Corte Costituzionale, sentenza 24 ottobre 2022 n. 219
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 81, 97, 114 e 118 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quinta.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– In via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa dello Stato, secondo cui il rimettente non avrebbe esperito il doveroso tentativo di interpretare l’art. 248, comma 4, t.u. enti locali in senso conforme a Costituzione.
Il Consiglio di Stato ha, infatti, espressamente escluso la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, affermando di non poter percorrere l’opzione ermeneutica prospettata dall’ente locale, sugli asseriti effetti estintivi del pagamento integrale della quota capitale da parte dell’OSL. A tale interpretazione, secondo il rimettente, osterebbe non solo il tenore letterale della disposizione, ma anche l’orientamento espresso da questa Corte, e da ultimo con la sentenza n. 269 del 1998, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità avente ad oggetto la medesima norma, contenuta però nella previgente disposizione (art. 81, comma 4, del d.lgs. n. 77 del 1995, come modificato dal d.lgs. n. 336 del 1996). Nel precedente richiamato, questa Corte ha precisato che la norma in questione detta un regime d’inesigibilità (solo) temporanea degli accessori del credito, strumentale alla liquidazione della massa passiva dell’ente locale nell’ambito della procedura di dissesto e destinato a cessare con la chiusura delle attività dell’OSL.
Come questa Corte afferma, con indirizzo ormai costante, «l’effettivo esperimento del tentativo di una interpretazione costituzionalmente orientata – ancorché risolto dal giudice a quo con esito negativo per l’ostacolo ravvisato nella lettera della disposizione denunciata – consente di superare il vaglio di ammissibilità della questione incidentale sollevata. La correttezza o meno dell’esegesi presupposta dal rimettente – e, più in particolare, la superabilità o non superabilità degli ostacoli addotti a un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata – attiene invece al merito, e cioè alla successiva verifica di fondatezza della questione stessa» (da ultimo, sentenza n. 204 del 2021).
3.– Al fine dell’esame del merito, onde valutare le censure formulate in riferimento all’art. 3 Cost., giova premettere l’esame della disciplina sugli accessori del credito nella liquidazione giudiziale dell’impresa privata, che funge da tertium comparationis, e, specificamente, la norma che impone la sospensione del corso degli interessi, contenuta nel comma 1 dell’art. 154 del d.lgs. n. 14 del 2019, ai sensi del quale «[l]a dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale sospende il corso degli interessi convenzionali o legali, agli effetti del concorso, fino alla chiusura della procedura ovvero fino all’archiviazione disposta ai sensi dell’articolo 234, comma 7, a meno che i crediti non siano garantiti da ipoteca, da pegno o privilegio, salvo quanto è disposto dall’articolo 153, comma 3».
Tale disposizione ricalca sostanzialmente la precedente disciplina recata dagli artt. 55, comma 1, e 120 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), prima che il d.lgs. n. 14 del 2019, in attuazione della legge di delega n. 155 del 2017, adottasse una revisione organica e sistematica del regime concorsuale, al fine di dare unitarietà a una materia già oggetto di molteplici interventi legislativi.
In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto la responsabilità del debitore insolvente, tornato in bonis, per gli interessi maturati nel corso della procedura concorsuale, pur essendo tutti i creditori già stati pagati integralmente per capitale e interessi nel corso della procedura (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 12 maggio 2021, n. 12559; sentenze 9 luglio 2020, n. 14527 e 19 giugno 2020, n. 11983), ed ha chiarito che la ratio di tale normativa risiede nel generale principio della responsabilità patrimoniale sancito dall’art. 2740 del codice civile, che si applica anche alle procedure concorsuali.
4.– Tanto premesso e passando all’esame del merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, sollevata in riferimento al principio di eguaglianza, non è fondata.
Il rimettente assume, quale tertium comparationis, l’art. 154 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che prevede la medesima sorte degli accessori del credito stabilita dalla disposizione censurata, consistente nell’asserita ingiustificata equiparazione, sul piano normativo, di situazioni ontologicamente diverse, posto che i comuni non sarebbero omologabili ai privati, essendo enti esponenziali della collettività amministrata.
4.1.– Questa Corte, nell’esaminare la disposizione – contenuta in una fonte previgente a quella oggetto dell’odierno scrutinio – relativa agli interessi sul debito degli enti locali, ha affermato che, in coerenza con le caratteristiche di una procedura concorsuale, la disposizione relativa agli accessori del credito ha la finalità di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettere al pagamento nell’ambito del dissesto dell’ente locale, ma essa «non implica la “estinzione” dei crediti non ammessi o residui, i quali, conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato» (sentenza n. 269 del 1998). Ha altresì precisato, con riferimento al «blocco di rivalutazione ed interessi», in pendenza della procedura concorsuale, che tale meccanismo risulta finalizzato alla realizzazione della par condicio, oltre che a impedire un ulteriore deterioramento della condizione patrimoniale del debitore (sentenza n. 242 del 1994).
In sostanza, l’esigenza che le disposizioni poste a raffronto mirano a soddisfare afferisce specificamente alla condizione dei creditori – tanto dell’ente locale, quanto dell’imprenditore – di essere tutelati in modo analogo, ancorché l’ordinamento preveda misure atte ad assicurare la continuità delle funzioni dell’ente locale oltre il dissesto.
Emblematico, in proposito, è il disposto dell’art. 256, comma 12, t.u. enti locali, che prevede specificamente per l’ente locale in dissesto – in caso di incapienza della massa attiva, tale da comprometterne il risanamento – la possibilità per il Ministro dell’interno di stabilire misure straordinarie per il pagamento integrale della massa passiva della liquidazione, anche in deroga alle norme vigenti, senza oneri a carico dello Stato.
5.– Parimenti non è fondata la censura formulata in riferimento al principio di ragionevolezza.
L’assunto del giudice rimettente, secondo cui la vigente disciplina sugli accessori del credito attribuirebbe ai creditori degli enti locali in dissesto una tutela eccessiva a scapito della collettività di cui l’ente locale è esponenziale, non tiene conto del fatto che la disciplina sul dissesto (artt. 244 e seguenti t.u. enti locali) contiene una serie di misure volte a consentire, da un lato, che l’OSL gestisca il passivo pregresso (a tutela della massa dei creditori) e, dall’altro lato, che il comune continui a esistere e operare (in quanto ente necessario), con un bilancio autonomo e distinto da quello dell’OSL, finalizzato non solo a gestire gli affari correnti, connessi soprattutto ai servizi essenziali, ma pure ad accantonare risorse per il pagamento di eventuali debiti o accessori che dovessero generarsi in pendenza della gestione liquidatoria.
Le attuali norme sul dissesto sono dunque espressive di un bilanciamento non irragionevole tra l’esigenza, che è alla base della sicurezza dei traffici commerciali, che si correla all’art. 41 Cost., di tutelare i creditori e l’esigenza di ripristinare sia la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni, sia i servizi indispensabili per la comunità locale.
Benché, dunque, con la separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, il dissesto abbia assunto una fisionomia che lo avvicina al fallimento dell’impresa, la normativa, complessivamente considerata, include anche dei correttivi, a tutela sia dell’ente locale – che deve continuare a esistere – sia dei creditori, che possono contare sul contributo a carico dello Stato (in tal senso, anche Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 12 gennaio 2022, n. 1).
6.– Prive di fondamento sono anche le censure formulate in riferimento agli artt. 5, 81, 97, primo e secondo comma, 114 e 118 Cost.
Secondo il rimettente, la disposizione denunciata sarebbe idonea a innescare una serie di dissesti “a catena”, così da compromettere irrimediabilmente il raggiungimento dell’equilibrio di bilancio e della piena funzionalità dell’ente locale, ponendosi in contrasto con il ruolo assegnato al comune dalla Costituzione.
Tale valutazione non è condivisibile.
Deve invero osservarsi che la particolare fattispecie da cui origina il giudizio a quo riguarda un Comune di piccole dimensioni, che aveva però generato un debito ingente. Il dissesto “a catena”, che il rimettente imputa all’art. 248, comma 4, t.u. enti locali, non è la conseguenza diretta della norma, ma è attribuibile piuttosto a scelte amministrative dell’ente, il quale – nella pendenza della procedura di dissesto – avrebbe dovuto apprestare misure, anche contabili, idonee a garantire il più rapido ripristino dell’equilibrio finanziario (artt. 259 e seguenti t.u. enti locali).
In proposito, questa Corte ha già ribadito che il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione rappresenta un «“obiettivo prioritario […] non solo per la critica situazione economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate tempestivamente” (sentenza n. 250 del 2013)» (sentenza n. 78 del 2020).
Nel caso oggetto del giudizio a quo, ad esempio, la possibile nuova dichiarazione di dissesto a cui – si assume – sarebbe esposto il Comune di Santa Venerina non è dunque imputabile alla norma censurata, ma rappresenta piuttosto un inconveniente di fatto, inidoneo, da solo, a fondare un profilo di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 220 del 2021, n. 115 del 2019, n. 225 del 2018).
Peraltro, come questa Corte ha già chiarito, il quadro normativo e quello costituzionale vigenti consentono di affrontare le situazioni patologiche della finanza locale, sia quando queste siano imputabili a caratteristiche socio-economiche della collettività e del territorio, mediante l’attivazione dei meccanismi di solidarietà previsti dall’art. 119, terzo e quinto comma, Cost. (quindi, in ipotesi di deficit strutturali); sia quando le disfunzioni sono dovute a patologie organizzative, per il rilievo e contrasto delle quali il decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213, ha previsto strumenti puntuali e coordinati per prevenire situazioni di degrado progressivo nella finanza locale (sentenza n. 115 del 2020).
Seppur con riferimento a leggi regionali, questa Corte ha altresì ribadito che le norme che comportino spese, quando non siano connesse a prestazioni riconducibili a diritti fondamentali, sono assoggettate al «principio della sostenibilità economica» (ex multis, sentenze n. 190 del 2022, n. 62 del 2020 e, nello stesso senso, n. 227 del 2019). In altri termini, un comune, nell’assumere un impegno di spesa pluridecennale, dovrebbe prestare idonea considerazione alla relativa sostenibilità finanziaria, con l’indicazione delle risorse effettivamente disponibili, con studi di fattibilità di natura tecnica e finanziaria e con l’articolazione delle singole coperture finanziarie (sentenza n. 227 del 2019), a presidio della sana gestione finanziaria.
Deve tuttavia osservarsi che, nel caso oggi all’esame di questa Corte, il profilo dell’esposizione debitoria per interessi passivi per ritardati pagamenti assume particolare rilievo, anche «in considerazione […] del loro specifico e oneroso criterio di calcolo, [che] riduce le effettive risorse da destinare alle finalità istituzionali» (sentenza n. 78 del 2020).
7.– Il tema dell’imputabilità all’ente risanato dei debiti non soddisfatti dall’OSL è stato peraltro segnalato di recente dall’Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli enti locali istituito presso il Ministero dell’interno («Criticità finanziarie degli enti locali. Cause e spunti di riflessione per una riforma delle procedure di prevenzione e risanamento», pubblicato il 12 luglio 2019), il quale, nel valutare gli strumenti posti in essere dal legislatore per fronteggiare le situazioni di crisi degli enti locali – segnatamente, il dissesto, il dissesto guidato e la procedura di riequilibrio finanziario – ne ha messo in luce gli aspetti problematici, riferiti in particolare alla facoltà concessa ai creditori di rifiutare la proposta transattiva formulata dall’OSL, ovvero di chiedere all’ente tornato in bonis eventuali interessi maturati nel corso della procedura.
In questa prospettiva, il legislatore, nell’apprestarsi a riformare la normativa sulla crisi finanziaria degli enti locali, potrà prestare adeguata attenzione alle diverse esigenze che si contrappongono.