necessario l’onere supplementare derivante per i soggetti interessati da un cumulo di procedimenti; preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario in relazione alla gravità del reato di cui si tratti.
Pertanto, sulla portata del principio del divieto di bis in idem si registra ormai una convergenza coerente, in una prospettiva di tutela multilivello dei diritti, della giurisprudenza di questa Corte con quella delle Corti europee.
L’applicazione nella fattispecie in esame di tale principio e dei limiti in cui possa ritenersi legittimo il doppio binario sanzionatorio, dà fondamento e corpo al dubbio di legittimità costituzionale espresso dal giudice rimettente con la prima questione.
Ed infatti, da una parte alla sanzione contemplata dall’art. 709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., anche se espressamente definita amministrativa, deve riconoscersi natura sostanzialmente penale al fine del rispetto del divieto di bis in idem, in virtù dei criteri enunciati dalla Corte EDU sin dalla pronuncia Engel contro Paesi Bassi.
Assume rilievo in tal senso, in primo luogo, la gravità della sanzione pecuniaria irrogabile sino ad un importo massimo di 5.000 euro; gravità che deve essere invero valutata nello specifico contesto di misure irrogate in ambito familiare, diverso da quello del diritto dell’impresa o altresì da quello di significative violazioni in materia tributaria.
La natura pubblicistica e deterrente della sanzione è inoltre evidente per la circostanza che la stessa è disposta non in favore dell’altra parte, bensì della Cassa delle ammende.
Inoltre, sussisterebbe anche l’idem factum della condotta sanzionata in sede penale, con le pene di cui all’art. 570 cod. pen., e di quella sanzionata in sede civile, con la «sanzione amministrativa pecuniaria», ove appunto si ritenesse – come, pur plausibilmente, assume il giudice rimettente – che tra gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore» possa rientrare anche l’inadempimento dell’obbligo di pagamento dell’assegno di mantenimento della prole.
Benché rientri nella discrezionalità del legislatore prevedere, in deroga del principio di specialità, un apparato sanzionatorio articolato su più misure complementari e integrate – penali, amministrative, civili – il cui controllo di legittimità sia affidato a giudici diversi, occorre però che sussista un “nesso sufficientemente stretto in sostanza e in tempo” (un «lien matériel et temporel suffisamment étroit», secondo la citata sentenza della Corte EDU) tale da formare un “insieme coerente” in una logica di complementarietà per il raggiungimento di un obiettivo complessivo di repressione dell’idem factum.
Invece nella fattispecie in esame si avrebbe, in primo luogo, che, sul piano della sussistenza del nesso sostanziale, non sarebbe identificabile una funzione differenziata, quand’anche parzialmente, nelle due sanzioni previste, le quali invece risulterebbero parimenti accomunate dalla stessa finalità di deterrenza, a carattere special-preventivo, volta a indurre il genitore al pagamento dell’assegno di mantenimento in favore della prole, senza che sia necessario attivare gli strumenti del processo esecutivo civile. Le sanzioni, penale e “amministrativa”, risulterebbero essere del tutto sovrapponibili e non già complementari.
Inoltre mal si concilia con il criterio di stretta connessione nella sostanza un completamento solo eventuale – e quindi, in fondo, casuale – del trattamento sanzionatorio complessivo perché da una parte, a fronte della perseguibilità d’ufficio del reato di cui all’art. 3 della legge n. 54 del 2006 (e oggi di quello di cui all’art. 570-bis cod. pen.), l’applicazione della sanzione amministrativa presuppone che ci sia un ricorso del genitore che, nel contesto di una controversia insorta in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità dell’affidamento, lamenti l’inadempimento dell’altro genitore obbligato al pagamento dell’assegno di mantenimento per la prole. D’altra parte il giudice, pur a fronte di tale comprovato inadempimento, non sarebbe comunque obbligato ad irrogare la sanzione pecuniaria “amministrativa”, potendo limitarsi – come prevede la disposizione censurata – ad ammonire il genitore inadempiente o a condannarlo al risarcimento del danno; misure che, pur avendo una connotazione latamente punitiva, non hanno natura sostanzialmente penale al fine del rispetto del divieto di bis in idem.
In secondo luogo, la sanzione “amministrativa” contemplata dal secondo comma, numero 4), dell’art. 709-ter cod. proc. civ., per come è costruita, non consente di ritenere prevedibile, per il soggetto che pone in essere la condotta, la duplice risposta sanzionatoria in applicazione di norme chiare e precise; ciò implica che non dev’esservi discrezionalità nell’irrogazione delle sanzioni, potendo solo in tal modo il soggetto agente sapere che, se porrà in essere una condotta illecita, incorrerà non soltanto nella sanzione penale, ma anche in quella pecuniaria “amministrativa”. Al contrario, l’irrogazione della sanzione “amministrativa” di cui all’art. 709-ter cod. proc. civ. dipende da una serie di variabili correlate alla volontà del genitore che lamenti l’inadempimento dell’altro genitore. Solo a seguito del ricorso del primo, nel contesto di una procedura di separazione o scioglimento degli effetti civili del matrimonio, è possibile per il giudice adito l’emanazione di una misura di contrasto dell’inadempimento nell’esercizio della responsabilità genitoriale o nelle modalità dell’affidamento; misura che, peraltro, nel quadro di quelle contemplate dal secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ., potrebbe – come già sottolineato – essere, anche a fronte di una medesima condotta, quella diversa dell’ammonimento o del risarcimento del danno.
Né la rilevata assenza di una stretta connessione tra le sanzioni penale e “amministrativa”, potrebbe essere superata dalla sola possibilità di comminare un trattamento sanzionatorio complessivo proporzionale alla gravità del fatto. La proporzionalità di quest’ultimo, pur costituendo un criterio di preminente importanza, non può rappresentare l’unica ragione giustificatrice, in assenza di una stretta connessione sotto il profilo sostanziale, della duplice repressione di un medesimo fatto. La possibilità di irrogare una sanzione proporzionata costituisce, invero, un posterius rispetto alla valutazione in ordine alla connessione stretta tra diverse sanzioni per lo stesso fatto.
Si ha quindi che il possibile contrasto tra la disposizione censurata e il principio del ne bis in idem – che, per le ragioni appena indicate, insorgerebbe ove la prima fosse interpretata nei termini indicati dal giudice rimettente – conduce univocamente verso un’interpretazione alternativa che sia costituzionalmente orientata nel senso di escludere la duplice sanzione dell’idem factum in assenza di una “stretta connessione in sostanza e nel tempo”.
Nella fattispecie in esame può ben ritenersi che la sanzione pecuniaria “amministrativa” introdotta dall’art. 2 della legge n. 54 del 2006 (con la previsione dell’art. 709-ter cod. proc. civ.) sia simmetrica e parallela a quella prevista dal successivo art. 3 e non già complementare a quest’ultima.
Come già sopra anticipato, tale legge ha previsto, all’art. 1, la regola generale dell’affidamento condiviso dei minori e dell’esercizio tendenzialmente congiunto della potestà genitoriale rimettendo al giudice ogni decisione in caso di disaccordo. La stessa disposizione ha novellato l’art. 155 cod. civ. sui provvedimenti riguardo ai figli e ha introdotto, in particolare, l’art. 155-bis cod. civ., che regola l’affidamento a un solo genitore e l’opposizione all’affidamento condiviso, e l’art. 155-ter cod. civ. sulla revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli.
A fronte di nuovi diritti e nuovi obblighi, spesso di fare infungibile, e in assenza (all’epoca) di misure indirette per favorirne l’esecuzione (le misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ. sarebbero state introdotte solo alcuni anni dopo), lo stesso legislatore ha approntato, all’art. 2, uno specifico e mirato strumento processuale di tutela, costituito appunto dall’art. 709-ter cod. proc. civ..
Parallelamente lo stesso legislatore ha rafforzato, all’art. 3, la già esistente tutela penale a fronte di una tipica obbligazione pecuniaria suscettibile di esecuzione forzata, oltre che di altre misure di garanzia della responsabilità patrimoniale, quale è quella avente ad oggetto l’assegno di mantenimento della prole nelle procedure di separazione dei coniugi e di scioglimento degli effetti civili del matrimonio. L’art. 3, infatti, prevede per la «violazione degli obblighi di natura economica» l’applicazione dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e quindi le pene contemplate dall’art. 570 cod. pen.
Questo parallelismo tra l’art. 2, che ha introdotto l’art. 709-ter cod. proc. civ., e l’art. 3, che ha rafforzato l’art. 12-sexies citato, consente di escludere, in forza del canone dell’interpretazione conforme, che le due norme si intersechino e che la condotta sanzionata come reato dall’art. 3 della legge n. 54 del 2006 con le pene dell’art. 570 cod. pen. possa essere sanzionata anche con la pena pecuniaria “amministrativa” dell’art. 2.
La disposizione censurata ha dunque la sua ratio e la sua giustificazione nell’esigenza di assicurare una tutela effettiva rispetto all’adempimento di una serie di obblighi di carattere prevalentemente infungibile nei confronti della prole, per i quali prima dell’emanazione della stessa mancavano efficaci strumenti di attuazione e di coazione.
Per converso gli aspetti patrimoniali del rapporto tra i genitori e la prole, relativi all’assegno di mantenimento, non hanno mai posto significativi problemi attuativi, in quanto le relative pronunce sono eseguibili nelle forme del processo esecutivo per espropriazione (anche mediante un pignoramento dei crediti del debitore) e presidiate in sede penale dal reato di cui all’art. 570-bis cod. pen. e finanche – ove il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento ridondi in deprivazione dei mezzi di sussistenza – da quello di cui all’art. 570, secondo comma, numero 2), cod. pen.
L’art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ., deve quindi essere interpretato nel senso che il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento della prole, nella misura in cui è già sanzionato penalmente, non è compreso nel novero delle condotte inadempienti per le quali può essere irrogata dall’autorità giudiziaria adita la sanzione pecuniaria “amministrativa” in esame. Le condotte suscettibili di tale sanzione sono infatti “altre”, ossia le tante condotte, prevalentemente di fare infungibile, che possono costituire oggetto degli obblighi relativi alla responsabilità genitoriale e all’affidamento di minori.
L’ordinanza di rimessione, assumendo la natura sostanzialmente penale, in virtù dei criteri elaborati dalla già ricordata giurisprudenza della Corte EDU, della misura contemplata dalla disposizione censurata, dubitava, inoltre, della compatibilità della stessa con l’art. 25, secondo comma, Cost., nella parte in cui sanziona anche gli «atti che comunque arrechino pregiudizio al minore», per violazione del canone di determinatezza in ordine alla individuazione dei comportamenti sanzionabili.
Il principio di legalità di cui all’invocato parametro costituzionale, che trova applicazione anche per le sanzioni amministrative di natura sostanzialmente punitiva, non risulta violato dalla disposizione censurata.
Il secondo comma dell’art. 709-ter cod. proc. civ. – come già rilevato – individua in via alternativa le condotte che possono giustificare l’applicazione delle sanzioni ivi previste, le quali possono consistere in gravi inadempienze, da riferirsi agli obblighi concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriale o l’affidamento dei minori; ovvero in atti che comunque arrechino pregiudizio al minore; o anche in atti che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento.
La giurisprudenza di legittimità – premesso che l’art. 709-ter cod. proc. civ. attribuisce al giudice la facoltà di applicare una o più tra le misure previste dalla stessa norma nei confronti del genitore responsabile di gravi inadempienze o di atti «che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento» – ha precisato che l’uso della congiunzione disgiuntiva evidenzia che avere ostacolato il corretto svolgimento delle prescrizioni giudiziali relative alle modalità di affidamento dei figli è un fatto che giustifica di per sé l’applicazione di una o più tra le misure previste, anche in mancanza di un pregiudizio in concreto accertato a carico del minore.
È possibile quindi individuare i comportamenti sanzionabili in quelle condotte – da ricondurre a “inadempienze o violazioni” di prescrizioni dettate in un provvedimento giurisdizionale, pur non apparentemente “gravi” – che abbiano arrecato alla prole un danno, anche non patrimoniale, accertabile e valutabile secondo gli ordinari criteri.
È stato infatti costantemente ribadito il principio secondo cui il ricorso a un’enunciazione sintetica della norma incriminatrice, piuttosto che a un’analitica enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza purché, mediante l’interpretazione integrata, sistemica e teleologica, sia possibile attribuire un significato chiaro, intelligibile e preciso alla previsione normativa.
È peraltro compatibile con il principio di determinatezza l’uso, nella formula descrittiva dell’illecito sanzionato, di una tecnica esemplificativa oppure di concetti extragiuridici diffusi o, ancora, di dati di esperienza comune o tecnica, tanto più ove, come nella fattispecie considerata, l’opera maieutica della giurisprudenza, specie di legittimità, consenta di specificare il precetto legale.
2021
Il 14 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 98, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica.
Ad avviso della Corte, le questioni sono inammissibili per non essersi l’ordinanza di rimessione adeguatamente confrontata con gli argomenti contrari alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nel giudizio a quo, riqualificazione dalla quale dipende la rilevanza delle questioni prospettate.
Più nel dettaglio, precisa la Corte, l’imputato è chiamato a rispondere del delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, primo e secondo comma, del codice penale. In esito al dibattimento, il rimettente ritiene di dover riqualificare i fatti contestati – immutati nella loro materialità – nella diversa e più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 cod. pen. Avendo prospettato alla difesa dell’imputato tale possibile riqualificazione, e avendo il difensore chiesto – a fronte di tale modifica in iure – di essere ammesso al rito abbreviato, il rimettente solleva le questioni di legittimità costituzionale sopra indicate, aventi ad oggetto la disposizione del codice di procedura penale – l’art. 521, comma 1 – che consente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto così come diversamente qualificato.
La riqualificazione – da atti persecutori aggravati a maltrattamenti in famiglia – dei fatti contestati all’imputato costituisce dunque il presupposto logico che condiziona l’applicazione nel giudizio a quo della disposizione, della cui legittimità costituzionale il giudice dubita.
Tale riqualificazione, osserva la Corte, riposa sul rilievo, svolto con ricchezza di argomenti dall’ordinanza di rimessione, che le condotte – moleste, minacciose, ingiuriose e violente – contestate all’imputato siano state commesse nel quadro di una relazione affettiva stabile tra l’imputato e la persona offesa, pur nella riconosciuta assenza di convivenza.
Secondo quanto riferisce il rimettente, dall’istruttoria dibattimentale è emersa l’esistenza di un rapporto affettivo tra i due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso del quale – in particolare – la donna era solita frequentare la casa ove l’uomo viveva con la madre e la sorella, e nella quale lei stessa talvolta si tratteneva.
Il pubblico ministero aveva qualificato le condotte contestate all’imputato come atti persecutori ai sensi dell’art. 612-bis cod. pen., con l’aggravante prevista dal secondo comma di tale disposizione, che prevede l’aumento della pena quando il fatto sia commesso, tra l’altro, «da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».
Ritiene invece il rimettente che la stabilità della relazione affettiva, desunta in particolare dall’assidua frequentazione da parte della persona offesa della famiglia dell’imputato, imponga di riqualificare le condotte come maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572, primo comma, cod. pen.: disposizione, quest’ultima, applicabile a chiunque «maltratta», per la parte che qui rileva, «una persona della famiglia o comunque convivente». Ciò in quanto il sintagma «una persona […] comunque convivente» andrebbe letto come riferito a un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire».
In tale ipotesi, dunque, il più grave delitto di maltrattamenti in famiglia assorbirebbe l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che verrebbe dunque ad abbracciare le sole ipotesi di relazioni affettive non caratterizzate (o non più caratterizzate) da una «attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima».
Questa lettura troverebbe conforto, osserva il rimettente, in varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno ricondotto allo spettro applicativo dell’art. 572 cod. pen. fatti commessi nell’ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di progetti di vita», e hanno affermato il principio secondo cui l’art. 572 cod. pen. «è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale».
Pertanto, il delitto sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9 maggio 2019, n. 19922, nonché – nello stesso senso – sezione sesta penale, sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n. 31121 e, pur escludendo nel caso di specie il reato de quo, sezione sesta penale, sentenza 7 maggio-27 maggio 2013, n. 22915. Si vedano altresì, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, sezione sesta penale, sentenza 21 ottobre-1° dicembre 2020, n. 34086, concernente una coppia che, pur non convivendo, pagava congiuntamente un appartamento utilizzato come base per incontri clandestini; sezione sesta penale, sentenza 6 novembre 2019-11 febbraio 2020, n. 5457, relativa a una coppia non convivente, la cui relazione durava da appena due mesi).
Tuttavia, tale orientamento risale, come correttamente osserva il rimettente, ad epoca antecedente alla introduzione dell’art. 612-bis cod. pen., e si è formato in larga misura con riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno di una preesistente convivenza (la sentenza n. 19922 del 2019 sopra citata concerneva, ad esempio, una coppia che aveva convissuto per circa dieci anni; e parimenti concernono ex conviventi Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 3 novembre-22 dicembre 2020, n. 37077; sezione terza penale, sentenza 12 giugno-28 ottobre 2019, n. 43701; sezione sesta penale, sentenza 13 dicembre 2017-24 gennaio 2018, n. 3356), specie quando dalla convivenza siano nati anche dei figli (ex aliis Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 6 ottobre 2020-4 febbraio 2021, n. 4424; sezione sesta penale, sentenza 28 settembre-20 novembre 2017, n. 52723; sezione sesta penale, sentenza 20 aprile-22 maggio 2017, n. 25498).
Non a caso, una recente sentenza della Corte di cassazione – invero successiva all’ordinanza di rimessione – ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un’ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione «instaurata da non molto tempo» e da una “coabitazione” consistita soltanto «nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi nella casa dell’uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911).
La giurisprudenza di legittimità, considerata alla luce dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione circa la possibilità di sussumere entro la figura legale descritta dall’art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate nell’ordinanza di rimessione, ove si dà atto in particolare dell’assenza di convivenza (presente o passata) tra i due protagonisti della vicenda.
Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998).
Il divieto di analogia, osserva la Corte, non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.
Ciò vale non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice» (BVerfGE 73, 206, (235); in senso conforme, più recentemente, BVerfGE 130, 1 (43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)).
Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988).
È evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.
Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004).
Tanto che proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.
E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.
Il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”.
In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti – in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.
Il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie comporta dunque una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne determina l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021).
* * *
Il 6 luglio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 140, alla stregua della quale va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 9, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, nella parte in cui prevede la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui i procedimenti penali sono rinviati ai sensi del precedente comma 7, lettera g), e in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020.
Va dichiarata, invece, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 9, del d.l. n. 18 del 2020, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Paola.
Del pari, va dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, sollevate, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, dai Tribunali ordinari di Spoleto, Roma e Crotone;
Ancora, va dichiarata la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, sollevate, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., dai Tribunali ordinari di Paola, Spoleto, Roma e Crotone.
Ad avviso della Corte, va in primo luogo rilevato che le disposizioni censurate – sia il comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, come convertito, sia il successivo comma 9 – appartengono all’articolata disciplina introdotta per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 con riguardo al settore della giustizia; disposizioni che, con particolare riferimento al procedimento penale, hanno entrambe previsto – ma sulla base di significativi differenti presupposti e secondo la scansione temporale di seguito indicata – una stasi dell’attività giudiziaria, salvo le eccezioni di cui si dirà più innanzi, stabilendo, altresì, la sospensione del corso della prescrizione dei reati, senza distinzione tra procedimenti aventi ad oggetto condotte consumate prima o dopo l’introduzione di tali norme.
Il censurato art. 83 è già stato scrutinato da questa Corte, limitatamente al suo comma 4, con la sentenza n. 278 del 2020, alla quale si farà ripetuto riferimento.
Le doglianze rivolte al successivo comma 9 della stessa disposizione presentano, invece, significativi elementi di novità.
Vanno innanzi tutto esaminate le questioni di legittimità costituzionale che investono il comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, sollevate da tutte le ordinanze di rimessione; questioni che – come si è appena rilevato – recano censure analoghe a quelle già esaminate da questa Corte nella pronuncia sopra richiamata.
Le questioni sollevate in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., sono manifestamente infondate.
Questa Corte ha già dichiarato non fondate le medesime questioni di costituzionalità, sollevate in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della violazione del divieto di retroattività della norma penale sfavorevole (sentenza n. 278 del 2020).
In tale pronuncia ha posto in evidenza come la disciplina emergenziale, di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, abbia dato luogo – come puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità – ad un caso di sospensione del procedimento e del processo penale, in ragione dell’integrale sospensione dell’attività giurisdizionale nel periodo emergenziale, conseguente alla previsione sia del rinvio delle udienze, sia della sospensione dei termini processuali di qualsiasi atto del procedimento.
La Corte, quindi, ha ritenuto non fondata la denunciata violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., rilevando che la sospensione del processo, da cui consegue la sospensione della prescrizione, ai sensi dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, è prevista «da una norma che impon[e] una “stasi” del giudizio basata su elementi certi ed oggettivi». Sicché la «riconducibilità della fattispecie in esame alla disciplina di cui all’art. 159, primo comma, cod. pen. esclude […] che si sia in presenza di un intervento legislativo» in contrasto con il principio di irretroattività della norma penale sostanziale sfavorevole, sancito dall’evocato parametro.
Questa Corte ha, dunque, affermato che il principio di legalità è rispettato perché la sospensione del corso della prescrizione, di cui alla disposizione censurata, essendo riconducibile alla fattispecie della «particolare disposizione di legge» di cui al primo comma dell’art. 159 cod. pen., può dirsi essere anteriore alle condotte contestate agli imputati nei giudizi a quibus.
La regola di cui all’art. 159 cod. pen. – secondo cui, quando il procedimento o il processo penale è sospeso in applicazione di una particolare disposizione di legge, lo è anche il corso della prescrizione – è, infatti, certamente anteriore alle condotte penalmente rilevanti proprio perché contenuta nel codice penale del 1930 e ribadita dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), che ha modificato, sostituendolo, il citato art. 159 cod. pen.
La riconducibilità della sospensione della prescrizione, di cui alla disposizione censurata, alla regola generale stabilita dall’art. 159 cod. pen. assicura, dunque, che al momento della commissione del fatto il suo autore ha potuto avere consapevolezza ex ante che, in caso di sospensione del procedimento o del processo in applicazione di una particolare disposizione di legge, anche il decorso del termine di prescrizione sarebbe stato sospeso.
Tutte le ordinanze di rimessione non prospettano profili di censura che non siano già stati esaminati nella richiamata pronuncia n. 278 del 2020, sicché, in mancanza di argomentazioni nuove e diverse, le questioni sollevate in riferimento alla violazione del principio di retroattività (art. 25, secondo comma, Cost.) devono essere dichiarate manifestamente infondate.
Anche le questioni prospettate nei confronti del medesimo comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, in riferimento alla violazione dell’art. 7 CEDU per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., sono analoghe a quelle già scrutinate – e ritenute inammissibili – da questa Corte nella richiamata pronuncia.
Esse sono, quindi, manifestamente inammissibili.
Tutti i rimettenti, ad eccezione del Tribunale di Roma (r.o. n. 159 del 2020), hanno evocato – come parametro interposto in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. – l’art. 7 CEDU, che prevede che nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale; né può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
I rimettenti richiamano la tesi della natura processuale dell’istituto della prescrizione accolta dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che implica una garanzia di portata meno estesa di quella affermata dal costante orientamento di questa Corte.
Deve al riguardo ribadirsi, in relazione al principio di legalità, che «gli stessi principi o analoghe previsioni si rinveng[o]no nella Costituzione e nella CEDU, così determinandosi una concorrenza di tutele, che però possono non essere perfettamente simmetriche e sovrapponibili; vi può essere uno scarto di tutele, rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della Corte EDU riconosca, in determinate fattispecie, una tutela più ampia» (sentenza n. 25 del 2019). Quindi in questa ipotesi di «concorrenza di tutele» si ha che l’invocato parametro convenzionale (art. 7 CEDU) ben può offrire talora, in riferimento a determinate fattispecie, una tutela più ampia del parametro nazionale (art. 25, secondo comma, Cost.). Ed è quanto accaduto allorché la questione, ritenuta inizialmente non fondata in riferimento a quest’ultimo (sentenza n. 282 del 2010), è poi risultata invece fondata in riferimento al parametro interposto (ancora sentenza n. 25 del 2019).
Ma, sotto tale specifico profilo, i rimettenti, pur consapevoli della natura sostanziale che l’istituto della prescrizione riveste nell’ordinamento italiano, hanno omesso di chiarire in quali termini il parametro convenzionale offrirebbe una protezione del principio di legalità maggiore di quella dell’art. 25, secondo comma, Cost., laddove invece la «predicata natura processuale della prescrizione riduce il perimetro della non retroattività della norma penale rispetto alla ricostruzione dell’istituto, quale presente nella giurisprudenza di questa Corte, che […] ne afferma invece la natura sostanziale» (sentenza n. 278 del 2020).
Anzi, le ordinanze di rimessione evidenziano «l’impossibilità di individuare un parametro costituzionale di riferimento per l’orientamento della “processualizzazione” della sospensione dei termini di prescrizione» (r.o. n. 133 e r.o. n. 165 del 2020) e rimarcano che, con riferimento all’istituto della prescrizione, è il parametro nazionale ad avere un ambito di applicazione più ampio di quello convenzionale (r.o. n. 152 del 2020).
Va pertanto dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate nei confronti dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU.
Si può ora passare all’esame delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti del comma 9 dell’art. 83 del d.l. n.18 del 2020; disposizione questa che invece non è stata oggetto della sentenza n. 278 del 2020.
Giova innanzi tutto richiamare brevemente il quadro normativo in cui si colloca la norma censurata, distinguendo una prima e una seconda fase di contrasto dell’emergenza epidemiologica.
Il primo intervento legislativo concernente l’attività giurisdizionale posto in essere per rispondere all’emergenza determinata dall’epidemia da Covid-19 si è avuto con il decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9 (Misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), il quale, all’art. 10, ha riguardato esclusivamente i procedimenti penali (e civili) pendenti presso gli uffici giudiziari dei circondari dei tribunali cui appartenevano i Comuni indicati all’Allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2020 (Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19).
Tale provvedimento aveva previsto – limitatamente ai territori indicati – la sospensione dei termini processuali e il rinvio delle udienze, ma si era altresì stabilito che, a partire dal 3 marzo 2020, il corso della prescrizione fosse sospeso per il tempo in cui il processo fosse rinviato o i termini procedurali fossero sospesi e comunque fino al 31 marzo 2020 (art. 10, comma 10, del citato decreto-legge).
È seguito il decreto-legge 8 marzo del 2020, n. 11 (Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria), per disciplinare, sull’intero territorio nazionale, il rinvio delle udienze e la sospensione dei termini per tutti i procedimenti (civili, penali, tributari e militari).
In particolare, all’art. 1, comma 1, si è previsto che a decorrere dal giorno successivo al 9 marzo 2020, data di entrata in vigore del decreto medesimo, e sino al 22 marzo 2020, le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari (fatti salvi alcuni procedimenti di particolare urgenza) fossero rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020.
Contestualmente, al comma 2 dello stesso art. 1, si è prevista anche la sospensione dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei detti procedimenti, fatti salvi quelli già richiamati.
È poi intervenuto il decreto-legge n. 18 del 2020, cui appartengono le norme censurate, e, prima che maturassero i termini di decadenza dei decreti-legge n. 9 e n. 11 del 2020 per mancata conversione, detti provvedimenti sono stati abrogati, con salvezza degli effetti, dall’art. 1, comma 2, della legge 24 aprile 2020, n. 27 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, recante misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. Proroga dei termini per l’adozione di decreti legislativi).
Come già sopra rilevato, l’art. 83, ai commi 1 e 2, del d.l. n. 18 del 2020, per quanto attiene ai processi penali, ha disposto in via generale e obbligatoria, salvo alcune eccezioni, il rinvio di ufficio delle udienze a data successiva al 15 aprile 2020 e la sospensione dei «termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali» dal 9 marzo al 15 aprile 2020.
Su tali disposizioni è, poi, intervenuto l’art. 36 del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali), convertito, con modificazioni, nella legge 5 giugno 2020, n. 40, che ha stabilito che il termine del 15 aprile 2020, previsto dai commi 1 e 2 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, fosse prorogato all’11 maggio 2020.
In relazione a tali fattispecie, la prima delle disposizioni oggetto di censura (il comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020) ha disposto la sospensione dei termini di prescrizione, oltre che dei termini di durata massima delle misure cautelari personali.
Per effetto, dunque, della proroga disposta dall’art. 36 del d.l. n. 23 del 2020, la sospensione dei termini prescrizionali, di cui al comma 4 dell’art. 83, ha operato dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020.
Quanto alla seconda fase di contrasto dell’emergenza epidemiologica, deve rilevarsi che il d.l. n. 18 del 2020 ha confermato il potere dei capi degli uffici giudiziari – già previsto dal d.l. n. 11 del 2020 – di adottare misure organizzative connesse alle esigenze sanitarie, derivanti dall’epidemia in atto.
Si è con ciò consentita una graduale ripresa delle udienze penali (e anche civili), rimessa alla valutazione dei capi degli uffici giudiziari, funzionale al controllo della diffusione del contagio.
In particolare, l’art. 83, comma 6, del d.l. n. 18 del 2020 – dando inizio a tale seconda fase successiva all’11 maggio 2020 e ferma la necessità di contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria – ha previsto, per il periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno 2020 che «i capi degli uffici giudiziari, sentiti l’autorità sanitaria regionale, per il tramite del Presidente della Giunta della Regione, e il Consiglio dell’ordine degli avvocati, adottano le misure organizzative, anche relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone. Per gli uffici diversi dalla Corte suprema di cassazione e dalla Procura generale presso la Corte di cassazione, le misure sono adottate d’intesa con il Presidente della Corte d’appello e con il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello dei rispettivi distretti».
Tale disposizione, rimasta invariata nel suo contenuto sostanziale, è stata più volte modificata in relazione all’ambito temporale di esplicazione del potere da essa conferita ai capi degli uffici giudiziari.
La formulazione originaria prevedeva, infatti, che i capi degli uffici potessero adottare tali misure organizzative nel periodo compreso tra il 16 aprile e il 30 giugno 2020; tale periodo veniva sostituito, per effetto dell’art. 3, comma 1, lettere b) e i), del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, con quello compreso tra il 12 maggio ed il 31 luglio; l’art. 3, comma 1, lettera i) del d.l. n. 28 del 2020 disponeva, poi, che la data del 31 luglio sostituisse quella del 30 giugno, ovunque questa si trovasse indicata nell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020; successivamente, di seguito alla conversione del d.l. n. 28 del 2020, la lettera i) veniva soppressa e, con l’introduzione della lettera b-bis), il termine del 30 giugno veniva espressamente ripristinato.
Di seguito a tali modifiche normative il potere dei capi degli uffici giudiziari di adottare misure organizzative, di cui al comma 6 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, è rimasto riferito al periodo compreso tra il 12 maggio e il 30 giugno 2020.
Proprio per consentire la ripartenza dell’attività giudiziaria, nel rispetto della finalità di cui al comma 6 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020, si è stabilito che i capi degli uffici giudiziari potessero adottare misure organizzative, come la limitazione dell’accesso del pubblico agli uffici giudiziari, restrizioni dell’orario di apertura al pubblico degli uffici, prevedendo anche la chiusura degli stessi (salvo che per servizi urgenti) e più in generale, la regolamentazione dell’accesso ai servizi, tramite una previa prenotazione, da effettuarsi anche con mezzi di comunicazione telefonica o telematica, in ogni caso predisponendo misure volte ad evitare forme di assembramento (art. 83, comma 7, lettere a, b e c, del d.l. n. 18 del 2020).
Ma accanto a tali misure generali, di carattere strettamente organizzativo-amministrativo, è stato conferito ai capi degli uffici giudiziari il potere di adottare provvedimenti riguardanti l’attività giudiziaria in senso stretto.
Si è, infatti, prevista l’adozione da parte loro di linee guida con carattere vincolante per la fissazione e la trattazione delle udienze.
Segnatamente ai capi degli uffici giudiziari è stato conferito il potere di prevedere il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020, peraltro con alcune eccezioni. Sono stati esclusi i casi contemplati dal comma 3 dell’art. 83 citato, ossia quegli stessi procedimenti in relazione ai quali anche la sospensione ex lege di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 83 non trovava applicazione; quali, tra gli altri, i procedimenti a carico di persone detenute, quelli in cui erano applicate misure cautelari o di sicurezza o di prevenzione, nonché i procedimenti che presentavano carattere di urgenza per la necessità di assumere prove indifferibili.
Al di fuori di tali procedimenti, per assicurare l’attuazione delle misure dirette alla prevenzione del contagio, i capi degli uffici giudiziari – come accaduto in relazione ai procedimenti a quibus – alla luce delle specifiche esigenze sanitarie e organizzative dell’ufficio, valutate ai sensi del precedente comma 6 – hanno potuto prevedere il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020.
In tale evenienza, qualora il magistrato non avesse ritenuto di trattare il processo nel periodo 12 maggio-30 giugno 2020, la disposizione censurata ha stabilito che per il tempo in cui il procedimento è stato rinviato, e in ogni caso non oltre il 30 giugno 2020, è sospeso il decorso del termine di prescrizione. Tale è infatti il contenuto precettivo della disposizione censurata (art. 83, comma 9, del d.l. n. 18 del 2020): nei procedimenti penali il corso della prescrizione rimane sospeso per il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del comma 7, lettera g), e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020.
Ciò premesso, deve, in primo luogo, essere dichiarata la manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale ordinario di Paola (r.o. n. 133 del 2020), in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU.
Il rimettente, a sostegno della sua censura di lesione del parametro convenzionale, ha replicato argomentazioni identiche a quelle svolte nei confronti del comma 4 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 e, pertanto, non chiarendo, anche in questo caso, in quali termini tale parametro interposto offrirebbe una protezione del principio di legalità più estesa di quella dell’art. 25, secondo comma, Cost., vanno ribadite – anche con riferimento al comma 9 dello stesso art. 83 – le medesime ragioni di inammissibilità manifesta (vedi supra, punti 7. e seguenti).
Nuova è invece la questione sollevata dal Tribunale di Roma (r.o. n. 159 del 2020), in riferimento al principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.), sotto il profilo della denunciata sua violazione per insufficiente determinatezza della fattispecie legale dalla quale consegue la sospensione della durata del termine di prescrizione dei reati nel periodo dal 12 maggio al 30 giugno 2020.
La questione è fondata.
Va ribadito che la concreta determinazione della durata del tempo di prescrizione dei reati appartiene alla discrezionalità del legislatore, censurabile solo in caso di manifesto difetto di ragionevolezza o proporzionalità.
È il legislatore che – secondo scelte di politica criminale legate alla gravità dei reati – valuta l’affievolimento progressivo dell’interesse della collettività alla punizione del comportamento penalmente illecito e determina quando il decorso del tempo, in riferimento ad ogni fattispecie di reato, ne comporti l’estinzione. Ossia stabilisce la «durata, per così dire “tabellare”, prevista in generale dall’art. 157 cod. pen., ma talora fissata con norme speciali in riferimento a particolari reati (ad esempio, in caso di delitti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto) – entro la quale sussisterà, in ogni caso, la punibilità della condotta contestata» (sentenza n. 278 del 2020).
È questa l’intrinseca natura sostanziale della prescrizione che chiama in causa la garanzia del principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.); principio questo che costituisce caposaldo del complessivo sistema punitivo – il cosiddetto “diritto sanzionatorio” – trovando esso applicazione alle fattispecie di reato (sentenza n. 25 del 2019) e alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente punitivo (sentenza n. 5 del 2021).
Una persona accusata di un reato deve poter conoscere ex ante (ossia al momento della commissione del fatto), sia la fattispecie di reato, sia l’entità della pena con proiezione, entro certi limiti, anche alle modalità della sua espiazione in regime carcerario (sentenza n. 32 del 2020), sia la durata della prescrizione (art. 157 cod. pen.).
Ma la garanzia della natura sostanziale della prescrizione si estende anche alle possibili ricadute che sulla sua durata possono avere norme processuali.
Se da una parte per queste ultime trova, invece, applicazione di per sé, in quanto regola del processo, il diverso canone del tempus regit actum, dall’altra le conseguenze in termini di possibile allungamento della durata del termine di prescrizione sono attratte alla dimensione sostanziale, che connota tale istituto, e quindi al rispetto del principio di legalità: anch’esse devono essere previste dalla legge del tempus commissi delicti. Rileva, sotto questo profilo, soprattutto la disciplina della sospensione e dell’interruzione della prescrizione (artt. 159 e 160 cod. pen.).
Coniugando l’uno e l’altro aspetto, si ha che la garanzia del principio di legalità richiede che la persona incolpata di un reato deve poter avere previa consapevolezza della disciplina della prescrizione concernente sia la definizione della fattispecie legale, sia la sua «dimensione temporale»; quest’ultima risultante dalla (ben precisa) durata tabellare della prescrizione (art. 157 cod. pen.) e dalla (possibile) incidenza su di essa di regole processuali, quali quelle dell’interruzione e della sospensione (amplius, sentenza n. 278 del 2020). Ciò comporta – come già rilevato – non già l’esatta prevedibilità ex ante del dies ad quem in cui maturerà la prescrizione e il reato sarà estinto, stante l’applicazione solo eventuale di siffatte regole processuali con ricadute sostanziali sulla durata del termine di prescrizione, ma la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale.
Il rispetto del principio di legalità richiede, quindi, che la norma, la quale in ipotesi ampli la durata del termine di prescrizione (art. 157 cod. pen.), ovvero ne preveda il prolungamento come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale, sia «sufficientemente determinata» (sentenza n. 278 del 2020), e, ove tale, sia anche non retroattiva (e pertanto applicabile solo a reati commessi successivamente alla data della sua entrata in vigore).
Con riferimento alla cosiddetta “regola Taricco” di derivazione europea, che significava il prolungamento, in alcuni casi, della durata del termine di prescrizione di reati tributari, dapprima la stessa Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M. A. S. e M. B.) ha affermato che l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna in materia di prescrizione, sulla base di tale regola, viene meno quando ciò comporta una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile oppure dell’applicazione retroattiva di una normativa che preveda un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.
Successivamente questa Corte (sentenza n. 115 del 2018), proprio richiamando tale pronuncia, ha ritenuto assorbente il «deficit di determinatezza» che caratterizzava la “regola Taricco” «a causa della genericità dei concetti di “grave frode” e di “numero considerevole di casi”», intorno ai quali essa ruotava; e quindi ha concluso affermando, in via interpretativa, che «la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento», e non già, soltanto, che essa non poteva avere efficacia retroattiva.
Parimenti si è affermato che «il tempo necessario per la prescrizione di un reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolarlo devono essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole legali sufficientemente determinate» (ordinanza n. 24 del 2017).
Più recentemente, questa Corte, esaminando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, comma 4, del d.l. n. 18 del 2020, ha ribadito innanzi tutto che la fissazione della durata del tempo di prescrizione deve essere – come già ricordato – «sufficientemente determinata» (sentenza n. 278 del 2020). E tale è stata ritenuta la disposizione allora censurata che ha previsto la sospensione del termine di prescrizione in riferimento all’applicazione della regola processuale contenuta nella congiunta applicazione dei commi 1 e 2 dello stesso art. 83; i quali hanno disposto il rinvio d’ufficio di tutti i procedimenti penali (oltre che civili) a data successiva all’11 maggio 2020 e la sospensione del decorso di tutti i termini per il compimento di qualsiasi atto.
Tale generalizzata stasi processuale identifica, secondo la giurisprudenza di legittimità, una fattispecie legale – nella specie, integralmente legale – di sospensione del procedimento o del processo imposta da una particolare disposizione di legge.
Sicché, in quel caso, la Corte è passata ad esaminare la denunciata violazione del principio di non retroattività, parimenti contenuto nell’art. 25, secondo comma, Cost., ritenendola, nella specie, non sussistente – come già sopra ricordato – perché la sospensione del procedimento o del processo, recata dai primi due commi del censurato art. 83, poteva dirsi rientrare nella fattispecie di cui al primo comma dell’art. 159 cod. pen., costituendo così esplicitazione di una regola già contenuta in quest’ultima norma codicistica, come «causa generale di sospensione».
Al contrario, con riguardo alla questione in esame – quella che investe il comma 9 dell’art. 83 – la valutazione del rispetto del principio di legalità sotto il profilo della sufficiente determinazione della fattispecie legale conduce ad una diversa conclusione, dovendo ritenersi che esso sia violato per le ragioni che si vengono ora ad esporre; conclusione questa che è assorbente sì da non richiedere che si debba procedere anche alla verifica del rispetto del canone di non retroattività della legge che in ipotesi prolunghi la durata del termine di prescrizione.
La norma censurata (art. 83, comma 9, del d.l. n. 18 del 2020) prescrive che nei procedimenti penali il corso della prescrizione rimanga sospeso per il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del precedente comma 7, lettera g), e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020.
La formulazione testuale della norma è apparentemente simile a quella del comma 4 dello stesso art. 83, già scrutinato da questa Corte, ma in realtà vi è una radicale differenza.
Il comma 4 àncora la sospensione del termine di prescrizione a presupposti compiutamente definiti nei precedenti commi 1 e 2, talché – come si è già sottolineato – la fattispecie è sufficientemente determinata per legge.
Invece il comma 9 fa riferimento al precedente comma 7, lettera g), che contiene un rinvio alle «misure organizzative» che i capi degli uffici giudiziari – in ragione della generale previsione del comma 6 del medesimo art. 83 – sono facoltizzati ad adottare per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria; misure che – secondo la catalogazione contenuta nel comma 7 – possono consistere in una serie di prescrizioni riguardanti non solo l’accesso del pubblico agli uffici giudiziari, ma anche «l’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze» (lettera d) e «la previsione del rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020 nei procedimenti civili e penali, con le eccezioni indicate al comma 3» (lettera g).
Quindi, in particolare, la previsione del rinvio delle udienze, cui si ricollega la sospensione del decorso della prescrizione, costituisce il contenuto possibile di una misura organizzativa che il capo dell’ufficio giudiziario può adottare ai sensi del comma 6 del medesimo art. 83; facoltà questa che solo genericamente è delimitata dalla legge quanto ai suoi presupposti e alle finalità da perseguire.
È sufficiente che il capo dell’ufficio giudiziario abbia di mira il contrasto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 per contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria e il contenuto delle misure organizzative può riguardare anche la trattazione degli affari giudiziari, se ciò è ritenuto necessario per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, al fine di evitare contatti ravvicinati tra persone all’interno dell’ufficio giudiziario.
Il rinvio delle udienze – con il limite dei procedimenti indifferibili tassativamente elencati al comma 3 dell’art. 83 del d.l. n. 18 del 2020 – è disposto sulla base di «linee guida vincolanti» che il capo dell’ufficio giudiziario è facoltizzato ad adottare per la fissazione e per la trattazione delle udienze.
In tale quadro, questa normativa speciale e temporanea introduce sì una fattispecie di rilievo processuale, in quanto essa può comportare il rinvio delle udienze penali per alcuni processi e non per altri, secondo quanto prescritto nelle linee guida del capo dell’ufficio; ma da essa conseguono significativi effetti di natura sostanziale nella misura in cui il comma 9 dell’art. 83 dispone la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui il processo è rinviato, non oltre comunque il 30 giugno 2020.
All’eventuale provvedimento generale del capo dell’ufficio, che risponde a esigenze organizzative legate all’andamento della pandemia, la norma censurata riconnette l’effetto in malam partem recato dalla previsione della sospensione del decorso del termine di prescrizione nel caso di rinvio del processo, determinando così un allungamento complessivo del termine entro il quale la fattispecie estintiva della punibilità si realizza.
Per la sua valenza sostanziale, pur mediata dalla regola processuale, tale previsione normativa ricade comunque nell’area di applicazione del principio di legalità, il quale richiede – come si è detto sopra – che essa, incidendo sulla punibilità del reato, sia determinata nei suoi elementi costitutivi sì da assicurare un sufficiente grado di conoscenza o di conoscibilità.
Invece, la misura organizzativa del dirigente dell’ufficio, cui consegue il censurato effetto in malam partem (per l’imputato) in caso di rinvio del processo, non trova nelle disposizioni di cui all’art. 83, commi 6, 7 e 9, del d.l. n. 18 del 2020 adeguata specificazione circa le condizioni e i limiti legittimanti l’adozione del provvedimento di rinvio, cui appunto consegue tale effetto sfavorevole sul piano della punibilità del reato in ragione dell’allungamento del termine di prescrizione.
Il presupposto, il contenuto e le finalità di tali misure organizzative, consistenti in linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, sono solo genericamente fissate dalla legge (art. 83, commi 6 e 7, del d.l. n. 18 del 2020). Inoltre, tale vincolo per il giudice del processo, chiamato poi a disporne, caso per caso, il rinvio sulla base di siffatte linee guida (e non già a richiesta della difesa dell’imputato), non è neppure assoluto, perché è sempre possibile che egli ritenga invece che il processo abbia carattere d’urgenza per la necessità di assumere prove indifferibili (art. 83, comma 3, lettera c), con l’effetto di rendere non operante la regola posta nelle linee guida del capo dell’ufficio.
In sostanza, è solo al momento dell’adozione del provvedimento di rinvio del processo che si completa e si integra, caso per caso, la fattispecie legittimante il rinvio stesso: in tal modo la regola speciale finisce per avere un’imprevedibile variabilità in sostanza non dissimile da quella che avrebbe avuto il contenuto della “regola Taricco”; contenuto «deciso da un tribunale caso per caso, cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale» (ordinanza n. 24 del 2017).
La fattispecie del rinvio del processo, prevista dalla disposizione censurata, è integrata completamente con il richiamo di provvedimenti privi di natura normativa, quali appunto sono le misure organizzative del capo dell’ufficio giudiziario e le sue linee guida per la fissazione e la trattazione delle udienze. Ciò non inficia certo la legittimità della previsione di tale richiamo come regola processuale, ma non soddisfa il canone della sufficiente determinatezza per legge della fattispecie da cui consegue l’effetto sostanziale dell’allungamento della durata del termine di prescrizione.
Né l’integrazione eteronoma della regola processuale che reca la sospensione del processo, prevista dalla norma censurata, può ricondursi al mero completamento della fattispecie legale, come in altre ipotesi previste dall’art. 159 cod. pen. Tali sono quelle per cui la sospensione della prescrizione opera rispettivamente nei casi di autorizzazione a procedere; di deferimento della questione ad altro giudizio; di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori o su richiesta dell’imputato o del suo difensore; di sospensione del procedimento penale per assenza dell’imputato; o, infine, di rogatorie all’estero.
In tutte queste ipotesi il principio di legalità, sotto il profilo della sufficiente determinatezza della fattispecie, è rispettato perché la disciplina della sospensione del processo – e conseguentemente anche del corso della prescrizione – trova una descrizione chiara e precisa nella medesima disposizione che la prevede (art. 159 cod. pen.), oppure, ferma restando la riconducibilità alla disposizione codicistica, essa è integrata dal richiamo a una «particolare disposizione di legge».
Invece la norma attualmente censurata, nel prevedere una fattispecie di sospensione del termine di prescrizione, rinvia a una regola processuale, recante la sospensione del processo, il cui contenuto è definito integralmente dalle misure organizzative del capo dell’ufficio giudiziario, così esibendo un radicale deficit di determinatezza, per legge, della fattispecie, con conseguente lesione del principio di legalità limitatamente alla ricaduta di tale regola sul decorso della prescrizione.
Pertanto – assorbite le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento, sia all’art. 3 Cost., sia allo stesso art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo della irretroattività della legge penale sfavorevole – deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 9, del d.l. n.18 del 2020, nella parte in cui prevede la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui i procedimenti penali sono rinviati ai sensi del precedente comma 7, lettera g), e in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020.
Questioni intriganti
Quali sono i tre principi complementari in tema di tassatività?
- il principio di precisione: i diritti di libertà del cittadino vanno preservati attraverso la precisa indicazione del fatto penalmente rilevante e della sanzione comminata, limitando la discrezionalità del giudice;
- il principio di determinatezza: il fatto penalmente rilevante va descritto in modo da poter essere accertato e provato nel processo attraverso scienza ed esperienza attuali;
- il principio di tassatività in senso stretto (o divieto di analogia): il legislatore e soprattutto il giudice non possono estendere la disciplina oltre i casi espressamente previsti dalla norma incriminatrice.
Quale è l’atteggiamento della Corte costituzionale in fattispecie sospette di essere in rotta di collisione con il principio di tassatività?
- dichiarare direttamente la incostituzionalità della norma (come nel caso paradigmatico del plagio);
- salvare la norma, dandone una interpretazione costituzionalmente orientata (come nel caso del disastro ambientale e dello stalking).
Quali sono i valori da salvaguardare attraverso il principio di tassatività della fattispecie penale?
- evitare una operazione creativa del diritto da parte del giudice penale;
- garantire in ogni caso – non essendo la legge onniloquente come pretendevano gli Illuministi – che il dato giuridico sia adeguato al divenire della realtà sociale, attraverso l’utilizzo di formule elastiche che tuttavia non sconfinino nella genericità e siano comunque capaci di identificare un comportamento verificabile e, dunque, punibile;
Quale problema pongono in tema di tassatività gli elementi normativi extra-giuridici della fattispecie penale?
- essi richiamano norme di natura non giuridica e dunque norme etiche, norme sociali, norme di costume, norme tecniche, norme scientifiche;
- la relativa presenza compendia un elemento elastico o flessibile della fattispecie penale (non un elemento rigido e descrittivo facilmente verificabile, di tipo ad esempio numerico) che da un lato garantisce il costante adeguamento del sistema sanzionatorio al divenire della realtà sociale, ma dall’altro può implicare problemi di compatibilità con il principio di tassatività, precisione e sufficiente determinatezza della fattispecie.
Come si pone il problema della tassatività della fattispecie penale in relazione ai diversi elementi che la compendiano?
- Se si tratta di elementi vaghi ed indeterminati, la fattispecie non rispetta il requisito della tassatività: il giudice, dopo aver percepito, valuta in modo del tutto arbitrario il fatto concreto riconducendolo o meno, a suo libito, alla fattispecie astratta;
- Se si tratta di elementi elastici e di c.d. clausole di illiceità speciale (es, “senza giustificato motivo”, “arbitrariamente” o simili), anche se il grado di apprezzamento del giudice non è totalmente vincolato, essi possono in ogni caso – a determinate condizioni – essere compatibili con il principio di tassatività; sono i casi in cui esiste comunque uno iato tra l’attività percettiva del giudice e quella di valutazione a fini di riconducibilità del fatto concreto alla fattispecie astratta;
- Se si tratta di elementi rigidi, in cui il giudice percepisce e al medesimo tempo valuta la fattispecie concreta riconducendola in via immediata a quella astratta (non vi è iato tra percezione e valutazione a fini di punibilità) non si pone alcun problema di frizione col principio di tassatività.
Quali problemi interpretativi pone il nuovo art. 452.quater c.p. in tema di disastro ambientale?
- una prima questione riguarda la clausola di sussidiarietà, per la quale la norma diventa operativa “fuori dai casi previsti dall’art.434”: a.1) una tesi legge tale clausola nel senso onde essa conferma la non sussumibilità del disastro ambientale nelle nozioni di disastro (nominato o innominato) previste tradizionalmente dall’art.434 c.p.; a.2) secondo un’altra tesi, al contrario, il disastro ambientale è sussumibile, a seconda dei casi, nell’art.434 (che richiede un evento invasivo di contaminazione ambientale e insieme, congiuntamente, un pericolo per la pubblica incolumità) ovvero nell’art. 452.quater (per applicare il quale basta o l’evento invasivo di contaminazione ambientale ovvero, alternativamente, il pericolo per la pubblica incolumità), il che condurrebbe peraltro ad un esito irragionevole e violativo dell’art.3 Cost. in quanto i casi più gravi sono quelli in cui è presente congiuntamente sia l’evento invasivo che il pericolo per la pubblica incolumità, e ad essi finisce tuttavia con l’applicarsi – proprio in forza della clausola di sussidiarietà – l’art. 434 c.p. la cui pena è più mite rispetto a quella dell’art. 452.quater c.p.;
- una seconda questione – maggiormente afferente al principio di tassatività della fattispecie – riguarda il riferimento che l’art. 452.quater c.p. fa (al n.3) alla “offesa” alla pubblica incolumità: la pubblica incolumità è tuttavia aggredibile soltanto con una delle due possibili declinazioni dell’offesa penalisticamente intesa, vale a dire con la messa in pericolo (che è concetto potenziale, applicabile ad un numero indeterminato di persone), mentre è inapplicabile alla indistinta “pubblica incolumità” una offesa sub specie di danno, stante come quest’ultimo non possa che fare riferimento – all’opposto – ad un numero determinato di persone (quelle, per l’appunto, danneggiate in concreto dall’evento disastroso ambientale); a venire sanzionato è allora solo chiunque cagiona un pericolo (offesa) per la pubblica incolumità, ed in tal modo viene decritto per essere assoggettato a pena un contegno generico (quando può realmente dirsi messa in pericolo la pubblica incolumità?), descritto in modo da escludere qualunque capacità selettiva dei comportamenti in concreto punibili e per giunta configurante un reato di pura condotta, e non già un reato di evento (l’evento-disastro ambientale), con palmare deficit di tassatività e frizione con l’art.25, comma 2, Cost.