Corte di Cassazione, V Sezione Penale, ordinanza 11 gennaio 2023, n. 693
QUESTIONE RIMESSA
Va rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione la seguente questione:
“se il fine di profitto, in cui si concerta il dolo specifico del delitto di furto, debba essere inteso solo come finalità dell’agente di incrementare la sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili, ovvero se possa anche consistere nella volontà di trarre un’utilità non patrimoniale dal bene sottratto”.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
1.Va premesso che, nel caso in esame, la vicenda risulta scaturita da un litigio tra il C. e la persona offesa, B.G. , legati da una relazione sentimentale; la discussione, svoltasi all’interno di un giardino pubblico, aveva richiamato l’attenzione di un passante, il quale aveva chiesto alla B. se avesse bisogno di aiuto, cosa che aveva suscitato la reazione del C. che, a sua volta, aveva allontanato l’uomo, dicendogli di farsi gli affari propri. Tale reazione aveva indotto la B. a telefonare ai Carabinieri, chiedendone l’intervento, affermando che il C. la stava importunando; a quel punto l’imputato si era impossessato del telefono cellulare della donna e si era allontanato, restando, peraltro, nelle vicinanze, dove era stato intercettato dai Carabinieri, poco dopo intervenuti, che lo avevano trovato in possesso del cellulare.
Nell’atto di gravame la difesa aveva sostenuto che il C. avesse agito non certamente per trarre un profitto dall’impossessamento del cellulare, ma per risentimento, dispetto, ritorsione, a fronte della telefonata fatta ai Carabinieri dalla B..
2. Il ricorso va rimesso alle Sezioni Unite, atteso il contrasto persistente tra orientamenti contrapposti, che possono delinearsi in base agli inquadramenti di seguito descritti.
2.1 Secondo un primo orientamento di legittimità, osserva la Corte, la nozione di profitto risulta svincolata dalla natura economica del fine dell’agente: il profitto avuto di mira può, quindi, consistere in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, e soddisfare un bisogno di tipo psichico, rispondendo alle più svariate finalità di dispetto, ritorsione, vendetta, rappresaglia, emulazione.
Trattasi di un orientamento risalente (Sez. 2, n. 9411 del 06/03/1978, Sessa, Rv. 139694; Sez. 2, n. 9983 del 26/04/1983, Lo Nardo, RV. 161352; Sez. 2, n. 4471 del 12/02/1985, Bazzani, Rv. 169109), secondo cui nel reato di furto il profitto va inteso in senso ampio, così da comprendere non solo il vantaggio di natura puramente economica, ma ben potendo consistere in una qualsiasi utilità o vantaggio, anche di natura non patrimoniale, realizzabile con l’impossessamento della cosa mobile altrui, commesso con coscienza e volontà in danno della persona offesa.
Secondo tale impostazione, quindi, è sufficiente che il soggetto attivo abbia operato per il soddisfacimento di un qualsiasi interesse, anche psichico, a nulla rilevando la destinazione che egli abbia dato alla cosa sottratta.
In tal senso si sono espresse – senza alcuna pretesa di esaustività nella citazione delle sentenza che hanno sposato tale orientamento maggioritario -, tra le altre:
– Sez. 4, n. 47997 del 18/09/2009, Nutu, Rv. 245742, in cui – relativamente ad un caso in cui è stato escluso il fine di profitto patrimoniale in relazione alla sottrazione di un telefono cellulare, finalizzata ad impedire alla vittima di inviare un sms – si è rilevato come “Il dolo specifico del reato di furto è integrato dalla finalità di percepire dal bene asportato un’utilità diretta, non mediata, anche se non di carattere patrimoniale od economico.”;
– Sez. 2, n. 40631 del 09/10/2012, Sesta e altro, Rv. 253593, in cui si afferma che “…. il delitto di furto è connotato, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, dal dolo specifico, costituito, come noto, da una specifica finalità che l’agente mira a perseguire (prevista dalla norma incriminatrice), che tuttavia non necessita si debba realizzare sul piano oggettivo per perfezionare il reato. Pertanto, per configurare il delitto di cui all’art. 624 c.p. è necessario che la condotta sia posta in essere ‘al fine di trarne profitto, ma non è indispensabile che il profitto si sia concretamente realizzato su piano oggettivo.”;
– Sez. 5, Sentenza n. 19882 del 16/02/2012, Aglietta, Rv. 252679; Sez. 4, n. 30 del 18/09/2012, Caleca e altro, Rv. 254372; Sez. 4, n. 4144 del 06/10/2021, Caltabiano Attilio, Rv. 282605, che, condividendo il prevalente orientamento di legittimità, ha affermato come “il fine di vendetta o di dispetto non esclude il dolo specifico del reato di furto, potendo il profitto consistere in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale” (caso in cui l’agente, dopo aver minacciato la persona offesa che richiedeva l’intervento dei Carabinieri, gli strappava dalle mani il telefono cellulare, allontanandosi);
– Sez. 4, n. 13842 del 26/11/2019, Saraceno Alfio, Rv. 278865 (nella cui motivazione si legge: “Questo Collegio aderisce a tale tradizionale orientamento, secondo cui il fine di trarre profitto dal bene della vita illecitamente acquisito si identifica nell’intenzione di trarre dal bene una qualsiasi utilità, anche di natura esclusivamente personale e non economica. Il fine può ben consistere nell’appropriarsi per un periodo apprezzabile di tempo della cosa mobile altrui, anche se solo a scopo emulativo. La limitazione della punibilità delle condotte di volontaria sottrazione ed impossessamento di cose mobili altrui alle sole ipotesi di sottrazione dettata da finalità economiche priverebbe di tutela penale il possesso delle cose mobili in caso di lesioni dettate da motivazioni non economiche, laddove invece il possesso di tali cose, per via della sua agevole possibilità di aggressione determinata dalla natura “mobile” di tali beni, comporta la necessità di una tutela completa e non circoscritta alle sole sottrazioni dettate da fini di locupletazione. Occorre necessariamente identificare il fine di profitto con la soggettiva utilità perseguita dall’agente con l’appropriazione della cosa. Una diversa interpretazione, infatti, determinerebbe un restringimento eccessivo della tutela penale. Ciò emerge dall’analisi di numerose ipotesi esemplificative, da inquadrare nel delitto di furto: a) la sottrazione di bene per poi successivamente distruggerlo, in caso di impossessamento protrattosi per un periodo di tempo apprezzabile, dovendosi considerare il danneggiamento conseguente all’amotio della res quale fatto non punibile; b) il furto nell’interesse della vittima (sottrazione per impedire che il bene sia carpito o distrutto da terzi; sottrazione di cose allo scialacquatore per impedirgli di dissiparle; sottrazione di alcool all’alcolizzato), talora considerato come ipotesi di assenza del fine di profitto e quindi non punibile per carenza di dolo specifico, da risolvere invece verificando l’eventuale operatività di una causa di giustificazione; c) il furto determinato da motivazioni emulative o affettive; d) la sottrazione di beni non commerciabili.”);
– Sez. 5, n. 11225 del 16/01/2019, Dolce Fabio, Rv. 275906.
In sostanza, precisa la Corte, a sostegno di tale orientamento si rileva come il furto sia un reato contro il patrimonio, e non a vantaggio del patrimonio, sicché sarebbe irrilevante la finalità di lucro eventualmente perseguita dall’agente; sotto un profilo strettamente letterale, inoltre, la norma incriminatrice non contempla una limitazione espressa del fine di profitto alla sola sfera patrimoniale, il che rende compatibile la fattispecie anche con finalità diverse da quelle strettamente lucrative.
Peraltro, diversamente opinando, si determinerebbe un restringimento eccessivo della tutela penale, in quanto la limitazione della punibilità delle condotte alle sole ipotesi di sottrazione dettata da finalità economiche, finirebbe per privare di tutela penale il possesso delle cose mobili in caso di lesioni dettate da motivazioni non economiche.
Ancor più di recente, ad avviso di Sez. 5, n. 4304/2021 del 14/12/2020, dep. 03/02/2021, Cirmena Salvatore, non massimata – in un caso in cui era stato accertato che l’azione dell’imputato, consistita nella sottrazione di una macchina fotografica, era finalizzata ad impedire lo scatto di fotografie e, successivamente, l’apparecchio era stato gettato a terra e distrutto -, è stato affermato come vada, anzitutto, chiarito, quanto al rapporto tra danneggiamento e furto con violenza sulle cose, che “…. i due reati si distinguono, non per la materialità del fatto, che può essere identica, ma, appunto, per la finalità della condotta. Occorre, quindi, valutare le modalità dell’azione, i mezzi impiegati per realizzarla nonché le caratteristiche strutturali della cosa mobile, per stabilire se l’intenzione dell’agente fosse diretta all’impossessamento della res o, invece, al mero deterioramento della stessa (Sez. 5, n. 7559 del 13/12/2018 (dep. 2019) Rv. 275491)”; nel caso in esame, tuttavia, l’imputato si era impossessato della macchina fotografica con l’intento di sottrarla al legittimo possessore onde impedirne l’uso, mentre il danneggiamento era stato successivo.
Inoltre, pur dando atto di un opposto orientamento, la sentenza citata aderisce all’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, in cui la nozione di profitto ricomprende anche il fine di conseguire un vantaggio non strettamente patrimoniale: “Secondo tale opzione ermeneutica, in tema di furto, il fine di profitto – nel quale si concreta il dolo specifico del reato – non si identifica necessariamente con l’animus lucrandi, e quindi non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, giacché deve ritenersi incluso nella previsione della norma il perseguimento di qualsiasi soddisfazione o vantaggio che al soggetto possa derivare dalla cosa sottratta, che può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione, vendetta o rappresaglia.”
Citando i precedenti conformi, prosegue la Corte, la pronuncia rileva come essi facciano “….leva sull’ampia portata letterale della norma incriminatrice, che, non contemplando una limitazione espressa del fine di profitto alla sola sfera patrimoniale, lo rende compatibile anche con finalità diverse da quelle strettamente lucrative”, per cui “il fine di trarre profitto dal bene della vita illecitamente acquisito si identifica nell’intenzione di trarre dal bene una qualsiasi utilità, anche di natura esclusivamente personale e non economica. Si ritiene, cioè, che il fine ben possa consistere nell’appropriarsi per un periodo apprezzabile di tempo della cosa mobile altrui, anche se solo a scopo emulativo, mentre, la limitazione della punibilità delle condotte di volontaria sottrazione e impossessamento di cose mobili altrui alle sole ipotesi di sottrazione dettata da finalità economiche finirebbe per privare di tutela penale il possesso delle cose mobili in caso di lesioni dettate da motivazioni non economiche. Come è stato già osservato, invece, il possesso di tali cose, per via della sua agevole possibilità di aggressione determinata dalla natura “mobile” di tali beni, comporta la necessità di una tutela completa e non circoscritta alle sole sottrazioni dettate da fini di locupletazione. Occorre, dunque, necessariamente identificare il fine di profitto con la soggettiva utilità perseguita dall’agente con l’appropriazione della cosa. Come è stato osservato efficacemente in dottrina, questo non vuol dire che sia sufficiente un qualsiasi fine di profitto, né che esso si confonda con il movente psicologico che ha indotto il soggetto ad agire, occorrendo, invece, un fine di ‘trarnè profitto, ossia di ricavare una utilità specificamente dalla cosa e non genericamente dalla condotta, attraverso una selezione tra i vantaggi connessi in genere, all’impossessamento, di quello che rappresenta lo scopo tipico verso cui si proietta la condotta del colpevole. Una diversa interpretazione determinerebbe un restringimento eccessivo della tutela penale, come suggerisce l’analisi di alcune ipotesi inquadrabili nello schema del furto: quello commesso nell’interesse della vittima (sottrazione per impedire che il bene sia carpito o distrutto da terzi; sottrazione di cose allo scialacquatore per impedirgli di dissiparle; sottrazione di alcool all’alcolizzato), talora considerato come ipotesi di assenza del fine di profitto e quindi non punibile per carenza di dolo specifico, da risolvere invece verificando l’eventuale operatività di una causa di giustificazione; il caso di furto determinato da motivazioni emulative o affettive; la sottrazione di beni non commerciabili, o anche il caso – qui specificamente rilevante – della sottrazione del bene per poi successivamente distruggerlo, dovendosi considerare il danneggiamento conseguente all’amotio della res quale fatto non punibile.”
Infine, da ultimo Sez. 4, n. 4144 del 06/10/2021, dep. 07/02/2022, Caltabiano Attilio, Rv. 282605, ha ulteriormente ribadito l’orientamento maggioritario, affermando che “In tema di furto, il fine di profitto, che integra il dolo specifico del reato, non ha necessario riferimento alla volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, ma può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione o vendetta.”
2.2 II secondo orientamento manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, più recente, al contrario di quello sin qui esaminato, inquadra in senso restrittivo la nozione di profitto, nel senso di attribuire rilievo unicamente al perseguimento di una utilità di tipo patrimoniale.
In tal senso va ricordata, anzitutto, Sez. 5, n. 30073 del 23/10/2018, Lettina ed altro, Rv. 273561, in cui – in riferimento ad una vicenda in cui l’imputato aveva sottratto la borsa della persona offesa solo per finalità di dispetto, di reazione o come modalità per mantenere il contatto con la predetta – si è affermato che l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, nell’accogliere una nozione dilatata del concetto di profitto trascurerebbe “il dato letterale e sistematico dell’inserimento del furto nei delitti contro il patrimonio, che costituisce il bene/interesse tutelato dalla norma ed in tal senso ne appare problematica la coerente collocazione nell’ambito dei criteri ermeneutici dell’interpretazione letterale della legge e della volontà del legislatore.”
In tal senso, osserva la Corte, è stato dato rilievo anche agli approdi della dottrina, secondo cui “un’eccessiva espansione della nozione di profitto, estesa fino a raggiungere qualsiasi utilità soggettivamente ritenuta apprezzabile, arrivando ad identificare lo scopo di lucro previsto nella fattispecie astratta con la generica volontà di tenere per sé la cosa, può comportare, in definitiva, l’annullamento della previsione normativa, che implica la necessità del dolo specifico.“; ciò in quanto “proprio il fine di profitto assolve ad una funzione di limite dei fatti punibili a titolo di furto e, nel contempo, individua una linea di confine tra il furto ed altre figure di reato, non caratterizzate dallo scopo di profitto da parte dell’agente.”
In base a tale approdo, quindi, la norma incriminatrice lascia intendere chiaramente che sia la nozione di profitto che il fine che deve animare l’autore del furto, siano esclusivamente collocabili in una chiara ed esclusiva dimensione economico/patrimoniale, per cui le intime intenzioni dell’agente, se non addirittura la sua interiorità psicologica, appaiono inadatte alla demarcazione dell’elemento psicologico del delitto di furto.
Successivamente, Sez. 5, n. 25821 del 05/04/2019, PMT c. EI Sheshtawi Omar, Rv. 276516, ha ritenuto insussistente l’elemento soggettivo del reato in un caso nel quale l’imputato aveva asportato due fusibili dalla scatola di derivazione elettrica di una saracinesca del magazzino dell’azienda dove lavorava e svolgeva attività di rappresentante sindacale, al fine di consentire ai colleghi di uscir fuori per porre in essere atti di protesta contro il datore di lavoro.
La sentenza ha, infatti, ribadito come, in coerenza con la collocazione del furto nel titolo XIII del codice penale, dedicato ai delitti contro il patrimonio, debba essere esclusa un’esegesi diretta ad estendere l’ambito applicativo della fattispecie a condotte che non sono dirette a perseguire una finalità dotata di un’immediata incidenza di natura economica; detta finalità, invero, “prescinde da un automatismo legato all’ingresso del bene sottratto nel patrimonio dell’agente, ma deve consistere nella possibilità di fare uso di detto bene in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell’utilità economico/patrimoniale….”
Nel medesimo solco si colloca Sez. 5, n. 40438 del 01/07/2019, Stawicka Beata, Rv. 277319, che ha escluso l’integrazione del fine di profitto in un caso in cui gli imputati, unicamente a fini dimostrativi, si erano appropriati di un numero rilevante di cani di razza per sottrarli al regime di segregazione di uno stabulario. Nel richiamare la precedente sentenza n. 30073 del 23/01/2018, Lettina secondo cui il dolo specifico del reato di cui all’art. 624 c.p. si identifica nel fine di profitto che deve perseguire il soggetto agente, inteso quale possibilità di fare uso della cosa sottratta in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell’utilità economico/patrimoniale, consistendo, quindi, in un’attività ulteriore rispetto all’impossessamento, la pronuncia, oltre a ribadire l’affermazione secondo cui l’interpretazione restrittiva indicata risulta la sola compatibile con il dato, letterale e sistematico, dell’inserimento del furto tra i delitti contro il patrimonio, quale bene/interesse tutelato dalla norma evocata, ha anche sottolineato come “un’eccessiva dilatazione della nozione di profitto, estesa fino a ricomprendere qualsiasi utilità soggettivamente ritenuta apprezzabile, finirebbe per vanificare la stessa funzione del dolo specifico, che è, al contempo, quella di limitare i fatti punibili a titolo di furto e di individuare una linea di demarcazione tra il furto ed altre figure di reato non caratterizzate dallo scopo di profitto da parte dell’agente.”
Anche tale approdo ermeneutico, soggiunge la Corte, ha evocato le osservazioni formulate dalla più autorevole dottrina, “che ha fatto notare come il legislatore abbia costruito la fattispecie di furto non solo sulla base oggettivistica dell’offesa patrimoniale arrecata alla vittima, ma anche su quella, ad impronta soggettivistica, del profitto dell’agente: con ciò avendo voluto cristallizzare la ratio dell’incriminazione non solo nella necessità di evitare l’impoverimento altrui, ma anche nell’esigenza di scoraggiare l’arricchimento, o, comunque, l’avvantaggiarsi, dell’agente derivante dalla ruberia.
Invero, l’onnicomprensiva nozione di profitto oggetto del dolo specifico del delitto di furto, che abbraccia indistintamente sia il vantaggio economico, sia l’utilità, materiale o spirituale, sia il piacere o soddisfazione che l’agente si procuri, direttamente o indirettamente, attraverso l’azione criminosa, tradisce la funzione selettiva e garantistica della tipicità penale, ampliando a dismisura la sfera del furto a discapito di quella del danneggiamento o estendendola a fatti non meritevoli di sanzione penale, pervenendo, in definitiva, ad un’interpretatio abrogans del detto elemento essenziale, degradato ad un profitto in re ipsa, coincidente con il movente dell’azione: movente che sempre esiste, non potendo concepirsi che un uomo agisca se non sospinto da un motivo.
Donde, allo scopo di preservare la funzione delimitatrice della tipicità, assegnata al dolo specifico, quale requisito di fattispecie, dalla teoria generale del reato, occorre che nel delitto di furto esso s’identifichi nella finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell’azione. Ne viene che esso può dirsi integrato ove sia accertato che l’autore del fatto materiale abbia agito per conseguire un ampliamento del proprio patrimonio, quale fine diretto e immediato dell’azione, sia pure con l’intento di ottenere per tale via il soddisfacimento di un bisogno ulteriore anche solo di ordine spirituale.”
Infine, ancor più di recente, va ricordata Sez. 5, n. 26421 del 17/05/2022, E., Rv. 283531, anch’essa relativa ad un caso in cui non era emerso il dolo specifico, inteso come finalità dell’agente di incrementare la fera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini, ma solo il dato costituito dall’essere avvenuta la sottrazione del telefono cellulare e degli occhiali della persona offesa per evitare che questa potesse richiedere l’intervento delle forze dell’ordine.
Tale sentenza, dopo aver analiticamente ripercorso l’orientamento interpretativo maggioritario, secondo cui la nozione di profitto è svincolata dalla natura economica del fine dell’agente, ha aderito al più recente orientamento minoritario, incentrando il proprio percorso argomentativo sul dolo specifico quale elemento essenziale del reato, avente natura psicologica e consistente in uno scopo ulteriore verso il quale deve tendere la volontà dell’agente, anche se, ai fini della sussistenza del reato, tale scopo non deve essere necessariamente realizzato.
Richiamando le Sezioni Unite Prevete (Sez. U, n. 52117 del 17/07/2014, Rv. 261186), la pronuncia ha ricordato come in questo atteggiarsi a scopo ulteriore rispetto al momento volitivo del reato individui il profilo essenziale del dolo specifico e la stretta strumentalità dello stesso rispetto al fatto tipico, il che rende ragione anche della differenza concettuale di tale elemento tipico rispetto al concetto di movente, che riguarda la sfera dei motivi di fatto avuti di mira dal soggetto agente.
La motivazione ha, quindi, proseguito nell’evidenziare la funzione sistematica del dolo specifico, in riferimento alla delimitazione dell’ambito applicativo del reato, ritenendo che se è vero che il furto è un reato a tutela del patrimonio della vittima, “lo scopo ulteriore in cui si risolve quella connotazione soggettiva del fatto furtivo non consente di svilire la dimensione patrimoniale della nozione di dolo specifico del furto. Come si è visto, lo scopo ulteriore in cui si risolve il dolo specifico è lo “spostamento patrimoniale” connesso all’azione furtiva, sicché il bene protetto resta comunque decisivo nella ricostruzione dell’oggetto del dolo specifico; ricostruzione, quella qui delineata, che resta pertanto riferibile ai soli reati contro il patrimonio.”
Richiamando la sentenza Stawicka, quindi, il percorso argomentativo ha proseguito sottolineando come una nozione onnicomprensiva del concetto di profitto oggetto del dolo specifico finisca per svilirne la funzione selettiva delle fattispecie concrete, giungendo ad assimilarlo al concetto di movente e riducendolo ad elemento essenziale sussistente in re ipsa, in aperto contrasto con un’interpretazione tassativizzante e, quindi, costituzionalmente orientata.
In altre parole, osserva la Corte, la nozione di profitto non può scolorare in quella di vantaggio, concettualmente ben distinta dal legislatore; peraltro, solo la nozione di vantaggio può rivestire sia un contenuto economico che un contenuto morale anche nei casi in cui – come testimonia l’art. 416-bis, comma 3, c.p. ad entrambe sia data rilevanza.
Altro profilo rilevante della funzione sistematica del dolo specifico del furto è costituito dalla operatività dello stesso in funzione di differenziazione delle condotte in riferimento ad altre fattispecie di reato, quale, ad esempio, ed in presenza dei rispettivi elementi costitutivi, la violenza privata oppure, nei limiti della depenalizzazione, il danneggiamento. Peraltro, tale impostazione giustifica anche la differenza sanzionatoria tra la fattispecie di danneggiamento e quella di furto aggravato da violenza sulle cose, che risulta del tutto coerente qualora si attribuisca al precetto del furto la duplice valenza di non impoverire la vittima e di non ottenere alcun arricchimento patrimoniale con la realizzazione della condotta sanzionata.
In tal senso, quindi, la pronuncia ha affermato che “in tema di furto, il fine di profitto integrante il dolo specifico deve essere inteso come finalità dell’agente di incrementare la propria sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili in virtù della capacità strumentale della cosa sottratta di soddisfare bisogni materiali e spirituali dell’agente.”
Nel solco di tale orientamento di minoranza si collocano, infine, le seguenti sentenze non massimate: Sez. 5, n. 5467 del 2019; Sez. 5, n. 2409 del 2022; Sez. 5, n. 24066 del 2022, in cui, con argomentazioni analoghe, si è ribadito come un’eccessiva espansione delle nozione di profitto, estesa fino a raggiungere qualsiasi utilità soggettivamente ritenuta apprezzabile, consenta di assimilare lo scopo di lucro, previsto nella fattispecie astratta, con la generica volontà di tenere per sé la cosa, elidendo, quindi, la funzione selettiva del dolo specifico, in quanto proprio il fine di profitto assolve ad una funzione di limite dei fatti punibili a titolo di furto e, nel contempo, individua una linea di confine tra il furto ed altre figure di reato, non caratterizzate dallo scopo di profitto da parte dell’agente.
3. Nel caso di specie, quindi, alla luce della specifica vicenda, come in precedenza ricordata, appare evidente la necessità di investire il massimo consesso nomofilattico sotto il seguente aspetto: se il fine di profitto, in cui si concerta il dolo specifico del delitto di furto, debba essere inteso solo come finalità dell’agente di incrementare la sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili, ovvero se possa anche consistere nella volontà di trarre un’utilità non patrimoniale dal bene sottratto.