Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, sentenza 15 marzo 2022 (ud. dep.) n. 8609
MASSIMA
Nell’analisi dell’eventuale responsabilità dell’atleta per fatti dannosi commessi durante l’attività sportiva, si ritiene debba essere abbandonato l’orizzonte del cd. “rischio consentito” e dell’agente modello, foriero di eccessive incertezze nell’applicazione giudiziale, per approdare ai consueti criteri di accertamento della responsabilità penale nei reati caratterizzati dall’evento: verifica oggettiva del fatto dannoso (azione e nesso causale) e configurabilità della colpevolezza dell’agente, sotto il profilo della sussistenza del dolo o della colpa.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- I motivi dedotti – esaminabili congiuntamente, attenendo entrambi alla tematica della individuazione dei confini dell’area del penalmente (e, di riflesso, civilmente) rilevante in rapporto alla condotta lesiva dell’altrui integrità fisica nell’ambito delle competizioni sportive – impongono le considerazioni che seguono.
- Il ricorrente, in relazione al contesto sportivo in cui si è verificato il fatto lesivo, invoca l’esimente che fa riferimento alla teoria del c.d. “rischio consentito”, richiamando il noto orientamento dottrinario e giurisprudenziale che ritiene giustificate determinate attività che – pur pericolose e, quindi, potenzialmente idonee a cagionare lesioni personali o persino la morte – sono consentite dall’ordinamento in quanto necessarie o comunque oggettivamente utili. Il pericolo che caratterizza tali attività umane genera rischi che vengono, in buona sostanza, accettati dai consociati per svariate ragioni: solidarietà umana (ad es. attività medico-chirurgica), esigenze di locomozione (circolazione stradale, aerea e ferroviaria), esigenze commerciali e produttive (attività di costruzione, di produzione industriale, con i conseguenti rischi da infortuni lavorativi anche gravi), esigenze scientifiche (ad es. viaggi spaziali), necessità di garantire l’ordine e il rispetto delle leggi (ad. es. attività di contrasto alla criminalità).
Altre attività sono consentite, ed in tal senso vengono accettati i relativi rischi che il loro esercizio comporta, in quanto soddisfano esigenze di carattere ludico-sociale, ed in tale ambito rientra a pieno titolo l’attività sportiva, attività certamente lecita e giustificata dai benefici che la stessa apporta alla società in generale ed al benessere psico-fisico individuale di coloro che la praticano.
- La giurisprudenza di legittimità ha sviluppato un orientamento che riconduce l’illecito sportivo penalmente irrilevante ad una causa di giustificazione non codificata, in riferimento alla teoria del “rischio consentito” cui si è accennato innanzi. In tale prospettiva, si sostiene che l’esercizio, specie con i caratteri agonistici delle gare di maggior rilievo, di una disciplina sportiva, che implichi l’uso necessario (es. pugilato, lotta, ecc.) o anche solo eventuale (calcio, rugby, pallacanestro, pallanuoto, ecc.) di forza fisica, costituisce un’attività rischiosa consentita dall’ordinamento, per plurime ragioni, a condizione che il rischio, appunto, sia controbilanciato da adeguate misure prevenzionali, sia sotto forma di regole precauzionali, sia dall’imposizione di obblighi di cure e trattamento a carico delle società sportive operanti (in tal senso, v. Sez. 4, n. 9559 del 26/11/2015 – dep. 2016, Rv. 266561 – 01; sulla stessa linea cfr. Sez. 4, n. 20595 del 28/4/2010, Rv. 247342-01). In tale ottica, si sostiene come il rischio qui preso in considerazione sia relativo e non assoluto, in quanto posto a fronte di un vantaggio sociale del pari relativo e non assoluto e come il bilanciamento degli interessi contrapposti imponga uno scrupoloso rispetto delle regole cautelari; con la conseguenza che il rischio accettato non ricomprende le azioni volontarie poste al di fuori dell’azione di gioco (cfr. Sez. 5, n. 42114 del 4/7/2011, Rv. 251703 – 01) o anche solo non finalizzate alla predetta azione e neppure quelle tali da apparire sproporzionate ex ante, in quanto sia soggettivamente percepibile la lesività delle stesse.
La posizione della Suprema Corte si è, insomma, da qualche anno attestata nel senso che la causa di giustificazione, cosiddetta non codificata, dell’esercizio di attività sportiva presuppone che l’azione lesiva non integri infrazione di regola sportiva o comunque, laddove la integri, sia compatibile con la natura della disciplina sportiva praticata ed il contesto agonistico di svolgimento. In assenza di tale causa di giustificazione, il fatto di reato sarà doloso o colposo a seconda che la condotta sia connotata da volontà diretta a ledere l’incolumità dell’avversario o a preventiva accettazione del relativo rischio ovvero sia meramente colposa (cfr. Sez. 5, n. 17923 del 13/02/2009, Rv. 243611 – 01). Tale orientamento individua il discrimine tra lecito e illecito (civile o penale), nell’ambito di azioni di gioco fallose che provochino danni fisici all’avversario, nel rispetto delle regole tecniche che presiedono allo svolgimento di ciascuna disciplina sportiva, riconducendo tale area di esenzione a quella comunemente detta del rischio consentito. Ciò nella prospettiva dell’atleta il quale abbia accettato quell’ineludibile componente di alea che è immanente in ogni disciplina sportiva che consente il contatto fisico tra i partecipanti e la cui incidenza è contenuta, in limiti di fisiologica ragionevolezza, proprio dal rispetto delle regole tecniche, che segnano la misura del rischio consentito e ragionevolmente prevedibile. Si aggiunge, peraltro, che la violazione delle regole tecniche non è, di per sé, sinonimo di illiceità penale. L’infrazione integra sicuramente illecito sportivo, ma non tutti gli illeciti sportivi, anche se causativi di danni alla persona, configurano illeciti penali. In sintesi, si ritiene che il fatto sia penalmente (e civilmente) rilevante in presenza dei due presupposti della volontarietà dell’infrazione e della abnormità della condotta (cfr., in motivazione, la già cit. Sez. 5, n. 17923/2009).
- Il Collegio ritiene che la teoria del c.d. “rischio consentito” colga un effettivo aspetto del tema ma che di per sé non sia soddisfacente per individuare in termini giuridicamente apprezzabili il discrimine tra condotte lecite e illecite nell’ambito di danni fisici procurati nell’esercizio di attività sportive. Peraltro, essa non gode di altrettanto credito in altri settori della giurisprudenza in materia di reati colposi di evento.
L’affermazione secondo cui il “rischio consentito” è quello accettato dall’atleta in relazione al rispetto delle regole tecniche per la pratica sportiva di riferimento, per cui la esorbitante violazione di tali regole ricondurrebbe la condotta antisportiva nell’area del penalmente rilevante, derivandone una lesione non previamente accettata dall’atleta, non risolve il problema di delineare i criteri giuridici da seguire per affermare se un fatto lesivo commesso nel corso di un’attività sportiva sia concretamente una condotta tipica penalmente (e/o civilmente) rilevante.
A ben vedere, il c.d. “rischio consentito” rimanda all’uso giudiziale dell’agente modello nelle attività che comportano rischi accettati dalla comunità sociale, ovvero dell’homo eiusdem condicionis et professionis che si comporta secondo quanto idealmente previsto in relazione ad una specifica (e lecita) attività umana.
Tale figura è stata sottoposta a critica dalla giurisprudenza più recente e accorta in tema di colpa, la quale ha sottolineato che valutare la condotta diligente di una persona, comparandola con quella di un agente ideale, in quanto tale virtuoso, onnisciente e onnipotente, equivale a pretendere da quella stessa persona un comportamento doveroso basato su parametri essenzialmente soggettivi e, spesso, irrealistici. In tale prospettiva, l’agente concreto è chiamato a misurare il suo agire con quello ottimale dell’agente modello, e la divergenza fra i due comportamenti identifica la colpa, quale scostamento dal comportamento diligente, ritenuto esigibile perché (teoricamente) possibile all’agente modello. Ciò implica che la individuazione della pretesa (e quindi del comportamento doveroso) costituisca vera e propria opera creatrice del giudice, come tale foriera di un esercizio di discrezionalità giudiziale confliggente con la necessità di determinatezza della norma incriminatrice e di affermazione di responsabilità solo in presenza di colpevolezza (così, in motivazione, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo e altri).
Ne discende che la nozione di “rischio consentito” è destinata a delineare in termini eccessivamente discrezionali i confini fra attività lecita e illecita, lasciando in definitiva al giudicante il compito di individuare le caratteristiche “normali” o “ideali” del modello di riferimento, consentendogli di costruire su basi non oggettive ma soggettive – peraltro condizionabili dalle conseguenze più o meno gravi dell’evento dannoso – il modello di comportamento diligente su cui parametrare il giudizio di responsabilità.
- Si ritiene, pertanto, che nell’analisi dell’eventuale responsabilità dell’atleta per fatti dannosi commessi durante l’attività sportiva debba essere abbandonato l’orizzonte del cd. “rischio consentito” e dell’agente modello, foriero di eccessive incertezze nell’applicazione giudiziale, per approdare ai consueti criteri di accertamento della responsabilità penale nei reati caratterizzati dall’evento: verifica oggettiva del fatto dannoso (azione e nesso causale) e configurabilità della colpevolezza dell’agente, sotto il profilo della sussistenza del dolo o della colpa.
È proprio sul tema della colpa che si appuntano i maggiori problemi in ordine alla verifica della sussistenza di un fatto punibile penalmente e/o sanzionabile civilmente nell’ambito dell’attività sportiva, di per sé lecita ma nel corso della quale possono realizzarsi condotte lesive dell’altrui integrità fisica o addirittura idonee a cagionare la morte, come tale inevitabilmente sottoposta a scrutinio giudiziario.
L’attività sportiva, così come altre attività umane potenzialmente pericolose, ma consentite per evidenti ragioni di utilità sociale (si pensi all’attività medico-chirurgica), non si sottrae all’indagine di responsabilità colposa (o dolosa) in caso di eventi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone, accaduti nel corso o in occasione del suo esercizio. Per continuare il parallelo con l’attività medico-chirurgica (trattandosi dell’altra attività tipica per la quale, come per l’attività sportiva, suole parlarsi di attività normalmente scriminata da una causa di giustificazione non codificata), a ben vedere, nella verifica della eventuale responsabilità colposa per reati di evento commessi dal sanitario, non assume particolare rilievo il profilo della ritenuta scriminante, ponendosi piuttosto il problema di stabilire se l’intervento medico dannoso sia stato rispettoso o meno delle regole cautelari che caratterizzano l’ars medica nel caso concreto.
Analogamente, per l’attività sportiva, appare superfluo e privo di utilità pratica richiamare la teoria della scriminante non codificata, ponendosi invece il problema di stabilire se il fatto dannoso commesso durante una specifica competizione sportiva sia conseguenza di un’azione dolosa o colposa penalmente rilevante, in quanto commessa con consapevole volontà lesiva (dolo) ovvero in violazione di una regola cautelare scritta (colpa specifica) o non scritta che avrebbe dovuto essere osservata dal soggetto agente, in relazione alle caratteristiche e peculiarità della pratica sportiva esercitata in quel momento.
In tale prospettiva, non serve ragionare in termini di scriminante, atteso che l’attività sportiva costituisce di per sé un’attività lecita, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre determinati rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa o danneggiata colposamente a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari.
- Il fatto doloso si caratterizza per la coscienza e volontà dell’agente, pur nel contesto sportivo, di procurare lesioni, mediante una condotta violenta commessa al di fuori di una normale azione di gioco (ad es. pugno sferrato a gioco fermo o a palla lontana) o con modalità del tutto avulse dall’ordinario contesto agonistico (ad es., violenta gomitata sferrata deliberatamente all’avversario per proteggere la palla); in sintesi, si ha dolo quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, indipendentemente dalla violazione delle regole dell’attività (cfr. Sez. 5, n. 21120 del 29/01/2018, Rv. 273203 – 01).
Maggiori problemi sorgono per la colpa, dovendosi stabilire quando possa ritenersi contraria alle ordinarie regole di prudenza e diligenza la condotta fallosa dell’atleta.
Per la colpa generica in particolare – ma anche per la colpa specifica, in caso di regole cautelari c.d. elastiche, in cui cioè la regola non è dettagliata ma è determinata in base a circostanze contingenti – si tratta di applicare i consueti principi che caratterizzano la valutazione della colpevolezza colposa. In un recente arresto, è stato efficacemente ribadito che in sede di accertamento della colpa il giudice deve indicare la regola cautelare violata preesistente al fatto, e quindi specificare quale sia – sulla base della diligenza, prudenza e perizia – in concreto ed “ex ante” il comportamento doveroso prescritto (Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Rv. 281997 – 17).
- La verifica della colpa sportiva non potrà, insomma, prescindere dagli ordinari criteri stabiliti dall’art. 43 c.p., in particolare riscontrando l’eventuale violazione della regola cautelare, generica o specifica, non corrispondente alla regola tecnico-sportiva in astratto applicabile.
Le regole sportive e le norme penali e/o civili (da cui discendono regole cautelari giuridicamente rilevanti) hanno struttura e funzioni diverse, in nessun modo sovrapponibili.
Le regole sportive strutturano la relativa disciplina e hanno lo scopo di delineare le modalità di esercizio della stessa, onde consentire il regolare svolgimento della competizione e ai soggetti coinvolti (principalmente gli atleti, ma anche altri soggetti quali arbitri, allenatori ecc.) di essere consapevoli delle conseguenze di determinate azioni e comportamenti commessi durante la pratica sportiva, sia in termini di risultato, sia in termini di sanzioni derivanti da azioni scorrette o fallose ma comunque funzionali al perseguimento dell’obiettivo finale (che è normalmente quello di prevalere sportivamente sull’avversario).
Le regole del gioco non sono necessariamente regole cautelari. Lo sono certamente quelle che vietano in modo assoluto determinati comportamenti (in quanto potenzialmente lesivi). Altre, nel prevedere condotte alle quali assegnano sanzioni sportive, con ciò stesso le consentono. Quindi la violazione di una regola del gioco che sanziona un fallo di gioco non può al contempo dar luogo a colpa penale perché quelle regole definiscono comportamenti resi leciti dalla accettazione da parte di tutti i partecipanti. Proprio per tale ragione ciò vale sin quando i comportamenti produttivi di danno restino coerenti al principio di lealtà sportiva; principio alla cui osservanza da parte di tutti i partecipanti è affidata l’adesione all’evenienza di subire danni altrimenti non accettati. Ne discende che sono, per contro, illeciti quei comportamenti che non sono riconducibili al gioco, pur nelle sue espressioni pericolose, o perché intenzionalmente diretti a procurare danno alla persona oppure perché, siccome in contrasto con il principio di lealtà sportiva, sono estranei all’ambito di applicazione delle regole del gioco – che quel principio presuppongono – e sono quindi disciplinati dalle ordinarie regole di diligenza, dei quali costituiscono violazione.
Si vengono così a delineare due diverse aree, quella sportiva e quella penale, coperte da regole diverse, perché dirette a gestire “rischi” diversi: quelli sportivi, conosciuti e accettati dagli atleti, i quali in tale ambito sono consapevoli della potenziale lesività di determinate azioni di gioco, quale conseguenza possibile della pratica sportiva svolta; quelli penali, quale conseguenza dannosa di azioni che esorbitano dall’ordinario sviluppo del gioco o della pratica sportiva interessata, aventi cioè un “quid pluris” che le rende perseguibili penalmente in quanto caratterizzate da dolo ovvero da colpa.
- Quanto alla colpa, in ambito sportivo essa, a ben vedere, assume rilevanza in quanto derivante da un comportamento considerato obiettivamente inaccettabile dagli stessi atleti, i quali, pur aspettandosi, entro certi limiti, condotte ostruzionistiche o lesive da parte degli avversari per il perseguimento del risultato (secondo le regole proprie della disciplina praticata), non sono disposti a vedere danneggiata la propria incolumità fisica a causa di condotte che esorbitino dall’ambito sportivo, pur agonistico.
In ciò traspare il profilo relazionale della colpa, la cui individuazione discende anche, e soprattutto, dall’affidamento che ciascun atleta pone sul fatto che il comportamento altrui sia improntato alla lealtà sportiva nel corso della competizione; sicché la colpa, identificata nella violazione di una regola cautelare predeterminata da osservare nella situazione obiettiva giudizialmente accertata, discende anche dal “tradimento” di questo affidamento ad opera dell’atleta responsabile dell’azione lesiva, che va oltre il normale contesto agonistico, oltrepassando l’area di rischio sportivo per approdare all’area di rischio presidiata dalle norme penali. Da questo punto di vista, il principio di affidamento, in ambito sportivo, concorre a delineare i confini e i contenuti del dovere di diligenza, così contribuendo a definire l’area di rischio penale.
Quest’ultima asserzione consente anche di spiegare la diversa valutazione della colpa sportiva a seconda del contesto in cui si svolge l’attività agonistica: professionale o dilettantistico, nel corso di un allenamento o durante una competizione. È evidente, infatti, che per ciascun contesto indicato i singoli atleti faranno affidamento su atti degli avversari aventi caratteristiche e intensità diverse (maggiore per i professionisti rispetto ai dilettanti, minore per gli allenamenti rispetto alle gare ecc.), cui potrà conseguire l’operatività di una diversa regola cautelare pertinente alla situazione sportiva obiettivamente acclarata.
Fondamentale è la regola generale che impone agli atleti di improntare il proprio comportamento ai doveri di lealtà e correttezza sportiva nonché di rispetto dell’avversario, che va però coordinata ai principi della colpevolezza colposa.
Nell’accertamento della sussistenza della colpa non ha rilievo la entità del danno procurato, poiché oggetto della valutazione non sono le conseguenze dannose in quanto tali, bensì le specifiche e obiettive modalità della condotta dell’atleta, avuto riguardo alle caratteristiche dell’azione nell’ambito del contesto agonistico di riferimento. Si può fare l’esempio del calciatore il quale, al centro dell’area, compia una “rovesciata” per calciare il pallone proveniente dall’alto al fine di indirizzarlo verso la porta avversaria: se all’esito dell’azione l’attaccante dovesse colpire, oltre al pallone, anche la testa di un altro giocatore, procurandogli gravi lesioni, non per questo potrebbe essere ritenuto responsabile di lesioni colpose, non riscontrandosi nel caso la violazione di alcuna regola cautelare, trattandosi di gesto atletico coordinato e consentito dalle regole del gioco, finalizzato a perseguire il risultato sportivo. D’altro canto, e con riguardo al profilo di colpa relazionale cui si faceva cenno innanzi, si può affermare che il giocatore colpito alla testa dall’attaccante ben può aspettarsi un simile gesto, vale a dire la “rovesciata” in area, trattandosi di azione normale di gioco, per nulla eccentrica rispetto alla gara e al tipo di sport praticato. Diversamente, il giocatore colpito al bacino dall’avversario che tenti di recuperare il pallone collocato fra i piedi del giocatore colpito, vedrà tradito il suo affidamento di non subire lesioni in un’area del corpo lontana dal pallone con una simile condotta lesiva, inutile rispetto allo scopo del gioco, quindi negligente.
Sono esempi che rendono evidente, nella valutazione della colpa sportiva, la centralità dell’analisi della situazione di fatto in rapporto al contesto e allo sviluppo dinamico dell’azione sportiva lesiva.
- Le sopra richiamate coordinate interpretative non sono state seguite dalla sentenza impugnata, che pertanto appare meritevole di annullamento.
La Corte territoriale ha dichiarato la responsabilità dell’imputato sulla base di una carente e contraddittoria valutazione del fatto in termini di colpevolezza colposa (il dolo è stato escluso).
I giudici di appello fondano il giudizio di responsabilità muovendo dalla ritenuta gratuità dell’azione fallosa dell’attaccante (C. ), affermando che il pallone, nel contesto agonistico, era ormai irraggiungibile, aggiungendo però che tale condizione (irraggiungibilità della palla) era stata, di fatto, la conseguenza di un’azione difensiva dell’altro giocatore, nel senso che tra il pallone e la linea di fondo si era frapposto il difensore (persona offesa). Non si comprende, allora, come sia possibile conciliare l’affermazione della inutilità ex ante della “scivolata” intrapresa dall’attaccante, evidentemente finalizzata a recuperare il pallone prima che lo stesso varcasse la linea di fondo, con la considerazione, formulata ex post, che la palla era stata resa irraggiungibile dall’azione ostruttiva del difensore che proprio la “scivolata” dell’attaccante mirava a superare.
Secondo la Corte territoriale, in definitiva, vi fu una inutile ed “eccessiva foga agonistica” che, dato il contesto amatoriale dell’incontro, avrebbe dovuto essere “placata”, onde evitare il “rischio di conseguenze lesive non necessarie”.
Si tratta di considerazioni generali che potrebbero valere per qualsiasi contesto agonistico, ma che non affrontano il nodo centrale della questione, che è quello, appunto, di stabilire se nel caso concreto vi fu un comportamento colposo giuridicamente rilevante, civilmente sanzionabile in quanto commesso in violazione di una predeterminata regola cautelare, che nel caso non è stata in alcun modo evocata nè individuata.
Nè appare compiutamente analizzato il contesto fattuale dell’azione; se, cioè, la condotta del C. fu comunque conforme alle regole del gioco, ovvero se essa si pose al di fuori di un ragionevole contesto di gioco; tutto ciò in rapporto alla natura relazionale della colpa di cui si è parlato nei paragrafi che precedono.
La sentenza impugnata, inoltre, accenna ad un bilanciamento di valori, assumendo la prevalenza nel caso dell’integrità fisica del danneggiato rispetto alla liceità del contesto sportivo, che, richiamandosi alla teorica della causa di giustificazione non codificata, non rileva e nulla aggiunge ai fini della verifica della sussistenza della colpa in relazione alla condotta lesiva del calciatore C. , secondo quanto già argomentato innanzi.
- Alle superiori considerazioni consegue l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, il quale nel nuovo giudizio si atterrà ai principi dianzi accennati in tema di colpa sportiva e provvederà, altresì, all’esito dello stesso, alla regolamentazione fra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.