Corte di Cassazione, Sez. V Penale, ordinanza 28 settembre 2022 n. 36738
QUESTIONE RIMESSA
Il Collegio ritiene di dover rimettere i ricorsi alle Sezioni Unite per la soluzione del seguente quesito di diritto: «se, ai fini dell’applicazione della recidiva reiterata, sia necessaria una sentenza, divenuta irrevocabile anteriormente al fatto per il quale si procede, che abbia condannato l’imputato per un reato aggravato dalla recidiva».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il Collegio ritiene di dover rimettere i ricorsi alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., per la soluzione del seguente quesito di diritto: «se, ai fini dell’applicazione della recidiva reiterata, sia necessaria una sentenza, divenuta irrevocabile anteriormente al fatto per il quale si procede, che abbia condannato l’imputato per un reato aggravato dalla recidiva».
1.1. All’esito di una delibazione della prima parte del secondo motivo del ricorso nell’interesse di Lucian Stefan Dinca (che censura la mancata valutazione dei presupposti per il riconoscimento della recidiva, laddove la sentenza di primo grado aveva rimarcato l’incremento della capacità a delinquere dimostrato dal reato per il quale si procede, mentre la sentenza impugnata, in risposta alle doglianze dell’appellante sul punto, ha rilevato che Dinca ha riportato una condanna irrevocabile un mese prima del fatto per cui si procede per estorsione commessa fino al febbraio 2019), ritiene il Collegio che debba essere rimessa alle Sezioni unite la cognizione della questione posta dalla seconda parte del secondo motivo, che deduce l’insussistenza della recidiva reiterata, non avendo l’imputato in precedenza riportato condanna per reati aggravati dalla recidiva.
Sul punto, la sentenza impugnata ha risposto alle doglianze dell’appellante richiamando l’orientamento di gran lunga maggioritario della giurisprudenza di legittimità, orientamento non condiviso dal Collegio.
- L’indirizzo maggioritario appena richiamato propende per la tesi secondo cui la recidiva reiterata può essere riconosciuta anche quando non sia stata in precedenza già dichiarata la recidiva.
L’orientamento trae origine dal principio di diritto secondo cui, nel prevedere l’aumento di pena per effetto della recidiva reiterata, l’art. 99 cod. pen. fa riferimento al recidivo che commette un altro reato, il che non suffraga la tesi secondo cui intanto la recidiva reiterata può essere contestata in quanto in precedenza sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice, posto che, dalla lettura della disposizione, emerge come il termine “recidivo” sia stato usato dal legislatore per comodità di esposizione, per non ripetere la definizione contenuta nel primo comma dello stesso articolo e non già per indicare una qualità del soggetto giudizialmente affermata (Sez. 3, n. 6424 del 20/05/1993, Mighetto, Rv. 195127; conf. Sez. 1, n. 24023 del 06/05/2003, Andreucci, Rv. 225233).
Ricollegandosi al principio di diritto enunciato dalla sentenza Mighetto, la giurisprudenza successiva ha distinto i poteri del giudice della cognizione da quelli del giudice dell’esecuzione, rilevando che «nel primo caso sembra ragionevole ritenere che il giudice della cognizione possa accertare i presupposti anche di una recidiva che non sia stata già dichiarata», mentre «nel secondo caso è da escludere che una recidiva non dichiarata in sede di cognizione possa essere ritenuta dal giudice dell’esecuzione»; di qui il principio di diritto in forza del quale, in tema di recidiva, il giudice della cognizione – a differenza di quello d’esecuzione – può accertare anche i presupposti di una recidiva che non sia stata previamente dichiarata, sicché la recidiva reiterata può essere riconosciuta in sede di cognizione anche quando in precedenza non sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice (Sez. 5, n. 41288 del 25/09/2008, Moccia, Rv. 241598).
Principio di diritto, questo, riaffermato da Sez. 2, n. 18701 del 07/05/2010, Arullani, Rv. 247089; Sez. 5, n. 47072 del 13/06/2014, Hoxha, Rv. 261308; Sez. 2, n. 21451 del 05/03/2019, Gasmi Adel, Rv. 275816.
Più di recente, si è ribadito che, ai fini del riconoscimento della recidiva reiterata, non è necessaria una precedente dichiarazione di recidiva contenuta in altra sentenza di condanna dell’imputato, né è necessario che in relazione ad altri procedimenti definiti con sentenza irrevocabile sussistessero astrattamente i presupposti per riconoscere la recidiva semplice, ma è sufficiente che al momento della consumazione del reato l’imputato risulti gravato da più condanne definitive per reati che, in relazione a quello oggetto di giudizio, manifestino una sua maggiore pericolosità sociale (Sez. 2, n. 15591 del 24/03/2021, Di Maio, Rv. 281229).
- Un (parziale) distacco dalla linea interpretativa adottata dall’orientamento maggioritario si deve a Sez. 2, n. 37063 del 26/11/2020, Kassimi, Rv. 280436, che ha affermato il principio di diritto massimato nel senso che è preclusa l’applicazione della recidiva reiterata, di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen., nel caso in cui non sia mai stata precedentemente applicata la recidiva, semplice, aggravata o pluriaggravata, per la mancanza del presupposto formale dell’anteriorità della data di irrevocabilità della precedente sentenza rispetto a quella di commissione del nuovo reato.
La ratio decidendi della sentenza Kassimi, peraltro, è radicata nella fattispecie concreta, posto che la ritenuta esclusione della configurabilità della recidiva reiterata discende dal rilievo che il fatto per il quale si stava procedendo era stato commesso prima del passaggio in giudicato della precedente sentenza (o, meglio, delle precedenti sentenze) di condanna.
Analoga impostazione si rinviene in Sez. 3, n. 2519 del 14/12/2021, dep. 2022, Pistocchi, Rv. 282707 – 02, che, enunciando il proprio dissenso dalla prospettiva seguita da Sez. 2, n. 15591 del 2021, Di Maio, cit., sostiene che «il dato testuale dell’art. 99, quarto comma, cod. pen. induce a ritenere che la recidiva reiterata può essere applicata solo se il reo, prima di commettere il nuovo reato, avesse già potuto subire l’applicazione di un aumento di pena per la recidiva in relazione ad un altro reato».
- Come si è anticipato, il Collegio ritiene opportuno un ripensamento dell’orientamento maggioritario e di quello espresso dalle due sentenze da ultimo richiamate, a favore della tesi secondo cui, ai fini dell’applicazione della recidiva reiterata, è necessaria una sentenza, divenuta irrevocabile anteriormente al fatto per il quale si procede, che abbia condannato l’imputato per un reato aggravato dalla recidiva; con la conseguenza che la prospettiva concreta di un contrasto potenziale induce a rimettere i ricorsi alle Sezioni unite.
Premesso come sia del tutto pacifico che affinché sia configurabile la recidiva (una qualsiasi figura di recidiva) è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che le precedenti condanne siano divenute irrevocabili (cfr., ex plurimis, in tema di recidiva reiterata Sez. 3, n. 10219 del 15/01/2021, Rossi, Rv. 281381; Sez. 6, n. 16149 del 03/04/2014, Madeddu, Rv. 259681), convergono verso la soluzione qui accolta argomenti incentrati sul dato letterale offerto dal quarto comma dell’art. 99 cod. pen. e argomenti di ordine sistematico; gli uni e gli altri pienamente in linea con la finalità di offrire, della norma di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen., un’interpretazione costituzionalmente orientata.
4.1. Quanto al dato letterale, l’uso del sostantivo “recidivo” rappresenta una formula espressiva delle varie figure di recidiva disciplinate dai commi dell’art. 99 cod. pen. che precedono il quarto, come confermato dalla collocazione di quest’ultima disposizione nel medesimo articolo, dalla “progressione” delle norme relative alla varie figure di recidiva e, dunque, dalla necessaria «lettura omogenea dei primi quattro commi dell’art. 99 cod. pen.» (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247838 – 41).
Punto decisivo, allora, è individuare i requisiti costitutivi delle fattispecie di recidiva; ed è su questo terreno che vengono in rilievo i profili di ordine sistematico messi in luce dalla concorde evoluzione della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale.
Nell’impostazione originaria del Codice Rocco, la disciplina della recidiva si caratterizzava per un ampio, pressoché generalizzato, regime di obbligatorietà (con le deroghe delineate dall’art. 100 cod. pen. disciplinante le ipotesi di recidiva facoltativa): ed è a questo assetto normativo che, come ricorda Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, dep. 2012, Marcianò, Rv. 251689 – 90, si riferiva l’autorevole dottrina di quegli anni quando definiva la recidiva «una questione di “diritto” e non di “fatto”», che, salva appunto l’ipotesi della recidiva facoltativa di cui all’art. 100 allora vigente, «comportava inderogabilmente e automaticamente un effetto di aggravamento della pena», effetto di aggravamento «strettamente conseguente alla relativa iscrizione nel casellario giudiziale e alla formale contestazione».
Da tale assetto, discendeva, in particolare, la tesi che, ai fini della sussistenza della recidiva reiterata, non era necessaria una precedente dichiarazione di recidiva, essendo sufficiente che l’imputato avesse subìto due o più condanne (Sez. 5, n. 1192 del 12/10/1967, dep. 1968, Di Pierro, Rv. 106912); una tesi del tutto in linea con l’orientamento maggioritario sopra richiamato, che, però, la ripropone acriticamente in un contesto sistematico mutato in profondità.
Con la riforma del 1974 (art. 9, decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220) venne meno l’obbligatorietà della recidiva, ma il nuovo regime di facoltatività introdotto dalla novella fu interpretato dalla giurisprudenza nel senso – indubbiamente riduttivo – che esso consentiva al giudice non di escludere la circostanza, ma solo di non apportare gli aumenti di pena conseguenti alla recidiva (ex plurimis, Sez. 3, n. 435 del 29/09/1978, dep. 1979, Vinciguerra, Rv. 140816; Sez. 2, n. 10248 del 12/04/1983, Querzola, Rv. 161468), sicché si riteneva che si dovesse parlare non tanto di facoltatività della recidiva, quanto di facoltatività dell’aumento di pena (Sez. 6, n. 3874 del 05/09/1974, dep. 1975, Mele, Rv. 130148).
La riforma del 2005 (legge 5 dicembre 2005, n. 251), oltre a delimitare l’ambito applicativo della recidiva al delitto non colposo e a confermare il regime di facoltatività (con l’eccezione – “precaria”, in quanto, come si vedrà, illegittima – dell’ipotesi di recidiva obbligatoria di cui al quinto comma dell’art. 99 cod. pen.), stabilì un severo inasprimento degli aumenti di pena associati alle varie figure di recidiva e introdusse una rilevante serie di effetti “indiretti” della recidiva reiterata, tra i quali una significativa limitazione al giudizio di bilanciamento ex art. 69, quarto comma, cod. pen.
Proprio lo scrutinio delle questioni di legittimità costituzionale della deroga al giudizio di bilanciamento prevista, per la recidiva reiterata, dalla novella del 2005 offrì alla Corte costituzionale l’occasione per mette a fuoco i requisiti “sostanziali” della recidiva.
4.2. Con la sentenza n. 192 del 2007, la Corte costituzionale ha ulteriormente chiarito la correlazione tra il riconoscimento della sussistenza della recidiva reiterata e la valutazione della significatività del “nuovo” reato sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo: infatti, «il giudice applicherà l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo».
L’indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 192 del 2007 fu poi ribadito dalle ordinanze del giudice delle leggi n. 409 del 2007, 33, 90, 193 e 257 del 2008 e 171 del 2009.
L’indirizzo prospettato dalla Corte costituzionale è stato poi pienamente accolto dalla giurisprudenza di legittimità, che – riaffermata la natura facoltativa della recidiva, anche reiterata (con l’eccezione rappresentata, a quel tempo, dal quinto comma dell’art. 99 cod. pen.) – ha sottolineato come sia «compito del giudice, quando la contestazione concerna una delle ipotesi contemplate dai primi quattro commi dell’art. 99 c.p. e quindi anche nei casi di recidiva reiterata […], quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità» (Sez. U, n. 35738 del 2010, Calibè, cit.).
Sez. U, Calibè prende dunque espressamente le distanze dall’indirizzo caldeggiato da Sez. 6, n. 18302 del 27/02/2007, Ben Hadhria, Rv. 236426, secondo il quale «la semplice esistenza dei precedenti penali reiterati configurerebbe insieme una circostanza aggravante ed una sorta di status soggettivo del reo, con la conseguenza che, pur essendo al giudice consentito di escludere il relativo aumento di pena, sarebbe comunque indefettibile sottoporre la recidiva reiterata al giudizio di comparazione fra circostanze di segno opposto con i limiti indicati dal quarto comma dell’art. 69 cod. pen.: dunque con il conseguente sostanziale, indiscriminato ed automatico aggravamento della sanzione» che la sentenza Calibè «reputa non conforme ai principi di rango costituzionale che informano il sistema punitivo».
Nella stessa prospettiva, Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664 ha messo in luce come non sia «conforme ai principi generali di un moderno diritto penale espressivo dei valori enunciati dalla Carta fondamentale una concezione della recidiva quale status soggettivo correlato al solo dato formale della ricaduta nel reato dopo una previa condanna passata in giudicato che formi oggetto di mero riconoscimento da parte del giudice, chiamato soltanto a verificare la correttezza della sua contestazione»; al contrario, sottolinea Sez. U, Indelicato, l’applicazione della recidiva quale circostanza aggravante postula una «relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso, che deve essere concretamente significativo – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo».
A chiare lettere, dunque, le Sezioni unite danno conto del «superamento della concezione della recidiva come mero status desumibile dal certificato penale», superamento reso evidente dal rilievo che gli elementi costitutivi della recidiva quale circostanza aggravante chiamano in causa «non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna», ma anche il «presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo».
4.3. I concordi e consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale – qualificabili senz’altro in termini di diritto vivente – offrono un primo elemento a sostegno del superamento dell’orientamento maggioritario.
Se, come si è visto, il sostantivo “recidivo” di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. rinvia alle varie figure di recidiva, semplice o qualificata, di cui ai precedenti tre commi e se dette figure non possono – alla luce del diritto vivente – essere ritenute integrate dalla «semplice esistenza dei precedenti penali reiterati» (Sez. U, Calibè), ma richiedono l’accertamento positivo della sussistenza del «presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo» (Sez. U, Indelicato), intanto potrà ritenersi perfezionata la fattispecie della recidiva reiterata, in quanto una pregressa sentenza di condanna abbia applicato la recidiva, accertando la sussistenza di tutti i suoi requisiti.
Invero, il mero riscontro di precedenti condanne non può surrogare l’accertamento, in relazione ai reati oggetto di tali condanne, degli elementi costitutivi della recidiva; e tale accertamento, con l’applicazione della recidiva, è conditio sine qua non perché il reato accertato irrevocabilmente prima della commissione del “nuovo” reato possa costituire – in quanto qualificato dall’applicazione, appunto, della recidiva – presupposto della recidiva reiterata.
Solo a questa condizione il sensibile incremento sanzionatorio discendente dalla recidiva reiterata (accompagnato dai suoi plurimi “effetti indiretti”) può trovare un fondamento giustificativo costituzionalmente valido.
La tesi sostenuta dall’orientamento maggioritario, che ritiene sufficiente, ai fini dell’applicazione della recidiva reiterata, il mero riscontro della pregressa commissione di delitti non colposi (anche se non aggravati ex art. 99, primi tre commi, cod. pen.) si prospetta, dunque, incompatibile con la fisionomia della recidiva come confermato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite citata e, in buona sostanza, àmputa l’accertamento dei requisiti costitutivi della fattispecie aggravatrice di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. della verifica del suo presupposto sostanziale, accontentandosi della verifica delle precedenti condanne per reati non aggravati dalla recidiva; il che riflette la concezione della recidiva superata dall’evoluzione qui, in sintesi, ricostruita.
Anche il più recente indirizzo di cui alle sentenze richiamate al § 3, pur riconoscendo che le precedenti condanne devono caratterizzarsi per il presupposto formale dell’anteriorità dell’irrevocabilità della precedente condanna rispetto al tempus di commissione del nuovo reato (presupposto accertato sulla scorta di uno scrutinio “ora per allora”), comunque svincola l’accertamento dei requisiti della recidiva reiterata dalla riconoscibilità, nei reati per i quali è intervenuta pregressa condanna, della sussistenza del presupposto sostanziale della recidiva.
Del resto, anche sentenze espressive dell’orientamento maggioritario sollecitano il giudice che procede a un accertamento “ora per allora” (il che segnala una divaricazione, nell’ambito dell’orientamento maggioritario, rispetto alle pronunce – ad esempio Sez. 2, n. 15591 del 2021, Di Maio, cit. – che non richiedono l'”astratta” sussistenza dei presupposti della recidiva per i reati in precedenza giudicati).
Secondo Sez. 5, n. 41288 del 2008, Moccia, cit., ad esempio, il giudice della cognizione ha il potere di «accertare i presupposti anche di una recidiva che non sia stata già dichiarata».
Ora, decisivo è il rilievo che l’accertamento prefigurato da questa impostazione prescinde dalla verifica del presupposto sostanziale della recidiva. Invero, l’accertamento di tale presupposto non può certo risolversi nella lettura della sentenza di condanna e, ancor meno, nella verifica del certificato penale (che, come osservato in dottrina, potrebbe registrare una condanna in cui la recidiva non solo non è stata applicata, ma è stata espressamente esclusa); esso, dunque, non può prescindere (così come l’accertamento di qualsiasi circostanza aggravante) dalla verifica giurisdizionale da parte del giudice che ha pronunciato la condanna “a monte” della recidiva reiterata, nel contraddittorio delle parti e previa contestazione della circostanza operata dal pubblico ministero. In assenza di tale accertamento, la recidiva reiterata viene applicata a un soggetto che – non essendo stato condannato per reati aggravati dalla recidiva – non può essere definito “recidivo”.
4.4. Una solida conferma della tesi qui sostenuta è offerta da Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, Rv. 275319 (che mette a fuoco lucidamente anche alcuni profili trattati in precedenza dalle Sezioni unite).
Muovendo anch’essa dalla critica all’impostazione che intende «la recidiva come uno status personale, da ricavare dalla lettura del certificato giudiziale, e pertanto l’ha ritenuta obbligatoria quanto all’an, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nell’effetto diretto (ma non in quelli indiretti)», la sentenza Schettino sottolinea «la irriducibilità della recidiva alla titolarità di precedenti penali», mettendo l’accento sul presupposto sostanziale rappresentato dalla espressività del nuovo reato di una più accentuata colpevolezza o di una maggiore pericolosità.
In questa prospettiva, Sez. U, Schettino ritiene non condivisibile «l’orientamento secondo il quale la valorizzazione dei “precedenti penali” che sia stata operata per il diniego delle attenuanti generiche è indice di un giudizio che riconosce la ricorrenza della circostanza aggravante della recidiva, risultando un mero errore il mancato aumento della pena a titolo di recidiva», orientamento, questo, che «depaupera il giudizio concernente la recidiva, finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti “precedenti penali”, che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all’assenza di una reale indagine al riguardo».
Né assume, di per sé, rilievo decisivo la contestazione della recidiva da parte del pubblico ministero, che «non consolida alcunché, dovendosi fare riferimento alle statuizioni adottate dal giudice», posto che, osserva icasticamente Sez. U, Schettino, «l’avvenuta contestazione non può prendere il posto di una statuizione mancante».
Il netto discrimen delineato dalle più recenti Sezioni Unite Schettino tra precedenti penali e recidiva conferma che i primi non possono tener luogo della seconda nella definizione dei requisiti della recidiva reiterata: il “recidivo” di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen. é non il soggetto nei cui confronti è intervenuta semplicemente una sentenza di condanna, ma quello che è stato condannato per un reato rispetto al quale il giudice ha valutato e statuito la sussistenza (dei requisiti non solo formali, ma anche sostanziali) della circostanza aggravante della recidiva.
I precedenti penali, in quanto tali, si caratterizzano per una «statuizione mancante», per riprendere l’espressione di Sez. U, Schettino, sul punto, ossia per la mancanza di una pronuncia sulla recidiva: il che impedisce al giudice del reato per il quale si procede di tenere conto di essi, posto che, come si è visto, la recidiva non è riducibile ai precedenti stessi, ma presuppone quella valutazione sostanziale sulla quale convergono la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità.
4.5. Da ulteriori punti di vista, l’orientamento maggioritario rivela profili di dubbia compatibilità con i prìncipi costituzionali che governano la materia.
4.5.1. Accennando alla disciplina originaria del codice Rocco (supra, § 4.1.), si è richiamata Sez. 5, n. 1192 del 1967, dep. 1968, Di Pierro, cit., che affermò il principio di diritto – del tutto in linea con l’orientamento maggioritario qui disatteso – secondo cui perché possa ritenersi sussistente la recidiva reiterata non occorre una precedente dichiarazione di recidiva, ma basta che l’imputato abbia subìto due o più condanne secondo la previsione dell’art. 99, ultimo comma, cod. pen.
Principio, questo, che era senz’altro coerente con un assetto normativo che attribuiva connotati di ampiamente generalizzata obbligatorietà alla recidiva, sicché l’espressa statuizione di essa nei reati “a monte” di quello in relazione al quale veniva contestata la recidiva reiterata non era decisiva – stante il regime di obbligatorietà – per il riconoscimento di tale figura di recidiva.
Nel prescindere dall’esistenza a carico dell’imputato di una precedente condanna per un reato aggravato dalla recidiva, il primo orientamento opera come se si trovasse al cospetto dell’assetto normativo originario del codice Rocco; in altri termini, tale orientamento sostanzialmente equipara il precedente penale in quanto tale alla condanna per un reato aggravato dalla recidiva, equiparazione che finisce con l’attribuire al reato oggetto della “seconda” sentenza una recidiva che, in quanto non applicata (data la «statuizione mancante» sulla recidiva), sembra dunque, di fatto, considerata obbligatoria.
Il che, all’evidenza, collide con gli approdi della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 185 del 2015, ha dichiarato l’illegittimità della recidiva obbligatoria di cui al quinto comma dell’art. 99 cod. pen.
A fondamento della decisione, la Corte sottolinea che «il rigido automatismo sanzionatorio cui dà luogo la norma censurata – collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso – è del tutto privo di ragionevolezza, perché inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice, prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo».
Equiparando il mero precedente penale alla condanna per un reato aggravato dalla recidiva, il primo orientamento, a ben vedere, fa leva su un «rigido automatismo sanzionatorio» analogo a quello stigmatizzato dal giudice delle leggi.
4.5.2. D’altra parte, l’interpretazione rigorosa dei requisiti della fattispecie di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen., qui caldeggiata, concorre alla salvaguardia di quei princìpi fondamentali per la definizione del volto costituzionale dell’illecito penale – prima di tutto (ma non solo), il principio di offensività – potenzialmente messi a repentaglio dall’«abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato» (Corte cost., sent. n. 251 del 2012).
- Come si è anticipato, la Corte di appello di Ancona ha risposto al motivo dell’appello nell’interesse di Dinca sul punto richiamando l’orientamento maggioritario non condiviso dal Collegio, il che rende ragione della decisività della soluzione della questione in esame.
La rilevanza in sé di tale questione (ulteriormente accentuata dalle molteplici implicazioni correlate ai cc.dd. effetti indiretti della recidiva reiterata), induce il Collegio, visto l’art. 618 cod. proc. pen., a rimettere i ricorsi alle Sezioni unite.