Cass. civ., III, sent., 10.01.2023, n. 370
PRINCIPIO DI DIRITTO
“il sentimento di pietà per i defunti, inteso quale diritto soggettivo ad esercitare il culto dei propri morti, non è stato leso, tenuto conto che le ceneri sono state riposte in un’urna riportante i dati identificativi del defunto e che la pratica della cremazione è consentita da tempo anche dalla Chiesa cattolica ed è ampiamente diffusa nel costume sociale.”
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
“Il primo motivo (III.1) denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 285 del 1990 art. 79 e del D.P.R. n. 254 del 2003 art. 3, commi 5 e 6: la ricorrente assume che la norma dell’art. 79 del Regolamento di Polizia Mortuaria concerne esclusivamente la cremazione del cadavere (in occasione della “prima sepoltura”), mentre per la cremazione dei resti mortali derivanti da attività di esumazione ed estumulazione del D.P.R. n. 254 del 2003 art. 3 prevede che l’autorizzazione sia rilasciata de piano dal competente ufficio comunale, “in assenza della documentazione prevista dal D.P.R. n. 285 del 1990 art. 79, commi 4 e 5, che non è ovviamente richiesta, e senza in alcun modo richiedere l’assenso dei familiari”, giacché “la norma non rinvia affatto alle condizioni di cui al citato art. 79”;
aggiunge che in tal senso orientano anche la Circolare del Ministero della Sanità n. 10 del 31.7.1998 e l’ordinanza sindacale n. 970/2011 del Comune di XXXXXX;
il secondo motivo (III.2) deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2, commi 2 e 11, della L.R. Piemonte n. 20/2007, a mente dei quali “la cremazione e la conservazione delle ceneri nei cimiteri sono disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1990, n. 285” (comma 2) e “le autorizzazioni alla cremazione, al trasporto, all’inumazione o alla tumulazione dei resti mortali, sono rilasciate ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 2003, n. 254 art. 3 ” (comma 11): la ricorrente assume che “del tutto errata è pertanto la considerazione svolta nella motivazione della sentenza per la quale, in tale fattispecie “il consenso dei famigliari era già richiesto dal predetto D.P.R. n. 285 del 1990″; così come errata è l’interpretazione e l’applicazione della norma regionale, ed in particolare del comma 11, che al contrario legittima senz’altro l’autorizzazione alla cremazione indipendentemente dal consenso (o assenso) espresso dei familiari”;
col terzo motivo, la AFC Torino denuncia: “111.3. Violazione e falsa applicazione del L. n. 130 del 2001 art. 3, comma 1, lett. g). 111.3.1. Sulla inefficacia della norma in assenza di regolamento attuativo. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 2 e 11, della L.R. Piemonte in data 31.10.2007, n. 20. Violazione e falsa applicazione, anche sotto il profilo della errata disapplicazione della circolare Ministero Sanità n. 10 del 31.07.1998 e dell’Ordinanza sindacale in data 4.03.2011 n. 970 del Comune di XXXXXX”;
la ricorrente contesta che la norma del L. n. 130 del 2001 art. 3 (che non può essere ritenuta interpretativa di quella del D.P.R. n. 254 del 2003 art. 3, comma 6, dato che quest’ultima è successiva) disciplini compiutamente la materia, al punto che la sua efficacia non sia condizionata dall’emissione del regolamento attuativo: richiamato il parere n. 2957/03 espresso dal Consiglio di Stato -che ha ritenuto immediatamente applicabili, nonostante la mancata emanazione del regolamento, le sole disposizioni della L. n. 130 del 2001 “alle quali può riconoscersi efficacia precettiva per compiutezza di disciplina (self executing)”-, rileva che la disposizione “richiede necessariamente l’emanazione di norme attuative che ne rendano chiara, coerente e possibile l’operatività” e che pertanto “non può trovare diretta ed automatica applicazione, in quanto, appunto, richiede la definizione di molteplici aspetti applicativi”; più precisamente, in quanto la norma nulla dispone “in merito alla precisa portata della ‘irreperibilità’ quale condizione per procedere in mancanza di assenso”; “nulla dispone in ordine alle modalità, natura formale e condizioni della comunicazione agli interessati dell’avvio eventuale della cremazione (…), presupposto per l’eventuale esplicazione dell’assenso previsto dalla lett. g) o per il perfezionamento della condizione di irreperibilità”; “nulla dispone esplicitamente per il caso in cui, effettuata la comunicazione, sussista o permanga il silenzio, il disinteresse, degli interessati”; evidenziata pertanto la mancata operatività della L. n. 130 del 2001 art. 3, lett. g) in assenza di regolamento attuativo, la ricorrente conclude che, “in caso di cremazione di resti mortali, non può che intervenire il disposto del già richiamato D.P.R. n. 254 del 2003 art. 3, commi 5 e 6, intervenuto successivamente alla norma in esame, che rimette al competente ufficio comunale il rilascio dell’autorizzazione (anche) alla cremazione dei resti mortali, senz’altra condizione”;
la ricorrente prosegue (al punto 111.3.1.1.) affermando che, alla luce della riforma costituzionale di cui alla L. Cost. n. 3/2001, comportante una competenza almeno concorrente, nella materia, di Stato e Regione, la norma di cui all’art. 2, comma 11 L.R. Piemonte n. 20/2007, “supera la norma previgente (L. n. 130 del 2001) e comunque costituisce essa stessa il complesso delle norme attuative” previste dal L. n. 130 del 2001 art. 3, comma 1,;
di seguito (al punto 111.3.2., rubricato “sulla interpretazione della norma, ove ritenuta comunque applicabile. Violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990 art. 8, commi 1 e 3,. Violazione e falsa applicazione, anche sotto il profilo della errata disapplicazione, del regolamento comunale n. 264 per il servizio mortuario e dei cimiteri del Comune di XXXXXX, con riferimento agli artt. 41 e 42 dell’Ordinanza sindacale in data 4.03.2011 n. 970 del Comune di XXXXXX”), la ricorrente assume che, quand’anche si riconoscesse l’immediata applicabilità della norma della L. n. 130 del 2001 art. 3, comma 1, lett. g), la stessa “dovrebbe essere interpretata in modo opposto a quanto assunto dal Giudice di appello”, sia “in riferimento alle forme della comunicazione da svolgere nei confronti degli aventi diritto sia (…) in relazione agli effetti del silenzio serbato a fronte della comunicazione legalmente perfezionata”;
tanto rilevato in relazione alla portata e alla (negata) immediata efficacia dell’art. 3, comma 1, lett. g) L. n. 130/2001, la ricorrente solleva (al punto 111.4.) eccezione di costituzionalità della norma per “violazione del principio di buon andamento della Amministrazione ex art. 97 della Carta e del principio di ragionevolezza, corollario dl principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 della Carta – c.d. eccesso di potere legislativo”; più specificamente, contesta la legittimità costituzionale della norma “ove interpretata: – nel senso di escludere forme di comunicazione agli interessati, aventi diritto ad esprimere l’assenso, nelle forme previste della L. n. 241 del 1990 art. 8, comma 3,; – e nel senso di escludere che il mancato riscontro alla comunicazione effettuata nelle forme di legge consentite, c.d. ‘disinteressé costituisca condizione equivalente all’assenso ritualmente espresso”;
al punto 111.5., la ricorrente denuncia, infine, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. e dell’art. 2 Cost. e censura la sentenza laddove afferma che è stato violato il principio costituzionale della pietas dei defunti, costituente estrinsecazione della propria libertà personale e del diritto ad esercitare il proprio pensiero e di professare la propria fede: assume che il sentimento di pietà per i defunti, inteso quale diritto soggettivo ad esercitare il culto dei propri morti, non è stato leso, tenuto conto che le ceneri sono state riposte in un’urna riportante i dati identificativi del defunto e che la pratica della cremazione è consentita da tempo anche dalla Chiesa cattolica ed è ampiamente diffusa nel costume sociale.
Tutti questi motivi, ponendo questioni comuni, possono valutarsi insieme e sono infondati.
La L. n. 130 del 2001 ha demandato ad un successivo regolamento la nuova disciplina di polizia mortuaria, ponendosi però essa stessa come fonte di quella disciplina in alcuni casi particolari.
All’art. 1 lettera g, la norma prevede che ” l’ufficiale dello stato civile, previo assenso dei soggetti di cui alla lettera b) numero 3), o, in caso di loro irreperibilità, dopo trenta giorni dalla pubblicazione nell’albo pretorio del comune di uno specifico avviso, autorizza la cremazione delle salme inumate da almeno dieci anni e delle salme tumulate da almeno venti anni”.
Non è stato emanato regolamento attuativo di tale norma di legge, e tuttavia può fondatamente dirsi che la norma in questione è comunque vigente, essendo il suo precetto sufficientemente dettagliato da potersi applicare: è’ infatti previsto che l’ufficiale dello stato civile debba richiedere il consenso dei parenti, previo loro individuale avviso, e, nel caso di irreperibilità, previa affissione all’albo. Con la conseguenza che la norma contempla almeno due forme alternative di comunicazione agli interessati, che esauriscono le ipotesi che si possono verificare in concreto.
Inoltre, attraverso il richiamo alla lettera b) del medesimo articolo, la legge individua altresì in modo specifico la categoria dei parenti il cui assenso deve essere richiesto.
Si tratta quindi di una norma che non ha bisogno di ulteriori specificazioni per poter essere applicata.
Ciò posto, è pacifico che la comunicazione individuale è stata effettuata a domicilio non corretto, per poi essere rinnovata, ma erroneamente, mediante pubblici proclami.
L’art. 1 sopra richiamato prevede il previo assenso dei parenti, e questa previsione comporta allocazione di un diritto ad essere informati e dunque ad acconsentire o meno alla cremazione.
Qui il consenso è atto strumentale alla tutela di un interesse preesistente, ossia non consistente nel consenso stesso: quello del vivente alla integrità del corpo del defunto, ed altresì alla possibilità di culto verso quest’ultimo. La legge prevede il consenso del parente proprio perché riconosce al parente un interesse non solo al culto verso il defunto, ma altresì a che la modalità di tale culto non sia imposta in forme diverse da quelle fino a quel momento esercitate (già Cass. 1834 del 1975 ha riconosciuto il diritto del parente alla scelta del luogo e della modalità di sepoltura).
In sostanza, il corsenso dei parenti è strumentale alla realizzazione o alla tutela dell’interesse cosiddetto secondario al sepolcro.
Tradizionalmente si distingue infatti tra diritto primario al sepolcro, ossia il diritto di essere seppellito o di seppellire altri in un dato sepolcro, e che taluno ritiene avere natura reale, tale altro personale; ed il diritto secondario, questo però di natura personalissima ed intrasmissibile, che spetta a chiunque sia congiunto di una persona, che riposa in un sepolcro, di accedervi e di opporsi ad ogni trasformazione che arrechi pregiudizio al rispetto dovuto a quella spoglia.
Questo diritto secondario è senz’altro, come si è detto, un diritto di natura personale, difettando il potere sulla cosa caratteristico del diritto di sepolcro primario, e consistendo esso piuttosto che nella tutela del godimento o dell’uso di un sepolcro, nella tutela del sentimento del parente verso il defunto.
Ne segue, e pare ovvio, che esso si distingue dall’interesse dei parenti a che la salma rimanga nel luogo di sepoltura per il periodo minimo previsto dalla legge, nonché ad avere risarcimento per l’illegittima anticipata traslazione, interesse sotteso al diritto primario, ossia al diritto di uso e godimento del sepolcro. Un risalente precedente di questa Corte ha risolto qualificando come di interesse legittimo la posizione dei parenti in questo caso: interesse che, se illegittimamente affievolito dal provvedimento amministrativo di anticipato trasferimento della salma, dà diritto al risarcimento (Cass. 2062 del 1952).
Inoltre, i diritti secondari di sepolcro oltre che distinguersi dall’interesse di cui si è detto in precedenza, vanno distinti dalla pietà verso i defunti, quale oggetto giuridico dei reati previsti dagli artt. 407 e ss. del codice penale: pietà che consiste nel sentimento collettivo, e non già individuale, che la società esprime verso i propri cari. Si ricorderà che una delle obiezioni alla introduzione nel codice penale dei delitti contro la pietà dei defunti fu proprio di dire che si trattava di sentimenti personali non suscettibili di tutela penale, e la replica fu, per l’appunto, che invece quei delitti vanno punti perché ledono un sentimento sociale nobilissimo.
Piuttosto, i diritti secondari di sepolcro hanno a contenuto sentimenti che esaltano l’aspetto spirituale dell’uomo e costituiscono la parte più alta e fondamentale del patrimonio affettivo della comunità, e rappresentano dal punto di vista giuridico la classe dei sentimenti-valori, qualificati positivamente dal diritto e protetti sia in funzione della loro attuazione sia contro eventuali violazioni.
Una remota decisione di merito ha inteso ravvisare il fondamento di tali sentimenti-valori, per via analogica, nelle disposizioni sulla tutela del nome per ragioni familiari (art. 8 c.c.), dell’abuso dell’immagine altrui (art. 10 c.c.), dei diritti relativi alla corrispondenza epistolare ed al ritratto (art. 9396 L. 22 aprile 1941, n. 633 sul diritto d’autore) (Trib. Roma 4 aprile 1973, in Dir. fam., 1974, 1080 ss.). E cosi ha fatto parte della dottrina. Ma, a prescindere da tali norme, l’interesse dei parenti ad avere un luogo per onorare il defunto, e l’interesse a che tale luogo non sia trasformato, è esplicazione di un diritto della personalità, o di una manifestazione del diritto alla personalità (ove si acceda alla tesi monistica) posto che il culto dei defunti è parte della vita personale di ciascuno, e dunque momento di sviluppo della personalità, cui concede rilevanza l’art. 2 della Costituzione. Esso è anche espressione della libertà religiosa di ognuno, quale che sia la religione seguita, essendo il culto dei defunti comune alle diverse religioni praticate dai cittadini: e dunque il diritto secondario di sepolcro trova fondamento altresì nell’art. 19 della Costituzione, che garantisce la libertà di religione e con essa delle pratiche che ne sono espressione. Le leggi ordinarie stabiliscono le modalità di tutela di tale diritto, ma esso è innanzitutto un diritto che trova ragione nella Carta fondamentale, e precisamente nei citati artt. 2 e 13. Ciò si dice in quanto i congiunti del defunto, di cui si discute, hanno chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, che, come è noto, in assenza della previsione espressa di un suo risarcimento, è risarcibile ove derivi dalla violazione di interessi costituzionalmente tutelati. Infine, non può dirsi che l’interesse, pur rilevante costituzionalmente, non ha subito tuttavia alcuna lesione (censura posta al punto 111.5 del ricorso, p. 31), in quanto la salma è solo stata trasformata in cenere: è di tutta evidenza che l’interesse al culto dei defunti non è leso soltanto dalla distruzione o dispersione del cadavere, ma altresì dalla imposizione di forme di culto che non sono previamente accettate dai parenti del defunto. Questa conclusione è imposta proprio dalla necessità del consenso dei parenti: prevedendo che la trasformazione in cenere debba essere autorizzata, è la legge stessa che considera lesione del diritto una trasformazione che ne prescinda. È la stessa legge, ossia, a dare rilevanza al mero trasferimento (oltre che alla trasformazione) della salma, ossia è la legge stessa a riconoscere un diritto ad opporsi alla cremazione, e da ciò si deduce che la cremazione, se non autorizzata, è atto lesivo del diritto di culto. Il ricorso va pertanto rigettato. La novità della questione consente la compensazione delle spese.”