Cassazione civile, Sez. lav., sentenza 20 dicembre 2022, n. 37318
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di cui all’art. 27, comma 2, Cost., concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, neppure nel caso in cui il CCNL preveda la più grave sanzione espulsiva solo in tale circostanza. Ne consegue che il giudice, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare, intimato a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore, per gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto -, non può limitarsi alla valutazione del dato oggettivo del rinvio a giudizio, ma deve accertare l’effettiva sussistenza dei fatti contestati e la loro idoneità, per i profili soggettivi e oggettivi, a supportare la massima sanzione disciplinare (Cass., Sez. L, n. 18513 del 21 settembre 2016).
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dei contrati e accordi collettivi nazionali di lavoro, nonché l’erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 3 del CCNL comparto Regioni ed Autonomie locali e 55 quater d.lgs. n. 165 del 2001 e del principio dell’immutabilità dei motivi a fondamento del licenziamento disciplinare. Egli contesta che la corte territoriale avrebbe errato nel ricondurre la fattispecie in esame all’art. 3, comma 8, lett. e), CCNL comparto Regioni ed Autonomie locali dell’11 aprile 2008, che prevede la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso nel caso di condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità, piuttosto che all’art. 3, comma 5, lett. k), del medesimo CCNL, relativo alle violazioni di obblighi di comportamento non ricompresi specificamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi, oppure all’art. 3, comma 6, lett. i), dello stesso CCNL, concernente qualsiasi comportamento da cui sia derivato danno grave all’ente o terzi.
- In particolare, i giudici del merito non avrebbero tenuto conto che non vi era una sentenza penale di condanna passata in giudicato e avrebbero modificato le motivazioni addotte dalla P.A. a sostegno del provvedimento di licenziamento senza preavviso, qualificando la condotta del dipendente in maniera del tutto differente rispetto a quella individuata dall’Ente comunale. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, nonché l’erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 3 del CCNL comparto Regioni ed Autonomie locali e 55 quater d.lgs. n. 165 del 2001, non Corte di Cassazione – copia non ufficiale 5 essendovi stata alcuna condotta sussumibile nella fattispecie del licenziamento ex art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001, e la violazione del principio dell’immutabilità dei motivi a fondamento del licenziamento disciplinare.
- Egli contesta di non avere posto in essere una falsa attestazione in servizio e sostiene che il giudice del merito avrebbe dovuto sindacare la proporzionalità della sanzione rispetto all’addebito. In particolare, afferma che non era tenuto a passare il proprio badge per rilevare la sua presenza ogni volta che lasciava la sede di servizio, essendo sufficiente che annotasse l’orario di uscita dal lavoro. I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione, e sono infondati. Innanzitutto, si rileva che l’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001, pur tipizzando delle ipotesi di condotte sanzionate con il licenziamento disciplinare, fa salva “la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo”.
- Ne deriva che la menzione esclusivamente di tale ultima disposizione nel provvedimento di irrogazione della sanzione del licenziamento non si pone in contrasto con la riconduzione, da parte della corte territoriale, dell’illecito contestato al ricorrente all’art. 3, comma 8, lett. e), CCNL comparto Regioni ed Autonomie locali dell’11 aprile 2008, per il quale la sanzione del licenziamento disciplinare si applica in ipotesi di “condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità”. Infatti, il riferimento all’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001 ben può ricomprendere, nella specie, anche quello all’art. 3, comma 8, lett. e), citato, qualora la condotta contestata, in astratto riconducibile a quest’ultima disposizione della contrattazione collettiva, sia, comunque, in fatto, adeguatamente descritta.
- Non vi è stata, quindi, alcuna violazione del principio di immutabilità dei motivi posti a fondamento del licenziamento disciplinare.
- Neppure può negarsi l’applicabilità del menzionato art. 3, comma 8, lett. e), sull’assunto che non fosse stata ancora emessa sentenza definitiva di condanna in sede penale. Infatti, il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di cui all’art. 27, comma 2, Cost., concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore suscettibile di integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, neppure nel caso in cui il CCNL preveda la più grave sanzione espulsiva solo in tale circostanza.
- Ne consegue che il giudice, davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare, intimato a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore, per gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto -, non può limitarsi alla valutazione del dato oggettivo del rinvio a giudizio, ma deve accertare l’effettiva sussistenza dei fatti contestati e la loro idoneità, per i profili soggettivi e oggettivi, a supportare la massima sanzione disciplinare (Cass., Sez. L, n. 18513 del 21 settembre 2016).
- Questa considerazione conduce a confermare la decisione di appello nella parte ove ha ritenuto che la fattispecie de qua fosse disciplinata dall’art. 3, comma 8, lett. e), CCNL comparto Regioni ed Autonomie locali dell’11 aprile 2008, e non dall’art. 3, comma 5, lett. k), del medesimo CCNL, relativo alle violazioni di obblighi di comportamento non ricompresi specificamente nelle lettere precedenti, da cui sia derivato disservizio ovvero danno o pericolo all’ente, agli utenti o ai terzi, oppure dall’art. 3, comma 6, lett. i), dello stesso CCNL, concernente qualsiasi comportamento da cui sia derivato danno grave all’ente o terzi.
- La Corte d’appello di Catania ha rilevato, con un accertamento di merito non sindacabile nella presente sede, anche perché motivato, che, nella specie, ricorressero degli illeciti penali, con la conseguenza che doveva essere applicato proprio l’art. 3, comma 8, lett. e), CCNL comparto Regioni ed Autonomie locali dell’11 aprile 2008, “posto che l’aver sottratto beni di proprietà di terzi durante l’orario di lavoro, con utilizzo a tal fine di un mezzo di lavoro (furgone) di proprietà del datore di lavoro integra il reato di cui agli articoli 110, 624, 625, n. 5 e 7 c.p. (oltre che quello di cui agli artt. 110, 646 del codice penale)”.
- Alla luce di quanto esposto, priva di ogni valenza è la questione, sollevata dal ricorrente, che non vi sarebbe stata una falsa attestazione e che non vi era un obbligo di “passare il proprio badge”. La corte territoriale ha, poi, compiuto un adeguato giudizio di proporzionalità, avendo messo in risalto “l’estrema gravità delle plurime condotte contestate, da sole e nel loro complesso”, che rendeva irrilevante sia l’assenza di precedenti disciplinari sia il possesso di una qualifica non dirigenziale, l’entità dei notevoli danni arrecati ai terzi, al datore di lavoro e alla collettività, l’intenzionalità della condotta, sotto il profilo del dolo eventuale, e il concorso nell’illecito di più lavoratori in accordo tra loro.
- Con il terzo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, la mancata considerazione di elementi suscettibili di riqualificare la sua condotta e l’assenza di indicazione delle ragioni della decisione. Soprattutto, contesta che la corte territoriale abbia dato rilievo solo al concorso di più lavoratori nella commissione di un reato, senza valutare gli ulteriori criteri fissati alle lettere a), b), c), d) ed e) dell’art. 3 CCNL e, quindi, l’assenza di intenzionalità, la mancanza di volontà di approfittamento, la mancanza di insubordinazione, di danno all’immagine e di disservizio alla collettività, la particolare tenuità del danno, il suo ravvedimento operoso, l’assenza di danni a terzi e di precedenti disciplinari.
- La censura è inammissibile giacché, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla legge n. 134 del 2012, il vizio di motivazione attiene ad un vizio specifico, denunciabile per cassazione solo ove relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario e, quindi, ad una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico, ad un dato materiale la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), da contestare nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate, come nella specie, ove si lamenta la valutazione delle risultanze probatorie effettuata dal giudice del merito, chiedendone, nella sostanza, un riesame, inammissibile in sede di legittimità.
- Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, nonché l’erronea interpretazione ed applicazione dell’art. 55 ter d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto la corte territoriale non avrebbe adeguatamente valutato la diversità della sua condotta rispetto a quella del Di Masi. Egli sostiene che la sentenza di appello si sarebbe limitata ad affermare che l’Amministrazione aveva la facoltà e non l’obbligo di sospendere il procedimento disciplinare in attesa della definizione di quello penale. Dopo avere richiamato il contenuto della norma invocata, deduce che, nella specie, la corte d’appello non avrebbe considerato la diversità della sua condotta rispetto a quella di altro lavoratore responsabile delle azioni delittuose, il principio di non colpevolezza, e la mancanza degli elementi integranti reato. Il lavoratore, quindi, menziona la giurisprudenza del giudice amministrativo sulla sospensione cautelare del dipendente e di legittimità sul rapporto tra procedimento disciplinare e penale e sulle ricadute dell’assoluzione in sede penale sullo stesso già concluso, ribadendo la riconducibilità della fattispecie all’art. 3, comma 6, lett. i), o all’art. 3, comma 5, lett. k) del CCNL, e non all’art. 3, comma 8, lett. e) del medesimo CCNL.
- Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato. Va rilevato, da un lato, che la censura si incentra su questioni non esaminate dalla sentenza di appello, come la sospensione del disciplinare in pendenza del procedimento penale e la posizione di altri lavoratori; relativamente a tale censura, inoltre, non sono trascritti i motivi di appello. Ne consegue l’inammissibilità della stessa.
- Dall’altro lato, si sottolinea che, per la giurisprudenza consolidata di questa S.C., nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sugli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, giacché la parte può sempre contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass., Sez. L, n. 5317 del 2 marzo 2017).
- La corte territoriale ha valutato in maniera completa gli elementi istruttori, accertando, allo stato degli atti, il compimento degli illeciti, anche penali, contestati. Per ciò che riguarda una possibile assoluzione del ricorrente in sede penale, si osserva che questa, ove dovesse intervenire, potrà eventualmente essere fatta valere dal lavoratore. Infine, per quel che concerne la riconducibilità della fattispecie all’art. 3, comma 6, lett. i), o all’art. 3, comma 5, lett. k) del CCNL, e non all’art. 3, comma 8, lett. e) del medesimo CCNL, esse sono infondate per le considerazioni sopra esposte, che qui si richiamano.
- Il ricorso è rigettato. Le spese di lite seguono la soccombenza ai sensi dell’art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo. Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, dell’obbligo per il ricorrente di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto, trattandosi di ricorso per cassazione la cui notifica si è perfezionata dopo la data del 30 gennaio 2013 (Cass., Sez. 6-3, n. 14515 del 10 luglio 2015).