Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 28 giugno 2022 n. 5357
QUESTIONI RIMESSE
Il Collegio sottopone all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
1) se, in presenza di beni culturali per “riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere” ex art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04, il potere ministeriale di tutela ex artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04, possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale, funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici; in caso affermativo, se ciò possa avvenire soltanto qualora la res abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza ovvero ogniqualvolta le circostanze del caso concreto, secondo la valutazione (tecnico) discrezionale del Ministero, adeguatamente motivata nel provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale sulla base di un’approfondita istruttoria, giustifichino l’imposizione di un siffatto vincolo di tutela al fine di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato;
2) se, in presenza di beni culturali ex art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04 che rappresentino (altresì) una testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, il potere ministeriale di tutela ex artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04. D. Lgs. n. 42/04, in combinato disposto con l’art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso della res a garanzia non solo della sua conservazione, ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La soluzione dell’odierna controversia richiede di verificare se il Ministero della Cultura, nell’esercizio dei poteri di tutela previsti dal D. lgs. n. 42/04, possa imporre un vincolo di destinazione di uso in relazione ad una res che assuma interesse culturale sia per il riferimento ad accadimenti del passato – afferenti alla storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura – di cui la cosa ha costituito la sede o reca la testimonianza, sia per il collegamento con espressioni di identità culturale collettiva in essa o attraverso di essa ricreate, condivise e tramandate.
A tale ultimo riguardo, occorre, altresì, individuare gli elementi costitutivi della espressione di identità culturale collettiva, verificando se tra le forme di tutela possa annoverarsi l’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso a servizio dell’attività culturale.
- Come osservato nella ricostruzione dei fatti di causa, nella presente sede è controversa la legittimità di un decreto, con cui il Ministero della Cultura, pure dichiarando l’interesse particolarmente importante di cose materiali – individuate tanto in un’unità immobiliare all’interno di un edificio (già dichiarato di interesse culturale) sito in Piazza Augusto Imperatore, quanto nelle opere di Gino Mazzini e negli elementi di arredo conservati al suo interno -:
– ha tutelato l’immobile quale “ristorante”, valorizzando, dunque, l’attività commerciale in esso esercitata;
– ha inteso applicare pure i principi enunciati dall’art. 7 bis del D. Lgs. n. 42/04, a sua volta recante un rinvio alle Convenzioni UNESCO in materia di patrimonio cultuale immateriale;
– ha recepito le prescrizioni recate nella relazione storico-critica predisposta in sede istruttoria (sopra richiamata, considerata parte integrante dello stesso provvedimento ministeriale), ivi compresa pertanto l’esigenza di garantire la conservazione, “oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, anche della continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale”.
Con tale decreto, in definitiva, il Ministero, valorizzando la connessione inscindibile tra elementi materiali e immateriali e ravvisando l’essenzialità della continuità dell’uso, sembra avere effettivamente imposto un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale.
- Una tale interpretazione, alla base dell’odierna rimessione ex art. 99, comma 1, c.p.a., discende da ragioni letterali, sistematiche e teleologiche.
28.1 Sul piano letterale, come osservato, il Ministero, nel richiamare la relazione storico-critica quale parte integrante nel provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale, ha recepito le prescrizioni ivi divisate, compresa la conservazione “della continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale”.
Pertanto, l’Amministrazione ha inteso assicurare la conservazione del bene e del suo utilizzo attuale, imprimendo una destinazione d’uso funzionale alla prosecuzione dell’attività ivi svolta, ritenuta inscindibile e, dunque, compenetrata negli elementi materiali all’uopo considerati (locale, opere di Gino Mazzini ed elementi di arredo).
28.2 Tale interpretazione trova conferma nell’elemento sistematico, avendo il Ministero ripetutamente valorizzato, nell’ambito della relazione storico-critica cit. (alla stregua di quanto rilevato nella Sezione II della presente ordinanza), il collegamento tra elementi materiali e immateriali, inverato nello svolgimento di un’attività di ristorazione storica, nell’ambito di un contesto unico (derivante da un’interazione tra locale, arredi, bassorilievi ed attività tradizionale), espressione di un’identità culturale collettiva attuale.
In particolare, sono stati evidenziati:
– il collegamento tra la storia del ristorante e il suo allestimento, avendo la parte proprietaria e il Sig. Alfredo Di Lelio concluso nel 1940, ancora prima della conclusione dei lavori, un contratto di locazione con cui si conveniva di convertire strutturalmente il locale in via di costruzione, per destinarlo all’attività di ristorazione;
– la conservazione dell’originario allestimento del ristorante, in linea con il gusto del periodo che concepiva la decorazione plastica come parte integrante dell’architettura;
– la continuità ininterrotta dell’unione tra locale ristorante, arredi ed opere artistiche, tradizione enogastronomica e socialità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, ha reso il ristorante uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro di “mondi” e individui dalla provenienza geografica e sociale estremamente diversificata.
La lettura unitaria del provvedimento manifesta l’importanza dell’attività di ristorazione da sempre svolta nel locale, fin dall’origine progettato per essere destinato a ristorante con un preciso allestimento funzionale alla relativa attività commerciale, rinomata non soltanto in ambito locale, ma pure nazionale e internazionale, espressiva (secondo la valutazione ministeriale) di importanti valori culturali.
Si conferma, dunque, che la continuità dell’attività di ristorazione è strumentale alla conservazione della res e, in specie, del valore culturale dalla stessa espresso; il che è coerente con l’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso.
28.3 Anche in relazione all’elemento teleologico, nella specie si fa questione di una res di interesse culturale non soltanto per riferimento a fatti specifici del passato (pure richiamati nella relazione allegata al decreto ministeriale) di cui la cosa tutelata ha costituito la sede o reca la testimonianza, ma anche per il collegamento con espressioni di identità culturale collettiva, integrate da tradizioni enogastronomiche e socialità ancora oggi ricreate, condivise e tramandate in un contesto unico in cui si esplica l’attività di ristorazione.
L’Amministrazione ha, dunque, inteso assicurare la continuità d’uso della res, ritenendo incompatibile con il valore culturale in essa incorporato ogni uso diverso rispetto a quello cui la cosa è stata storicamente, fin dalla sua realizzazione, destinata.
28.4 Si ritiene, dunque, che il Ministero, nel dichiarare l’interesse culturale del bene, abbia impresso un vincolo di destinazione d’uso, precludendo usi diversi rispetto a quello attuale di ristorazione; il che è pure coerente con le prescrizioni poste dalla stessa Amministrazione statale con nota n. 2594 del 25.3.2005 cit. – recante l’autorizzazione all’alienazione del complesso immobiliare in cui è inserito il locale per cui è causa -, incentrate sulla conservazione delle attuali destinazioni d’uso (tali ultime prescrizioni assumevano, comunque, natura derogabile sulla base dell’assenso preventivo della Soprintendenza, con la conseguenza che la cristallizzazione dell’uso attuale del locale costituisce un effetto prodotto soltanto dal provvedimento impugnato in prime cure).
28.5 La Sezione non reputa, invece, che il vincolo di destinazione in esame sia idoneo ad imporre un obbligo di prosecuzione dell’attività di ristorazione, né ritiene si sia in presenza di una riserva della relativa attività commerciale in favore dell’attuale gestore.
Da un lato, tali prescrizioni non sono espressamente poste dall’Amministrazione, che ha, invece, ravvisato la sola esigenza della continuità d’uso, senza riferimenti soggettivi all’identità dell’operatore legittimato a provvedervi e senza imporre un obbligo di esercizio dell’attività commerciale: emerge, dunque, soltanto un divieto di usi diversi da quello attuale.
Dall’altro, il decreto ministeriale è incentrato esclusivamente, oltre che su elementi materiali (locale, arredi e bassorilievi) suscettibili di conservazione a prescindere dall’identità del gestore, sulla tradizione culturale gastronomica e di convivialità del locale, discendente dalla sua storia quale teatro di frequentazioni e di eventi pubblici e privati, tutt’oggi persistente una volta venuto meno il suo fondatore.
Non potrebbe neppure diversamente argomentarsi sulla base dei riferimenti, operati nella relazione storico-critica, alla famiglia di Lelio, che per generazioni ha gestito il locale.
L’Amministrazione, infatti, ha inteso applicare i principi di cui all’art. 7 bis D. lgs. n. 42/04 in tema di espressioni di identità culturale collettiva, che fanno capo, anziché a persone singolarmente e individualmente considerate, a comunità che si riconoscono in attività, conoscenze e saperi aventi valenza identitaria, tramandati di generazione in generazione.
Non si fa, dunque, questione, alla stregua di quanto emergente dagli stessi riferimenti normativi alla base del provvedimento impugnato, di una manifestazione di identità culturale individuale, propria della famiglia di Lelio, ma di espressioni di identità collettiva, riprodotte dal ristoratore e dal personale impiegato (chiunque essi siano) a beneficio della comunità dei frequentatori che, accedendo al ristorante, rivivono un’atmosfera in continuità tra passato e presente, ricreata per effetto dell’interazione tra elementi materiali e tradizionali gestualità “del ristoratore e del direttore di sala”, oggi rinnovate dai camerieri (significativamente richiamati nella relazione ministeriale senza puntuali riferimenti alla loro identità soggettiva).
Peraltro, deve pure osservarsi che l’impresa di ristorazione è attualmente esercitata da una società di capitali, con la conseguenza che l’attività commerciale fa capo ad un soggetto giuridico autonomo, non confondibile con la famiglia di Lelio; a conferma dell’irrilevanza dell’identità personale del gestore.
- Il presupposto fattuale alla base della presente rimessione all’Adunanza Plenaria è rappresentato, dunque, dall’esistenza di un provvedimento ministeriale, che non ha riservato all’attuale gestore la prosecuzione dell’attività di ristorazione nell’ambito del locale per cui è causa, né ha inteso tutelare (autonomamente) una mera attività commerciale connotata da una finalità di lucro (coerente con il modello organizzativo – società di capitali – prescelto per il suo esercizio).
Si ritiene, invece, si faccia questione di un provvedimento con cui, in applicazione di quanto previsto dagli artt. 10, comma 3, lett. d), e 7 bis D. Lgs. n. 42/04, è stato soltanto impresso un vincolo di destinazione d’uso a salvaguardia della cosa tutelata e a servizio dell’attività culturale in essa esercitata.
L’odierno giudizio richiede, dunque, di verificare se il Ministero della Cultura, nell’esercizio del potere di tutela dei beni culturali di cui è attributario, considerata la particolarità del bene in esame – sia per riferimento “con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere” e, dunque, con accadimenti storici di cui la res è testimonianza o ha costituito la sede; sia per collegamento con “espressioni di identità culturale collettiva” che ancora oggi sono ricreate, condivise e tramandate nell’ambito del bene tutelato – possa imporre un vincolo di destinazione d’uso della res, vietando usi diversi rispetto a quelli espressamente indicati nell’atto dichiarativo dell’interesse culturale ex art. 13 D. Lgs. n. 42/04.
- Ciò rilevato in ordine al thema decidendum dell’odierno giudizio, l’esigenza della rimessione degli odierni ricorsi (principale e incidentale) all’Adunanza Plenaria discende da un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, si segnala che la giurisprudenza del Consiglio di Stato, nel corso degli anni, non ha in maniera univoca risolto la questione di diritto relativa all’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso: a fronte di pronunce contrarie, sono state rese decisioni favorevoli, che, tuttavia, pure ammettendo l’imposizione di un vincolo di destinazione ai fini della conservazione del bene culturale, hanno diversamente declinato le condizioni in presenza delle quali una tale determinazione possa essere assunta dall’Amministrazione statale.
Emerge, dunque, l’assenza di un univoco indirizzo giurisprudenziale che induce il Collegio a chiedere un chiarimento, in funzione nomofilattica, all’Adunanza Plenaria.
In secondo luogo, si rileva che il tema dell’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso potrebbe essere condizionato pure dalla disciplina, introdotta nell’ambito del Codice dei beni culturali e del paesaggio dall’art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 62 del 2008, in materia di espressioni di identità culturale collettiva (art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04), idonea a porre all’attenzione della giurisprudenza questioni giuridiche nuove, correlate alla tutela del patrimonio culturale immateriale, foriere di delicati problemi di coordinamento anche con il diritto convenzionale, suscettibili di differente soluzione in ambito giurisdizionale.
In particolare, per quanto di maggiore interesse ai fini dell’odierno giudizio, occorre verificare se le espressioni di identità culturale collettiva possano essere tutelate attraverso l’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso; ciò, anche qualora un tale strumento giuridico dovesse ritenersi generalmente inammissibile in presenza di manifestazioni culturali materiali.
Infine, si segnala che le questioni in esame assumono portata generale, risultando idonee ad influire sull’oggetto e sul contenuto dei poteri ministeriali esercitabili in materia di tutela dei beni culturali.
Si ravvisa, dunque, l’esigenza di un pronunciamento da parte dell’Adunanza Plenaria al fine di orientare e uniformare la futura azione amministrativa; il che, peraltro, corrisponde pure ad una espressa richiesta della Difesa erariale, la quale, nel corso della discussione orale della causa, in ragione della rilevanza delle questioni in esame, ha pure domandato di rimettere il ricorso all’Adunanza Plenaria, ai fini di un chiarimento su questioni di massima, di particolare importanza.
- La giurisprudenza in materia di vincolo culturale di destinazione d’uso.
- Ciò rilevato, giova ripercorrere la giurisprudenza formatasi in materia di vincolo culturale di destinazione d’uso, evidenziando come il tema non sia stato univocamente risolto da questo Consiglio di Stato.
- Secondo un primo indirizzo esegetico (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266; sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198; sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003; sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166; sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933), dovrebbe escludersi l’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso, in quanto incompatibile con il dato positivo e contrastante con la tutela costituzionale e convenzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica.
32.1 In siffatte ipotesi, difatti, non verrebbe tutelata la res di interesse culturale, ma la sua destinazione e, dunque, l’attività ivi esercitata.
In una fattispecie analoga a quella di specie, in cui risultava riconosciuto l’interesse particolarmente importante non solo dei locali, ma anche dei suoi arredi, la Sezione (sentenza 16 settembre 1998, n. 1266) ha ritenuto che l’esigenza di conservazione dei locali valesse a definire la portata del vincolo imposto sugli arredi: “[c]iò significa che i locali, cioè gli ambienti, sono soggetto del vincolo non nella loro conformazione strutturale e costruttiva, già sottoposta a precedente vincolo richiamato dal decreto in questione (…), ma nella loro connessione agli arredi: tutelata, quindi, implicitamente ma necessariamente, è la destinazione, e quindi l’attività commerciale, che alla presenza di tali arredi si collega”.
Di conseguenza, il vincolo di destinazione d’uso si tradurrebbe in un vincolo di tutela, anziché del bene culturale – e, dunque, della res di interesse culturale – dell’attività ivi svolta, in violazione della disciplina di riferimento (nel tempo, artt. 1 e 2 L. 1 giugno 1939, n. 1089, art. 2 D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 10 D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), che chiaramente individua l’oggetto della tutela soltanto nelle cose materiali incorporanti i valori culturali (cognitivi, storici, artistici).
Pertanto, non sarebbe consentito dilatare l’interpretazione del dato positivo al punto da far ricomprendere tra i beni tutelabili la gestione commerciale o l’esercizio artigianale di determinate attività, non essendo sufficiente l’annosità dell’esercizio di un’attività per incorporare nell’immobile i valori culturali legati all’attività stessa.
32.2 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure facendo leva sulle disposizioni (nel tempo, art. 11 della legge 1089/1939, art. 21 D. Lgs. n. 490/99, art. 20 D. Lgs. n. 42/04) che vietano l’adibizione dei beni culturali ad usi non compatibili con il loro carattere storico od artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione.
Una tale lettura, volta a vincolare un immobile non nella sua identità strutturale, ma ad una sua specifica destinazione, corrisponderebbe, infatti, ad una visione autoritaria e svalutativa del diritto di proprietà, perché fortemente restrittiva del principio di legalità che caratterizza i poteri ablatori in senso lato dell’Amministrazione pubblica.
Si trasformerebbe, infatti, una norma che si limita a consentire prescrizioni, accessorie e strumentali, conservative delle caratteristiche storico – architettoniche di determinati beni oggetto di tutela, in una disposizione attributiva di poteri sostanzialmente espropriativi, la quale, anziché consentire eventualmente di limitare le destinazioni in concreto incompatibili con le anzidette caratteristiche strutturali, escluderebbe a priori ogni destinazione diversa da quella in atto al momento dell’imposizione del vincolo.
In tale maniera, si forzerebbe la lettura e la ratio complessiva della legge al punto di trasformare una disposizione permissiva del godimento del proprietario in conformità di limiti di interesse generale, secondo l’impostazione dell’art. 42 Cost., in un precetto impositivo di una servitù pubblica immobiliare legislativamente innominata (perché non attinente al valore del bene immobiliare in sé), quindi in contrasto con il principio di legalità ex artt. 42-43 Cost. (Consiglio di Stato, sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266).
32.3 A conforto di tale impostazione, è stata pure richiamata la disciplina di cui all’art. 51, comma 1, D. Lgs. n. 42/04, che prevede uno speciale tipo di vincolo a bene culturale per gli “studi d’artista” (Consiglio di Stato, sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933).
In particolare, soltanto per tali beni il legislatore avrebbe imposto il divieto di “modificare la destinazione d’uso (…) nonché rimuoverne il contenuto, costituito da opere, documenti, cimeli e simili, qualora esso, considerato nel suo insieme ed in relazione al contesto in cui è inserito, sia dichiarato di interesse particolarmente importante per il suo valore storico…”.
Tale disciplina avrebbe dettato restrizioni alla proprietà fino alla inamovibilità dello studio e all’immodificabilità della destinazione d’uso dello stabile, ulteriori ed eccezionali rispetto all’ordinario effetto del vincolo storico-culturale, idoneo a determinare esclusivamente una, pur rigorosa, valutazione di compatibilità degli interventi con i valori oggetto del vincolo.
Pertanto, l’art. 51 D. Lgs. n. 42/04, facendo eccezione a regole generali, sarebbe di stretta interpretazione e non autorizzerebbe, nell’attività amministrativa, un’interpretazione estensiva volta a consentire l’imposizione del vincolo di destinazione d’uso al di fuori delle fattispecie dallo stesso regolate (Consiglio di Stato, sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198).
32.4 Si è anche osservato (Consiglio di Stato, sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003) che l’effetto di limitazione della destinazione d’uso sarebbe pure idoneo a generare un’insostenibilità economica della utilizzazione, contraddicendo la stessa salvaguardia materiale del bene, cui la legge di tutela è orientata, in violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza.
32.5 In definitiva, tale primo indirizzo si fonda sulla necessaria distinzione tra vincolo strutturale e vincolo di destinazione d’uso (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 dicembre 2017, n. 6166), escludendo l’ammissibilità di vincoli culturali di mera destinazione, specie per attività commerciale o imprenditoriali, anche se attinenti a valori storici e culturali presi in considerazione dalla legge di riferimento.
Si farebbe questione di uno strumento di tutela non previsto dalla disciplina di riferimento e, comunque, irragionevolmente e sproporzionatamente limitativo dei diritti di proprietà e della libertà di iniziativa economica.
- A fronte di tale indirizzo, sono state sostenute dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato posizioni parzialmente divergenti, tese ad affermare l’ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d’uso ove funzionale ad una migliore conservazione della res, seppure sulla base di una diversa modulazione delle condizioni legittimanti un tale intervento di tutela.
- Al riguardo, in taluni casi, la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. VI, 28 agosto 2006, n. 5004; sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009; sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255), pure riaffermando il tendenziale divieto di vincoli culturali di destinazione d’uso – non potendo tutelarsi le gestioni commerciali o l’esercizio di attività artificiali, anche se attinenti ad alcuni dei valori storici, culturali o filosofici presi in considerazione dalla legge di riferimento – ha ritenuto ammissibile, in circostanze eccezionali, derogare ad una tale regola generale, qualora il bene abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione ed un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza.
In tali ipotesi, il valore oggetto di tutela finirebbe con l’incorporarsi a tal punto con l’immobile tutelato da manifestare un vincolo a tutela della res. Pertanto, il vincolo di destinazione d’uso non sarebbe incompatibile con la normativa di riferimento, in quanto volto a tutelare in via immediata e diretta il bene culturale e non l’attività in esso esercitata.
Non potrebbe neppure ravvisarsi una irragionevole o sproporzionata compressione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica.
Difatti, quanto alla libertà di iniziativa economica, non si farebbe questione di un vincolo comportante l’obbligo di continuazione dell’attività culturale: nessun soggetto potrebbe essere costretto sine die ad esercitare presso la res l’attività commerciale, né il proprietario potrebbe essere costretto a locare l’immobile ad un soggetto terzo. Si tratterebbe soltanto dell’individuazione dell’uso compatibile della res, in quel sito e con quegli arredi, a prescindere dall’identità della persona legittimata ad esercitarlo.
Con riferimento all’art. 42 della Costituzione, l’imposizione di un vincolo di destinazione, pure determinando una limitazione della proprietà privata – discendente dall’impossibilità per il proprietario di destinare la res ad usi diversi rispetto a quello delineato dall’Amministrazione – sarebbe, comunque, legittima alla luce della legislazione vigente, rientrando nel potere conformativo attribuito all’amministrazione con riguardo a categorie particolari di beni.
- Secondo una diversa impostazione esegetica – che ricostruisce con maggiore latitudine il potere di tutela del bene culturale – la legittimità del vincolo di destinazione d’uso dovrebbe essere valutata, anziché verificando se nella specie vi sia stata una particolare trasformazione della res con una sua specifica destinazione ed un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza (e, dunque, anziché sulla base di fattispecie derogatorie predeterminate in via astratta), avendo riguardo all’adeguatezza della motivazione alla base della decisione amministrativa concretamente assunta.
In particolare, si ritiene non estranea al sistema dei vincoli per la tutela delle cose di interesse storico od artistico la previsione di limiti alla loro destinazione, senza che ciò si risolva nell’obbligo di gestire una determinata attività. Al fine di prescrivere un vincolo di destinazione come una modalità di uso ritenuto compatibile con il bene tutelato, occorrerebbe, in particolare, una puntuale motivazione sulla sussistenza di valori culturali, estetici e storici tutelabili perché “incarnati in una determinata struttura”, avendo riguardo al riferimento della res alla storia della cultura ed alla rilevanza artistica degli arredi ivi conservati (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 ottobre 1983, n. 723; sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741; 16 novembre 2004, n. 7471).
Al riguardo, è stato pure richiamato l’indirizzo accolto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 118 del 9 marzo 1990, ritenendosi legittimo un vincolo che riverberi i propri effetti sulla utilizzazione del bene vincolato, allorché risulti chiaro che detta utilizzazione non assuma rilievo autonomo, separato e distinto dal bene, ma si compenetri nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale: in tali ipotesi, il valore culturale dei beni è dato dal collegamento con accadimenti della storia, della civiltà o del costume anche locale, il quale non può che porsi in stretta correlazione con l’uso e la loro utilizzazione pregressi.
In definitiva, l’esigenza di protezione culturale dei beni determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi si estrinsecherebbe in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e potrebbe trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 Cost.), senza, tuttavia, riguardare l’attività imprenditoriale o l’attività culturale in sé e per sé considerata, separatamente dal bene cui si riferisce (Consiglio di Stato, sez. VI, 22 gennaio 2004, n. 161; Id., sez. VI, n. 5434 del 2002).
- A seconda dell’impostazione che si intenda accogliere, nella specie discenderebbero diverse conseguenze applicative, suscettibili di influire sull’esito dell’odierna controversia.
36.1 Difatti, negando l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso ovvero ammettendolo in circostanze eccezionali, correlate alla particolare trasformazione del bene con una sua specifica destinazione e al suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza, sembrerebbe doversi procedere al rigetto dei ricorsi in appello.
Nella specie l’Amministrazione ha infatti imposto un vincolo culturale di destinazione d’uso in assenza di un processo di trasformazione della res, rimasta immutata fin dalla sua realizzazione, e senza il riferimento ad una specifica iniziativa storico culturale di rilevante importanza.
Sotto tale ultimo profilo, si osserva, infatti, che, ai fini della dichiarazione dell’interesse culturale dei beni cd. “per riferimento” ex art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 104/10, non è necessario richiamare fatti di particolare importanza, potendo essere sufficiente anche il ricordo di eventi – comunque specifici – della storia locale ovvero della storia minore, pur sempre idonei a garantire la conservazione e la trasmissione del valore culturale (Consiglio di Stato, sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2920; sez. VI, 16 novembre 2004, n. 7471).
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha valorizzato specifici fatti, dati dalla frequentazione del locale da parte di illustri avventori (protagonisti della storia politica, artistica e sociale non soltanto locale, ma anche nazionale e internazionale), dall’utilizzo del locale per lo svolgimento di spettacoli musicali ad opera di noti jazzisti, per l’organizzazione di una conferenza stampa e per la ripresa di alcune scene di due film (Polvere di Stelle e To Rome with Love): trattasi di fatti che, pure apprezzabili in relazione alla storia sociale, politica e artistica ai fini del riconoscimento dell’interesse culturale ex art. 10, comma 3, lett. d) cit., non sembrano integrare gli estremi dell’evento di particolare importanza culturale, cui il secondo indirizzo esegetico sopra richiamato (par. 34) subordina l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso (nella specie, il requisito dell’interesse particolarmente importante discende, anziché da un unico evento di particolare rilevanza, da una serie di eventi apprezzati unitariamente dall’Amministrazione statale).
36.2 Diversamente, aderendo al terzo indirizzo (par. 35), che ammette l’imposizione di un tale vincolo di tutela previa adeguata motivazione – attraverso la puntuale rappresentazione delle ragioni per le quali il valore culturale espresso dalla res non possa essere salvaguardato e trasmesso se non attraverso la conservazione del suo pregresso uso – sembrerebbero emergere elementi di fondatezza delle impugnazioni.
Nel rinviare alla descrizione del contenuto della relazione storico-critica, parte integrante del decreto dichiarativo dell’interesse culturale, il Ministero ha infatti evidenziato come il valore culturale del bene sia il risultato di un insieme unitario di elementi materiali e immateriali, che non può prescindere dalla continuità dell’uso commerciale, necessaria per salvaguardare l’atmosfera unica discendente dall’interazione tra locale, arredi, bassorilievi, tradizione gastronomica e socialità.
L’Amministrazione, all’esito e sulla base di un’adeguata istruttoria, sembrerebbe avere adeguatamente motivato le ragioni della propria decisione – di vincolare la res all’uso attuale – indicando pure le specificità del bene in esame e, pertanto, rappresentando le ragioni per cui l’utilizzazione non assuma rilievo autonomo, separato e distinto dal bene, ma si compenetri nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale, tale per cui il valore culturale in esse incorporato non potrebbe essere tutelato se non unitamente alla salvaguardia del pregresso uso.
Ciò, tenuto conto pure dei limiti al sindacato giurisdizionale sugli atti implicanti esercizio di discrezionalità tecnica, non essendo possibile per il giudice sostituirsi all’Amministrazione nello svolgimento di valutazioni tecniche (afferenti alla qualitas di bene culturale) alla stessa riservate (cfr., tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. VI, 7 giugno 2021, n. 4318 e Consiglio di Stato, sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4747).
Rimarrebbe, invece, ferma l’impossibilità di accogliere censure impugnatorie tendenti a valorizzare una presunta riserva dell’attività commerciale in capo al gestore attuale (quali sembrano essere alcune delle doglianze svolte dall’appellante principale, incentrate su una asserita proprietà, in capo alla società L’Orginale Alfredo, dell’attività svolta nei locali in parola – pag. 18 ricorso in appello principale), la cui legittimità, come osservato, è negata anche dall’indirizzo giurisprudenziale che accoglie un’interpretazione estensiva dell’ambito di operatività del vincolo culturale di destinazione d’uso.
VII. La posizione del Collegio.
- Il Collegio ritiene di aderire al terzo indirizzo esegetico, in quanto compatibile con il dato positivo, maggiormente aderente agli obiettivi di interesse generale sottesi alla tutela dei beni culturali, nonché coerente con il quadro legislativo e costituzionale di riferimento (in specie, in relazione alla garanzia del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica).
- Nel rinviare alle argomentazioni recate nelle pronunce di questo Consiglio di Stato che hanno sostenuto l’ammissibilità, previa adeguata motivazione, del vincolo di destinazione d’uso (cfr. par. 35), si osserva che il potere di prescrivere limiti all’uso del bene culturale sembra, in primo luogo, discendere dal combinato disposto degli artt. 18, comma 1, 20, comma 1, e 21, comma 4, D. Lgs. n. 42/04, che:
– da un lato, attribuisce al Ministero il potere di vigilanza sui beni culturali, al fine di garantire (altresì) il rispetto dei divieti posti dalla disciplina di riferimento, ivi compreso il divieto di usi non compatibili con il carattere storico o artistico del bene culturale oppure tali da recare pregiudizio alla sua conservazione;
– dall’altro, impone di comunicare al soprintendente il mutamento di destinazione d’uso del bene culturale, al fine di permettere all’Amministrazione di verificare la compatibilità del nuovo uso con le caratteristiche storiche o artistiche del bene o con la sua materiale conservazione.
Ne deriva che la disciplina positiva valorizza l’importanza dell’uso del bene culturale, la cui modifica, in quanto suscettibile di pregiudicare la sua protezione, deve essere attentamente vagliata dall’Amministrazione statale, che potrebbe vietare usi incompatibili con le caratteristiche o la conservazione materiale della res.
Avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, sembra che l’Amministrazione possa pure precludere qualsiasi modifica della destinazione d’uso della cosa, ove la conservazione del valore culturale in essa incorporato sia possibile soltanto garantendo la continuità dell’uso attuale.
Un tale potere, peraltro, sembrerebbe esercitabile non soltanto all’atto della comunicazione del mutamento della destinazione d’uso (ai sensi dell’art. 21, comma 4, cit.), ma anche in via anticipata, all’atto della dichiarazione dell’interesse culturale della res; ciò, in applicazione del principio di prevenzione – pure rilevante nella materia della tutela dei beni culturali (art. 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04) – che impone di limitare ex ante le situazioni di rischio connesse al diverso possibile uso del bene culturale.
Ne deriva che il potere di tutela spettante all’Amministrazione statale sembra includere l’imposizione, all’atto della dichiarazione di interesse culturale, di un vincolo di destinazione d’uso, qualora, sulla base di un’adeguata motivazione alla luce delle particolarità del caso concreto, si riscontri che un uso diverso rispetto a quello attuale possa compromettere l’integrità materiale della res o le sue caratteristiche storico o artistiche e, dunque, il valore culturale dalla stessa espresso.
- Una tale opzione esegetica, che valorizza l’importanza della motivazione alla base della decisione amministrativa, sembra, inoltre, maggiormente idonea a consentire il raggiungimento degli obiettivi di interesse generale sottesi alla disciplina in commento, correlati alla conservazione del patrimonio culturale quale elemento di formazione, promozione e trasmissione della memoria della comunità nazionale (art. 1, comma 2, D. Lgs. n. 42/04).
Se si negasse la possibilità di imporre vincoli culturali di destinazione d’uso ovvero si limitasse un tale potere a fattispecie eccezionali, predeterminate in via astratta e correlate all’avvenuta trasformazione della res in relazione ad eventi culturali di particolare importanza, non si consentirebbe all’Amministrazione di vietare usi diversi da quello attuale nelle ipotesi in cui un mutamento di destinazione d’uso possa comunque, tenuto conto delle particolarità concrete, essere pregiudizievole per la conservazione del relativo valore culturale; in tale modo vanificandosi le esigenze di tutela alla base del D. Lgs. n. 42/04.
- Tale interpretazione non sembra, inoltre, produrre un’irragionevole o sproporzionata limitazione del diritto di proprietà o della libertà di iniziativa economica.
Premesso che i vincoli culturali non assumono valenza espropriativa, bensì conformativa (facendosi questione di limiti imposti alla proprietà privata in relazione a modi di godimento di intere categorie di beni – indirizzo accolto da tempo dalla giurisprudenza, anche costituzionale, cfr. Corte costituzionale, 20 dicembre 1976, n. 245), nonché che l’interesse culturale ex art. 9 Cost. prevale su qualsiasi altro interesse – ivi compresi quelli economici – nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti (Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151), la Corte costituzionale (con la citata sentenza 9 marzo 1990, n. 118), nel trattare dei beni culturali “per riferimento” (oggi previsti dall’art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04), sembra avere ammesso la legittimità dei vincoli di destinazione d’uso.
In tali ipotesi, “[l]’esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione).
Il vincolo non può assolutamente riguardare l’attività culturale in sé e per sé, cioè, considerata separatamente dal bene, la quale attività, invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali (artt. 2, 9 e 33).
La stessa iniziativa economica è libera, salvo il suo indirizzo e coordinamento a fini sociali a mezzo leggi (art. 41 della Costituzione)” (Corte costituzionale, 9 marzo 1990, n. 118).
Sembra, dunque, che, a fronte di beni culturali per riferimento, quale quello di specie, qualora il pregresso uso concorra a delineare il valore culturale incorporato nella res, sì da realizzare un collegamento inscindibile tra la cosa e l’attività ivi svolta, la conservazione dell’uso del bene, garantita attraverso la previsione di un vincolo di destinazione – riferito alla res e inidoneo ad imporre obblighi di prosecuzione dell’attività o a riservare soggettivamente la sua gestione – da un lato, non viola la libera iniziativa economica (stante l’assenza di obblighi di esercizio), dall’altro, limita in maniera proporzionata e ragionevole il diritto di proprietà, assicurandone la funzione sociale per la tutela di interessi pubblici prevalenti (culturale).
- Tale interpretazione sembra pure maggiormente coerente con il complessivo sistema normativo di tutela dell’interesse culturale, garantito non soltanto, tipicamente, attraverso l’azione ministeriale ai sensi del D. Lgs. n. 42/04, ma anche mediante l’esercizio di distinti poteri pubblici, ascrivibili pure ad Amministrazioni non statali.
Al riguardo, è possibile fare riferimento al potere di pianificazione territoriale, tenuto conto che l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo: l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale, pertanto, ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari (Consiglio di Stato, sez. II, 29 ottobre 2020, n. 6628).
Questo Consiglio di Stato, in particolare, ha ammesso l’esercizio del potere di pianificazione territoriale anche in funzione dell’imposizione di vincoli di destinazione d’uso motivati dal riferimento al carattere storico-identitario che talune attività possano rivestire in taluni luoghi per la collettività locale: in tali ipotesi, sarebbe ben possibile che un bene, pur privo in sé di valenza culturale, rivesta una oggettiva centralità identitaria per una città e sia traguardato dagli abitanti (e dagli appositi organi elettivi comunali) come elemento idoneo a rappresentarne il passato ed a veicolarne fisicamente i trascorsi (Consiglio di Stato, sez. IV, 22 agosto 2018, n. 5029, intervenuto in relazione ad un vincolo di destinazione a “caffè-bar”).
Pertanto, se il valore culturale assunto da taluni beni “per riferimento” con la storia, anche locale, di una data comunità può giustificare l’imposizione di un vincolo di destinazione in sede di pianificazione del territorio – attraverso l’esercizio, dunque, di un potere non indirizzato in via immediata e diretta alla tutela del bene culturale – sarebbe irragionevole negare un’analoga possibilità per il Ministero della cultura che, invece, è istituzionalmente deputato in via immediata e diretta a tutelare i beni culturali in funzione dei valori identitari dagli stessi espressi.
- Non sembra che possano trarsi argomenti contrari sulla base dell’art. 51 D. Lgs. n. 42/04 in materia di studi d’artista.
La circostanza che il legislatore, in relazione ad una particolare categoria di bene culturale, abbia ravvisato in via generale e astratta la necessità di imporre un vincolo di destinazione d’uso, prescindendo da una concreta valutazione amministrativa, non sembra determinare l’inammissibilità di un siffatto vincolo di tutela in relazione alle altre categorie di beni culturali: ciò sembra significare soltanto che, per gli studi d’artista, è sufficiente accertare tale qualitas per giustificare l’imposizione del vincolo di destinazione d’uso – discendente direttamente dal dato positivo (ex art. 51 cit.) per effetto della mera qualificazione della res in termini di studio d’artista – per le altre categorie di beni culturali, occorre, invece, una valutazione amministrativa delle circostanze del caso concreto, che dia conto delle ragioni per cui usi della res diversi da quelli attuali siano di pregiudizio per la conservazione dei suoi caratteri artistici o storici ovvero per la sua integrità materiale.
Si farebbe, in altri termini, questione pur sempre di uno strumento di tutela del bene culturale ammesso dalla legislazione di settore, con la differenza che nell’un caso (studi di artista), stante le peculiarità del bene regolato, la valutazione circa la necessità del vincolo di destinazione d’uso è operata in via generale e astratta dal legislatore, nell’altro caso (altre categorie di beni culturali), occorre l’intermediazione amministrativa, subordinandosi l’imposizione del vincolo ad una valutazione motivata in relazione alle peculiarità concrete, da ricostruire all’esito di un’adeguata istruttoria.
Non sembra deporre in senso contrario neanche la sentenza n. 185/2003 della Corte costituzionale, che ha ravvisato l’illegittimità costituzionale della esenzione degli studi d’artista dai provvedimenti di rilascio previsti dalla normativa in materia di locazione di immobili urbani: in tale pronuncia è stato, infatti, pure precisato che “le prescrizioni di inamovibilità e di immutabilità della destinazione d’uso, contenute nella norma impugnata, appaiono come integrazione e specificazione dei generali obblighi di conservazione dei beni culturali e sono quindi misure coerenti all’attuazione di questi obblighi…”.
Pertanto, l’imposizione in via generale e astratta di un vincolo di destinazione d’uso, da un lato, integra l’ordinamento, prevedendo una misura di tutela che, in assenza della relativa previsione speciale, non avrebbe potuto essere applicata in via generalizzata sulla base della mera qualitas di bene culturale (stante, nella generalità dei casi, non riconducibili alla disposizione derogatoria, l’esigenza di una valutazione casistica e motivata); dall’altro, specifica una misura comunque rientrante nei “generali obblighi di conservazione dei beni culturali”, da ritenere, dunque, compresa nella potestà di tutela attribuita all’Amministrazione statale.
- Alla luce delle considerazioni svolte, la Sezione ritiene che il Ministero della Cultura, nell’esercizio dei poteri di tutela attribuiti dal D. Lgs. n. 42/04 (in specie, dagli artt. 18, 20, 21 e 29 D. Lgs. n. 42/04), all’atto della dichiarazione di interesse culturale di un dato bene, valutate le circostanze del caso concreto, possa imporre anche un vincolo di destinazione d’uso, ove ravvisi che usi della res diversi da quelli attuali siano idonei a generare un rischio di compromissione della sua integrità materiale ovvero dei suoi caratteri storici o artistici.
Un tale vincolo di destinazione potrebbe operare, comunque, soltanto sul piano oggettivo, regolando l’uso della res, senza influire sulla libertà di iniziativa economica, non essendo ammesso un obbligo di prosecuzione dell’attività commerciale ivi svolta, né – a fortiori – risultano legittima la riserva di una tale attività, a prescindere da accordi liberamente conclusi tra le parti, in favore dell’attuale gestore (in particolare, come nella specie, una volta scaduto il titolo negoziale legittimante la detenzione del relativo bene).
VIII. Le espressioni di identità culturale collettiva.
- La soluzione prospettata dalla Sezione con riguardo ai beni culturali ex art. 10 D. Lgs. n. 42/04, sembrerebbe imporsi a fortiori a fronte di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, in relazione alle quali si ravvisa l’esigenza di garantire non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità del processo di condivisione, riproduzione e trasmissione delle manifestazioni immateriali a cui la cosa sia collegata.
Come osservato, il provvedimento dichiarativo di interesse culturale impugnato in primo grado è stato assunto in applicazione, altresì, dei principi declinati in materia di espressioni di identità culturale collettiva.
Il presente giudizio richiede, dunque, di verificare se – anche qualora dovesse negarsi il potere generale del Ministero della Cultura di imporre un vincolo culturale di destinazione d’uso o, comunque, dovesse riconoscersi un tale potere in ipotesi residuali ed eccezionali non riscontrabili nella specie – le previsioni di cui all’art. 7 bis cit. consentano, comunque, di giustificare un vincolo di destinazione d’uso ove si faccia questione di un bene costituente (altresì) testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva.
Trattasi di questione di particolare importanza che non sembra essere stata approfondita dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, potendo dare luogo a contrasti giurisprudenziali anche in ragione della formulazione del disposto positivo, che, da un lato, richiede la necessaria presenza di testimonianze materiali e l’integrazione delle condizioni e dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, dall’altro, non chiarisce in cosa debba tradursi una tale testimonianza materiale e come la disciplina di cui all’art. 10 D. lgs. n. 42/04, incentrata sulla materialità del bene culturale, possa coordinarsi con manifestazioni culturali immateriali.
- Ai sensi dell’art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, “Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10”.
Come precisato dal Tar nella sentenza gravata, la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo che ha introdotto nel sistema codicistico l’art. 7 bis, cit., si limitava a richiamare, in relazione ai nuovi ambiti presi in considerazione anche sul piano internazionale (correlati alla salvaguardia delle diversità culturali e alla protezione del patrimonio culturale immateriale), l’esigenza di una ridefinizione di settori disciplinari contigui ma non perfettamente coincidenti, al fine di evitare interpretazioni fuorvianti sia degli obblighi assunti in via pattizia con altri Stati, sia dei confini fra la tradizionale tutela relativa alle cose di interesse storico ed artistico e la salvaguardia afferente a manifestazioni e valori della cultura immateriale.
Il legislatore ha, quindi, introdotto una disciplina volta sì a valorizzare l’importanza delle espressioni culturali – condivise, riprodotte e trasmesse dalle collettività di riferimento, per propria natura aventi valore immateriale – ma a condizione che di tali espressioni sussista una testimonianza materiale e che ricorrano le condizioni e i presupposti di cui all’art. 10 D. Lgs. n. 42/04.
Mentre in ambito convenzionale (Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005), la rilevanza degli elementi materiali (strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali) associati alle espressioni di identità culturale è soltanto eventuale, ben potendo tutelarsi in via immediata e diretta l’immaterialità della manifestazione cultuale in sé, la disciplina nazionale sembra, dunque, richiedere un collegamento qualificato con un elemento materiale.
La res, in particolare:
– da un lato, dovrebbe testimoniare l’esistenza e il modo di essere dell’espressione di identità culturale collettiva, potendo assumere indifferentemente la valenza di oggetto, mezzo o luogo su cui, attraverso cui o in cui vengono ricreate, condivise e trasmesse le espressioni che la comunità riconosce parte del proprio patrimonio culturale, distintive della propria storia, costituenti un lascito del passato, da preservare nel presente per la trasmissione alle future generazioni. La res sembra, dunque, sotto tale profilo, funzionale alla prova dell’esistenza della manifestazione immateriale, consentendo di ricostruirne il contenuto e le caratteristiche identitarie;
– dall’altro, dovrebbe essere già, di per sé, tutelabile ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, occorrendo l’integrazione dei presupposti e delle condizioni per la sua dichiarazione di interesse culturale (pare sostenere una tale interpretazione Consiglio di Stato, sez. V, 19 aprile 2017, n. 1817).
In definitiva, sembra che il dato positivo richieda la presenza di una cosa che non soltanto assuma un proprio interesse culturale, in quanto sussumibile sotto le previsioni di cui all’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, ma rivesta anche una particolare rilevanza per il suo collegamento qualificato con una manifestazione culturale immateriale, consentendo di testimoniare l’esistenza e il modo di svolgimento di attività, saperi e conoscenze tradizionali, condivise, ricreate e tramandate, aventi valenza identitaria per una data comunità.
- Ciò premesso, si osserva che, in applicazione del principio dell’effetto utile, le disposizioni normative devono essere intese nel significato in cui assumano una qualche rilevanza, anziché nel senso in cui risultino del tutto inutili.
Ai sensi dell’art. 7 bis, come rilevato, le cose costituenti testimonianza materiale di un’espressione culturale collettiva dovrebbero intendersi già tutelate ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04, presentando, quale quid pluris, il collegamento qualificato con manifestazioni culturali immateriali aventi valore identitario.
Al fine di assicurare l’effetto utile dell’art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, appare, dunque, che il collegamento tra la res e l’espressione culturale debba essere valorizzato per arricchire i tradizionali strumenti di tutela, avendo riguardo a misure ulteriori rispetto a quelle già discendenti dalla qualificazione della cosa come bene culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04.
In particolare, ferme rimanendo le misure promozionali delle attività culturali – suscettibili di essere previste anche in ambito regionale (cfr. Corte cost., 28 marzo 2003, n. 94) – incentrate di regola su modelli consensuali dell’azione amministrativa, il potere di tutela sembra funzionale, in siffatte ipotesi, a garantire non soltanto l’integrità fisica della res (comunque indispensabile per la conservazione del valore culturale in essa incorporato e derivante, come sopra osservato, già dalla sua qualificazione come bene culturale ai sensi dell’art. 10 D. Lgs. n. 42/04), ma anche la continuità dell’espressione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza.
Una diversa interpretazione, tendente a contenere la tutela ex art. 7 bis cit. entro i tradizionali limiti della conservazione della res, propri delle manifestazioni culturali materiali, non sembrerebbe utile, in quanto non consentirebbe di riconoscere alla disciplina in commento (come introdotta dall’art. 1 del d.lgs. n. 62 del 2008 cit.) una effettiva portata innovativa.
Ai fini di un tale rafforzamento degli ordinari strumenti di tutela, sembra valorizzabile proprio il vincolo di destinazione d’uso, che, pure ove ritenuto inutilizzabile a fronte di espressioni di identità culturali meramente materiali, potrebbe assumere particolare rilevanza in presenza di manifestazioni immateriali.
Tali espressioni culturali, risultando per propria natura destinate ad essere costantemente ricreate e condivise a beneficio della comunità di riferimento, necessitano di speciali strumenti di tutela che ne permettano una continua riproduzione, indispensabile per evitare la loro dispersione; il che potrebbe avvenire attraverso l’imposizione di un vincolo di destinazione che ponga la res a servizio dell’espressione culturale di cui costituisce la testimonianza materiale.
Si farebbe questione, in definitiva, di un ulteriore strumento di tutela disponibile in capo all’Amministrazione ai sensi dell’art. 7 bis cit. in combinato disposto con gli artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04; ciò, a prescindere dall’avvio del procedimento di candidatura in ambito UNESCO, facendosi questione nella specie di potestà amministrative esercitabili, in ambito interno, dal Ministero della Cultura, attraverso i moduli procedimentali ordinari, propri della tutela dei beni culturali ex artt. 13 e ss. D. Lgs. n. 42/04.
- Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure sulla base del disposto di cui all’art. 52, comma 1 bis, D. Lgs. n. 42/04, regolante le misure promozionali e di salvaguardia dei locali in cui si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO.
Tale previsione, infatti, regolando, per lo più, le misure promozionali a sostegno delle attività culturali ivi richiamate, da un lato, fa salva proprio la disciplina di cui all’art. 7 bis cit., non influendo, dunque, sugli strumenti di tutela riconducibili al disposto dell’art. 7 bis; dall’altro, conferma come talune attività tradizionali, pure ove artigianali o commerciali (qual è l’attività di ristorazione per cui è causa), possano integrare gli estremi dell’espressione di identità culturale collettiva ex art. 7 bis cit. e, dunque, in tale qualità, siano assoggettabili ai relativi strumenti di tutela.
- Alla luce di tali rilievi, può aversi riguardo al caso di specie.
Il Ministero appellante, con il provvedimento impugnato in prime cure, ha ritenuto sussistenti i presupposti per applicare i principi in materia di espressioni di identità culturale collettiva.
L’interazione tra locale, arredi, bassorilievi, tradizione gastronomica e socialità creerebbe, infatti, secondo quanto ravvisato dall’Amministrazione, un’atmosfera unica, rinomata in ambito internazionale, espressiva della cultura locale romana (nella relazione storico-critica si richiamano il costume e la vita della città di Roma, a partire dal dopoguerra, passando per gli anni della “Dolce Vita” fino ai recenti sviluppi del turismo internazionale e di massa), connotata da storie e memorie che si riproducono e tramandano attraverso le narrazioni e i gesti di camerieri, cuochi e gestori.
Sembra che la valutazione ministeriale sia effettivamente coerente con la disciplina dettata dall’art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, di cui paiono integrati gli elementi costitutivi.
Nella specie si fa, infatti, questione di elementi materiali, dati dal locale, dagli arredi e dai suoi bassorilievi, che assumono un particolare interesse culturale:
– non soltanto ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04, per riferimento a specifici eventi della storia della comunità locale (sulla possibilità che il bene culturale costituisca una testimonianza della vita e della storia anche di una parte soltanto della comunità nazionale in relazione al messaggio che esso, come un vero e proprio documento, è in grado di perpetuare per le generazioni future, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357), discorrendosi di un locale frequentato da personaggi della storia italiana e straniera, sede prescelta anche per riprese cinematografiche (in specie, un film nazionale facente parte del patrimonio culturale italiano e un film internazionale girato in parte nel ristorante in esame perché ritenuto significativo della cultura romana) e di una conferenza stampa relativa ad un film correlato ad un’opera letteraria nazionale; il che evidenzia un interesse culturale “per riferimento” a specifici fatti riguardanti la storia culturale;
– ma anche per il collegamento con espressioni di identità culturali collettive, che hanno trovato e ancora oggi trovano nel locale la sede della loro manifestazione; la stessa attività di ristorazione, compenetrata nel locale fin dalla sua edificazione, concorre, infatti, in maniera essenziale a creare un’atmosfera unica, espressiva di cultura gastronomica e di socialità, arricchita dai richiamati riferimenti storico-culturali, tramandata a beneficio della comunità dei frequentatori anche grazie alle narrazioni e ai gesti del personale succedutosi nel tempo, reputata dal Ministero di rilevanza culturale con decisione discrezionale assunta all’esito di un’adeguata istruttoria, tradottasi pure in un’apposita indagine etnografica a carattere demoetnoantropologico (doc. 4 produzione ministeriale in primo grado).
In siffatte ipotesi il vincolo di destinazione d’uso del bene sembrerebbe effettivamente idoneo a garantire non soltanto la conservazione della res, ma pure la continuità delle espressioni di identità culturale cui è correlata la stessa res – ferma rimanendo la libertà dell’attività culturale e l’impossibilità di riservare il suo esercizio in capo all’attuale gestore – in tale modo giustificando, in applicazione dei principi espressi dall’art. 7 bis cit., la decisione, impugnata in prime cure, di assicurare la conservazione, oltre che degli aspetti architettonici e decorativi, “anche della continuità d’uso esplicata negli aspetti legati alla tradizione culturale di convivialità del locale”.
- La formulazione dei quesiti.
- Il Collegio, alla stregua delle considerazioni svolte, ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a., sottopone all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:
1) se, in presenza di beni culturali per “riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere” ex art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04, il potere ministeriale di tutela ex artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04, possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso del bene culturale, funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici; in caso affermativo, se ciò possa avvenire soltanto qualora la res abbia subito una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza ovvero ogniqualvolta le circostanze del caso concreto, secondo la valutazione (tecnico) discrezionale del Ministero, adeguatamente motivata nel provvedimento di dichiarazione dell’interesse culturale sulla base di un’approfondita istruttoria, giustifichino l’imposizione di un siffatto vincolo di tutela al fine di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato;
2) se, in presenza di beni culturali ex art. 10, comma 3, lett. d), D. Lgs. n. 42/04 che rappresentino (altresì) una testimonianza di espressioni di identità culturale collettiva ex art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, il potere ministeriale di tutela ex artt. 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, D. Lgs. n. 42/04. D. Lgs. n. 42/04, in combinato disposto con l’art. 7 bis D. Lgs. n. 42/04, possa estrinsecarsi nell’imposizione di un vincolo di destinazione d’uso della res a garanzia non solo della sua conservazione, ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza.
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