Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 12 maggio 2022 n. 18891
PRINCIPI DI DIRITTO
– La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea, in concreto, ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale.
– In presenza di più reati unificati nel vincolo della continuazione, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta dal giudice all’esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che, salve le condizioni ostative previste dall’art. 131-bis cod. pen., tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall’entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall’intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione di diritto sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è stata formulata nei termini di seguito indicati: «Se la continuazione tra i reati sia di per sé sola ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero lo sia solo in presenza di determinate condizioni».
- Sul tema oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite si registrano due diversi orientamenti giurisprudenziali.
2.1. Un primo indirizzo interpretativo, inizialmente dominante, esclude la compatibilità tra la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto e la continuazione, ritenendo che ogniqualvolta si sia in presenza di un reato continuato non possa farsi luogo all’applicazione dell’istituto previsto dall’art. 131-bis cod. pen. L’incompatibilità tra i due istituti viene affermata muovendo dall’assunto che il vincolo della continuazione appare espressione di un “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ossia di una forma di “devianza non occasionale”, di per sé ostativa al riconoscimento della non punibilità in quanto priva di quel carattere di trascurabile offensività che, di converso, deve caratterizzare “il fatto”, ove lo si voglia sussumere nel paradigma normativo di cui al richiamato art. 131-bis. Secondo tale impostazione ermeneutica, quando il “fatto” presenta una dimensione “plurima” nessuna rilevanza può assumere in concreto la particolare tenuità dei singoli segmenti in cui esso appaia articolato, sicché nessuna incidenza può attribuirsi, ai fini dell’applicabilità della disposizione in esame, al fatto che alcuni reati siano avvinti o meno da un unico disegno criminoso, neanche nell’ipotesi in cui, singolarmente considerati, essi risultino connotati da un minimo disvalore penale. A sostegno di tale affermazione si richiamano alcuni passaggi della relazione illustrativa al d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, valorizzando la circostanza che dalle locuzioni impiegate dal legislatore – “reati della stessa indole” e “reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate” – non è desumibile «alcun indizio che consenta di ritenere, considerati i termini utilizzati, che l’indicazione di abitualità presupponga un pregresso accertamento in sede giudiziaria» (Sez. 3, n. 29897 del 28/05/2015, Gau, cit.). Secondo la decisione testé richiamata, al contrario, ben «possono essere oggetto di valutazione anche condotte prese in considerazione nell’ambito del medesimo procedimento», con la duplice conseguenza che risulta ulteriormente ampliato il novero dei casi in cui il comportamento può ritenersi abituale e che, tra questi casi, considerata la ridondanza del richiamo testuale alle condotte plurime, abituali e reiterate, figurano senz’altro quelli aventi ad oggetto i reati avvinti dal vincolo della continuazione. Entro tale prospettiva si ritiene, pertanto, che osti alla concessione del beneficio «[…] la mera ‘reiterazione’, ovvero una circostanza squisitamente oggettiva riconoscibile non solo nell’ipotesi di recidiva, ma anche nei casi in cui si proceda: a) per più reati della stessa indole, anche se gli stessi isolatamente considerati siano di particolare tenuità; b) per un reato a struttura abituale. Perché sia riconosciuto l’attributo della non occasionalità, i comportamenti contestati non solo non devono replicare condotte già oggetto di accertamento giudiziale, ma non devono neanche avere una struttura intrinsecamente abituale o inserirsi in una progressione criminosa consolidabile con il riconoscimento della continuazione» (Sez. 2, n. 1 del 02/01/2017, Cattaneo, cit.). Alcune decisioni, in particolare, affermano che, in caso di ripetuta violazione della stessa norma incriminatrice o di diverse disposizioni penali «sorrette dalla medesima ratio puniendi», il fatto deve essere considerato complessivamente nella sua «dimensione “plurima”», ciò che lo connota di «una gravità tale da non potere essere considerato di particolare tenuità» (Sez.3, n. 50002 del 04/10/2019, Giri; Sez. 3, n. 776 del 04/04/2017, dep. 2018, Del Galdo, cit.; Sez. 5, n. 4852 del 14/11/2016, dep. 2017, De Marco, cit.; Sez. 5, n. 26813 del 10/02/2016, Grosoli, Rv. 267262). Seguendo la medesima impostazione ermeneutica si osserva, inoltre, che il riconoscimento del nesso della continuazione, valorizzando il profilo della identità del disegno criminoso, «incide sulla valutazione del complessivo disvalore della progressione criminosa, ma non elide la circostanza che osta al riconoscimento del beneficio, ovvero la “oggettiva” reiterazione di condotte penalmente rilevanti». Ne discende che «il riconoscimento della continuazione incide sul trattamento sanzionatorio nella misura in cui segnala la minore intensità del dolo espresso nel corso della progressione criminosa, ma non consente di ritenere il fatto, anche nella dimensione consolidata dal riconoscimento dell’unicità del disegno criminoso, come una devianza “occasionale”, ovvero non reiterata». All’interno di tale orientamento si afferma, talora, che «il reato continuato configura un’ipotesi di comportamento abituale», di per sé preclusivo ai fini della configurabilità dell’istituto previsto dall’art. 131-bis.
2.2. Un secondo indirizzo interpretativo, più di recente affermatosi ed oggi tendenzialmente prevalente, ritiene invece applicabile al reato continuato la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cit. Tale diversa impostazione ermeneutica muove dal rilievo che «non vi può essere una identificazione tout court tra continuazione e abitualità nel reato» e che «la condizione ostativa costituita dalla commissione di più reati della stessa indole non appare per nulla sovrapponibile all’ipotesi del reato continuato, bensì risponde all’intento di escludere dall’ambito di applicazione della nuova causa di non punibilità comportamenti espressivi di una sorta di “tendenza o inclinazione al crimine”». Per quel che attiene, poi, alla condizione ostativa costituita da reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate, «[…] essa chiaramente riguarda i reati che strutturalmente richiedono che l’agente ponga in essere condotte reiterate nel tempo o abituali». La volontà del legislatore, pertanto, è quella di escludere dall’area di applicazione della causa di esclusione della punibilità solo quei comportamenti che costituiscono espressione di una seriazione dell’attività criminosa, ossia di un’abitudine al crimine desumibile dagli indici rivelatori di cui al terzo comma dell’art. 131-bis cit.: comportamenti, questi, che non sempre sono riscontrabili nel reato continuato, trattandosi di un istituto, di per sé, non necessariamente sintomatico della proclività al crimine. Entro tale prospettiva si afferma, in particolare, che anche l’autore del reato continuato può accedere alla predetta causa di non punibilità, dovendo il giudice verificare in concreto se il “fatto”, nella sua unitarietà, avuto riguardo alla natura degli illeciti unificati, alle modalità esecutive della condotta, all’intensità dell’elemento psicologico, al numero delle disposizioni violate e agli interessi tutelati, sia meritevole o meno di un apprezzamento di speciale tenuità. Ne discende che «la logica antinomia tra reato continuato e particolare tenuità del fatto è rilevabile solo nel caso in cui le violazioni, espressione del medesimo disegno criminoso, siano in numero tale da costituire di per sé dimostrazione di una certa serialità nel delinquere ovvero di una progressione criminosa, indicative di una particolare intensità del dolo o della versatilità offensiva tali da porre in evidenza un insanabile contrasto con il giudizio di particolare tenuità dell’offesa in tal modo arrecata, ovvero, in altre parole, ove detta reiterazione non sia espressiva di una chiara tendenza o inclinazione al crimine» (Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019, dep. 2020, De Angelis, cit.). Si soggiunge, a sostegno di tale opzione esegetica, che la radicale esclusione dell’applicabilità dell’istituto in esame al reato continuato appare “distonica” rispetto alla sistematica sanzionatoria di cui è espressione l’intera disposizione racchiusa nell’art. 81 cod. pen., in quanto non solo viene a pregiudicare l’imputato che, pur beneficiando del regime di favore di cui al menzionato art. 81, non può poi beneficiare della disposizione di cui all’art. 131-bis cit., ma comporta altresì «un’ingiustificata, ed ingiustificabile, disparità di trattamento con la figura, per ampi tratti identicamente considerata dal legislatore ed identicamente configurante una unificazione di più illeciti operante esclusivamente quoad poenam, del concorso formale tra reati, prevista dal primo comma dell’art. 81 cod. pen., in cui l’unicità della condotta, pur considerata la risultante di più pluralità di violazioni commesse, consentirebbe […] l’eventuale applicabilità dell’art. 131- bis cod. pen.» (Sez. 3, n. 16502 del 20/11/2018, dep. 2019, Pintilie, cit.). Alcune decisioni valorizzano, in particolare, i profili ricostruttivi inerenti alle «medesime circostanze di tempo e di luogo» (Sez. 5, n. 35590 del 31/05/2017, Battízocco, cit.; Sez. 4, n. 47772 del 25/09/2018, Bommartini, cit.) ovvero all’identità della persona offesa (Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018, Corradini, cit.), poiché ritenuti sostanzialmente indicativi di una circoscritta deliberazione criminosa, come tale incompatibile con l’abitualità; in altre decisioni, invece, si sottolinea la necessità che la valutazione giudiziale abbia un oggetto più ampio, investendo la gravità dei reati, la capacità a delinquere, i precedenti penali e giudiziari, la durata della violazione, il numero delle disposizioni normative violate (Sez. 2, n. 9495 del 07/02/2018, Grasso, cit,), gli effetti della condotta antecedente, contemporanea e susseguente al reato, gli interessi lesi o comunque perseguiti e le motivazioni a delinquere (Sez. 2, n. 19932 del 29/03/2017, Di Bello, cit.). Al fine di consentire l’applicabilità della particolare tenuità del fatto al reato continuato si fa leva, talvolta, sull’esigenza di distinguere tra la continuazione “diacronica” (avente ad oggetto una pluralità di reati avvinti dalla continuazione, ma commessi in contesti spazio-temporali diversi) e quella “sincronica” (avente ad oggetto una pluralità di condotte espressive di un medesimo disegno criminoso, ma realizzate in un unico contesto spazio-temporale), riconoscendo il carattere sostanzialmente unitario del fatto solo in questa seconda ipotesi. Muovendo da tale impostazione ermeneutica si afferma, in particolare, che la volizione criminosa, in caso di continuazione “sincronica”, è sostanzialmente unica, stante la contemporanea esecuzione delle distinte azioni delittuose, sicché essa, quando regge una singola azione, ovvero più azioni poste in essere nel medesimo contesto spazio-temporale, non appare incompatibile con il concetto di estemporaneità dell’azione illecita rispetto alla positiva personalità del reo, posto alla base della disciplina della causa di non punibilità in esame (Sez. 5, n. 30434 del 13/07/2020, Innocenti, cit.; Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019, dep. 2020, De Angelis, cit.; Sez. 4, n. 47772 del 25/09/2018, Bommartini, cit.; Sez. 5, n. 32626 del 26/03/2018, P., cit.; Sez. 5, n. 5358 del 15/01/2018, Corradini, cit.; Sez. 5, n. 35590 del 31/05/2017, Battizocco, cit.). In altre decisioni, poi, si valorizza un argomento basato sulla intentio legis, affermando che l’eventuale esclusione del reato continuato dall’ambito di operatività dell’art. 131-bis cit. finirebbe per frustrare le finalità di deflazione processuale sottese alla introduzione dell’istituto, riducendone in modo consistente l’ambito di operatività (Sez. 2, n. 19932 del 29/03/2017, Di Bello, cit.; Sez. 2, n. 41011 del 06/06/2018, Ba Elhadji, cit.; Sez. 2, n. 42579 del 10/09/2019, D’Ambrosio, cit.). La linea interpretativa tracciata da tale indirizzo giurisprudenziale affida pertanto alla discrezionalità del giudice la decisione, caso per caso, in ordine alla meritevolezza o meno della esclusione della punibilità nell’ipotesi della continuazione, dovendo egli valutare attentamente, in relazione alle modalità della condotta e all’esiguità del danno o del pericolo arrecato, l’incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, al fine di risolvere i problemi legati all’applicazione di sanzioni penali formalmente ineccepibili, ma sostanzialmente sproporzionate, in concreto, al reale grado di offensività dei fatti oggetto del giudizio.
- Prima di esaminare le diverse implicazioni sottese alla risoluzione della questione oggetto del richiamato contrasto giurisprudenziale, è opportuno volgere l’attenzione sul fondamento e sugli elementi strutturali dell’istituto in esame, al fine di inquadrarne i punti di intersezione e gli eventuali profili di incompatibilità nelle ipotesi in cui i fatti oggetto del giudizio rientrino nella disciplina del reato continuato. Con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», il legislatore ha introdotto nel codice penale la nuova disposizione dell’art. 131-bis, inserendovi «una generale causa di esclusione della punibilità che sì raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile per la sanzionabìlità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge» (Corte cost., sent. n. 120 del 2019). Siffatta disposizione individua una «soglia massima di gravità» correlata ad una pena edittale non superiore nel massimo a cinque anni di reclusione, stabilendo, per i titoli di reato che non eccedono tale soglia, una «linea di demarcazione trasversale», che esclude la punibilità delle condotte aventi «in concreto» un tasso di offensività marcatamente ridotto (Corte cost., sent. n. 120 del 2019; Corte cost., sent. n. 30 del 2021). Il primo comma dell’art. 131-bis cit. stabilisce, infatti, che «nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e iI comportamento risulta non abituale». La particolare tenuità dell’offesa, desunta dalle modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo, e la non abitualità del comportamento costituiscono, dunque, i parametri fondamentali ai quali il giudizio discrezionale dell’autorità giudiziaria deve fare riferimento al fine di ritenere applicabile o meno al caso concreto la causa di non punibilità in esame. La ratio del nuovo istituto viene generalmente individuata nell’intento del legislatore di ampliare l’ambito della non sanzionabilità di determinate condotte astrattamente integranti gli estremi di un reato, perseguendo in tal modo finalità strettamente connesse ai principi di proporzione e di extrema ratio della risposta punitiva, con la realizzazione di effetti positivi anche sul piano deflattivo, attraverso la responsabilizzazione del giudice nella sua attività di valutazione in concreto della fattispecie sottoposta alla sua cognizione. Il suo scopo primario, come affermato da questa Corte (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591), è infatti «[…] quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo». Nella medesima prospettiva si è precisato, con la richiamata decisione, che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per affermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione». Ne consegue che il fatto non è punibile non perché inoffensivo, ma perché il legislatore, pur in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, ritiene che sia inopportuno punirlo, ove ricorrano le condizioni indicate nella richiamata disposizione normativa. Una prospettiva assiologica, questa, accolta e più volte rimarcata dalla Corte costituzionale (sent. n. 30 del 2021; sent. n. 156 del 2020; ord. n. 279 del 2017), che ha successivamente esteso l’ambito di applicazione dell’istituto (sent. n. 156 del 2020) anche ai reati puniti con la reclusione che, pur superiore nel massimo edittale a cinque anni, abbia un minimo edittale coincidente con quello generale di quindici giorni. In definitiva, come posto in rilievo da questa Corte, nel delimitare l’ambito di applicazione dell’istituto il legislatore ha «da un lato compiuto una graduazione qualitativa astratta, basata sulla natura e sull’entità della pena, e vi ha aggiunto un elemento di impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo all’abitualità o meno del comportamento. Dall’altro ha demandato al giudice una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello di evento, nonché al grado della colpevolezza. Ha limitato, infine, la discrezionalità del giudizio escludendo alcune contingenze ritenute incompatibili con l’idea di speciale tenuità: motivi abietti o futili, crudeltà, minorata difesa della vittima, ecc. Da tale connotazione emerge [che] l’esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno, alla colpevolezza» (Sez. U, n. 13682 del 25/02/2016, Coccimiglio, Rv. 266595).
- Il problema concernente l’applicabilità dell’art. 131-bis cit. ad una pluralità di reati avvinti dalla continuazione ha accompagnato l’evoluzione giurisprudenziale dell’istituto sin dal momento della sua introduzione nel sistema penale, innestandosi, in particolare, sul secondo degli “indici-criteri” previsti dalla norma, quello relativo alla non abitualità del comportamento dell’autore. Ai fini della esclusione della punibilità, infatti, non è sufficiente la tenuità dell’offesa, ma occorre, come precisato nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 28 del 2015, che il reato oggetto del giudizio non si inserisca «in un rapporto di seriazione con uno o più altri episodi criminosi».
4.1. L’indice-criterio della non abitualità del comportamento, che ha superato, sotto il profilo della ragionevolezza, il vaglio di compatibilità costituzionale del Giudice delle leggi con la sentenza n. 279 del 2017, poggia su una serie di contenuti che possono essere individuati solo attraverso il collegamento dell’enunciato normativo alla più ampia formulazione della disposizione racchiusa nel terzo comma dell’art. 131-bis cit. Al riguardo il legislatore ha utilizzato una nozione, quella di “non abitualità” del comportamento, diversa da quella di mera “occasionalità” del fatto, ma non ne ha definito espressamente la sostanza e i contorni applicativi, rimettendo all’interprete il compito di ricavarla indirettamente dalla definizione normativa di “comportamento abituale”. Il terzo comma della richiamata disposizione, infatti, individua tre ipotesi di comportamento abituale che, sebbene considerate, nella relazione illustrativa del decreto legislativo n. 28 del 2015, di tipo meramente “esemplificativo”, sono state ritenute tassative dalle Sezioni Unite Tushaj «anche in considerazione del fatto che il legislatore non fornisce una definizione positiva di comportamento non abituale a cui ricondurre ulteriori casi di comportamento abituale». In particolare, affinché la condotta possa essere qualificata come abituale e, quindi, ostativa all’applicazione della causa di esclusione della punibilità, occorre, secondo una sequenza lessicale tracciata dal legislatore con riferimento a tre diverse situazioni progressivamente elencate in via alternativa: a) che l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; b) ovvero che siano stati commessi più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità; c) o, infine, che si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate. Il dato normativo, come affermato dalla Corte nella sentenza Tushaj, mira ad escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto i «comportamenti seriali»; il riferimento, poi, ai «reati» e non alle «condanne» comporta che la pluralità di reati è configurabile non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche quando l’accertamento del reato non sia ancora definitivo o si tratti di reati da giudicare nel medesimo procedimento o, ancora, quando sia stata in precedenza riconosciuta la causa di esclusione della punibilità in esame.
4.2. Ora, pur senza affrontare espressamente il problema della compatibilità o meno della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis con l’istituto della continuazione, le Sezioni Unite Tushaj hanno cercato di definire i contorni dell’abitualità del comportamento quale condizione ostativa all’applicazione dell’istituto. Mentre il primo dei tre parametri presi in considerazione dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., ossia quello relativo alla dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, non solleva particolari problemi interpretativi, essendo già definito dal legislatore con le disposizioni di cui agli artt. 102, 103, 105, 108 cod. pen., non altrettanto precisa appare la formulazione lessicale utilizzata per descrivere le altre due ipotesi che connotano in termini di abitualità il comportamento del reo, escludendo l’applicabilità della causa di non punibilità: l’aver commesso più reati della stessa indole o l’aver commesso reati aventi ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Con riferimento alla locuzione “più reati della stessa indole”, la menzionata decisione, dopo aver precisato che «non si parla di condanne ma di reati», ha affermato che «il tenore letterale lascia intendere che l’abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis» e che «i reati possono ben essere successivi a quello in esame», vertendosi in un ambito differente da quello della recidiva. Sotto tale profilo, inoltre, la Corte ha precisato che «la pluralità dei reati può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza; come, ad esempio, nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui». La successiva locuzione “condotte abituali e reiterate” viene presa in esame dalle Sezioni Unite osservando che il legislatore fa riferimento ai reati «che presentano l’abitualità come tratto tipico» (ad es. i maltrattamenti in famiglia) ed ai reati «che presentano nel tipo condotte reiterate» (ad es., gli atti persecutori): in tali situazioni, infatti, «la serialità è un elemento della fattispecie ed è quindi sufficiente a -configurare l’abitualità che esclude l’applicazione della disciplina; senza che occorra verificare la presenza di distinti reati». Alla dimensione strutturale che di per sé connota in senso preclusivo le evocate fattispecie di cui agli artt. 572 e 612-bis cod. pen. si accompagna, inoltre, il rilievo attribuibile ai rispettivi limiti edittali di pena (superiori, per entrambe, alla soglia massima dei cinque anni di reclusione), che non consentono oggettivamente di ricomprenderle nel raggio di applicazione dell’art. 131-bis cit. Infine, con riguardo al concetto di “condotte plurime” la Corte, una volta escluso che tale locuzione possa essere ridotta ad «una mera, sciatta ripetizione di ciò che è stato denominato abituale o reiterato», ha affermato che «l’unica praticabile soluzione interpretativa è quella di ritenere che si sia fatto riferimento a fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti» (ad es., nel caso di un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione).
4.3. Dall’analisi del tenore letterale e del contenuto complessivo della disposizione in esame non è desumibile alcuna indicazione preclusiva alla potenziale applicabilità della relativa disciplina al reato continuato, né sono previsti limiti di ordine temporale all’efficacia della condizione ostativa dell’abitualità del comportamento, con il logico corollario che il reato o i reati “precedenti” possono essere anche assai risalenti nel tempo rispetto a quello oggetto del giudizio. La causa di non punibilità in esame ha natura sostanziale ed una portata applicativa generale, come tale riferibile a tutte le ipotesi di reato rientranti nei parametri previsti dall’art. 131-bis cit. Ne discende che, al di fuori delle ipotesi tassativamente escluse (nel secondo comma) dalla sfera di applicazione dell’istituto, la regola generale è quella secondo cui, nell’ambito delle fattispecie incriminatrici rientranti nei limiti edittali di pena stabiliti dall’art. 131-bis, qualunque offesa arrecata può sempre essere ritenuta di particolare tenuità, se in tal senso viene concretamente valutata dal giudice sulla base delle modalità della condotta e del danno o del pericolo cagionato al bene giuridico protetto.
4.4. È il principio di proporzione, in definitiva, a costituire, come osservato dalla dottrina, “il fondamento logico-funzionale e anche costituzionale dell’istituto”, poiché la risposta sanzionatoria perderebbe, in assenza di un vaglio di meritevolezza della pena per i fatti di reato in concreto connotati da una speciale tenuità, la sua stessa base di legittimazione all’interno di una prospettiva costituzionalmente orientata. Sotto altro profilo, la meritevolezza della pena, sia essa intesa con riferimento alla gravità oggettiva del fatto che alla sua adeguatezza rispetto alla finalità rieducativa che ne disvela l’essenza costituzionale, costituisce il fondamento giustificativo dell’istituto e consente di orientarne l’interpretazione alla luce dei principi di extrema ratio e di proporzione, giustificandone al contempo l’efficacia deflattiva che il legislatore ha inteso ricollegare alle sue concrete modalità di funzionamento.
- Ciò premesso, il Collegio ritiene di condividere l’impostazione delineata dal secondo indirizzo giurisprudenziale per le ragioni di seguito indicate.
5.1. Il primo dei richiamati orientamenti si risolve nella sostanziale equiparazione della non abitualità del comportamento alla unicità della sua realizzazione, aggirando in tal modo le difficoltà obiettivamente legate alla definizione di una categoria concettuale, quella dell’abitualità, che sta ad indicare la persistenza in una determinata condotta, ossia la costante ripetizione di comportamenti sintomatici, nel loro reiterarsi, di una qualità ulteriore rispetto alla loro mera sommatoria. Si tratta di una conclusione che presta il fianco ad obiezioni sia di carattere testuale, che di ordine logico-sistematico. La nozione di abitualità, infatti, si riferisce ad una qualità che progressivamente si delinea e consolida nel tempo in conseguenza della realizzazione di plurime condotte omogenee, ma che non si esaurisce nella manifestazione esterna del solo dato obbiettivo di quella ripetizione. L’acquisizione individuale di una consuetudine costituisce il risultato di un costume comportamentale, ossia di un’abitudine intesa, secondo il senso comune del vocabolo, come «disposizione acquisita con il costante e periodico ripetersi di determinati atti», e non può essere pertanto sovrapposta ad una situazione connotata dalla mera reiterazione di azioni. Un ulteriore dato significativo emerge, a contrario, dal contenuto della relazione illustrativa del d.lgs. n. 28 del 2015, ove si pone in rilievo come «la presenza di un ‘precedente’ giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti». Il legislatore, dunque, non presuppone affatto che il reo sia un autore primario od occasionale. V’è inoltre da considerare, come osservato dalla dottrina, che la stessa disposizione di cui all’art. 131-bis, comma 3, cit. non avrebbe alcuna ragion d’essere se ad ostacolarne l’operatività fosse sufficiente opporgli un solo precedente. Il rilievo assegnato alle diverse tipologie di comportamento ivi elencate giustifica, di contro, la diversa interpretazione secondo cui la disposizione in esame costituisce il risultato di una complessa opera di selezione normativa dell’area di incidenza della non punibilità, sicché non ogni ripetizione del comportamento criminoso preclude il beneficio, rilevando solo quelle reiterazioni di comportamenti che esprimono una particolare inclinazione a delinquere dell’agente, idonea ad evidenziarne un verosimile rischio di persistenza o di ricaduta nel reato. Non sono fondate, quindi, le argomentazioni volte a ritenere di per sé preclusa la concreta operatività del nuovo istituto in presenza di qualsivoglia reiterazione di comportamenti penalmente rilevanti. La radice semantica del lemma “abitualità”, come rilevato dalla dottrina, è rinvenibile nel suo collegamento all’habitus, quale nozione esplicativa di una costante ripetizione di comportamenti, a sua volta identificativa di una qualità ulteriore rispetto al dato oggettivo della loro aggregazione numerica.
5.2. Muovendo dalla prospettiva ermeneutica seguita dalle Sezioni Unite con la sentenza Tushaj, deve rilevarsi come la categoria dell’abitualità sia stata delimitata e posta in relazione con tutte quelle condotte che presentano «l’abitualità come tratto tipico». Linea esegetica, questa, alla quale rimane del tutto estranea la disciplina del reato continuato, ove si consideri che l’elemento unificante di tale istituto si ricollega essenzialmente all’accertamento della medesimezza del disegno criminoso, laddove nel reato abituale il momento soggettivo che permea e colora di sé la realizzazione delle diverse condotte è ritenuto idoneo ad aggravare il disvalore di ogni singolo illecito che lo compone, dando vita ad un «sistema di comportamenti offensivi». Analoghe considerazioni devono svolgersi alla luce dei passaggi motivazionali dedicati alla individuazione a titolo esemplificativo delle situazioni riconducibili alla equivoca formula delle «condotte plurime», ove la menzionata decisione non richiama affatto l’istituto della continuazione, facendo riferimento ad un’ipotesi casistica (la plurima violazione colposa di prescrizioni cautelari dettate a tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro) che si pone, di converso, agli antipodi della forma di manifestazione del reato disciplinata dall’art. 81, secondo comma, cod. pen. Un’evenienza storico-fattuale, quella or ora citata, che la sentenza Tushaj ritiene inquadrabile nell’ambito delle «condotte plurime» solo se i comportamenti in concreto implicati “nello sviluppo degli accadimenti” possono dirsi unificati, sul piano soggettivo, da una trascuratezza strutturale rispetto all’obbligo di garantire le condizioni necessarie per un lavoro sicuro. Nella prospettiva delineata dalle Sezioni Unite Tushaj, pertanto, l’applicazione della causa di esclusione della punibilità deve ritenersi preclusa nelle sole ipotesi in cui il dato obiettivo della pluralità delle violazioni possa essere interpretato come espressivo di un carattere di serialità dei comportamenti, ossia di un quid pluris generato – con riferimento alla peculiare fattispecie ivi richiamata – da un “consolidato regime di disinteresse per la sicurezza” del lavoro e a sua volta esternato da un atteggiamento soggettivo idoneo a dimostrare l’effettività di un habitus di pervicace trascuratezza nei confronti degli obblighi di tutela dell’altrui incolumità. Né pare possibile prescindere, ai fini della risoluzione del quesito posto all’attenzione di questo Collegio, dalle implicazioni sottese all’ulteriore, pregnante, passaggio argomentativo secondo cui le disposizioni contenute nell’art. 131-bis cod. pen. non hanno riguardo alla condotta tipica, bensì «alle forme di estrinsecazione del comportamento al fine di valutarne complessivamente la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e conseguentemente il bisogno di pena». Tale premessa ha portato la Corte a sottolineare, significativamente, che «si è qui entro la distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto storico, situazione reale ed irripetibile costituita da tutti gli elementi del fatto concretamente realizzati dall’agente […]. Allora, essendo in considerazione la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza, non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta ed in cui sia quindi inibita ontologicamente l’applicazione del nuovo istituto. L’opinione contraria […] è deviata dall’impropria sovrapposizione tra fatto tipico e fatto storico; tra l’offesa e la sua entità».
- L’istituto della continuazione, diversamente da quanto affermato in alcune decisioni che aderiscono al primo orientamento giurisprudenziale, non può essere considerato come sinonimo della nozione di “abitualità”, né appare coincidente o necessariamente sovrapponibile all’ipotesi in cui l’autore abbia commesso “più reati della stessa indole”.
6.1. Per quel che attiene al primo profilo, si è già rilevato come il legislatore abbia utilizzato, in luogo del concetto di “occasionalità”, la diversa nozione di “non abitualità”, così optando per una scelta che si giustifica con la volontà di assicurare all’istituto regolato dall’art. 131-bis cit. un più esteso ambito di operatività, escludendo dal suo raggio di applicazione solo quei comportamenti che siano espressione di una serialità nell’attività criminosa e di un’abitudine a violare la legge. Si è inteso dare rilievo, in tal modo, a tutte quelle situazioni che, all’interno di una concezione gradualistica dell’illecito, si connotano per un apprezzamento di maggiore gravità dei comportamenti, dunque per un profilo valutativo non rinvenibile nella disciplina in favor rei del reato continuato, ove, unico essendo stato l’impulso psichico criminoso del soggetto attivo (Sez. 1, n. 6248 del 27/11/1996, dep. 1997, Scalese, Rv. 206607), ben si giustifica un trattamento sanzionatorio più mite di quello conseguente al rigido cumulo materiale delle pene, in ragione del minor grado di pericolosità sociale rivelato dal comportamento di un soggetto che, come osservato dalla dottrina, “ha superato in un’unica occasione le controspinte che l’ordinamento predispone per contrastare l’interesse a delinquere”. Al riguardo, invero, questa Corte (Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016, Eloumari, Rv. 266615) ha tracciato la linea di demarcazione tra l’abitualità e la continuazione, affermando che «l’identità del disegno criminoso, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., postula che l’agente si sia previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose e non si identifica con il programma di vita delinquenziale del reo, che esprime, invece, l’opzione del reo a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, seppure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza, che si concretizza, di volta in volta, in relazione alle varie occasioni ed opportunità esistenziali». Nella medesima prospettiva, inoltre, ha affermato che l’abitualità presuppone un impulso criminoso reiterato nel tempo che è incompatibile con l’unitaria deliberazione criminosa che caratterizza l’ipotesi del reato continuato (Sez. 1, n. 36036 del 05/07/2018, De Cenzo, Rv. 273909). Ne consegue che «la volontà di commettere più reati per scelta delinquenziale, dovuta alla generica deliberazione di persistere nella condotta delittuosa, non ha nulla a che vedere con l’unicità del disegno criminoso tra due o più reati. Questa, consistendo in un progetto delinquenziale unitario, nell’ambito del quale la consumazione dei reati sia stata ideata e programmata, con riguardo ai mezzi e alle modalità di esecuzione, anche in un arco di tempo non necessariamente breve, non può essere confusa con l’abitudine a commettere un determinato tipo di reato» (Sez. 4, n. 8897 del 26/03/1993, Montà, Rv. 195188). È dunque necessario distinguere l’identità del disegno criminoso da altre ipotesi di collegamento tra pluralità di reati, che, come l’abitualità o la professionalità criminosa, giustificano, all’opposto, un giudizio di maggior gravità della condotta dell’agente. Si suole definire abituale il reato per la cui esistenza la legge richiede la reiterazione di più condotte identiche od omogenee. L’unificazione, pertanto, si fonda sulla piena capacità offensiva del bene protetto soltanto ad opera dei molteplici atti cumulativamente considerati, richiedendo al contempo la consapevolezza che la nuova condotta si aggiunga alle precedenti, dando vita con esse ad un “sistema di comportamenti offensivi”. Entro tale prospettiva, come osservato dalla dottrina, la nozione di abitualità presuppone l’integrazione di un quid pluris che, oltre a far perdere alle singole condotte la loro individualità, rileva soltanto se dimostrativo dell’esistenza di un’amplificata necessità di difesa sociale a fronte di una persona la cui consuetudo delinquendi giustifica un complessivo apprezzamento di “proclività al delitto”. Una valutazione opposta a quella che l’ordinamento formula in presenza di una pluralità di illeciti la cui realizzazione sia riconducibile ad una finalità programmatica unitaria. Sebbene la dimensione naturalistica della continuazione risulti caratterizzata dalla violazione di più disposizioni della legge penale, realizzate attraverso una pluralità di azioni od omissioni, tale risultato si connota, pur sempre, per essere il “prodotto” di un’unica decisione antigiuridica, che a sua volta giustifica la determinazione di un unico trattamento sanzionatorio da irrogare nei confronti del soggetto che abbia agito in continuazione. Il medesimo disegno criminoso, infatti, viene a rappresentare l’unica “spinta” in grado di legare e avvincere a sé un insieme di reati, elidendone la somma complessiva del disvalore nell’ambito della preventiva deliberazione di un programma orientato, sin dal momento della commissione del primo reato, a conseguire un determinato fine (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074).
6.2. Per quel che attiene al secondo profilo, ossia al raccordo con la nozione di “reati della stessa indole”, è agevole rilevare che se, da un lato, il nesso della continuazione può legare fra loro condotte che violano le medesime disposizioni di legge, ben può ipotizzarsi, dall’altro lato, una continuazione fra reati di indole diversa, purché essi risultino essere il frutto di una deliberazione unitaria. In altri termini, ciò che connota il reato continuato è la commissione di più reati unificati dal medesimo disegno criminoso, i quali, per un verso, possono non essere della stessa indole, neanche sostanziale, per altro verso non sono di per sé espressione di abitualità nel comportamento. In presenza di reati uniti dal vincolo della continuazione che pregiudichino beni giuridici non omogenei o che vengano commessi con modalità esecutive differenti, non ricorrono affatto quei “caratteri fondamentali comuni” che contrassegnano la tipologia dei reati della stessa indole, in ragione della non univoca spinta a delinquere o della diversa natura dei fatti: in tali evenienze, dunque, non può ritenersi configurabile il requisito della stessa indole criminosa tra i vari illeciti posti in continuazione. La nozione di reati della stessa indole, peraltro, fa riferimento a un duplice ambito di valutazione, sia oggettivo (“la natura dei fatti”) che soggettivo (“i motivi che li determinarono”), da cui desumere la ricorrenza di quei “caratteri fondamentali comuni” che, ai sensi dell’art. 101 cod. pen., qualificano l’indole criminale di un soggetto. Tale categoria di reati, pertanto, si estende con un raggio d’azione più ampio rispetto a quello coperto dal medesimo disegno criminoso, includendovi anche i reati colposi (ontologicamente incompatibili con il reato continuato) e quelli commessi per effetto degli stessi impulsi o motivi a delinquere, ossia di quelle “singole causali” che, ai fini dell’accertamento della unicità del disegno criminoso, costituiscono, di contro, solo uno dei molteplici indici rivelatori che il giudice deve in concreto valorizzare nell’ambito di un’approfondita e generale verifica del caso (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, cit.). Ne consegue che la tesi della non applicabilità dell’art. 131-bis cit. alla continuazione non può essere fondata sul richiamo, compiuto nel terzo comma di tale disposizione, all’ipotesi ostativa della pluralità dei reati della stessa indole.
6.3. Sulla base di tali considerazioni s’impone una prima, sia pur provvisoria, conclusione. Se, infatti, non è automaticamente ravvisabile alcuna identità fra il reato continuato e l’abitualità, né alcuna sovrapposizione tra la continuazione e tutte quelle situazioni in cui sia riconoscibile una pluralità di reati della stessa indole, nel senso che la prima non necessariamente si compone dei secondi, ne discende con evidenza, a corollario di tali premesse argomentative, il superamento del principale ostacolo che l’orientamento giurisprudenziale qui criticato frappone alla compatibilità tra i due istituti della continuazione e della causa di esclusione della punibilità in esame, residuando l’analisi di un delicato punto d’intersezione tra le dinamiche funzionali delle rispettive discipline nei soli casi in cui – come più avanti meglio si vedrà – vengano concretamente in rilievo almeno tre reati della stessa indole (v., infra, i parr. 10.1 e 10.2.).
- Deve essere ora esaminato un ulteriore profilo di potenziale incompatibilità fra il reato continuato e la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
7.1. Si è già rilevato che, all’interno della micro-disciplina dettata dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., il comportamento viene definito abituale non solo nelle situazioni espressamente individuate dagli artt. 101 ss. cod. pen., ma anche nell’ipotesi in cui il reato abbia ad oggetto “condotte plurime, abituali e reiterate”. Anche in relazione a questo specifico profilo della abitualità del comportamento deve escludersi che il reato continuato possa farsi rientrare nell’ambito della locuzione normativa “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate” e, più in particolare, del sintagma “condotte plurime”. L’analisi del tenore letterale della disposizione consente infatti di ritenere che il riferimento al carattere plurimo contraddistingue le condotte, non già i reati, come invece accade nell’ipotesi della continuazione. In altri termini, il dato testuale attribuisce rilievo alla presenza di fattispecie criminose – diverse ed ulteriori rispetto ai reati eventualmente o necessariamente abituali, di per sé riconducibili alla locuzione “condotte abituali e reiterate” – che nella loro dimensione strutturale implicano l’elemento della serialità, o che comunque presentano, nel caso concreto, una molteplicità di condotte legate allo sviluppo degli accadimenti. Il legislatore, dunque, nell’impiegare genericamente l’espressione “reati” ha inteso fare riferimento, nella disposizione di cui all’art. 131-bis, terzo comma, cit., non alle ipotesi di concorso di reati, quanto, invece, a determinate categorie di fattispecie, ossia a quelle situazioni concrete in cui il singolo reato viene realizzato attraverso una pluralità di modelli comportamentali. Milita in tal senso, anzitutto, il raffronto con la formulazione letterale utilizzata, nello stesso terzo comma della disposizione in esame, per attribuire rilievo alla commissione di «più reati della stessa indole», dove il legislatore si riferisce evidentemente ad una pluralità di reati, non già ad un reato unico. In questo caso, infatti, si utilizza esplicitamente l’espressione “più” reati, specificando, poi, che «ciascun fatto, isolatamente considerato» possa essere «di particolare tenuità». La mancata riproduzione di tale peculiare ipotesi e dell’espressione, certamente significativa, basata sull’impiego dell’unità sintattica “più reati”, costituisce un ulteriore elemento di conferma a sostegno del richiamato argomento secondo cui il legislatore, come osservato dalla dottrina, ha inteso propriamente riferirsi a categorie o “schemi di incriminazione”, non anche a ipotesi di concorso di reati. Nel delineare la terza condizione preclusiva di cui all’art. 131-bis, terzo comma, cit., la novella legislativa non ha ripreso l’inciso “anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità”, utilizzandolo invece con riferimento alla sola ipotesi della pluralità di reati della stessa indole: muovendo da una prospettiva esegetica orientata in senso logico-sistematico è plausibile ritenere, pertanto, che il legislatore abbia attribuito al giudice la possibilità di verificare la particolare tenuità dei singoli reati avvinti dalla continuazione, per escludere la sussistenza di quella condizione ostativa ed applicare, di conseguenza, la causa di non punibilità quando essi, in concreto, non risultino meritevoli di sanzione penale all’esito di una valutazione condotta sulla base dell’insieme dei criteri direttivi indicati nell’art. 131-bis. Anche per tale ragione, dunque, deve escludersi ogni automatica sovrapposizione tra l’istituto della continuazione e la fattispecie preclusiva derivante dalla realizzazione dei “reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”. Tale opzione esegetica, del resto, si pone in linea con la prospettiva al riguardo seguita dalle Sezioni Unite Tushaj, le quali, come già ricordato (v., supra, il par. 4.2.), nell’individuare il senso da attribuire alla locuzione “condotte plurime” hanno fatto riferimento non al reato continuato, ma a «ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti».
7.2. Nella nozione di condotte plurime, inoltre, possono farsi rientrare, come notato dalla dottrina, quelle “fattispecie astratte in cui sono tipizzate condotte diverse, per così dire, progressive”, come la promessa e la dazione nelle ipotesi di corruzione, ove tali condotte siano state entrambe realizzate. Analogamente possono rientrarvi, a mero titolo esemplificativo, quelle situazioni di fatto caratterizzate: a) da ripetute dazioni di denaro in esecuzione di un unico accordo corruttivo che preveda una pluralità di atti da compiere (ipotesi che, in virtù del principio affermato da Sez. 6, n. 29549 del 07/10/2020, De Simone, Rv. 279691, non dà luogo a continuazione, realizzandosi quest’ultima solo nel caso di una pluralità di accordi corruttivi); b) in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, da molteplici condotte di distrazione verificatesi nell’ambito dello stesso fallimento (Sez. 5, n. 4710 del 14/10/2019, dep. 2020, Falconi, Rv. 278156, ove si esclude la configurabilità della continuazione sul rilievo che le singole condotte di cui all’art. 216 della legge fallimentare possono essere realizzate con uno o più atti, trattandosi di reato a condotta eventualmente plurima per la cui realizzazione è sufficiente il compimento di uno solo dei fatti contemplati dalla legge, mentre la pluralità di essi non ne fa venir meno il carattere unitario); c) da una pluralità di condotte riconducibili a quelle descritte dall’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, qualora siano poste in essere contestualmente, ossia indirizzate ad un unico fine e senza un’apprezzabile soluzione di continuità, mentre nell’ipotesi in cui le differenti azioni tipiche (detenzione, vendita, offerta in vendita, cessione ecc.) siano distinte sul piano ontologico, cronologico, psicologico e funzionale esse costituiscono più violazioni della stessa disposizione di legge e, quindi, reati distinti, eventualmente unificati nel vincolo della continuazione (Sez. 6, n. 22549 del 28/03/2017, Ghitti, Rv. 270266); d) dalla pluralità delle condotte di inadempimento che integrano il delitto di frode in pubbliche forniture avente ad oggetto l’esecuzione di contratti di somministrazione di beni o servizi, trattandosi di una fattispecie la cui struttura è quella propria di un reato a consumazione prolungata, dove ogni singolo comportamento contribuisce ad accentuare la lesione arrecata al bene giuridico protetto dalla norma, senza integrare un mero post factum penalmente irrilevante (Sez. 6, n. 12073 del 06/02/2020, Grecuccio, Rv. 278752). Nelle situazioni finora considerate, peraltro, quand’anche la pluralità delle condotte fosse in concreto unificabile nel vincolo della continuazione, occorrerebbe comunque verificare, ai fini dell’eventuale applicazione della causa di esclusione della punibilità, il rispetto dei limiti edittali di pena e degli ulteriori fattori ostativi, in linea generale, contemplati dall’art. 131-bis cit. La previsione di un limite edittale superiore nel massimo a cinque anni di pena detentiva esclude, infatti, la possibilità di applicare l’istituto in relazione ad alcune delle ipotesi di reato dianzi richiamate [quelle di cui alle lett. a), b), c)]. Analoghe considerazioni devono svolgersi nell’ipotesi inversa, ossia quando, nonostante il carattere plurimo delle condotte, sia possibile ravvisare in concreto l’unicità dell’azione, muovendo dal rilievo attribuibile alla continuità temporale di un’azione delittuosa finalisticamente rivolta all’offesa del medesimo bene giuridico (Sez. 5, n. 41141 del 19/05/2014, Pop, Rv. 261204, nel caso in cui una pluralità di sottrazioni di beni risulti essersi verificata in un medesimo contesto spaziotemporale riconducibile ad un unico detentore; Sez. 5, n. 13836 del 11/12/2013, dep. 2014, Tavecchio, Rv. 260200, qualora vi sia contestualità cronologica tra la sottrazione e la conseguente distruzione di documenti e l’azione sia stata compiuta all’unico scopo di eliminare la prova del diritto; Sez. 6, n. 46498 del 16/09/2004, Ianniciello, Rv. 231375, in tema di lesioni personali realizzate nel corso di una aggressione caratterizzata da più colpi contestualmente sferrati ai danni della stessa vittima; Sez. 6, n. 6754 del 12/03/1985, Mastursi, Rv. 170022, con riferimento ad una fattispecie di reiterazione dello stesso mendacio nel corso della medesima deposizione, anche se assunta frazionatamente in una o più udienze dibattimentali). Anche in tali situazioni, infatti, la configurabilità della causa di esclusione della punibilità potrebbe essere negata, nonostante l’unicità dell’azione, all’esito della verifica relativa alla previsione di limiti edittali di pena superiori alla soglia massima stabilita dalla su richiamata disposizione, ovvero nella accertata ricorrenza delle ulteriori condizioni ostative ivi espressamente contemplate.
7.3. Al riguardo, un criterio direttivo utilizzabile, in linea generale, al fine di una corretta individuazione dei caratteri di unità o pluralità delle diverse fattispecie concrete, può ricavarsi dalle argomentazioni svolte da questa Corte per definire – con riferimento all’ipotesi del concorso formale di più reati di resistenza a pubblico ufficiale – il concetto di azione unica, nella quale vanno ricompresi tanto i casi in cui l’azione si risolva in un “atto unico” (conforme alla condotta normativamente prevista), quanto i casi in cui l’azione si realizzi attraverso il compimento di una “pluralità di atti” che siano contestuali nello spazio e nel tempo ed abbiano un fine unico, purché l’apprezzamento di tali caratteri (ossia la contestualità degli atti e la unicità del fine) venga effettuato in concreto, attraverso un rigoroso raffronto della fattispecie astratta descritta dalla norma (Sez. U, n. 40981 del 22/02/2018, Apolloni, Rv. 273771). Entro la medesima prospettiva, infine, un’ulteriore linea di demarcazione rilevante al fine qui considerato è quella tracciata fra i reati necessariamente abituali (ad es., il delitto di maltrattamenti in famiglia o il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260, dAgs. 3 aprile 2006, n. 152) e quelli eventualmente abituali (ad es., l’esercizio abusivo di una professione o quelli di cui agli artt. 659 e 660 cod. pen.), poiché nel caso di un reato eventualmente abituale realizzato con un’unica condotta si afferma che, diversamente da quelli caratterizzati dalla reiterazione della condotta tipica, la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cit. può trovare piena applicazione (Sez. 1, n. 1523 del 05/11/2018, dep. 2019, Morreale, Rv. 274794; Sez. 3, n. 30134 del 05/04/2017, Dentice, Rv. 270255; Sez. 3, n. 48318 del 11/10/2016, Halilovic, Rv. 268566).
- Orbene, dalla rilevata necessità che il reato si manifesti nelle forme di una condotta multipla discende, quale logico corollario, la conseguenza che nessuna valenza recessiva può attribuirsi, nella complessa configurazione strutturale della causa di esclusione della punibilità in esame, all’applicazione delle regole generali che, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., definiscono sul piano normativo i presupposti e le condizioni per la valutabilità in termini unitari di una condotta che, nella sua dimensione naturalistica, risulti plurale.
8.1. Nei casi di concorso formale, ossia nell’ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 81, primo comma, cod. pen., con un’unica azione od omissione siano state violate diverse disposizioni di legge, ovvero commesse più violazioni della medesima disposizione di legge, la circostanza che l’azione o l’omissione siano uniche ha portato la giurisprudenza (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265449) ad escludere, in mancanza di una reiterazione della condotta, che si versi nelle ipotesi di comportamento abituale, sia perché non vengono in rilievo reati che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate, sia perché non sempre quell’unica azione od omissione importa la commissione di più reati della stessa indole (specie se non si versi nel caso del concorso di reato “omogeneo”, che ricorre nella diversa ipotesi in cui con un unico episodio comportamentale ovvero in un medesimo contesto spazio-temporale si verifichino più violazioni della medesima disposizione di legge). Nelle situazioni in cui rilevi il concorso formale di reati, pertanto, non sussistono ragioni ostative all’applicazione della causa di non punibilità in esame, quanto meno con riferimento all’indice-criterio della “non abitualità del comportamento”, anche se in tale ipotesi il giudice dovrà comunque accertare le caratteristiche specifiche della vicenda in esame e valutare in concreto l’eventuale ricorrenza di tutti i presupposti rilevanti ai fini dell’applicazione dell’istituto (non solo quello della “non abitualità del comportamento”, ma anche quello della “particolare tenuità dell’offesa”). Muovendo, infatti, dalla premessa secondo cui l’istituto del concorso formale è caratterizzato dalla “unicità” di azione o di omissione, questa Corte ne ha escluso la collocazione sia tra le ipotesi di “condotte plurime, abituali e reiterate”, sia all’interno della categoria dei “reati della stessa indole”, affermando il principio secondo cui il concorso formale di reati non consente dl considerare operante lo sbarramento dell’abitualità del comportamento che impedisce l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, cit.). La valorizzazione del profilo normativo inerente alla unicità della condotta, in altri termini, ne disvela il carattere antitetico rispetto ai comportamenti connotati dall’abitualità.
8.2. Siffatta impostazione ermeneutica, però, se esclude, per un verso, l’incompatibilità strutturale tra il concorso formale e la disposizione di cui all’art. 131-bis cod. pen., per altro verso non consente di ritenere preclusa la possibilità di ricondurre in concreto il reato continuato alla categoria della particolare tenuità del fatto quale presupposto logico-giuridico per la configurabilità della relativa causa di esclusione della punibilità: ragioni di coerenza logico-sistematica e di unicità della direzione teleologica impressa alle singole azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso impongono di considerare anche l’ipotesi disciplinata nell’art. 81, secondo comma, cod. pen. come “unitaria”. La regola della unitarietà del reato continuato, generalmente individuata nella prospettiva di una più ampia estensione applicativa del principio del favor rei, conosce infatti delle eccezioni, come posto in rilievo dalla dottrina, solo quando la considerazione monolitica delle condotte possa determinare in concreto delle conseguenze contra reum. Analoghe indicazioni, sotto tale profilo, possono trarsi da una, sia pur sintetica, disamina della costante elaborazione giurisprudenziale di questa Corte in ordine alla individuazione della connotazione di “unitarietà” nella continuazione tra i reati. Con la sentenza Ronga (Sez. U, n. 14 del 30/06/1994, Rv. 214355), che ha fissato il principio della scindibilità, nel corso dell’esecuzione, del cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato, ai fini della fruizione dei benefici penitenziari, le Sezioni Unite hanno affermato che «la unitarietà del reato continuato deve affermarsi là dove vi sia una disposizione apposita in tal senso o dove la soluzione unitaria garantisca un risultato favorevole al reo, non dovendo e non potendo dimenticarsi che il trattamento di maggior favore per il reo è alla base della ratio, della logica, appunto, del reato continuato. Non vi è, quindi, una struttura unitaria da assumere come punto di partenza di rilievo generale. Al contrario, la considerazione unitaria del reato continuato richiede due condizioni: deve essere espressamente prevista da “apposita disposizione” o, comunque, deve garantire un risultato favorevole al reo. Ne deriva che, al di fuori di queste due ipotesi, non vi è alcuna unitarietà di cui tener conto e, di conseguenza, vige e opera la considerazione della pluralità dei reati nella loro autonomia e distinzione che, pertanto, costituisce la regola». Tale orientamento è stato altresì ribadito da Sez. U, n. 18775 del 17/12/2009, dep. 2010, Mammoliti, Rv. 246720 (in tema di computo dei termini di durata massima della custodia cautelare) e da Sez. U, n. 3286 del 27/11/2008, dep. 2009, Chiodi, Rv. 241755, la cui motivazione reca un passaggio ove si è ribadito che «può allora concludersi, e in tale senso è altresì orientata l’unanime dottrina, che il reato continuato si configura quale particolare ipotesi di concorso di reati che va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quelli relativi alla determinazione della pena, mentre, per tutti gli altri effetti non espressamente previsti, la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo». Successivamente, anche altre decisioni (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263717) hanno affermato, nella medesima prospettiva, che «la realtà normativa costituita dall’istituto della continuazione è di carattere duttile, che può prestarsi, a seconda delle esigenze, a una lettura unitaria, ovvero ad una analisi frammentata, a seconda delle prospettive che si intendono perseguire. In sintesi: in vista del perseguimento dell’obiettivo del favor rei, coesistono nella figura del reato continuato profili giuridici, tanto di unitarietà, quanto di pluralità» Tale linea interpretativa, infine, è stata confermata dalla Corte anche in relazione alla individuazione delle modalità di calcolo degli aumenti di pena per i reati satellite (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269), là dove si è stabilito il principio secondo cui il giudice, ove riconosca la continuazione tra reati, nel determinare la pena complessiva deve, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, calcolare e motivare in modo distinto anche l’aumento di pena per ognuno dei reati satellite.
8.3. Le implicazioni di tale impostazione ermeneutica, peraltro, assumono ancor maggiore pregnanza ove si prendano in esame due ulteriori profili di ordine logico-sistematico, sovente valorizzati sia dalla dottrina che dall’orientamento giurisprudenziale qui condiviso. In primo luogo, la radicale esclusione del reato continuato dall’ambito applicativo della non punibilità per la particolare tenuità del fatto rischierebbe di generare incongruenze sistematiche nel raffronto con la linea interpretativa che pacificamente riconosce la configurabilità del nuovo istituto nelle ipotesi di concorso formale di reati: non si è in presenza, evidentemente, di due fattispecie identiche, ma è altrettanto indubbio, alla luce delle su esposte considerazioni (v., supra, il par. 8.1.), che, ai fini della valutazione del requisito della abitualità del comportamento, una eventuale disparità di trattamento fra le ipotesi del concorso formale e del reato continuato non potrebbe ritenersi improntata al canone della ragionevolezza. Analoghi rilievi emergono, inoltre, alla luce della ratio ispiratrice che governa i presupposti per la configurabilità del nesso della continuazione, in considerazione del minor grado di riprovevolezza della condotta posta in essere da colui che cede all’impulso criminoso una sola volta, ossia al momento della ideazione del disegno criminoso: incoerente risulterebbe, sul piano logico-sistematico, uno sbarramento derivante da un’eventuale preclusione assoluta all’applicazione della causa di esclusione della punibilità in esame, rispetto ad un istituto, quello della continuazione, tradizionalmente plasmato sulla regola del favor rei.
8.4. Sotto altro, ma connesso profilo, la razionalità della tesi seguita dall’indirizzo qui condiviso e la complessiva “tenuta” logico-sistematica del congegno normativo regolato dall’art. 131-bis cit. possono essere saggiate anche rispetto alle implicazioni della linea interpretativa che esclude, in generale, la presenza di fattori ostativi all’eventuale operatività della causa di non punibilità con riferimento al reato permanente. A tale riguardo, infatti, si è affermato che il reato permanente è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto, invece, da una condotta persistente, cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e, pertanto, dell’offesa del bene giuridico protetto (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265448). Entro tale prospettiva, questa Corte ha precisato che il reato permanente non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale come individuabile ai sensi dell’art. 131-bis cit. (v., in motivazione, Sez. 6, n. 17679 del 31/03/2016, K., Rv. 267315), sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto maggiore sia la protrazione della condotta (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, cit.; Sez. 6, n. 17679 del 31/03/2016, K, cit.). La permanenza della condotta è, quindi, ostativa all’applicazione del nuovo istituto in ragione della perdurante compressione del bene giuridico da essa derivante (Sez. 2, n. 16363 del 13/02/2019, Bevilacqua, Rv. 276096; Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016, Mazzoccoli, Rv. 267589; Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015, Sarli, Rv. 265435).
- L’esclusione di profili di incompatibilità strutturale tra il reato continuato e la particolare tenuità del fatto comporta la necessità di valutare caso per caso le condizioni e i presupposti di compatibilità di tale interrelazione, sulla base di una complessiva analisi della vicenda in concreto sottoposta al vaglio dell’autorità giudiziaria. Il giudice, in altri termini, deve accertare se, in concreto, la ricorrenza di una pluralità di condotte illecite frutto della medesima risoluzione criminosa presenti, o meno, i caratteri della particolare tenuità alla luce dei criteri direttivi stabiliti dalla disposizione di cui all’art. 131-bis cit. Un eventuale diniego di applicazione della causa di non punibilità si giustifica, infatti, solo all’esito di una valutazione discrezionale complessivamente incentrata sia sulle «modalità della condotta» – a loro volta comprensive dell’elemento soggettivo del reato, che «penetra nella tipicità oggettiva», come affermato dalla sentenza Tushaj – sia sulla «esiguità del danno o del pericolo»: valutazione, questa, che il giudice deve svolgere, in relazione ad entrambi i profili ora considerati, assumendo quali parametri di riferimento i criteri direttivi previsti dall’art. 133, primo comma, cod. pen., in quanto espressamente richiamati dalla disposizione di cui all’art. 131-bis, primo comma, cit. Non ricorrono, dunque, i presupposti della causa di esclusione della punibilità nell’ipotesi in cui i reati in concorso materiale, pur unificati dal vincolo della continuazione, siano in concreto caratterizzati da peculiari note modali, ritenute idonee a disvelare – in ragione, ad es., di una “pervicacia nell’illecito assolutamente preponderante» o della stabile assunzione di un determinato modello comportamentale, se non di un vero e proprio stile di vita – una particolare attitudine del soggetto a violare in forma seriale la legge penale secondo i paradigmi delineati nel terzo comma dell’art. 131-bis: connotazioni della condotta, quelle dianzi richiamate, che non necessariamente, ma solo eventualmente, possono caratterizzare in concreto la realizzazione dei reati in continuazione. Né l’offesa cagionata al bene giuridico può ritenersi di particolare tenuità in presenza delle situazioni ostative tassativamente individuate nel secondo comma dell’art. 131-bis, che esclude l’operatività dell’istituto con riferimento: a) a specifiche fattispecie di reato (come, ad es., quelle di cui agli artt. 336, 337, 341- bis, 343 cod. pen.); b) a determinate motivazioni e circostanze della condotta (ad es., i motivi abietti o futili; l’aver agito con crudeltà o l’aver approfittato delle condizioni di minorata difesa della vittima); c) ad alcune conseguenze, anche non volute, che ne siano derivate (la morte o le lesioni gravissime di una persona). Entro tale prospettiva deve essere correttamente impostato il rapporto fra i due istituti, escludendo la possibilità, pur in astratto configurabile, che la rilevata assenza di profili di incompatibilità strutturale comporti, in concreto, l’assoluta e incondizionata applicabilità della disciplina dell’art. 131-bis cit. al reato continuato. Tale diversa ipotesi ricostruttiva, infatti, si porrebbe in contrasto con la ratio ispiratrice e il perimetro letterale della richiamata disposizione normativa, poiché l’istituto della continuazione non può prescindere dal necessario raccordo con il complesso quadro degli elementi che compongono la dimensione strutturale e funzionale della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. La disciplina del reato continuato, quale unificazione normativa di condotte naturalisticamente plurime, deve pertanto inserirsi all’interno di un micro-sistema governato dai principi di proporzione e finalismo rieducativo in relazione alla valutazione discrezionale di un “bisogno reale” di pena, dove essenzialmente rileva, come sottolineato dalla sentenza Tushaj, “la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza” e l’esiguità del disvalore penale costituisce il “frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza”. Conclusione, questa, a sostegno della quale convergono, come si è già in parte osservato, una serie di argomenti testuali, sistematici e teleologici che, nel loro insieme, la rendono preferibile rispetto all’orientamento contrario.
- Nella sua dinamica funzionale, infatti, la continuazione assume fisionomie tra loro sensibilmente diverse, potendo variare, di volta in volta, la tipologia del bene giuridico protetto, il numero dei reati avvinti dal medesimo disegno criminoso, lo spazio temporale che distanzia i singoli episodi illeciti, l’omogeneità o la eterogeneità delle violazioni, la loro gravità in astratto, le forme e modalità di realizzazione dei diversi segmenti storico-fattuali in cui si articola nel tempo il disegno criminoso e così via. Ciò sta a significare che, in relazione alla disciplina del reato continuato, l’eventuale connotazione di “abitualità” del comportamento deve essere necessariamente valutata in concreto, in modo da evitare automatismi preclusivi che irragionevolmente ostino al riconoscimento della causa di esclusione della punibilità nei confronti di persone per le quali non sia effettivamente individuabile alcuna esigenza special-preventiva. Il giudice, inoltre, è tenuto a motivare in maniera adeguata sulle forme di estrinsecazione del comportamento incriminato, al fine di valutarne la gravità, l’entità del contrasto rispetto alla legge e, conseguentemente, il bisogno di pena, dovendosi ritenere insufficiente il richiamo a mere clausole di stile (Sez. 6, n. 18180 del 20/12/2018, dep. 2019, Venezia, Rv. 275940). I reati avvinti dal nesso della continuazione, pertanto, devono essere oggetto di un complessivo apprezzamento discrezionale da parte del giudice, che dovrà soppesarne la concreta incidenza nella prospettiva della meritevolezza o meno della pena secondo i parametri fissati dall’art. 131-bis cit., svolgendo un’adeguata verifica sulla base di una serie di indici rappresentati, in particolare: a) dalla natura e dalla gravità degli illeciti unificati; b) dalla tipologia dei beni giuridici lesi o posti pericolo; c) dall’entità delle disposizioni di legge violate; d) dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte; e) dalle relative motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate; f) dall’arco temporale e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano; g) dall’intensità del dolo; h) dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti.
10.1. In relazione a tale ultimo indice di valutazione deve rilevarsi come nell’attuale formulazione dell’art. 131-bis non compaia alcun riferimento ai comportamenti successivi alla consumazione del reato, essendo richiamato solamente il primo comma dell’art. 133 cod. pen. e non il secondo comma, che al n. 3 consente al giudice di valutare ai fini della determinazione della pena le condotte susseguenti al reato. Sulla base del dato letterale della disposizione in esame, pertanto, questa Corte ha escluso la rilevanza del comportamento tenuto dall’agente post delictum, atteso che la norma di cui all’art. 131-bis cit. correla l’esiguità del disvalore ad una valutazione congiunta delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile, dell’entità del danno o del pericolo, da apprezzare in relazione ai soli profili di cui all’art. 133, primo comma, cod. pen., e non invece con riguardo a quelli, indicativi di capacità a delinquere, di cui al secondo comma, includenti la condotta susseguente al reato (Sez. 5, n. 660 del 02/12/2019, dep. 2020, P., Rv. 278555). Nella medesima prospettiva si è inoltre precisato che l’eliminazione delle conseguenze pericolose del reato non integra di per sé una lieve entità dell’offesa, atteso che l’esiguità del disvalore deriva da una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza (Sez. 3, n. 893 del 28/06/2017, dep. 2018, Gallorini, Rv. 272249). Al riguardo, tuttavia, è necessario considerare che l’art. 1, comma 21, della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante “delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, stabilisce che, nell’esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice penale in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto sono adottati nel rispetto di una serie di principi e criteri direttivi, tra i quali assume particolare importanza, per la definizione della questione posta all’attenzione di questo Collegio, il criterio indicato nella lett. b), ove si attribuisce rilievo “….alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa”. La valorizzazione da parte del legislatore di tale specifico criterio di delega comporta, infatti, la necessità di superare l’indirizzo al riguardo seguito dalla giurisprudenza di questa Corte, includendo, nel catalogo degli indicatori dianzi richiamati, anche il profilo di valutazione inerente alla “condotta susseguente al reato”. Entro tale prospettiva, dunque, le condotte successive al reato ben possono integrare nel caso concreto un elemento suscettibile di essere preso in considerazione nell’ambito del giudizio di particolare tenuità dell’offesa, rilevando ai fini dell’apprezzamento della entità del danno, ovvero come possibile spia dell’intensità dell’elemento soggettivo.
10.2. Nell’esaminare, inoltre, la natura dei reati in continuazione e del bene giuridico leso, potrebbe venire in rilievo una situazione caratterizzata dalla presenza di una pluralità di reati della stessa indole, con la conseguente necessità di verificarne il dato numerico, in applicazione del principio al riguardo affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza Tushaj. La serialità ostativa, come tale idonea ad integrare l’abitualità del comportamento, si realizza infatti «quando l’autore faccia seguire a due reati della stessa indole un’ulteriore, analoga condotta illecita». Ciò sta a significare che i reati della stessa indole devono essere almeno tre, ricomprendendosi nel numero anche quello per il quale si procede. Principio di diritto, questo, applicabile anche alla disciplina del reato continuato, che a sua volta presuppone, sul piano naturalistico, una pluralità di violazioni riconducibili ad una dimensione unitaria, dunque non occasionale, in ragione di un disegno operativo unitario che salda fra loro le diverse azioni illecite. La richiamata decisione, infatti, muove dalla duplice premessa argomentativa secondo cui, da un lato, i reati idonei ad integrare un comportamento abituale possono non essere stati oggetto di condanne irrevocabili ed essere sottoposti, al contempo, alla cognizione dello stesso giudice che procede, dall’altro lato ciascuno dei fatti singolarmente considerato può essere a sua volta caratterizzato da profili di particolare tenuità. Ne discende che, a fronte di tali evenienze, l’applicazione della causa di non punibilità dovrà ritenersi preclusa nel momento in cui risultino a carico dell’autore almeno tre reati della stessa indole, avvinti fra loro dal nesso della continuazione. Nelle diverse ipotesi in cui il nesso della continuazione avvinca solo due reati della stessa indole, ovvero i reati non siano della stessa indole (in quest’ultimo caso prescindendo anche dal dato numerico), non scatterà alcuna preclusione applicativa e il giudice dovrà conseguentemente verificare la ricorrenza o meno degli ulteriori indici previsti dall’art. 131-bis, operando un giudizio complessivo sulla concreta vicenda oggetto della sua cognizione. Muovendo dalla prospettiva delineata nella richiamata decisione delle Sezioni Unite non emergono, pertanto, elementi ostativi di natura testuale all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità al reato continuato, ad eccezione della su indicata ipotesi in cui i tre diversi segmenti attraverso i quali si articola la sequenza comportamentale oggetto del medesimo disegno criminoso siano ascrivibili, all’esito di una valutazione discrezionale operata dal giudice nel caso concreto, alla categoria normativa dei reati della stessa indole. L’identità dell’indole, infatti, deve essere valutata dal giudice in relazione al caso esaminato, verificando se in concreto i reati presentino caratteri fondamentali comuni (Sez. 5, n. 53401 del 30/05/2018, M., Rv. 274186).
10.3. Ora, secondo una costante linea interpretativa, nella nozione di reati della stessa indole rientrano non soltanto quei reati che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur previsti da testi normativi diversi, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati. Sulla base di tali criteri direttivi e della correlata valutazione discrezionale del giudice, questa Corte ha affermato che più reati possono considerarsi omogenei per comunanza di caratteri fondamentali quando siano simili le circostanze oggettive nelle quali si sono realizzati, quando le condizioni di ambiente e di persona nelle quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l’inclinazione verso un’identica tipologia criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell’altrui diritti rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa (Sez. 3, n. 49717 del 20/09/2019, Brasile, Rv. 277467; Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019, Assisi, Rv. 278166; Sez. 3, n. 3362 del 04/10/1996, Barrese, Rv. 206531). La nozione di “stessa indole”, pertanto, risulterà per lo più sovrapponibile, nei casi concreti, all’ipotesi in cui venga in rilievo la forma della cd. “continuazione omogenea”, caratterizzata dalla plurima violazione della stessa disposizione di legge. L’istituto della continuazione e la nozione di “reati della stessa indole” si pongono, di contro, in un rapporto di reciproca autonomia nella diversa ipotesi in cui il medesimo disegno criminoso abbracci la realizzazione di reati del tutto eterogenei, venendo meno, in siffatta evenienza, qualsiasi preclusione operativa all’istituto previsto dall’art. 131-bis. Ne discende che, nel suo concreto manifestarsi, la continuazione, da un lato, può abbracciare una serie di reati con caratteristiche corrispondenti a quelle descritte dall’art. 101 cod. pen., dall’altro lato può avere ad oggetto, come si è già rilevato, una pluralità di condotte delittuose le cui specifiche note modali non consentono di ricomprenderle nella categoria di reati individuati sulla base dei criteri stabiliti dalla su indicata disposizione normativa.
10.4. Un’ulteriore questione problematica può porsi all’attenzione del giudice in considerazione della esigenza di verificare in concreto i profili di rilevanza del fattore temporale all’interno della continuazione. Secondo alcune decisioni, infatti, assume un particolare rilievo, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., l’esigenza di individuare una linea di demarcazione tra le ipotesi di continuazione “diacronica” o “sincronica” (ex multis v. Sez. 3, n. 35630 del 13/07/2021, Nenci, cit.; Sez. 5, n. 30434 del 13/07/2020, Innocenti, cit.; Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019, dep. 2020, De Angelis, cit.; Sez. 6, n. 18192 del 20/03/2019, Franchi, cit.; Sez. 4, n. 4649 del 11/12/2018, dep. 2019, Xhafa, cit.; Sez. 3, n. 19159 del 29/03/2018, Fusaro, cit.). La continuazione “diacronica”, in particolare, si verifica quando vengano in rilievo delitti commessi all’interno di sequenze spazio-temporali distanti tra loro, sicché risulta difficile, in concreto, individuare possibili margini di applicazione per la particolare tenuità del fatto, in quanto la reiterazione di condotte delittuose in distinte occasioni, presupponendo singole volizioni a sostegno di ciascuna azione, dimostrerebbe una pervicacia criminale che non consentirebbe di stimare il fatto come occasionale. Nella diversa ipotesi in cui la continuazione risulti “sincronica”, ossia tra delitti realizzati nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, la particolare tenuità del fatto non potrebbe ritenersi con essa incompatibile, in ragione della estemporaneità dell’azione illecita. Nella continuazione sincronica, infatti, sarebbe l’unitarietà del contesto in cui sono poste in essere le diverse condotte a conferire unità sostanziale alla volontà criminosa che le sorregge, esprimendo sotto tale profilo un minor coefficiente di disvalore del fatto, dal momento che l’agente si pone una sola volta contro l’ordinamento. La rilevata compatibilità fra la disciplina della continuazione e la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non consente, tuttavia, di rilevare la presenza di particolari limiti applicativi al di là dei casi di continuazione diacronica sinora venuti in rilievo nella elaborazione giurisprudenziale: nulla osta, infatti, all’applicazione della disposizione prevista dall’art. 131-bis cod. pen. rispetto a reati che – pur verificatisi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in contesti spazio-temporali del tutto differenti – rechino in sé un’offesa di particolare tenuità al bene protetto e non risultino contrassegnati da una stessa indole, ma appaiano in concreto il frutto di una deliberazione estemporanea o, comunque, solo occasionale. La disciplina legale dell’istituto della continuazione prevede l’applicazione di un regime sanzionatorio favorevole anche quando i reati sono stati commessi in tempi diversi. Al riguardo, infatti, la formula utilizzata dal legislatore («anche in tempi diversi») consente espressamente di riconoscere la continuazione anche in relazione ad accadimenti che si collocano in tempi assai lontani fra loro. Ne consegue che l’ampiezza, più o meno rilevante, dell’arco temporale entro cui si distendono le diverse condotte delittuose non costituisce, di per sé, un criterio idoneo a scalfire il giudizio di meritevolezza del trattamento di favore che l’ordinamento riserva all’autore che abbia agito nell’ambito, e in esecuzione, di un medesimo disegno criminoso. Entro tale prospettiva, dunque, non può essere condivisa l’affermazione secondo cui l’applicazione dell’art. 131-bis cit. sarebbe possibile solo in presenza di condotte occorse nelle «medesime circostanze di tempo e di luogo» (Sez. 3, n. 35630 del 13/07/2021, Nenci, cit.; Sez. 4, n. 47772 del 25/09/2018, Bommartini, cit.; Sez. 5, n. 5358 del 15/1/2018, Corradini, cit.): in tali casi, come posto in rilievo dalla dottrina, si è dinanzi ad elementi di fatto (come quello temporale) che il legislatore non considera di per sé ostativi al riconoscimento della continuazione, ovvero a situazioni (come la collocazione spaziale dei fatti) addirittura estranee alla disciplina e alla ratio del reato continuato. Si tratta, invero, di elementi circostanziali che, ai fini del riconoscimento della continuazione, possono concretamente rilevare in diverse direzioni, rientrando, assieme a numerosi altri indicatori (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, cit.), nella più ampia cornice storico-fattuale oggetto del prudente apprezzamento discrezionale del giudice. Al riguardo, infatti, questa Corte ha affermato che il breve lasso di tempo intercorso fra le molteplici violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge non è un elemento dal quale possa di per sé desumersi l’unicità del disegno criminoso; non è sufficiente il mero riferimento alla contiguità cronologica degli addebiti ovvero all’identità o analogia dei titoli di reato, in quanto indici sintomatici non di attuazione di un progetto criminoso unitario quanto di una abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate alla sistematica e contingente consumazione di illeciti (Sez. 5, n. 21326 del 06/05/2010, Faneli, Rv. 247356). Sotto altro, ma connesso profilo, si è affermato (Sez. 1, n. 11359 del 03/04/2020, Hrustic, non mass.) che è legittima l’esclusione della sussistenza del vincolo della continuazione in considerazione del notevole lasso di tempo registrabile tra i vari fatti criminosi, qualora tale elemento non sia contrastato da positive e contrarie risultanze probatorie. Nella medesima prospettiva si è altresì chiarito che «l’elevato arco di tempo all’interno del quale sono stati commessi più reati (nella specie, dieci anni) non esime il giudice dall’onere di verificare se la continuazione possa essere riconosciuta con riferimento a singoli gruppi di reati commessi, all’interno di tale arco, in epoca contigua, tenuto conto degli ulteriori indici rappresentati dalla similare tipologia, dalle singole causali e dalla contiguità spaziale» (Sez. 1, n. 7381 del 12/11/2018 dep. 2019, Zuppone, Rv. 276387; Sez. 1, n. 14348 del 04/02/2013, Artusio, Rv. 255843). Eventuali preclusioni, dunque, non risulterebbero affatto compatibili, sul piano applicativo, con l’ampiezza e la varietà dei criteri che, anche in relazione al momento soggettivo, devono orientare la valutazione giudiziale del requisito della particolare tenuità del fatto. Ciò non di meno, è evidente che, nelle circostanze del caso concreto, risulterà più agevole individuare l’elemento di raccordo fra la continuazione e la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cit. nelle vicende connotate da un significativo grado di concentrazione spazio-temporale delle condotte, ossia nei «casi in cui emerga una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa», versandosi in situazioni che, di regola, rispetto alla diversa ipotesi di una pluralità di reati commessi entro un orizzonte spazio-temporale assai dilatato, risultano incompatibili, in presenza degli ulteriori requisiti normativi, con forme e modalità di condotta sintomatiche di una abitudine del reo a violare la legge (Sez. 5, n. 30434 del 13/07/2020, Innocenti, cit.; Sez. 4, n. 10111 del 13/11/2019, dep. 2020, De Angelis, cit.; Sez. 4, n. 4649 del 11/12/2018, dep. 2019, Xhafa, cit.).
10.5. L’unificazione normativa delle condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso non esclude, peraltro, la possibilità di attribuire rilievo, in concreto, all’autonomia delle sue diverse componenti, quando la regola della unitarietà si riverberi in un danno o in una situazione di svantaggio per l’imputato. Al riguardo potrebbero verificarsi delle situazioni in cui la valutazione autonoma dei singoli fatti risulti in concreto più aderente alla diversa connotazione di gravità dei reati in continuazione, alcuni soltanto dei quali potrebbero costituire oggetto del giudizio di particolare tenuità dell’offesa. Analoghe considerazioni possono svolgersi nelle ipotesi in cui alcuni dei reati in continuazione siano oggettivamente esclusi dall’ambito di operatività della causa di esclusione della punibilità, per effetto di una specifica previsione ostativa ai sensi dell’art. 131-bis, secondo comma, cit., o perché astrattamente puniti con pene detentive superiori nel massimo edittale al limite dei cinque anni fissato nel primo comma. A fronte di tali evenienze, nulla impedisce di “sciogliere” la continuazione tra la pluralità delle condotte illecite ai fini dell’applicazione del più favorevole istituto previsto dall’art. 131-bis, riconoscendo la causa di non punibilità, in presenza di tutte le condizioni previste dalla legge, anche in relazione ad uno solo dei fatti riuniti sotto la disciplina della continuazione, avuto riguardo, per un verso, al comune principio del favor rei che permea di sé la dinamica funzionale di entrambi gli istituti, per altro verso alla formulazione letterale della clausola normativa prevista dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., ove il legislatore, nell’individuare la terza ipotesi di abitualità ostativa (relativa alle «condotte plurime, abituali e reiterate»), non ha replicato l’inciso utilizzato con riferimento alla precedente ipotesi dei reati della stessa indole («[….]anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità[….]»), in modo da consentire al giudice la possibilità di verificare in concreto la particolare tenuità delle singole condotte legate dalla continuazione.
- Non ricorrono, in definitiva, ostacoli di ordine logico-sistematico all’applicabilità al reato continuato della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cit. Si tratta di istituti ispirati entrambi al principio del favor rei, che rispondono ad esigenze e finalità sostanziali diverse, ma fra loro pienamente conciliabili, del sistema penale. Da un lato, l’ordinamento mira ad attenuare il rigore sanzionatorio del cumulo materiale, sostituendo ad esso il diverso regime del cumulo giuridico nell’ipotesi in cui i reati commessi con più azioni od omissioni siano il frutto di un’unica determinazione del soggetto attivo. Dall’altro lato, si persegue la finalità di mandare esenti da pena quei fatti che, nella loro concreta realizzazione, appaiano caratterizzati da un grado minimo di offensività e, dunque, non meritevoli di applicazione in concreto della sanzione, in ossequio ai principi di extrema ratio e proporzionalità della reazione punitiva da parte dell’ordinamento. Nelle vicende concrete poste all’attenzione del giudice può ben darsi l’ipotesi che un reato continuato, inquadrato nell’alveo semantico e nel perimetro letterale delimitato dall’art. 131-bis, terzo comma, cit., abbia cagionato, per le sue particolari forme di realizzazione o per la particolare esiguità del danno o del pericolo, un’offesa particolarmente tenue ai beni giuridici tutelati, senza mostrare, al contempo, quelle note modali espressive di un’intensa refrattarietà ai comandi della legge, tipica della nozione di abitualità ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità. Al di fuori delle ipotesi espressamente escluse dal raggio di azione della causa di esclusione della punibilità, qualunque ipotesi di reato rientrante nei parametri fissati dall’art. 131-bis può essere ritenuta di particolare tenuità, se in tal senso viene concretamente valutata dal giudice. Vanno al riguardo considerate, infatti, non solo la natura sostanziale e la portata generale della richiamata disposizione, ma anche la sua peculiare collocazione sistematica all’interno del titolo V del libro I del codice penale, ove è stata inserita ancor prima delle disposizioni (artt. 132 ss.) che regolano l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena: una collocazione, questa, sintomatica, come osservato dalla dottrina, della volontà del legislatore di sollecitare il giudice ad accertare l’eventuale ricorrenza dei presupposti di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in ossequio ai principi, già ricordati, di proporzionalità e di extrema ratio della sanzione penale.
- In conclusione, la questione posta dall’ordinanza di rimessione va risolta enunciando i seguenti principi di diritto: – «La pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen., salve le ipotesi in cui il giudice la ritenga idonea, in concreto, ad integrare una o più delle condizioni tassativamente previste dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale»; – «In presenza di più reati unificati nel vincolo della continuazione, la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto può essere riconosciuta dal giudice all’esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che, salve le condizioni ostative previste dall’art. 131-bis cod. pen., tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall’entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall’intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti».
- Alla stregua dei principi di diritto sopra enunciati può ora procedersi all’esame dei motivi dedotti a sostegno del ricorso.
13.1. Deve essere preliminarmente esaminata la doglianza oggetto del secondo motivo, la cui trattazione, come esattamente rilevato nell’ordinanza di rimessione, precede in ordine logico quella del primo motivo. I Giudici di merito hanno dichiarato la responsabilità dell’imputato per avere commesso più atti di violenza privata nel periodo di tempo ricompreso fra il 19 marzo e il 19 aprile 2016, ritenendoli, tutti, deliberatamente volti ad impedire o comunque a limitare il regolare esercizio dell’attività lavorativa svolta dal fratello, titolare di un’area di servizio per il rifornimento di carburante, le cui corsie di accesso e di uscita venivano ostruite dall’imputato parcheggiando la propria autovettura, o altri autoveicoli nella sua disponibilità, in spazi adiacenti o circostanti le pompe di erogazione, in modo da occupare l’area interessata e rendere impossibile o difficoltoso il servizio di erogazione del carburante per vetture e mezzi pesanti.
Al riguardo, invero, la sentenza impugnata ha puntualmente spiegato le ragioni per le quali la vicenda storico-fattuale descritta nell’imputazione è stata inquadrata nel delitto di cui agli artt. 81, secondo comma, 610 cod. pen., evidenziando come dalle risultanze dibattimentali siano univocamente emerse le circostanze di fatto qui di seguito indicate: a) dalle prime ore del mattino, e sino alla sera, l’imputato soleva parcheggiare di frequente gli autoveicoli nella sua diponibilità in posizione tale da impedire o, comunque, rendere difficoltoso il transito dei mezzi nell’area del distributore di carburante gestito dal fratello; b) ciò avveniva, in particolare, occupando gli spazi riservati ai clienti ovvero collocando le proprie autovetture, lasciate chiuse a chiave, in posizioni tali da restringere o chiudere per lungo tempo l’imboccatura di accesso alla piazzola dell’area di servizio; c) pur ripetutamente invitato dal fratello, egli espressamente rifiutava di spostare i mezzi o di sistemarli in modo da non creare intralcio, auspicando la prossima chiusura dell’attività. Nel richiamare il quadro delle risultanze probatorie, sia di fonte orale che documentale, già in senso conforme vagliate dalla prima decisione, la Corte di appello ha, con congrua motivazione, disatteso le su esposte censure difensive, ponendo in rilievo sia le ragioni giustificative della ritenuta attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, puntualmente riscontrate dalla documentazione fotografica acquisita nel dibattimento, sia l’assenza di valide motivazioni a sostegno del comportamento ostruzionistico tenuto dall’imputato, le cui allegate difficoltà di deambulazione non giustificavano le condotte reiteratamente volte ad ostacolare il libero accesso dei clienti all’area di servizio del fratello.
La sentenza impugnata, pertanto, ha fatto buon governo del principio stabilito da questa Corte (Sez. 5, n. 1913 del 16/10/2017, dep. 2018, Andriulo, Rv. 272322; Sez. 5, n. 8425 del 20/11/2013, dep. 2014, Iovino, Rv. 259052; Sez. 5, n. 603 del 18/11/2011, dep. 2012, Lombardo, Rv. 252668), secondo cui integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura dinanzi ad un fabbricato in modo tale da bloccare il passaggio impedendo l’accesso alla parte lesa, e si rifiuti di rimuoverla nonostante la richiesta della persona offesa, considerato che, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione. Ne consegue l’infondatezza della censura oggetto del secondo motivo di ricorso.
13.2. Parimenti infondata, alla luce dei principi di diritto sopra enunciati, deve ritenersi la censura dedotta nel secondo motivo di ricorso. La sentenza impugnata ha ritenuto ostativo alla declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto il riconoscimento del vincolo della continuazione, evidenziando, al riguardo, il carattere di serialità delle condotte reiteratamente poste in essere dall’imputato – in almeno tre occasioni e, talora, per l’intero corso della giornata – lungo il rilevante arco temporale di un mese. Nel riconoscere la continuazione tra le condotte di violenza privata poste in essere dall’imputato, la Corte d’appello ne ha infatti posto in rilievo il numero (contrassegnato da almeno tre episodi, rientranti, come tali, nella seconda ipotesi ostativa prevista dal terzo comma dell’art. 131-bis cit.) e la pervicacia nelle modalità di realizzazione, in quanto caratterizzate da un effetto di progressiva amplificazione delle ricadute negative sullo svolgimento dell’attività imprenditoriale del fratello.
Ne ha rimarcato, inoltre, la peculiarità della connotazione derivante dalla medesima indole, valorizzando al contempo gli elementi sintomatici tratti dalla rilevante intensità del dolo – per avere l’imputato espressamente rifiutato di spostare la propria autovettura, auspicando addirittura la cessazione dell’attività imprenditoriale svolta dal fratello – e dalla totale assenza di ragioni idonee a giustificare una condotta ostruzionistica più volte realizzata con finalità sostanzialmente emulative ai danni della medesima persona offesa.
La sentenza impugnata, in tal modo, ha correttamente valutato i profili inerenti ai requisiti della non abitualità del comportamento e della particolare tenuità dell’offesa, escludendone la configurabilità in linea con i su indicati principi di diritto, all’esito di una valutazione complessiva della vicenda, svolta sulla base di una serie di indicatori coerentemente ritenuti ostativi, per la natura, il numero e le specifiche modalità di realizzazione delle condotte in continuazione, alla declaratoria dell’invocata causa di esclusione della punibilità. Al rigetto del ricorso, conclusivamente, consegue ex art. 616 cod. proc. pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.