Cass. pen., V, ud. dep. 22.03.2023, n. 12100
MASSIMA
L’annullamento del provvedimento di radiazione produce certamente effetti ex tunc, dovendosi considerare l’atto annullato tamquam non esset. (…) ciò riguarda il provvedimento di annullamento e non quello di sospensione adottato a fini cautelari, dotato di piena autonomia rispetto al primo, del quale l’esito positivo all’interessato del giudizio di cognizione disciplinare fa cessare l’efficacia, qualora lo stesso sia ancora in vigore, ma non può eliderne gli effetti già prodotti ed esauriti, tanto più nel caso in cui, come avvenuto nella specie, la decisione che ha travolto il provvedimento di radiazione si fonda su vizi procedurali e di motivazione dello stesso
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso è fondato negli esclusivi limiti di seguito esposti.
- Il primo motivo di ricorso è invero infondato.
Il ricorrente sostiene che l’annullamento del provvedimento di radiazione dall’albo dei dottori commercialisti avrebbe automaticamente travolto anche quello autonomo di sospensione dall’esercizio della professione precedentemente adottato in via cautelare e la cui violazione integra pacificamente, per costante insegnamento di questa Corte, il reato contestato sotto il titolo di cui all’art. 348 c.p., ancorché lo stesso non comporti la cancellazione dal menzionato albo (Sez. 6, Sentenza n. 20439 del 15/02/2007, Pellecchia, Rv. 236419).
- Si tratta di tesi che non può essere condivisa.
L’annullamento del provvedimento di radiazione produce certamente effetti ex tunc, dovendosi considerare l’atto annullato tamquam non esset. Ma per l’appunto ciò riguarda il provvedimento di annullamento e non quello di sospensione adottato a fini cautelari, dotato di piena autonomia rispetto al primo, del quale l’esito positivo all’interessato del giudizio di cognizione disciplinare fa cessare l’efficacia, qualora lo stesso sia ancora in vigore, ma non può eliderne gli effetti già prodotti ed esauriti, tanto più nel caso in cui, come avvenuto nella specie, la decisione che ha travolto il provvedimento di radiazione si fonda su vizi procedurali e di motivazione dello stesso.
- Inconferente è poi il richiamo operato nei motivi nuovi alla giurisprudenza formatasi con riguardo all’ 650 c.p.
A parte che quella della disapplicazione dell’atto amministrativo è questione totalmente inedita, non essendo stata sottoposta al giudice dell’appello con il gravame di merito, deve osservarsi che il menzionato orientamento giurisprudenziale impone al giudice penale di verificare previamente la legalità sostanziale e formale del provvedimento che si assume violato, sotto i tre profili tradizionali della violazione di legge, dell’eccesso di potere e della incompetenza (ex multis Sez. 1, Sentenza n. 54841 del 17/01/2018, Sciara, Rv. 274555), che pacificamente non ricorrono nel caso di specie, posto che ancora una volta l’asserita illegittimità del provvedimento di sospensione viene prospettata come derivazione di quello autonomo e successivo di radiazione.
- Parimenti infondato si palesa il secondo motivo di ricorso.
Non merita accoglimento la tesi dell’imputato per cui la Corte territoriale avrebbe travisato prove documentali inerenti la qualità nella quale il C. svolgeva la contestata attività di patrocinio. Infatti, non è idonea ad escludere la rilevanza penale della condotta la circostanza che l’imputato, durante il periodo di sospensione dall’albo dei commercialisti, spendesse all’esterno – oltre alla propria qualifica di commercialista, dalla quale momentaneamente era stato sospeso – anche quella di revisore contabile. Tale qualifica, infatti, non lo legittimava di per sé al patrocinio dinanzi agli organi della giustizia tributaria atteso che, ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 fra i soggetti abilitati all’assistenza tecnica in tale sede non sono ricompresi i revisori contabili in quanto tali, ma solo se in possesso degli altri titoli considerati dalla disposizione citata.
- Inconferente è invece l’evocazione da parte del ricorrente dell’ 63 del D.P.R. n. 600 del 1973, nella parte in cui rinvia al testo dell’art. 4 comma 1 D.Lgs. n. 545 del 1992vigente all’epoca dei fatti. Infatti, l’art. 12 comma 3 lett. d) D.Lgs. n. 546 del 1992 rinvia al comma 3 del citato art. 63, il quale abilita al patrocinio dinanzi agli organi della giustizia tributaria, qualora ricorrano determinate condizioni stabilite dalla norma, i dipendenti del Ministero dell’economia e delle finanze e gli ufficiali e gli ispettori della Guardia di Finanza, se cessati dal servizio. Il riferimento ai revisori dei conti, attraverso il menzionato rinvio al D.Lgs. n. 545 del 1992, è invece contenuto nel comma 2 dello stesso art. 63 – non richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992 – e riguarda esclusivamente l’individuazione dei soggetti cui viene conferito il potere di autenticazione della sottoscrizione della firma del contribuente in calce alla procura speciale per la presentazione del ricorso tributario. Ne discende che il revisore dei conti è abilitato a patrocinare dinanzi alla giustizia tributaria non in quanto tale, ma solo se rientra in una delle categorie elencate dall’art. 12 del decreto da ultimo citato ed in tal caso è però titolare – questa volta sì in quanto revisore dei conti iscritto all’albo – del potere di autenticazione della firma del ricorrente.
- Se ne conclude che, come sostenuto dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata, il C. al momento dei fatti, non era – ed era pienamente consapevole di non essere – in possesso dei requisiti prescritti dalla legge per patrocinare dinanzi al giudice tributario, non solo perché sospeso dall’albo dei commercialisti, ma anche in quanto privo di qualsiasi altro titolo alternativo di abilitazione all’assistenza tecnica presso la giurisdizione tributaria.
- Deve essere invece accolto il terzo motivo di ricorso. I giudici di merito, infatti, hanno illegittimamente applicato al ricorrente la pena accessoria di cui all’ 348, comma 2, c.p., così come introdotta dall’art. 12, comma 1, L. 11 gennaio 2018, n. 3, nonostante la commissione del fatto fosse precedente alla citata modifica legislativa, in quanto risalente al mese di aprile del 2017. Deve pertanto ritenersi che la Corte territoriale abbia illegittimamente applicato retroattivamente all’imputato la pena accessoria prevista dal testo vigente della novella succitata.
- La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio in parte qua e la pena accessoria menzionata eliminata, mentre nel resto il ricorso deve essere rigettato.