MASSIMA
Con la sentenza qui massimata, la S.C. ha confermato (Sez. 6, n. 48093 del 10/10/2018, Rv. 274230) che ai fini della concessione della rinnovazione dibattimentale, ai sensi dell’art. 603, comma 1 c.p.p., é assolutamente prioritario l’accertamento, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato, circa l’incompletezza dell’indagine dibattimentale e la constatazione che il giudice non potrebbe altrimenti decidere, senza la rinnovazione istruttoria.
Non supera la prova di ammissibilità, a causa di manifesta genericità, la domanda attinente a fatti e condotte (appostamenti presso l’ingresso dell’abitazione della persona offesa, aggressioni verbali, dispetti consistenti nel citofonare senza motivo, richiesta di intervento delle forze di polizia ingiustificatamente) rispetto ai quali le prove dichiarative e testimoniali addotte dalla parte offesa siano state ritenute fondate con motivazione logica e coerente. In particolare il reato di atti persecutori ex art. 612bis c.p. risulta esattamente individuato dal particolare atteggiarsi delle conseguenze della condotta, atte a differenziarlo dal reato meno grave di molestie ex art. 660 c.p., consistente nell’infastidire la vittima, in quanto idonee a cagionare nella vittima stessa un perdurante e grave stato di ansia o alterazione delle proprie abitudini di vita.
L’identificazione dell’elemento psicologico del reato, nel rispetto dei criteri già fissati dalla Corte di Cassazione, corriponde al dolo generico di un reato avente natura abituale di evento e consapevolezza di produrre uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice, senza che sia invece necessaria la preordinazione delle condotte, essendo sufficiente che siano casualil e realizzate occasionalmente. Inoltre il ripetersi di comportamenti tipici, minacciosi, intervenuti in diversi tempi, consente di configurare l’ipotesi di più reati uniti dal vincolo della continuazione.
È confermata la giurisprudenza della S.C. secondo cui gli eventuali motivi nuovi in caso di impugnazione, debbono essere tempestivamente depositati entro la prima udienza, in cui l’iimputato viene ritualmene citato, non avendo rilievo che detta udienza sia rinviata per legittime esigenze difensive (Sez. 2, n. 47108 del 04/11/2021).
Essendo questione rilevabile d’ufficio, e quindi valutata dalla S.C. nel caso di specie, la prospettata violazione del bis in idem é infondata e non corrispondente alla giurisprudenza consolidata della Corte, se, stante la possibilità di concorso formale tra i reati di atti persecutori (stalking) e di minacce, che ne costituiscano una porzione di condotta, é possibile che gli atti persecutori si sotanzino in ulteriori comportamenti molesti e minatori, tali per cui non sussiste la identità del fatto storico rilevante per la violazione del ne bis in idem (Sent. Corte Costituzionale n. 200 del 2016; Sez. 5 n. 20859 del 2021; Sez. 5, n. 22043 del 2020, nell’analoga relazione del rapporto tra le fattispecie di stalking e la violazione di domicilio). La Corte Costituzonale, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 649 c.p., ha infatti escluso la possibilità che nel caso di due fattispecie commesse con un’unica azione o omissione e quindi in concorso formale tra loro, si possa automaticamente prescindere dalla verifica della “medesimezza” del fatto e che si possa escludere di processare nuovamete l’imputato già condannato per il primo reato. Ma, di contro, la Corte Costituzionale ha altresì escluso che in presenza di “medesimezza” del fatto nel caso di reati concorsuali, si debba necessariamete invocare il divieto di bis in idem. In tal senso, i giudici costituzionali auspicano che “si sviluppi una dimensione esclusivamente processuale” del principio suddetto, per cui l’iniziativa penale é preclusa se il “fatto” sia stato già oggetto di una pronuncia di carattere definitivo e si possa riconoscere che si tratti del “medesimo” fatto secondo lo shcema della coincidenza della triade fenomenica “condotta-nesso causale-evento naturalistico”. Ebbene, la Corte di Cassazione rileva che la condotta di stalking é integrata da comportamenti molteplici e non coincidenti, se non minimamente, con quella di minacce ed ingiurie (pur stante la recente depenalizzazione del reato di ingiurie), ed é diversa da quest’ultima anche nel coefficiente dell’elemento soggettivo in quanto nel reato di stalking il dolo generico é ispirato dalla consapevolezza che gli atti minacciosi e molesti producano uno degli eventi previsti dala fattispecie incriminatrice e dall’abitualità dell’agire; invece nel reato ex art. 612bis c.p. consiste nella volontà di minacciare un male ingiusto indipendentemente dal fine.
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Il ricorso va dichiarato inammissibile.
1.II primo motivo è inammissibile per difetto di specificità.
1.1. Lo stesso, invero, ripropone il medesimo motivo dedotto avverso la sentenza di primo grado e in relazione al quale la sentenza impugnata ha fornito esaustiva motivazione (p.6 della sentenza impugnata) chiarendo analiticamente le ragioni per le quali le richieste istruttorie formulate già in primo grado ai sensi dell’art. 507 c.p.p. non fossero da considerarsi necessarie ai fini del decidere.
1.1.1. Nel giudizio d’appello, infatti, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603, comma 1, c.p.p., è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n. 48093 del 10/10/2018, Rv. 274230).
Va infine evidenziato che, per come formulato rispetto all’atto di appello, il motivo appare inedito in quanto per la prima volta il ricorrente evidenzia che la decisività della rinnovazione istruttoria rileverebbe ai fini della riqualificazione dei fatti nella meno grave fattispecie di cui all’art. 393 c.p., circostanza del tutto nuova e mai prospettata.
- Egualmente inammissibile perché generico si presenta il secondo motivo.
2.1 Il ricorrente non si confronta con le esaustive motivazioni della sentenza impugnata(p.10 e ss.) la quale, ripercorrendo e aderendo al percorso motivazionale già illustrato nella sentenza di primo grado, con motivazione logica e coerente, ha chiarito come tutti gli episodi contestati al ricorrente, sia relativi agli appostamenti presso l’ingresso dell’abitazione della persona offesa, sia le aggressioni verbali, sia i dispetti consistiti nel citofonare senza motivo, nel chiedere l’intervento delle forze di polizia ingiustificatamente, siano stati puntualmente descritti dalla persona offesa, indicando altresì la sussistenza di riscontri con le altre prove testimoniali, superando anche le criticità ravvisate nei motivi di appello con riferimento alla prova dichiarativa e alla esistenza di rapporti di amicizia e conoscenza della persona offesa con i testi, rapporto chiaramente giustificato dalla sussistenza di corretti rapporti di vicinato spesso caratterizzati anche da rapporti amicali.
2.1.1. Quanto alla esatta qualificazione giuridica del reato di atti persecutori, la sentenza impugnata evidenzia la ripetitività e consistenza dei comportamenti persecutori che in quanto tali avevano destabilizzato la donna, costretta a ricorrere alle cure di uno specialista per il grave stato di ansia prodottosi.
In punto di esatta qualificazione giuridica del fatto reato, deve rilevarsi che la Corte di appello ha indicato chiaramente le condotte tenute dall’imputato, aggiungendo che ha procurato l’evento che integra il reato, nella specie il timore per l’incolumità della persona offesa, il mutamento delle abitudini di vita, con la necessità di ricorrere a sistemi di videosorveglianza e di difesa dell’abitazione quali un cancello.
Il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p., infatti, consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 5, n. 15625 del 09/02/2021 Rv. 281029).
2.1.2 Anche con riferimento alla insussistenza dell’elemento psicologico la sentenza ha fatto buon governo dei principi fissati da questa Corte avuto riguardo al dolo in base ai quali: “Nel delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale di evento, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione.” (Sez.5, n. 43085 del 24/09/2015, Rv.265230; Sez.1, n. 28682 del 25/09/2020, Rv.279726).
3.Inammissibile in quanto privo di specificità estrinseca il terzo motivo di ricorso.
Contrariamente a quanto esposto nel richiamato motivo, la Corte territoriale ha spiegato in maniera completa ed esaustiva che l’imputato ha tenuto una pluralità di comportamenti minacciosi, intervenuti in diversi tempi che consentono di ritenere configurabili più reati riuniti nel vincolo della continuazione.
4.In data 11 novembre 2011 sono pervenuti motivi aggiunti nell’interesse del ricorrente.
Gli stessi risultano depositati fuori termine.
Si richiama al riguarda la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale:” In tema di impugnazioni, il termine per la presentazione dei motivi nuovi deve essere calcolato avendo riguardo alla prima udienza in cui l’imputato viene ritualmente citato, a nulla rilevando che detta udienza sia rinviata per legittime esigenze di difesa. (Sez. 2, n. 47108 del 04/11/2021, Rv. 282323).
4.1. Va, tuttavia rilevata che la doglianza avanzata relativa alla violazione del principio del ne bis in idem deve essere valutata da questa Corte attenendo ad una questione rilevabile anche di ufficio.
La censura è manifestamente infondata non confrontandosi con la giurisprudenza di questa Corte in relazione allo specifico tema.
Questa Corte ha chiarito che “La pronunzia assolutoria per il delitto di cui all’art. 612-bis c.p., passata in giudicato, non preclude la celebrazione del giudizio per il reato di minaccia che ne costituisca una porzione di condotta, quando gli atti persecutori si siano sostanziati, oltre che nel profferire frasi intimidatorie, anche in ulteriori comportamenti molesti e minatori determinanti uno o più degli eventi tipici dello “stalking”, non sussistendo identità del fatto storico rilevante per la violazione del divieto di “bis in idem”, secondo l’interpretazione data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 200 del 2016. (Sez. 5, n. 20859 del 17/03/2021, Rv.281267; analogamente in relazione ai rapporti tra le fattispecie di stalking e di violazione di domicilio Sez. 5, n. 22043 del 30/6/2020, Napoletano, Rv. 279357)”
Dunque, la soluzione del quesito circa la possibilità di concorso formale tra i due reati non ha implicazioni automatiche sulla soluzione della questione di bis in idem eventualmente proposta.
La Consulta, infatti, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., ha escluso che la possibilità astratta che due fattispecie, commesse con un’unica azione od omissione, concorrano tra loro consenta di prescindere dalla verifica circa la medesimezza del fatto nella chiave “materiale” sopra evidenziata e di processare comunque nuovamente l’imputato già condannato per il primo reato.
La Corte costituzionale, di contro, ha anche escluso che automaticamente si possa giungere a conclusioni contrarie, e cioè non è corretto ritenere che, ogni qualvolta vi sia concorso formale tra due reati, vi sia necessariamente medesimezza del fatto e debba operare, pertanto, il divieto di bis in idem.
E tali conclusioni sono coerenti con una concezione del principio suddetto che i giudici costituzionali auspicano che si sviluppi “in una dimensione esclusivamente processuale”, precludendo una seconda iniziativa penale, laddove uno stesso “fatto” sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo. Nell’ottica di verifica suddetta, dunque, è necessario valutare se il fatto già giudicato con pronuncia assolutoria sia il “medesimo” di quello sottoposto all’esame del Collegio, secondo lo schema della coincidenza della triade fenomenica “condotta-nesso causale evento naturalistico”.
Ebbene, nel caso del ricorrente, già l’analisi della “condotta” conduce a ritenere insussistente /’idem factum ai sensi della lettura costituzionalmente legittima dell’art. 649 c.p.p.: nell’ottica di verifica suddetta, dunque, è necessario valutare se il fatto già giudicato sia il “medesimo” di quello sottoposto all’esame del Collegio, secondo lo schema della coincidenza della triade fenomenica “condotta-nesso causale evento naturalistico”.
La condotta di stalking è diversa, in quanto integrata da comportamenti molteplici e non coincidenti, se non in una piccola parte, con quella dei reati di minaccia ed ingiurie, (per il reato di ingiuria è stata già emessa sentenza di assoluzione per depenalizzazione), oltre che da un coefficiente soggettivo differente che, per il reato di stalking è quello, integrato dal dolo generico, della volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire (cfr. Sez. 5, n. 43085 del 24/9/2015, A., Rv. 265230 e Sez. 1, n. 28682 del 25/9/2020, S., Rv. 279726); mentre, per il reato di cui all’art. 612 c.p., l’elemento soggettivo corrisponde al dolo generico consistente nella cosciente volontà di minacciare un male ingiusto, indipendentemente dal fine avuto di mira.
6.Alla inammissibilità del ricorso, consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Consegue altresì, a norma dell’art. 616 c.p.p. l’onere del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata, in considerazione delle ragioni di inammissibilità dei ricorsi, nella misura di Euro tremila.
Il ricorrente va altresì condannato alle spese di rappresentanza processuale della costituita parte civile che saranno liquidate dalla Corte di appello dal momento che la persona offesa risulta ammessa al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Cass. pen., V, ud. dep. 22.02.2023, n. 7825