Corte Costituzionale, sentenza 30 giugno 2022 n. 162
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale del combinato disposto del terzo e quarto periodo dell’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e della connessa Tabella F, nella parte in cui, in caso di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi aggiuntivi del beneficiario, non prevede che la decurtazione effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore alla concorrenza dei redditi stessi.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.− Nel merito, la questione è fondata.
L’istituto della pensione ai superstiti, introdotto nel nostro ordinamento dal regio decreto-legge 14 aprile 1939, n. 636 (Modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l’invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria e sostituzione dell’assicurazione per la maternità con l’assicurazione obbligatoria per la nuzialità e la natalità), convertito, con modificazioni, in legge 6 luglio 1939, n. 1272, costituisce «una forma di tutela previdenziale ed uno strumento necessario per il perseguimento dell’interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3, secondo comma, della Costituzione) con una riserva, costituzionalmente riconosciuta, a favore del lavoratore, di un trattamento preferenziale (art. 38, secondo comma, della Costituzione) rispetto alla generalità dei cittadini (art. 38, primo comma, della Costituzione)» (sentenza n. 286 del 1987, punto 3.2. del Considerato in diritto; più di recente, sentenza n. 174 del 2016, punto 3.1. del Considerato in diritto).
La ratio dei trattamenti di reversibilità, come questa Corte ha già sottolineato, consiste nel «farne proseguire, almeno parzialmente, anche dopo la morte del loro titolare, il godimento da parte dei soggetti a lui legati da determinati vincoli familiari, garantendosi, così, ai beneficiari la protezione dalle conseguenze che derivano dal decesso del congiunto (fra le tante, sentenze n. 180 e n. 70 del 1999, n. 18 del 1998). Si realizza in tal modo, anche sul piano previdenziale, una forma di ultrattività della solidarietà familiare (ancora sentenza n. 180 del 1999), proiettando il relativo vincolo la sua forza cogente anche nel tempo successivo alla morte (così, con riferimento al rapporto coniugale, la sentenza di questa Corte n. 174 del 2016)» (sentenza n. 88 del 2022).
Ciò posto, deve rilevarsi, come questa Corte ha già affermato con riferimento alla specifica questione del cumulo tra pensione e redditi da lavoro, che la sussistenza di altre fonti di reddito può ben giustificare una diminuzione del trattamento pensionistico, «in quanto “la funzione previdenziale della pensione non si esplica, o almeno viene notevolmente ridotta, quando il lavoratore si trovi ancora in godimento di un trattamento di attività” (sentenza n. 275 del 1976)» (sentenza n. 241 del 2016). Il legislatore, attraverso le norme che stabiliscono i limiti di cumulabilità tra pensione e reddito, tiene conto della diminuzione dello stato di bisogno del pensionato, che deriva dalla disponibilità di un reddito aggiuntivo, e, nell’esercizio della sua discrezionalità, è chiamato a bilanciare i diversi valori coinvolti modulando la concreta disciplina del cumulo, in necessaria armonia con i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenza n. 241 del 2016).
Tuttavia, la regolamentazione del cumulo tra la prestazione previdenziale e i redditi aggiuntivi del suo titolare, laddove comporti una diminuzione del trattamento pensionistico, deve muoversi entro i binari della non irragionevolezza.
La disciplina introdotta dal legislatore del 1995, che trova applicazione nel giudizio a quo, non è rispettosa dei criteri appena richiamati, nella parte in cui consente all’istituto previdenziale di applicare decurtazioni del trattamento di reversibilità in misura superiore ai redditi aggiuntivi goduti dal beneficiario nell’anno di riferimento. Risulta alterato, in tal modo, il rapporto che deve intercorrere tra la diminuzione del trattamento di pensione e l’ammontare del reddito personale goduto dal titolare, il quale si trova esposto a un sacrificio economico che si pone in antitesi rispetto alla ratio solidaristica propria dell’istituto della reversibilità. Il legame familiare che univa il de cuius al titolare del trattamento di reversibilità, anziché favorire quest’ultimo – mediante il riconoscimento di una posta aggiuntiva rispetto ai redditi che egli produca – finisce infatti paradossalmente per nuocergli, sottraendogli non solo l’ammontare corrispondente alla totalità dei redditi aggiuntivi prodotti, ma anche una parte dello stesso trattamento di reversibilità.
Un siffatto risultato è evidentemente irragionevole, e non emendabile, come dimostra la situazione concreta che si è verificata nel procedimento a quo, mediante la sola applicazione della clausola di salvaguardia prevista dal quarto periodo del comma 41 dell’art. 1 della legge n. 335 del 1995, che così recita: «Il trattamento derivante dal cumulo dei redditi di cui al presente comma con la pensione ai superstiti ridotta non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe allo stesso soggetto qualora il reddito risultasse pari al limite massimo delle fasce immediatamente precedenti quella nella quale il reddito posseduto si colloca». Come afferma di aver già accertato il giudice a quo, mediante apposita istruttoria, nel caso di specie l’INPS, prima ancora di procedere alle decurtazioni della pensione di reversibilità della ricorrente, ha bensì applicato detta clausola di salvaguardia: ciò, tuttavia, non è stato sufficiente a evitare che l’importo complessivo delle trattenute travalicasse l’ammontare dei redditi aggiuntivi annuali di riferimento. Il vulnus al principio di ragionevolezza, pertanto, investe non solo il terzo periodo del comma 41 (che stabilisce i limiti di cumulabilità tra pensione di reversibilità e redditi aggiuntivi), in relazione alle fasce reddituali indicate dalla Tabella F allegata alla legge n. 335 del 1995, ma anche il quarto periodo dello stesso comma, proprio perché la clausola di salvaguardia ivi prevista omette di dare congrua regolazione a tale ipotesi.
4.– Al fine di ricondurre a ragionevolezza le disposizioni censurate, è necessario introdurre un tetto alle decurtazioni del trattamento di reversibilità che sono cagionate dal possesso di un reddito aggiuntivo. In tal senso, il legislatore – nell’ambito di un sistema che imponeva limiti al cumulo tra pensione e redditi da lavoro, prima cioè dell’abolizione di tali limiti avvenuta con l’art. 19 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 – ha dettato discipline anti-cumulo calibrate sull’effettiva consistenza dei redditi aggiuntivi, stabilendo la possibilità di operare diminuzioni del trattamento pensionistico fino a concorrenza di tali redditi (o di una parte di tali redditi). È quanto accaduto, ad esempio, per la disciplina (decorrente dal 1° gennaio 2001) concernente il cumulo tra le quote delle pensioni dirette di anzianità, di invalidità e degli assegni diretti di invalidità, eccedenti il trattamento minimo, e il 70 per cento dei redditi da lavoro autonomo. In questo caso il legislatore, con l’art. 72, comma 2, secondo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», ha precisato che «[l]e relative trattenute non possono, in ogni caso, superare il valore pari al 30 per cento dei predetti redditi». Secondo la disciplina previgente, in materia di cumulo delle pensioni di anzianità, eccedenti il trattamento minimo, con il 50 per cento dei redditi da lavoro autonomo, le decurtazioni sul trattamento pensionistico potevano essere applicate «fino alla concorrenza dei redditi stessi» (così l’art. 59, comma 14, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica»). In base alla disciplina, ancora precedente, del cumulo tra trattamento minimo delle pensioni di vecchiaia e di invalidità e il 50 per cento della retribuzione percepita dal beneficiario (per rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi), le conseguenti decurtazioni sull’ammontare del trattamento di pensione potevano effettuarsi «fino a concorrenza della retribuzione stessa» (art. 20, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, recante «Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria», come sostituito dall’art. 20, primo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153, recante «Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale»).
La stessa legge n. 335 del 1995, del resto, ha utilizzato, a più riprese, il limite della «concorrenza» con i redditi, allorquando ha introdotto limiti al cumulo tra trattamenti pensionistici e redditi aggiuntivi del titolare. L’art. 1, commi 21 e 22 (successivamente abrogati dal citato art. 19, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito), invero, nel prevedere un limite di cumulo tra la pensione di vecchiaia, eccedente il trattamento minimo, e i redditi da lavoro dipendente e autonomo, stabiliva che le conseguenti decurtazioni al trattamento di pensione devono considerarsi ammesse «fino a concorrenza dei redditi stessi». Analogamente, l’art. 1, comma 43, della richiamata legge n. 335 del 1995 – nel disporre il divieto di cumulo tra le pensioni di inabilità, di reversibilità o l’assegno ordinario di invalidità, liquidati in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale, e la rendita vitalizia liquidata per lo stesso evento invalidante – ha stabilito che la conseguente decurtazione della pensione può essere ammessa «fino a concorrenza della rendita stessa».
Allo stesso modo, la formulazione del censurato art. 1, comma 41, terzo e quarto periodo, della legge n. 335 del 1995 deve essere integrata – al fine di ricondurla a ragionevolezza, onde evitare la possibilità che, come accaduto nella fattispecie che ha dato luogo al giudizio a quo, le decurtazioni della pensione superino l’ammontare dei redditi goduti dal beneficiario – mediante la previsione del limite della «concorrenza dei redditi». Di conseguenza, il combinato disposto delle norme denunciate deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, in caso di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi aggiuntivi del beneficiario, non prevede che la decurtazione effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore alla concorrenza dei redditi stessi.