Cassazione penale, Sez. V, sentenza 13 giugno 2022, n. 22970
MASSIMA
L’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica di cui all’art. 51 c.p tollera l’uso di espressioni forti e toni aspri, mentre la sua operatività s’infrange soltanto dinanzi alla genericità di tali espressioni ed alla loro non ricollegabilità a specifici episodi, sì da poter essere considerate gratuitamente espressive di sentimenti ostili. Essa, invero, postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui le espressioni vengono utilizzate.
PRINCIPIO DI DIRITTO
Nella specifica materia della diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perchè è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatori. La Cassazione, infatti, fin tanto che rimane aperto il sindacato sul fatto diffamatorio, qualunque sia l’esito decisorio cui è pervenuto il giudice di merito, conserva il sindacato sulla sussistenza della materialità della condotta contestata.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato.
- Anzitutto, va preliminarmente ribadito che, nella specifica materia della diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perchè è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, Rv. 261284; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Rv. 256706; Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv. 233749); Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Rv. 278145).
- Spetta, dunque, al Collegio verificare la portata diffamatoria della condotta denunciata dalla persona offesa dal reato. Nè può essere opposto a tale perdurante sindacato il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado in punto di sussistenza della oggettiva carica diffamatoria delle espressioni utilizzate nei confronti della parte civile, poichè la sentenza di assoluzione non era stata impugnata dall’imputato, assolto per la ritenuta configurabilità della causa di non punibilità della provocazione prevista dall’art. 599 c.p., comma 2, appellata soltanto dalla parte civile.
- La Cassazione, infatti, fin tanto che rimane aperto il sindacato sul fatto diffamatorio, qualunque sia l’esito decisorio cui è pervenuto il giudice di merito, conserva il sindacato sulla sussistenza della materialità della condotta contestata.
- Nel caso di specie, le espressioni ritenute cariche di portata diffamatoria e lesiva dell’altrui reputazione in realtà sono coperte dalla scriminante del diritto di critica politica, che rappresenta una delle manifestazioni più ampie della libertà di espressione del pensiero, che trova un punto di emersione nella disposizione prevista dall’art. 51 c.p.. Ed infatti, l’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica tollera l’uso di espressioni forti e toni aspri, mentre la sua operatività s’infrange soltanto dinanzi alla genericità di tali espressioni ed alla loro non ricollegabilità a specifici episodi, sì da poter essere considerate gratuitamente espressive di sentimenti ostili (Sez. 5, n. 48712 del 26/9/2014, Magistà, Rv. 261489; Sez. 5, n. 9566 del 16/12/2020, dep. 2021, Damascelli, Rv. 280809).
- In altre parole, l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui le espressioni vengono utilizzate (cfr., per tutte, Sez. 5, n. 17243 del 19/2/2020, Lunghini, Rv. 279133; Sez. 5, n. 37397 del 24/6/2016, C., Rv. 267866).
6.1 Orbene, la lettura diretta delle frasi contestate come diffamatorie e pronunciate dal ricorrente evidenzia la loro continenza rispetto al contesto della loro emersione, contesto che si nutre, ovviamente, non soltanto della manifesta divergenza politica esistente tra querelante e querelato, ma anche della contiguità temporale e della contrapposizione tra loro su specifici temi, desumibile dal confronto tra le dichiarazioni rese dalla parte civile il giorno prima all’indirizzo del sindaco avversario e attuale ricorrente e, appunto, quelle pronunciate da quest’ultimo in risposta a tali prime affermazioni. Si tratta di un’ipotesi già tipizzata nell’esperienza interpretativa di legittimità, che si riferisce al caso in cui vi siano reciproci “botta e risposta” in una dimensione spazio-temporale di contiguità. In simili fattispecie, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione e legati ad un “botta e risposta” che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione (Sez. 5, n. 4853 del 18/11/2016, dep. 2017, Fava, Rv. 269093, in una fattispecie di “botta e risposta” giornalistico).
- Alla luce di tale condiviso approdo ermeneutico, la fattispecie in esame appare sicuramente rientrare in quel cono d’ombra disegnato dalla garanzia riservata dall’ordinamento costituzionale e penale al diritto di manifestazione libera del pensiero, anche e soprattutto critico, attraverso l’esimente prevista dall’art. 51 c.p.: le frasi pronunciate dall’imputato si ricollegano strettamente a quelle della parte civile, registrate il giorno prima, in una dimensione unica di reciproca critica politica, senza dubbio conflittuale e dai toni spiccatamente aspri, sebbene mai collegabili ad un’ostilità personale preconcetta, trattandosi di dichiarazioni che mettono al centro pur sempre il mandato politico dei due protagonisti e, al più, si spingono a dubitare, ancora reciprocamente, delle personali capacità professionali. E tuttavia, anche tale ultimo, rilevante aspetto della critica politica reciprocamente sviluppatasi tra il ricorrente e la parte civile – e cioè l’accusa di scarsa capacità professionale prima ancora che politica – si tiene all’interno di quei confini di continenza espositiva e di contesto argomentativo e non deborda in argomenti personalistici, aggressivi della sfera intima altrui: anche l’espressione “elusore fiscale” non vive di vita propria ed autonoma ma si inscrive in una considerazione sulle asserite scarse capacità professionali della parte civile che la colora di un senso paradossale, quasi fosse un argomento retorico (per descrivere, in modo sarcastico, l’inverosimiglianza di una così grave incapacità professionale imprenditoriale della parte civile, appunto).
- In conclusione, la diffamazione deve ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 51 c.p. ed è per tale ragione che, anzitutto, va disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, che non ha scrutinato la fattispecie alla luce dei principi giurisprudenziali già enunciati, laddove il fatto non costituisce reato per l’operare della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica in favore del ricorrente.
- Non è ultroneo precisare, a sugello della ricostruzione sin qui svolta, che il contesto reciprocamente conflittuale esistente tra il ricorrente e la parte civile, già descritto nei suoi aspetti essenziali e sfociato nell’episodio unico delle dichiarazioni oppositive e di aspra critica dell’uno rispetto all’altro, si presterebbe di per sè anche ad avvalorare la (già ritenuta in primo grado) ricorrenza della causa di non punibilità della provocazione, prevista dall’art. 599, comma 2, c.p., qualora volesse ritenersi l’ingiustizia del fatto subito dalla parte civile, piuttosto che la scriminante, di portata più ampia dell’esercizio del diritto di critica politica, che esclude la stessa illiceità delle dichiarazioni profferite dal ricorrente.
9.1 Ed infatti, detta causa di non punibilità sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza, purchè apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l’agente (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 43637 del 24/4/2015, Caputo, Rv. 264924). La giurisprudenza richiamata dalla sentenza impugnata, peraltro, secondo cui, ai fini dell’applicabilità dell’esimente della provocazione di cui all’art. 599 c.p., non costituisce “fatto ingiusto”, rispetto alle offese poi indirizzate alla persona offesa e riferite al suo aspetto fisico, la condotta della stessa vittima della diffamazione, la quale, durante una conferenza stampa, quale difensore civico, esercitando il proprio diritto di critica politica, abbia fatto riferimento alla condanna dell’autore della diffamazione per il reato di associazione mafiosa (Sez. 5, n. 27922 del 22/2/2018, Cito, Rv. 273229), evidentemente nasce dall’esigenza – più volte rappresentata anche dal Collegio – di non poter considerare coperte dalla esimente della “provocazione” quelle condotte che si risolvono in un argomento di attacco personale al diffamato nei suoi aspetti individuali, scollegandosi dallo specifico contesto in cui sorge la querelle politica. Inoltre, sussistono gli elementi della “reale contiguità temporale” e del collegamento causale tra reazione e fatto ingiusto altrui, che la giurisprudenza pone quali presupposti per l’esimente della provocazione in tema di diffamazione (cfr. Sez. 5, n. 30502 del 16/5/2013, Quaretti, Rv. 257700; Sez. 5, n. 39508 del 11/5/2012, Grassi, Rv. 253732).
- Deve concludersi, dunque, per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata poichè il fatto non costituisce reato, nulla dovendo statuirsi in ordine alla richiesta di rifusione delle spese genericamente proposta dalla parte civile, che è soccombente nel giudizio.