Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, sentenza 14 aprile 2022 (ud. dep.) n. 14721
MASSIMA
Ai fini della integrazione dell’elemento oggettivo del reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p., è richiesto che l’abuso si realizzi attraverso l’esercizio da parte del pubblico ufficiale del potere pubblico allo stesso attribuito, con la conseguenza che il reato in questione non è configurabile quando il pubblico ufficiale agisca del tutto al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni ovvero senza servirsi in alcun modo dell’attività funzionale svolta ovvero quando la condotta sia soltanto occasionata dallo svolgimento delle sue funzioni.
In tali casi, i comportamenti non correlati all’attività funzionale dell’agente possono integrare una mera violazione del dovere di correttezza, non rilevante tuttavia per integrare il reato di cui all’art. 323 c.p., anche se realizzati in contrasto di interessi con l’attività istituzionale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato e va accolto.
- La condotta di abuso di ufficio deve realizzarsi infatti necessariamente “nello svolgimento delle funzioni o del servizio”, non essendo sufficiente la sola violazione di una norma che veda come destinatari i consiliari comunali.
Con siffatta locuzione contenuta nell’art. 323 c.p. si è reso chiaro che per la configurabilità del reato non rileva l’abuso della qualità pubblica, ma è necessario che l’abuso si realizzi attraverso l’esercizio del potere pubblico.
Si è affermato a tal riguardo che, ai fini della integrazione dell’elemento oggettivo del reato, è richiesto che l’abuso si realizzi attraverso l’esercizio da parte del pubblico ufficiale del potere pubblico allo stesso attribuito, con la conseguenza che il reato in questione non è configurabile quando il pubblico ufficiale agisca del tutto al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni (Sez. 6, n. 5118 del 25/02/1998, Rv. 211709; Sez. 2, n. 7600 del 09/02/2006, Rv. 233234; Sez. 3, n. 52053 del 03/10/2017, Rv. 271358, nel caso di atti compiuti con difetto assoluto di attribuzione) ovvero senza servirsi in alcun modo dell’attività funzionale svolta (Sez. 6, n. 6489 del 04/11/2008, dep. 2009, Rv. 243051) ovvero quando la condotta sia soltanto occasionata dallo svolgimento delle sue funzioni (Sez. 6, n. 42836 del 02/10/2013, Rv. 256687).
In tali casi, i comportamenti non correlati all’attività funzionale dell’agente possono integrare una mera violazione del dovere di correttezza, non rilevante tuttavia per integrare il reato di cui all’art. 323 c.p. (così Sez. 6, n. 6489 del 04/11/2008, dep. 2009, cit.), anche se realizzati in contrasto di interessi con l’attività istituzionale (Sez. 6, n. 1269 del 05/12/2012, dep. 2013, Rv. 254228, con riferimento ad attività di consulenza privata, praticata da un pubblico ufficiale al di fuori dell’ufficio).
- Nel caso in esame, come dedotto dal ricorrente, la condotta di abuso dell’intraneus è stata contestata e accertata in sede di merito con riferimento alla sola violazione da parte del pubblico ufficiale di una norma comportamentale, posta a tutela del principio di imparzialità e di buona amministrazione, per prevenire conflitti di interessi tra l’attività istituzionale dei consiglieri comunali e quella privata che questi potrebbero svolgere con incarichi e consulenze affidati da enti o istituzioni dipendenti o comunque sottoposti al controllo ed alla vigilanza del relativo comune.
Si trattava dunque di una condotta (l’assunzione di un incarico professionale presso un’azienda municipalizzata) che non coinvolgeva da parte dell’intraneus lo svolgimento della sua attività funzionale pubblica.
Tale iniziativa pacificamente era stata infatti assunta dal B. nella veste di privato cittadino e non nell’ambito dell’esercizio funzionale dell’ufficio pubblico ricoperto in seno al consiglio comunale.
La violazione del divieto, pertanto, come ha precisato la giurisprudenza di legittimità in sede civile, poteva incidere negativamente solo sull’incarico o sulla consulenza, determinandone l’invalidità (Sez. 1, n. 5076 del 24/05/1994, Rv. 486751, con riferimento alla L. 25 marzo 1993, n. 81, art. 26).
- Difettando quindi il presupposto della condotta di abuso, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.