Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 15 novembre 2022, n. 33645
PRINCIPI DI DIRITTO
Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta.
Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato.
Nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2909 cod. civ., 324 e 384, comma 2, cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la sentenza della Corte di Cassazione aveva delegato alla Corte d’appello la sola quantificazione del risarcimento del danno e non la decisione sul fondamento della stessa domanda, su cui vi era il giudicato interno.
1.1. Il motivo è infondato. Il ricorso incidentale accolto aveva per oggetto la denuncia del mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno sia perché dell’occupazione delle aree di proprietà sarebbero stati partecipi anche tutti i frequentatori del comprensorio, sia perché la domanda avrebbe dovuto essere proposta nei confronti dei singoli proprietari effettivamente fruenti degli spazi oggetto di revindica. Il ricorso è stato accolto con la motivazione che «appare contraddittorio ordinare – come ha deciso la corte distrettuale – al condominio il rilascio dei beni – presupponendo dunque che la disponibilità delle aree in questione sarebbe stata sottratta all’uso della proprietaria SI.A.MED. e sottoposta a contestazioni, quanto alla titolarità, con varie iniziative giudiziarie, dal medesimo condominio – ed allo stesso tempo negare la tutela risarcitoria che tali condotte dell’ente di gestione avrebbero comportato».
Come risulta evidente, precisa la Corte, la statuizione di annullamento della sentenza di appello è limitata ai confini soggettivi del rapporto dedotto in giudizio, senza che possa evincersi alcun giudicato interno sull’esistenza del fatto costitutivo dell’invocato risarcimento del danno.
- Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che nel caso dioccupazione illegittima di immobileè sufficiente, ai fini risarcitori, trattandosi di danno in re ipsa, allegare l’idoneità dell’immobile a produrre reddito e l’intenzione del proprietario di godere del bene o di impiegarlo per finalità redditizie e che la società aveva assolto i propri oneri, dichiarando di non poter disporre delle aree, di subire un danno economico per la mancata disponibilità, ed in particolare precisando che prima di aver subito lo spoglio aveva intenzione di vendere trentatré parcheggi già individuati e frazionati. Aggiunge che il fatto che le aree non potevano essere vendute costituiva l’esemplificazione in domanda dei pregiudizi, ma ciò che è stato dedotto è la mancata disponibilità ed il pregiudizio derivante dal fatto che le aree erano destinate ad essere utilizzate e vendute come parcheggi. Osserva ancora che il valore locatizio deve essere riconosciuto non perché il bene sarebbe stato concesso in locazione, ma, quale criterio equitativo, per l’attitudine fruttifera del bene.
- Con il terzo motivo, prosegue la Corte, si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 113 e 115 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che, come affermato nella comparsa conclusionale di primo grado, il mancato guadagno può essere ricavato dalla mancata disponibilità, e pertanto dai mancati frutti, dei corrispettivi che sarebbero stati ricavati dalla vendita dei parcheggi e dunque come minimo dagli interessi applicati a tali corrispettivi, e che la corte territoriale non ha quindi preso in considerazione la domanda realmente formulata. Aggiunge che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice ha il potere-dovere di accertare il contenuto sostanziale della pretesa e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata.
- Il secondo e il terzo motivo, da trattare congiuntamente, sono fondati per quanto di ragione.
Il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni Unite per l’esame di tali motivi poiché essi pongono la questione se il danno da occupazione sine titulo di immobile costituisca danno in re ipsa. Richiamando l’ordinanza n. 1162 del 17 gennaio 2022 della Terza Sezione Civile, di analoga rimessione del relativo ricorso per l’assegnazione alle Sezioni Unite, l’ordinanza interlocutoria pone la questione se la compressione della facoltà di godimento diretto del bene, costituente il contenuto del diritto di proprietà, debba considerarsi quale danno patrimoniale da risarcire ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 cod. civ.
Osserva l’ordinanza che l’impedimento a ricavare dal bene abusivamente occupato l’utilità diretta che esso offre non dovrebbe richiedere alcuna prova ulteriore rispetto a quella del fatto generatore del danno, potendo il godimento diretto esaurirsi anche in una fruizione meramente saltuaria o occasionale o anche nella utilitas derivante dalla mera potenzialità di una fruizione (anche una fruizione in potenza è idonea a costituire una posta attiva del patrimonio del proprietario). Precisa l’ordinanza che il valore d’uso che si può ritrarre dal godimento diretto del bene, o il valore di scambio che può ricavarsi dalla cessione di tale godimento a terzi, costituiscono di per sé un valore attivo del patrimonio di chi ha diritto di disporre del bene, integrando la titolarità attiva di un rapporto personale o reale di godimento una componente economicamente valutabile del patrimonio del titolare, e che il risarcimento della perdita della disponibilità temporanea del bene, liquidabile eventualmente in via equitativa, spetta (anche) nei casi in cui non sia provato in qual modo il titolare avrebbe usato di tale disponibilità.
Aggiunge che la prova del danno conseguenza (l’impedimento al godimento del fondo) si esaurisce in quella del fatto generatore del danno (l’occupazione del fondo), per cui nel caso della perdita del godimento del bene la prova del danno emergente è in re ipsa, da liquidare sulla base della durata dell’occupazione, provata dal proprietario, e se del caso mediante il valore locativo di mercato quale tecnica, fra le varie possibili, di liquidazione equitativa. Osserva infine che, ove il proprietario agisca per il danno da mancato guadagno, deve invece offrire la prova specifica delle occasioni di guadagno perse, anche mediante il ricorso a presunzioni semplici o al fatto notorio.
4.1. Ai fini dell’esatta delimitazione della questione su cui sono chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite, deve essere richiamata l’ordinanza interlocutoria n. 1162 del 2022 della Terza Sezione Civile. Premette tale ordinanza che l’indirizzo assunto dalla decisione, impugnata con il ricorso proposto in quel processo, non è pacifico, atteso che secondo altro indirizzo, una volta soppresse le facoltà di godimento e disponibilità del bene per effetto dell’occupazione abusiva, ricorre una praesumptio hominis di danno risarcibile (cioè in re ipsa), corrispondente al danno figurativo rappresentato dal valore locativo del cespite abusivamente occupato, superabile solo con la prova che il proprietario, anche se non spogliato, non avrebbe in alcun modo utilizzato l’immobile.
Osserva quindi che la corte territoriale ha seguito l’orientamento secondo cui il danno in re ipsa, giungendo ad identificare il danno con l’evento dannoso, configura un danno punitivo senza alcun riconoscimento legislativo (in contrasto con Cass. Sez. U. n. 16601 del 2017), perché il soggetto leso potrebbe ottenere un risarcimento anche quando in concreto non abbia subito alcun pregiudizio, laddove invece ciò che rileva a fini risarcitori è il danno-conseguenza, per cui il danno da occupazione sine titulo può essere dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma tale alleggerimento dell’onere probatorio non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto.
Precisa l’ordinanza interlocutoria che tale indirizzo si colloca all’interno di una tendenza giurisprudenziale propensa a ricusare ogni forma di danno figurativo e astratto, pur ammettendone la prova per presunzioni, per una serie di fattispecie (ad esempio, seguendo Cass. n. 29982 del 2020, non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy determina, ai fini del danno non patrimoniale risarcibile, una lesione ingiustificabile del diritto, ma solo quella che offenda in modo sensibile la portata effettiva del diritto alla riservatezza). Osserva infine che in tema di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001, come affermato da Cass. Sez. U. n. 20691 del 2021, fermo restando l’indennizzo previsto dalla legge nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all’attualità, è onere del proprietario provare il danno ulteriore, ed in particolare di avere perduto occasioni particolari di profitto.
4.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione della configurabilità del c.d. danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno, bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che un danno in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni.
La problematica del danno in re ipsa, precisa la Corte, emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo diritto. Si tratta pertanto del danno da perdita subita (del godimento).
La vendita del bene, quale forma precipua di occasione di guadagno che sarebbe stata persa per l’occupazione sine titulo, è da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 cod. civ., ma alla titolarità del diritto ed è espressione della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali. La compravendita immobiliare è manifestazione della titolarità del diritto al pari della cessione del credito. Non vi è stata quindi, a seguito dell’illegittima occupazione, una compressione del contenuto del diritto di proprietà, ma il mancato compimento di un atto che il proprietario avrebbe compiuto quale titolare del diritto, se l’occupazione non vi fosse stata, e di cui, anche in via presuntiva, deve essere fornita la prova se viene chiesto il risarcimento per il relativo mancato utile.
Per la verità, soggiunge la Corte, vi è un indirizzo secondo cui avrebbe natura in re ipsa il danno da incommerciabilità dell’immobile che il promittente venditore avrebbe patito a seguito dell’inadempimento del contratto preliminare di compravendita da parte del promissario acquirente (Cass. 31 maggio 2017, n. 13792; 10 marzo 2016, n. 4713; 5 novembre 2001, n. 13630), ma qui può ritenersi operante la presunzione basata sul fatto noto che il proprietario ha posto in vendita l’immobile per cui, se non si fosse impegnato con il convenuto, lo avrebbe venduto ad altri.
Sempre allo scopo di delimitare il campo d’indagine, la mancata stipulazione di locazione è suscettibile di costituire un mancato guadagno se il proprietario dimostra che il contratto sarebbe stato concluso con la previsione di un canone superiore a quello di mercato. La mancata stipulazione di una locazione, quale forma di godimento indiretto del bene mediante i frutti civili che da esso possono ritrarsi (art. 820, comma 3, cod. civ.), è ascrivibile all’area del danno emergente perché pur sempre inerente al diritto di godere. La rilevanza del corrispettivo della locazione, ai fini della liquidazione equitativa del danno derivante dall’impedito godimento del bene, discende proprio dal costituire l’equivalente economico del godimento ceduto nell’ambito del rapporto obbligatorio.
Il canone di locazione, osserva la Corte, è parametro privilegiato per la liquidazione del danno ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. proprio perché costituente il corrispettivo in un contratto che ha per oggetto il godimento dell’immobile. Dunque il godimento ha un valore economico e esso, nell’ambito di una valutazione equitativa del danno, può essere il medesimo sia se il godimento è diretto, sia se è indiretto mediante la percezione dei frutti civili per il godimento che altri abbia della cosa. Ecco perché la mancata locazione, quale spoliazione della facoltà di godimento indiretto, rientra nell’area della perdita subita e, per tale via, nella problematica del danno in re ipsa.
Ove si ritenga che il danno sussista per la violazione in sé del diritto di godere, il risarcimento spetta, con l’eventuale liquidazione equitativa parametrata sul canone locativo di mercato, a prescindere che si denunci il mancato esercizio della facoltà di godere in modo diretto o in modo indiretto. Rientra invece nel mancato guadagno, e non può quindi in thesi costituire danno in re ipsa, la locazione per un canone superiore a quello di mercato: tale occasione persa, al pari della mancata alienazione del diritto per un prezzo maggiore di quello di mercato, deve essere oggetto di prova specifica, anche in via presuntiva.
Infine, quale ultimo tassello dell’area coperta dalla problematica del danno in re ipsa, vi è il diritto «di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo» (art. 832 cod. civ.). Tradizionalmente tale facoltà è stata ricondotta allo jus vendendi, ma, come si è visto, l’alienazione del diritto è piuttosto espressione della titolarità, la quale è comune a tutti i diritti patrimoniali. La migliore dottrina ha invece ricondotto il diritto di disporre al diritto di scegliere le possibili destinazioni del bene e di modificarne l’organizzazione produttiva, definendolo il profilo più intenso del diritto di godere, che potrebbe rinvenire un proprio ascendente nell’antica locuzione latina “jus utendi et abutendi”. Il rilievo trova conferma nelle caratteristiche del diritto di disporre che, al pari di quello di godere, deve esercitarsi «in modo pieno ed esclusivo». Così inteso, il diritto di disporre del bene inerisce all’area della perdita subita e dunque alla problematica del danno in re ipsa.
4.3. Quanto appena precisato attiene all’occupazione abusiva caratterizzata dall’originario difetto di titolo e che è soggetta al regime della responsabilità di cui all’art. 2043 cod. civ.. Nel caso di sopravvenuto venir meno del titolo, che ab origine giustificava l’occupazione dell’immobile, viene in rilievo la disciplina delle fattispecie di estinzione del rapporto contrattuale. L’art. 1591 cod. civ. in particolare, per ciò che concerne la locazione, prevede per la protrazione del godimento da parte del conduttore, a scapito di quello del proprietario, l’obbligo del pagamento del corrispettivo fino alla riconsegna, salvo il risarcimento del danno, nel quale confluiscono le ipotesi di mancato guadagno (occasioni perse di vendita o di locazione a condizione economiche più favorevoli), ma con il regime della responsabilità previsto dall’art. 1218.
E’ appena il caso di aggiungere che estraneo all’occupazione sine titulo è anche il paradigma dell’arricchimento senza causa (art. 2041), nel quale l’assenza di giusta causa dello spostamento patrimoniale non riveste il carattere dell’antigiuridicità, mentre la diminuzione patrimoniale che qui si fa valere corrisponde a un danno per la presenza di un fatto illecito.
4.4. Le due ordinanze interlocutorie esprimono una divergenza reale che non può essere ricomposta con l’artificio logico secondo cui danno in re ipsa significherebbe in realtà prova in re ipsa, per cui non si tratterebbe altro che di una forma di presunzione ricavata dai fatti noti della condotta non iure dell’occupante e della tipologia del bene destinato ad impiego fruttifero (così Cass. 27 giugno 2016, n. 13224; 21 agosto 2018, n. 20859). In questo quadro, si è inteso ravvisare l’esistenza di un contrasto più apparente che reale, relativo all’utilizzo di formule e non alla sostanza della questione giuridica (Cass. 5 ottobre 2020, n. 21272; 6 ottobre 2021, n. 27126). L’ordinanza n. 3946 del 2022 ha il merito di focalizzare il cuore di un dissenso, che invece è reale e non apparente (rileva, ad esempio, la realtà del contrasto Cass. 7 gennaio 2021, n. 39).
La tesi del danno in re ipsa, osserva la Corte, è debitrice della concezione normativa, elaborata dalla dottrina tedesca, secondo cui l’oggetto del danno coincide con il contenuto del diritto violato, da cui l’esistenza del pregiudizio per il sol fatto della violazione del diritto medesimo. Il danno è in re ipsa perché appunto immanente alla violazione del diritto.
I diritti reali, in quanto diritti su cose, hanno la caratteristica della dissociazione fra contenuto del diritto ed oggetto del diritto (la stessa rubrica dell’art. 832 è nel senso del «contenuto del diritto»). La situazione antigiuridica emerge perciò non solo con riferimento al danno alla cosa, ma anche quando è leso il contenuto del diritto, circostanza quest’ultima che comporterebbe di per sé un danno risarcibile. E’ questa la teorica che fa da sfondo alla giurisprudenza, soprattutto della Seconda Sezione Civile, favorevole al danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di immobile.
Il carattere in re ipsa del danno viene fatto discendere dalla natura fruttifera del bene (Cass. 25 maggio 2022, n. 6359; 31 luglio 2019, n. 20708; 6 agosto 2018, n. 20545; 28 agosto 2018, n. 21239; 17 novembre 2011, 24100; 10 febbraio 2011, n. 3223; 11 febbraio 2008, n. 3251). Pure nel caso di preclusione dell’uso, anche solo potenziale, della res da parte del comproprietario ad opera di altro comproprietario si parla di danno in re ipsa, liquidabile in base ai frutti civili ritraibili dal bene (Cass. 28 settembre 2016, n. 19215; 12 maggio 2010, n. 11486; 30 ottobre 2009, n. 23065).
Sempre secondo la giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, è data però al convenuto la possibilità di fornire la prova contraria del danno in re ipsa allegato, dimostrando che il proprietario si è intenzionalmente disinteressato dell’immobile (Cass. 22 aprile 2022, n. 12865; 15 febbraio 2022, n. 4936; 31 gennaio 2018, n. 2364; 9 agosto 2016, n. 16670; 15 ottobre 2015, n. 20823; 7 agosto 2012, n. 14222). In questo quadro è stato precisato che non può sostenersi che si tratti di un danno la cui sussistenza sia irrefutabile, posto che la locuzione “danno in re ipsa” rinvia «all’indisponibilità del bene fruttifero secondo criteri di normalità, i quali onerano l’occupante alla prova dell’anomala infruttuosità di uno specifico immobile» (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39).
A questo proposito deve darsi atto che nella stessa Seconda Sezione Civile è emerso un più recente orientamento secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno normale” o “danno presunto”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022, n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865).
L’orientamento della Terza Sezione Civile è invece ispirato dalla teoria causale del danno, secondo cui il pregiudizio risarcibile non è dato dalla lesione della situazione giuridica, ma dal danno conseguenza derivato dall’evento di danno corrispondente alla detta lesione. L’art. 1223 cod. civ., cui rinvia l’art. 2056, attiene al danno conseguenza per il quale rileva il nesso di causalità giuridica fra l’evento di danno e le conseguenze pregiudizievoli meritevoli di risarcimento, mentre altro profilo eziologico è quello che connota la causalità materiale fra la condotta (lesiva) ed il danno evento.
Sulla base di questa premessa, chiosa ancora la Corte, si è consolidato un indirizzo secondo cui il danno conseguente all’impossessamento sine titulo, in quanto danno conseguenza, deve essere allegato e provato, anche a mezzo di presunzioni, per essere risarcito e non può essere confuso con l’evento di danno rappresentato dalla mancata disponibilità dell’immobile a causa dell’abusiva occupazione (Cass. 6 ottobre 2021, n. 27126; 29 settembre 2021, n. 26331; 25 maggio 2021, n. 14268; 16 marzo 2021, n. 7280; 24 aprile 2019, n. 11203; 4 dicembre 2018, n. 31233; 25 maggio 2018, n. 13071; 27 luglio 2015, n. 15757; 17 giugno 2013, n. 15111; 11 gennaio 2005, n. 378).
Richiamando un passaggio motivazionale di Cass. Sez. U. 11 novembre 2008, n. 26972, secondo cui il danno in re ipsa (nella specie riferito al danno non patrimoniale) «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo», Cass. n. 13071 del 2018 ha rimarcato come il riconoscimento di un danno in re ipsa nel caso di occupazione sine titulo dell’immobile avrebbe la valenza di danno punitivo fuori delle condizioni previste da Cass. Sez. U. 5 luglio 2017, n. 16601, che ritiene compatibile un tale figura con l’ordinamento giuridico a condizione che vi sia una previsione normativa in tal senso, in ossequio all’art. 23 Cost..
Sulla stessa lunghezza d’onda, Cass. n. 31233 del 2018 ha precisato che il danno evento rappresentato dalla mancata disponibilità dell’immobile non è idoneo ad integrare il fatto noto della presunzione, di cui all’art. 2729 cod. civ., che dovrebbe condurre alla prova del danno conseguenza, dovendo piuttosto quest’ultimo essere inferito da circostanze di fatto allegate e in grado dimostrare il nesso di causalità giuridica fra il danno evento ed il pregiudizio derivatone.
4.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria.
Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022, n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito.
La linea da perseguire è infatti, secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione, l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta la distinzione fra le due forme di tutela.
La distinzione fra azione reale e azione risarcitoria è il riflesso processuale di quella sostanziale fra regole di proprietà (property rules) e regole di responsabilità (liability rules).
La tutela reale è orientata al futuro e mira al ripristino dell’ordine formale violato mediante l’accertamento dello stato di diritto e la rimozione dello stato di fatto contrario al diritto soggettivo, a parte la tutela inibitoria come negli artt. 844 e 1171 cod. civ.. L’azione di rivendicazione esperita nei confronti dell’occupante sine titulo ripristina sul piano astratto la situazione giuridica violata e rimuove l’impedimento all’esercizio del diritto mediante la riduzione nel pristino stato. Rientra nell’azione reale anche la tutela indennitaria prevista da disposizioni quali l’art. 948, comma 1, cod. civ., con riferimento al valore della cosa in caso di mancato recupero della stessa, o l’art. 938 cod. civ., con riferimento al doppio del valore della porzione di fondo attiguo occupato, come è reso evidente dal fatto che tali disposizioni fanno salvo, quale rimedio distinto, il risarcimento del danno, e dunque costituiscono pur sempre applicazione delle regole di proprietà e non di quelle di responsabilità.
L’azione risarcitoria è invece orientata al passato e costituisce il rimedio per la perdita subita a causa della violazione del diritto. Essa costituisce la misura riparatoria per la concreta lesione del bene della vita verificatasi in conseguenza della condotta abusiva dei terzi. Mentre la tutela reale costituisce il rimedio per l’alterazione dell’ordinamento formale, la tutela risarcitoria è compensativa del bene della vita perduto, secondo le modalità del danno emergente se la perdita patrimoniale (o non patrimoniale) è in uscita, del lucro cessante se la perdita è in entrata.
La distinzione fra le due forme di tutela comporta che il fatto costitutivo dell’azione risarcitoria non possa coincidere senza residui con quello dell’azione di rivendicazione ma debba contenere l’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile. Ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica.
4.6. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica, precisa la Corte, è un’acquisizione risalente della giurisprudenza di questa Corte. Sul punto vanno richiamati gli arresti delle Sezioni Unite. Sia Cass. Sez. U. 11 gennaio 2008, n. 576, che Cass. Sez. U. 11 novembre 2008, n. 26972, entrambe muovendo dall’ipotesi del danno non patrimoniale, hanno differenziato nell’ambito dell’illecito aquiliano la causalità materiale, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento (dommage o damnum) ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056, la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza (préjudice o praeiudicium), costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria.
Già prima delle richiamate pronunce delle Sezioni Unite vi erano state Cass. 16 ottobre 2007 n. 21619, le sentenze gemelle Cass. n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, Cass. 24 ottobre 2003, n. 16004, tutte quante rese sempre in materia di danno non patrimoniale, e ancora prima Cass. 15 ottobre 1999, n. 11629. Anche nella giurisprudenza costituzionale, secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986 n. 184 a Corte cost. 27 ottobre 1994 n. 372, è emersa la distinzione fra danno evento e danno conseguenza. La distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è stata da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205.
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che «se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria» (Cass. Sez. U. n. 576 del 2008), così temperando l’originario rigorismo della tesi della causalità giuridica presente nella dottrina che la introdusse. Secondo questa dottrina la fattispecie della responsabilità risarcitoria si perfeziona con la verificazione del fatto, comprensivo dell’azione e dell’evento, mentre la causalità giuridica interviene solo in funzione selettiva del danno risarcibile all’esito di una responsabilità già accertata.
Una simile visione resta nell’alveo della prospettiva pan-penalistica dell’atto antigiuridico (non iure, nel senso di comportamento non giustificato dal diritto), mentre il punto di vista della moderna responsabilità civile, improntata al principio di solidarietà (art. 2 Cost.), è quello dell’allocazione del danno contra ius (“ingiusto”, secondo la qualifica dell’art. 2043).
Al rigorismo dell’originaria tesi dottrinale va obiettato che in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 cod. civ. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare perché non vi è danno da risarcire. La fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza: ciò vuol dire che la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056. Diversamente da quanto pur affermato in dottrina, il «danno» di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 non è altra cosa dal «danno ingiusto» di cui si parla nella prima parte: se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto.
Causalità materiale e causalità giuridica, osserva la Corte, non sono così le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto (di «profili diversi» dell’unico danno già discorreva Cass. sez. U. n. 576 del 2008, punto n. 5.1.), il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta. Cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale: la distinzione è logica, non cronologica.
Il danno conseguenza assume rilevanza giuridica non per la mera differenza patrimoniale fra il prima e il dopo dell’evento dannoso, ma solo in quanto cagionato da un evento lesivo di un interesse meritevole di tutela ad un determinato bene della vita, secondo la fondamentale definizione contenuta in Cass. Sez. U. 22 luglio 1999, n. 500; reciprocamente, l’evento di danno è giuridicamente rilevante solo se produttivo del danno conseguenza quale concreto pregiudizio al bene della vita. La nozione di danno ingiusto di cui all’art. 2043 cod. civ. rappresenta la sintesi di questi due reciproci vettori.
4.7. Così precisati i termini della distinzione fra evento di danno e danno conseguenza, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno, e chiarita la necessità dell’elemento costitutivo ulteriore nella causa petendi della domanda risarcitoria rispetto a quella della domanda di rivendicazione, deve ora essere definito il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà.
Che la violazione dell’ordine giuridico sia suscettibile di tutela non solo reale, ma anche risarcitoria, trova riscontro nel fatto che il diritto soggettivo appartiene al novero delle situazioni giuridiche mezzo, nelle quali il potere giuridico di cui è investito il soggetto rappresenta lo strumento, a sua disposizione, per la soddisfazione dell’interesse ad un determinato bene della vita. La violazione del diritto può così comportare la lesione dell’interesse al bene della vita, che di quel diritto costituisce il substrato materiale e l’elemento teleologico, e configurare dunque l’illecito aquiliano. Ai fini della definizione del danno risarcibile da violazione dell’ordine giuridico, deve muoversi dalla distinzione fra la lesione del bene costituente l’oggetto del diritto di proprietà e la lesione del contenuto stesso del diritto.
Quando l’azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l’evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell’ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso. E’ quanto accade ad esempio nel caso del danno da c.d. fermo tecnico di veicolo incidentato, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (si vedano Cass. 14 ottobre 2015, n. 20620 e le altre conformi fino alla recente Cass. 19 settembre 2022, n. 27389).
Quando l’azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà (“il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell’ordine giuridico. L’ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell’ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso. Questa tutela può eventualmente concorrere con la misura restitutoria del bene, di cui è pure espressione la fattispecie di cui all’art. 1148 cod. civ., la quale disciplina con riferimento ai frutti naturali separati e ai frutti civili maturati le conseguenze della restituzione della cosa da parte del possessore (nella specie di mala fede o comunque nello stato soggettivo di cui all’art. 1147, comma 2, cod. civ.) convenuto dal proprietario in sede di rivendicazione. Sia la cosa (art. 810 cod. civ.), che i frutti (art. 820 cod. civ.), appartengono alla disciplina dei beni e perciò restano nell’alveo dell’azione di rivendicazione sotto il profilo degli effetti restitutori.
La domanda risarcitoria, precisa la Corte, presuppone che, per la presenza di un danno risarcibile, l’azione lesiva del contenuto del diritto di proprietà sia valutabile non solo come violazione dell’ordine formale, ma anche come evento di danno. In quest’ultimo caso il nesso di causalità materiale si stabilisce fra l’occupazione senza titolo dell’immobile e direttamente la lesione del diritto di proprietà, senza passare per l’intermediazione del pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà. L’evento di danno riguarda non la cosa, ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa.
Il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva, del “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”.
Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire. Saldando il danno suscettibile di risarcimento alla concreta possibilità di godimento persa, per un verso si rende risarcibile il contenuto del diritto violato, in ossequio alla teoria normativa del danno, per l’altro si riconduce la violazione giuridica a una specifica perdita subita, in ossequio alla teoria causale.
Il riferimento alla specifica circostanza di godimento perso stabilisce la discontinuità fra il fatto costitutivo dell’azione di rivendicazione e quello dell’azione risarcitoria, preservando la distinzione fra la tutela reale e quella risarcitoria. Diversamente si avrebbe l’inaccettabile conseguenza non del danno punitivo, come pure affermato dalla giurisprudenza della Terza Sezione Civile, ma del danno irrefutabile che non ammette prova contraria. Affinché si abbia un danno punitivo è necessario un quid ulteriore che colleghi la riparazione della perdita subita alla riprorevolezza della condotta del danneggiante, con un’amplificazione della componente riparatoria in misura proporzionale al grado della colpa o all’intensità del dolo del danneggiante (mediante il cumulo di compensatory damage e punitive damage), e tale non può dirsi che sia l’esito della tesi del danno in re ipsa. Viceversa, se la causa petendi dell’azione risarcitoria viene fatta coincidere senza residui con quella dell’azione risarcitoria, il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria.
4.8. Non è invece richiesta l’allegazione della concreta possibilità di godimento persa nell’ipotesi dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie retta da criteri del tutto differenti rispetto alla comune occupazione abusiva. L’art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 prevede che, in caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e di successivo provvedimento di acquisizione, sia corrisposto al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene. L’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’articolo 37 del medesimo d.P.R. n. 327. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore del bene come appena determinato.
Anche nel caso di mancanza di formale acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis, o di procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione, è configurabile per la giurisprudenza un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, abitualmente determinato in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (fra le tante Cass. 20 novembre 2018, n. 29990; 6 agosto 2018, n. 20545; 4 marzo 2005, n. 4797; 27 agosto 2004, n. 17142).
La determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite – per il proprietario ad esempio la perdita di occasioni particolari di profitto), costituisce una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione. Si tratta di una valutazione, come anche quella del diritto vivente appena richiamato, tipizzata di pregiudizio al bene della vita, il cui presupposto di fatto è l’esplicazione del rapporto fra privato e pubblica amministrazione, istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere, secondo modalità ablatorie non rispettose della legge. Come spiega Cass. Sez. U. 20 luglio 2021, n. 20691, «nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge».
4.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile, chiosa ancora la Corte, è al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento. E’ pur vero che a fondamento dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà vi è la circostanza che fra le facoltà riconosciute al proprietario vi è anche quella del non uso, ma l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato. Alla reintegrazione formale del diritto violato, anche nella sua esplicazione di non uso, provvede la tutela reale e non quella risarcitoria. Come si è chiarito al punto 4.2., la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri, che è poi l’oggetto vero del contrasto giurisprudenziale da risolvere, e non alla vendita, per la quale, corrispondendo il relativo danno alla differenza fra il prezzo di mercato e quello maggiore che si sarebbe potuto ricavare dall’atto dispositivo mancato, non può che parlarsi di mancato guadagno.
L’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito. Al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento. La contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, cod. proc. civ.. In presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, cod. proc. civ.) o mediante presunzioni semplici. Nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa.
Sia nel caso di godimento diretto, che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa.
Se la domanda risarcitoria, precisa la Corte, ha ad oggetto il mancato guadagno causato dall’occupazione abusiva, l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi, fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato (una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, il corrispettivo di una locazione ai correnti valori di mercato rientra, come si è visto, nelle perdite subite).
Ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici. In generale, in relazione al mancato guadagno può rinviarsi alla costante giurisprudenza in materia di maggior danno ai sensi dell’art. 1591 cod. civ. (fra le tante Cass. 3 febbraio 2011, n. 2552; 26 novembre 2007, n. 24614; 27 marzo 2007, n. 7499; 13 luglio 2005, n. 14753; 23 maggio 2002, n. 7546). Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n. 14652; 13 febbraio 2013, n. 3576).
Poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno.
Si chiarisce così la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva.
4.10. Vanno in conclusione enunciati i seguenti principi di diritto:
– “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
– “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
– “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato”.
4.11. Tornando ai motivi di ricorso, osserva la parte ricorrente nel secondo motivo che il fatto che le aree non potevano essere vendute costituiva l’esemplificazione in domanda dei pregiudizi, ma ciò che è stato dedotto è la mancata disponibilità ed il pregiudizio derivante dal fatto che le aree erano destinate ad essere utilizzate e vendute come parcheggi. Aggiunge poi nel terzo motivo che, come affermato nella comparsa conclusionale di primo grado, il mancato guadagno può essere ricavato dalla mancata disponibilità, e pertanto dai mancati frutti, dei corrispettivi che sarebbero stati ricavati dalla vendita dei parcheggi e dunque come minimo dagli interessi applicati a tali corrispettivi, e che la corte territoriale non ha quindi preso in considerazione la domanda realmente formulata. Ciò che in tal modo la parte ricorrente sta denunciando è la violazione del principio di integralità del risarcimento.
L’unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell’ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta: ne consegue che, laddove nell’atto introduttivo siano indicate specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà attorea di escludere dal petitum le voci non menzionate (Cass. 7 giugno 2019, n. 15523; 23 ottobre 2014, n. 22514; 31 agosto 2011, n. 17879; 17 dicembre 2009, n. 26505).
La stessa corte territoriale afferma che il danno denunciato con la domanda è quello della mancata possibilità di vendere gli immobili a causa dell’occupazione abusiva. Di tale danno costituisce una voce anche la mancata disponibilità dei corrispettivi, ove le vendite fossero state compiute, in termini di interessi sul capitale. Il giudice di appello ha invece per un verso limitato il petitum al prezzo di mercato degli immobili, per l’altro non ha considerato che la mancata menzione di altre voci di danno non potesse intendersi come esclusione delle stesse dal risarcimento invocato.
Emerge invero dalla motivazione un’ulteriore ratio decidendi, non specificatamente impugnata, secondo cui gli ulteriori pregiudizi non solo non sarebbero stati allegati, ma non sarebbero neanche stati provati. Tale ratio decidendi, dovendo essere riferita ad un oggetto determinato, pena il vizio di motivazione apparente se intesa quale statuizione indeterminata, va limitata a quanto nello stesso contesto motivazionale evidenziato, e cioè che non è stata dedotta un’altra forma di pregiudizio quale «un’ipotetica differenza di valore tra il prezzo ricavabile al momento dell’instaurazione della controversia e quello ottenibile dal momento della ottenuta disponibilità delle aree».
Escluso pertanto quest’ultimo pregiudizio, per l’assenza di specifica impugnazione della statuizione, resta il danno in termini di interessi sul capitale, ove tempestivamente percepito, che il principio di integralità del risarcimento impone al giudice del merito di valutare.