Corte Costituzionale, sentenza 15 novembre 2022 n. 230
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Palermo .
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Le eccezioni sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato non sono fondate.
2.1.– Non è fondata, anzitutto, l’eccezione secondo cui le questioni sarebbero irrilevanti dal momento che, nell’ambito del giudizio abbreviato, il pubblico ministero non potrebbe comunque procedere alla contestazione di nuove circostanze aggravanti ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen.
Contrariamente a quanto sembra ipotizzare l’interveniente, infatti, il giudice a quo non mira a riaprire l’udienza e a sollecitare il pubblico ministero a procedere, in quella sede, alla contestazione di nuove circostanze aggravanti – ciò che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 18 aprile 2019-13 febbraio 2020, n. 5788), sarebbe effettivamente precluso in sede di giudizio abbreviato senza richiesta di integrazioni probatorie, come nel caso di specie.
Il rimettente auspica, piuttosto, che gli sia riconosciuta la possibilità di restituire gli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2, cod. proc. pen., affinché questi proceda, conformemente all’art. 335 cod. proc. pen., a una nuova iscrizione della notitia criminis e a un nuovo esercizio dell’azione penale per il reato correttamente qualificato dalla circostanza aggravante originariamente non contestata. Il che ben potrebbe accadere, laddove questa Corte accogliesse la questione di legittimità costituzionale prospettata, anche nell’ambito del giudizio a quo, stante la pacifica applicabilità dell’art. 521 cod. proc. pen. al rito abbreviato (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 21 febbraio 2019, n. 18566; Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 18 dicembre 2012-9 gennaio 2013, n. 859).
2.2.– Neppure è fondata la seconda eccezione di inammissibilità per carenza di rilevanza, formulata sull’assunto che il rimettente, erroneamente, non avrebbe considerato il disposto dell’art. 522 cod. proc. pen., che equiparerebbe la disciplina della nuova contestazione di una «circostanza aggravante» a quella avente a oggetto un «fatto nuovo» o un «reato concorrente».
In realtà, l’art. 522 cod. proc. pen. si limita a prevedere la nullità soltanto parziale della sentenza di condanna pronunciata per un fatto nuovo, per un reato concorrente o per una circostanza aggravante senza che siano state osservate le disposizioni in materia di contestazioni suppletive, di cui agli artt. 516 e seguenti cod. proc. pen. Contrariamente a quanto sembra ritenere l’interveniente, l’art. 522 cod. proc. pen. non sancisce un generale principio di equiparazione di trattamento giuridico fra le tre ipotesi, né tantomeno tra queste e quella – oggetto delle odierne questioni di legittimità costituzionale – del fatto «diverso»: ciascuna di queste ipotesi è, in effetti, diversamente regolata dalle disposizioni in questione, che disciplinano le contestazioni suppletive durante il processo e i poteri del giudice in sede di decisione. Dal che discende tra l’altro, come correttamente osservato dal giudice a quo, l’impossibilità di estendere in via ermeneutica la disposizione in questa sede censurata, testualmente riferita al fatto «diverso», all’ipotesi in cui risulti al giudice la sussistenza di una circostanza aggravante (in questo senso, ex multis, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 13 ottobre 2021, n. 44973; sezione prima penale, sentenza 12 maggio 2015, n. 25882; con specifico riferimento alla recidiva, sezione prima penale, sentenza 5 luglio 2011, n. 30498).
3.– Nel merito, la questione formulata con riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.
3.1.– In proposito, occorre rammentare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il legislatore gode di ampia discrezionalità nella configurazione degli istituti processuali, censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate (ex plurimis, sentenze n. 74 del 2022, n. 213 del 2021, n. 95, n. 79 e n. 58 del 2020).
Un tale standard di giudizio – particolarmente rispettoso della discrezionalità del legislatore – si impone anche allorché, come in questo caso, vengano allegate dal rimettente irragionevoli disparità di trattamento, o irragionevoli equiparazioni di trattamento tra situazioni diseguali. La disciplina del processo è, infatti, frutto di delicati bilanciamenti tra principi e interessi in naturale conflitto reciproco, sicché ogni intervento correttivo su una singola disposizione, volto ad assicurare una più ampia tutela a uno di tali principi o interessi, rischia di alterare gli equilibri complessivi del sistema. Ciò spiega perché questa Corte sia solita esercitare una speciale cautela nello scrutinio delle censure in materia processuale fondate, in particolare, sull’art. 3 Cost.
3.2.– La premessa ermeneutica da cui muove il giudice rimettente, relativa all’impossibilità di estendere la disciplina dettata per il fatto «diverso» all’ipotesi del fatto connotato da una circostanza aggravante non contestata dal pubblico ministero, è invero corretta, come già osservato (supra, punto 2.2.). La giurisprudenza di legittimità ritiene, anzi, abnorme il provvedimento del giudice che, rilevata l’omessa contestazione della recidiva nell’imputazione, restituisca gli atti al pubblico ministero affinché la riformuli (Cass., sentenza n. 30498 del 2011). In tale ipotesi il giudice non potrà nemmeno ritenere esistente in base agli atti la circostanza non contestata, essendogli ciò precluso dall’art. 521, comma 1, cod. proc. pen., e dovrà pertanto limitarsi a pronunciare condanna per il fatto di reato non qualificato, come ritualmente contestato dal pubblico ministero.
Il rimettente ritiene che tale diritto vivente sia produttivo di irragionevoli differenze di trattamento censurabili al metro dell’art. 3 Cost., emblematicamente esemplificate dal caso di specie sottoposto al suo esame, in cui – a parità di delitto commesso – un imputato al quale è stata ritualmente contestata la recidiva rischierebbe di essere punito più severamente rispetto ad altro imputato al quale la recidiva non è stata contestata dal pubblico ministero, nonostante i numerosi precedenti risultanti dai certificati del casellario giudiziale.
3.3.– Che la soluzione consacrata dal diritto vivente possa produrre risultati come quello evidenziato dal giudice a quo è, in effetti, innegabile.
Né è possibile, come suggerisce l’Avvocatura generale dello Stato, sollecitare il giudice a far uso dei propri poteri discrezionali nella commisurazione della pena per evitare disparità di trattamento (ovvero l’eguale trattamento di situazioni diseguali) tra diversi imputati, per correggere l’eventuale omissione, da parte del pubblico ministero, della contestazione di circostanze aggravanti a questo o quell’imputato.
Un tale suggerimento è, anzi, improprio, dal momento che una circostanza aggravante non contestata all’imputato, e pertanto non oggetto di contraddittorio tra accusa e difesa, deve essere considerata tamquam non esset per il giudice. Ciò vale anche, e in special modo, per la recidiva, che pure è fondata sulla previa commissione di delitti accertati con sentenze definitive risultanti per tabulas dai certificati del casellario giudiziale, giacché la sua applicazione non è mai obbligatoria: il che comporta il preciso onere per il pubblico ministero, che intenda contestarla, di dimostrare, nel contraddittorio con l’imputato, che nel caso concreto i reati da lui precedentemente commessi siano indicativi di una sua maggiore colpevolezza e di una sua maggiore pericolosità (sentenza n. 120 del 2017, punto 2 del Considerato in diritto e precedenti ivi richiamati; nello stesso senso, ordinanza n. 145 del 2018; nella giurisprudenza di legittimità, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 24 febbraio 2011, n. 20798).
La disciplina in questa sede censurata, dunque, implica fisiologicamente la possibilità di un trattamento sanzionatorio del condannato meno severo di quello che deriverebbe dall’applicazione di circostanze aggravanti ritenute sussistenti dal giudice, ma non contestate – consapevolmente, o anche per mera disattenzione – dal pubblico ministero; e, correlativamente, la possibilità di identici trattamenti sanzionatori per imputati di fatti di reato analoghi, alcuni dei quali però connotati dalla presenza di una o più circostanze aggravanti, anche in questo caso rilevate dal giudice, ma non contestate dal pubblico ministero.
3.4.– Queste possibili alterazioni della logica del principio di eguaglianza nella commisurazione della pena sono, però, l’altrettanto fisiologica conseguenza della regola della necessaria correlazione tra accusa e sentenza, saldamente radicata nel sistema del codice di procedura penale. Come da tempo questa Corte ha evidenziato (sentenza n. 88 del 1994), tale regola di sistema è, anzitutto, funzionale al corretto svolgersi del contraddittorio, e a garantire così la pienezza del diritto di difesa dell’imputato. In secondo luogo, essa tutela la stessa posizione del pubblico ministero, che l’ordinamento vigente – imperniato sul principio accusatorio – individua come esclusivo titolare dell’azione penale. Infine, la regola assicura la posizione di terzietà e imparzialità del giudice rispetto alle opposte allegazioni delle parti: posizione che è pur essa inscindibilmente legata alla logica del principio accusatorio.
La regola in questione chiama il giudice a pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato per i soli fatti descritti nel capo di imputazione, o che siano stati oggetto delle eventuali contestazioni suppletive durante il processo, proprio perché unicamente su tali fatti si è svolto il contraddittorio tra le parti; ed esclude che il giudice possa affermare la responsabilità dell’imputato – e applicare la relativa sanzione, o frazione di sanzione – per fatti «nuovi» o «connessi» non ritualmente contestati, per un fatto «diverso» da quello contestato, o ancora per circostanze aggravanti anch’esse non oggetto di contestazione.
La disposizione di cui all’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. in questa sede censurata è, in effetti, essa stessa espressione di questa regola, precludendo al giudice di condannare l’imputato per il fatto che risulti dal compendio delle prove, ma sia «diverso» da quello descritto nell’imputazione.
Nell’ipotesi tuttavia in cui il giudice rilevi la presenza di un fatto «nuovo» – connesso o meno con quello contestato – ulteriore rispetto a quello oggetto di imputazione, egli può comunque pronunciare condanna per il fatto contestato e ritenuto provato, lasciando poi che sia il pubblico ministero a procedere eventualmente per tale ulteriore fatto di reato emerso durante il processo. Nell’ipotesi, invece, di fatto «diverso» da quello contestato, il giudice dovrebbe limitarsi ad assolvere l’imputato; onde, in assenza di una disposizione come quella oggi censurata, al pubblico ministero sarebbe precluso iniziare una nuova azione penale, per effetto della regola generale del ne bis in idem consacrata dall’art. 649 cod. proc. pen. Per evitare tale risultato, che condurrebbe alla radicale non punibilità di un imputato che risulti comunque aver commesso un reato, seppur diverso da quello contestato dal pubblico ministero, l’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. dispone che il giudice, in questo caso, non definisca il processo attraverso una pronuncia di assoluzione, ma restituisca gli atti al pubblico ministero perché questi possa procedere, se del caso, a un nuovo esercizio dell’azione penale sulla base del fatto emerso in giudizio.
3.5.– Occorre a questo punto chiedersi se risulti manifestamente irragionevole, o addirittura arbitrario, non estendere tale regola anche al caso in cui risultino circostanze aggravanti del fatto non contestate dal pubblico ministero.
In questa ipotesi, il giudice è invero tenuto a pronunciare condanna soltanto per il fatto contestato, non qualificato dall’aggravante; e il pubblico ministero non avrà poi alcuna possibilità di “recuperare” tale aggravante né nei successivi gradi di giudizio, né, a fortiori, in un diverso giudizio, stante anche in questo caso lo sbarramento del ne bis in idem.
Vi è tuttavia tra le due ipotesi la differenza essenziale poc’anzi segnalata: in quella del fatto «diverso» il giudice – ove non potesse restituire gli atti al pubblico ministero – dovrebbe tout court assolvere l’imputato; quando invece, dopo aver accertato la commissione del fatto così come contestato, il giudice rileva altresì la presenza di una circostanza aggravante non oggetto di contestazione, l’esito del giudizio resta comunque di condanna.
Naturalmente, il legislatore avrebbe potuto prevedere anche in questo caso la possibilità per il giudice di non definire il giudizio, e di restituire gli atti al pubblico ministero per consentirgli di procedere a una nuova contestazione, comprensiva dell’aggravante risultante dagli atti, sì da giungere – al termine del nuovo processo – all’applicazione di una pena corrispondente anche nel quantum all’effettiva colpevolezza dell’imputato. Ma una simile soluzione avrebbe comportato la necessità di regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari. Soluzione questa che non è mai indolore, dal punto di vista dei molteplici principi costituzionali in gioco, che all’evidenza includono anche il principio – coessenziale al diritto alla difesa dell’imputato, e «connotato identitario della giustizia del processo» (sentenza n. 74 del 2022) – della ragionevole durata del processo, sancito all’unisono dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dalle carte internazionali dei diritti.
La soluzione della restituzione degli atti al pubblico ministero affinché riformuli l’imputazione costituisce, d’altra parte, una deviazione dalla funzione essenziale del giudice – che l’art. 111, secondo comma, Cost. esige sia «terzo e imparziale», e dunque equidistante da entrambe le parti – nell’ambito del processo. Tale funzione consiste, essenzialmente, nell’assumere come dato di partenza la prospettazione accusatoria, per verificare se le prove assunte nel contraddittorio con la difesa – o comunque sulle quali la difesa ha interloquito, nell’ambito del giudizio abbreviato – consentano di ritenere provata, oltre ogni ragionevole dubbio, quella prospettazione; non già in quella, in certo senso inversa, di assicurare che la prospettazione accusatoria venga adeguata alle prove effettivamente assunte in giudizio, o comunque utilizzabili ai fini della decisione.
La scelta del legislatore è stata, dunque, quella di calibrare la regola della restituzione degli atti al pubblico ministero, con il suo carico di allungamento dei tempi processuali, sulla sola ipotesi del fatto «diverso», in cui la definizione del giudizio con una sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunità di chi sia risultato autore di un fatto di reato, privilegiando invece le ragioni di tutela della ragionevole durata del processo e della posizione di terzietà e imparzialità del giudice nel caso in cui l’errore del pubblico ministero si ripercuota soltanto sulla misura della pena da infliggere a un imputato comunque condannato per il fatto di reato risultato provato in sede processuale.
A giudizio di questa Corte, tale scelta individua un punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi in gioco, tutti di grande rilievo nel vigente sistema del processo penale; ed è in ogni caso ben lungi dal poter essere qualificata in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà.
Ne consegue la non fondatezza della censura ex art. 3 Cost.
4.– Neppure è fondata la doglianza di violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost.
4.1.– Una risalente giurisprudenza di questa Corte ha affermato che «[l]’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ad opera del Pubblico Ministero […] è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale» (sentenza n. 84 del 1979).
Riprendendo e ampliando il secondo dei corollari enunciati, la successiva sentenza n. 88 del 1991 ha osservato che «[p]iù compiutamente, il principio di legalità (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale».
Il principio di obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero è connesso, dunque, tanto al principio di eguaglianza quanto a quello di legalità in materia penale, essendo in definitiva funzionale alla garanzia di un’uniforme e imparziale applicazione della legge penale a tutti i suoi destinatari.
Per garantire l’effettività di tale principio l’ordinamento prevede vari meccanismi che assicurano il controllo di un giudice sulle decisioni del pubblico ministero relative all’esercizio dell’azione penale o ai suoi stessi esiti – a cominciare dal controllo del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta di archiviazione (art. 409 cod. proc. pen.), alla necessità di verifica giudiziale sulla congruità degli accordi tra imputato e pubblico ministero in merito all’applicazione della pena su richiesta (art. 448 cod. proc. pen.), sino, appunto, alla disciplina di cui all’art. 521, comma 2, cod. proc. pen. in questa sede censurata, che prevede la restituzione degli atti al pubblico ministero perché proceda ad un nuovo esercizio dell’azione penale, allorché il giudice ritenga che il fatto sia diverso da quello contestato.
Nonostante la fondamentale connotazione accusatoria del nostro sistema processuale, il pubblico ministero non è, insomma, dominus assoluto dell’azione penale, essendo previste varie possibilità di intervento del giudice per assicurare, anche contro l’avviso del pubblico ministero, l’uniforme e imparziale applicazione della legge penale ai suoi destinatari, in omaggio alla ratio sottesa all’art. 112 Cost.
4.2.– Tuttavia, anche nella configurazione dei presupposti e dei limiti di tali controlli non possono non riconoscersi ampi spazi di manovra al legislatore, il quale è – come si è poc’anzi sottolineato – chiamato a un delicato bilanciamento tra i molti principi che entrano in gioco nel processo penale, e che possono porsi in conflitto rispetto alle stesse esigenze di assicurare piena tutela al principio di obbligatorietà dell’azione penale, nel senso ampio appena precisato.
Anzitutto, il principio di obbligatorietà dell’azione penale non può essere ragionevolmente esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al pubblico ministero sulla concreta configurazione dell’imputazione, nella quale egli è tenuto a enunciare i fatti storici corrispondenti all’insieme delle fattispecie astratte contenute nelle disposizioni da cui dipende la rilevanza penale di una condotta – ivi comprese quelle configuranti circostanze, le quali spesso contengono clausole generali o requisiti elastici che rimandano necessariamente ad apprezzamenti discrezionali di chi debba applicare la norma, a cominciare appunto dal pubblico ministero. Ciò è tanto più vero con riguardo all’aggravante della recidiva, la cui applicazione implica sempre – come si è rammentato (supra, punto 3.3.) – valutazioni discrezionali sulla significatività delle precedenti condanne rispetto alla concreta maggiore colpevolezza e pericolosità dell’imputato: valutazioni che proprio il pubblico ministero è chiamato in prima battuta a compiere, e che spetterà poi al giudice convalidare una volta passate attraverso il filtro del contraddittorio.
D’altra parte, il legislatore non può non preoccuparsi di garantire l’effettività del diritto di difesa dell’imputato, il quale – una volta formulata l’imputazione da parte del pubblico ministero – ha un’ovvia aspettativa a poter articolare la propria strategia difensiva in relazione, appunto, all’imputazione così cristallizzata, e non ad eventuali imputazioni alternative emerse nel corso del giudizio, anche solo in termini di circostanze aggravanti non ritualmente contestategli dal pubblico ministero.
Infine, lo stesso ruolo del giudice non può essere inteso sino a ricomprendere, per necessità costituzionale, un penetrante sindacato su tutte le scelte compiute dal pubblico ministero nella descrizione del fatto che costituisce il thema decidendum del giudizio penale. Un tale sindacato finirebbe infatti per snaturare la stessa posizione di terzietà e imparzialità del giudice, chiamato in linea di principio – come poc’anzi osservato (supra, punto 3.5.) – a giudicare della corrispondenza dei fatti provati a quelli ascritti all’imputato dal pubblico ministero, e non già ad assicurare, in chiave collaborativa con quest’ultimo, l’adeguamento dell’imputazione ai fatti provati.
4.3.– In definitiva, la disposizione censurata individua – anche sotto il profilo della sua compatibilità con l’art. 112 Cost. ora all’esame – un punto di equilibrio nient’affatto irragionevole tra il complesso dei principi e interessi sottesi al delicato meccanismo del processo penale; con conseguente non fondatezza della censura.