Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 17 luglio 2023 n. 20621
PRINCIPIO DI DIRITTO
La pronuncia con cui la Corte di Cassazione dichiara l’improcedibilità del ricorso, per effetto del mancato deposito dello stesso a norma dell’art. 369 c.p.c., a seguito della iscrizione a ruolo a tal fine richiesta dalla parte cui il ricorso sia stato notificato, deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, essendo il provvedimento adottato inquadrabile nei tipi previsti dalla norma.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- L’Agenzia delle Entrate ha depositato l’8 novembre 2021 controricorso notificato il 18 ottobre 2021 per resistere al ricorso notificatole il 6 settembre 2021 da Rossana Recinella, avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo del 2 febbraio 2021. Il ricorso notificato da Rossana Recinella non risulta depositato in cancelleria a norma dell’art. 369 c.p.c., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022, qui applicabile ratione temporis.
- Secondo consolidato orientamento di questa Corte, la parte alla quale sia stato notificato un ricorso per cassazione – e che abbia a sua volta notificato al ricorrente il controricorso – ha il potere, ove il ricorrente abbia omesso di depositare il ricorso e gli altri atti indicati nell’art. 369 c.p.c., di richiedere l’iscrizione a ruolo del processo al fine di far dichiarare l’improcedibilità del ricorso medesimo, essendo tale potere ricompreso in quello più ampio di contraddire riconosciuto dall’art. 370 c.p.c. (esercitabile ora, alla stregua della riformulazione di tale norma operata dal d.lgs. n. 149 del 2022, con l’immediato deposito del medesimo controricorso). Ciò trova giustificazione nell’interesse del controricorrente al recupero delle spese e di evitare, mediante la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, che il ricorrente possa riproporre, ai sensi dell’art. 387 c.p.c., il ricorso medesimo ove non sia ancora decorso il termine per l’impugnazione (Cass. Sez. 6-L, n. 27571 del 2020; Sez. 1, n. 3193 del 2016; Sez. 6- L, n. 29297 del 2011; Sez. 3, n. 21969 del 2008; Sez. 2, n. 6824 del 1988).
- La sentenza n. 4500 del 1988 di queste Sezioni Unite, peraltro, chiarì che, qualora il ricorso per cassazione non sia depositato, la ammissibilità del controricorso dell’intimato, presentato al fine di sentire dichiarare l’improcedibilità del ricorso per effetto dell’omissione del deposito, postula che detto intimato alleghi copia del ricorso a lui notificata, atteso che, in difetto, non può riconoscersi la sua legittimazione a richiedere in memoria una pronuncia su impugnazione di cui non risulta l’effettiva proposizione (conforme, più di recente, Cass. Sez. 3, n. 10810 del 2011).
- Consegue l’improcedibilità del ricorso notificato da Rossana Recinella.
- Con l’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022, la Sesta Sezione civile Tributaria ha ravvisato la particolare rilevanza della questione inerente alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nell’ipotesi, quale quella di causa, in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente.
5.1. La Sesta Sezione civile Tributaria evidenzia che la questione di diritto è stata decisa in senso difforme nella giurisprudenza di questa Corte e perciò registra due orientamenti: a) un primo orientamento, che l’ordinanza interlocutoria definisce maggioritario e riconduce a numerosi precedenti menzionati (tra cui uno reso da queste Sezioni Unite: ordinanza n. 30702 del 2022), provvede de plano ad attestare la sussistenza del presupposto processuale dell’obbligo di versamento del c.d. doppio contributo anche in caso di improcedibilità del riscorso dichiarata a seguito di iscrizione a ruolo operata dal controricorrente; b) un secondo orientamento, che avrebbe come capofila l’ordinanza n. 8728 del 2022 resa dalla Sesta sezione Tributaria e comunque registra varie pronunce successive conformi, nega, al contrario, che il giudice dell’impugnazione debba rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, qualora la pronuncia adottata sia di improcedibilità del ricorso principale per omesso deposito di quest’ultimo, in quanto la mancata iscrizione a ruolo del ricorso preclude la debenza del contributo iniziale.
5.2. Questo secondo orientamento – segnala l’ordinanza interlocutoria – fa leva su alcuni principi enunciati nella sentenza n. 4315 del 2020 resa da queste Sezioni Unite, in forza dei quali il giudice dell’impugnazione deve, si, rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato quando la pronuncia adottata è inquadrabile nei tipi previsti dalla norma, ed anche quando esso non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venire meno, ma, essendo tale attestazione comunque condizionata all’effettiva debenza del contributo unificato iniziale, può esimersi dal renderla quando il debito tributario in oggetto sia escluso dalla legge in modo assoluto e definitivo.
5.3. L’ordinanza n. 8728 del 2022, e l’orientamento che ad essa ha dato credito, ricomprendono tra i casi di originaria non debenza, che esonera dall’attestazione dei presupposti per il ‹‹raddoppio››, quello, appunto, della dichiarazione di improcedibilità del ricorso perché non depositato in cancelleria, in quanto la mancata iscrizione a ruolo preclude, o comunque radicalmente e definitivamente esclude, l’obbligo di pagare il contributo unificato iniziale.
5.4. L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 osserva, allora, che non è dirimente nella soluzione del problema l’argomento fondato sull’aggettivo “ulteriore” che accompagna l’importo dovuto nelle ipotesi contemplate nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, in quanto l’attestazione della debenza potrebbe valere a legittimare l’amministrazione finanziaria ad esigere sia quanto originariamente dovuto al momento dell’iscrizione a ruolo non praticata, sia quanto previsto dalla citata norma. Il Collegio rimettente nega altresì che la questione sollevata possa risolversi unicamente seguendo i principi enunciati nella sentenza n. 4315 del 2020, i quali, del resto, sono richiamati da entrambi gli orientamenti che si contrappongono. Così, l’ordinanza interlocutoria soppesa le diverse conseguenze deduttive che, ai fini di dar risposta alla rilevata questione, possono comportare la tesi della natura sanzionatoria della disposizione dettata nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, la cautela di sottoporre la stessa ad una stretta interpretazione, gli effetti sull’esercizio del diritto di accesso alla Corte di cassazione, il principio di ragionevolezza e quello del divieto di abuso del processo, il principio di solidarietà, i rapporti fra il diritto alla tutela giurisdizionale e le esigenze di tutela dell’‹‹interesse fiscale››.
- Com’è noto, il “contributo unificato per le spese degli atti giudiziari” venne introdotto dall’art. 9, legge 23 dicembre 1999, n. 488 (“legge finanziaria 2000”). La disposizione sostituiva per i procedimenti civili, penali ed amministrativi il previgente sistema in tema di imposte di bollo, tassa di iscrizione a ruolo, diritti di cancelleria, nonché diritti di chiamata di causa dell’ufficiale giudiziario. La parte che si costituiva per prima in giudizio era onerata, “a pena di irricevibilità dell’atto”, all’anticipazione del pagamento del contributo, salvo il diritto alla ripetizione nei confronti della parte soccombente. Il valore dei procedimenti, occorrente per il calcolo del contributo sulla base di apposita tabella, doveva determinarsi da dichiarazione resa nelle conclusioni dell’atto introduttivo. La norma venne, nel complesso, abrogata dall’art. 299 del d.lgs. 30 maggio 2002, n. 113, e dall’art. 299 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
6.1. Gli artt. 9-18 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, hanno di seguito dettato la disciplina ancora vigente del contributo unificato di iscrizione a ruolo.
6.2. In particolare, l’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (“legge di stabilità 2013”) ha poi inserito (con la decorrenza di cui al comma 18 del medesimo articolo) il comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002: “[q]uando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.
6.2.1. Una recente modifica è stata introdotta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con l’inserimento del comma 1-quater.1 dell’art. 13, secondo cui le disposizioni di cui al comma 1-quater non si applicano quando il ricorso per cassazione viene dichiarato estinto ai sensi dell’articolo 380-bis, secondo comma, ultimo periodo, del codice di procedura civile.
6.2.2. La relazione tecnica che accompagnava la legge 24 dicembre 2012, n. 228, presentava l’art. 1, comma 17, come disposizione idonea a comportare maggiori entrate per il bilancio dello Stato. Sull’ultimo riscontro statistico disponibile, che stimava nella misura del 68 per cento del totale dei procedimenti iscritti (pari a circa 80.000) le impugnazioni, anche incidentali, respinte integralmente o dichiarate inammissibili o improcedibili, la relazione prevedeva che il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato avrebbe determinato un maggior gettito pari a circa 27 milioni di euro, tale da produrre a decorrere dal 2013 un effetto finanziario di importo equivalente sui saldi di fabbisogno ed indebitamento netto.
- L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 della Sesta Sezione civile Tributaria evoca i riflessi costituzionali della questione posta all’attenzione di queste Sezioni Unite.
7.1. Invero, la Corte costituzionale ha avuto più volte occasione di pronunciarsi sulla natura del contributo unificato di iscrizione a ruolo, come anche sul «raddoppio» contemplato dall’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
7.1.1. La sentenza n. 73 del 2005, a proposito del contributo unificato di cui all’articolo 9 della legge 21 dicembre 1999, n. 448, affermò la natura di “entrata tributaria erariale” dello stesso. La sentenza n. 143 del 2012 e la sentenza n. 42 del 2013 ribadirono la natura di «entrata tributaria erariale» del contributo unificato. La sentenza n. 78 del 2016, dopo aver rilevato la eterogeneità dei criteri di determinazione del «contributo unificato» dettati dal d.P.R. n. 115 del 2002, ricordò come il principio della capacità contributiva, quale limite alla potestà di imposizione di cui all’art. 53 Cost., non è invocabile e non può operare con riguardo alle spese di giustizia. La sentenza n. 120 del 2016 evidenziò come l’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 correla l’aggravio del contributo unificato a tutti i casi di esito negativo dell’impugnazione. La norma, pertanto, risponderebbe alla ratio di “scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose”. Secondo la sentenza n. 120 del 2016, altrimenti, “il raddoppio del contributo unificato è previsto a parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle limitate risorse a sua disposizione”.
7.2. Ancor più frequenti sono le pronunce della Corte costituzionale in tema di «diritto tributario processuale», il quale racchiude le norme che guardano al processo (ed in particolare al processo civile) come fenomeno finanziario, nonché come fine cui serve il tributo.
Le decisioni meno recenti evidenziavano la compatibilità fra il principio costituzionale, che garantisce a tutti di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, e le norme che impongono oneri fiscali a carico di chi tale tutela intenda richiedere, purché si tratti di oneri razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, diretti, cioè, ad assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed a prevenire eccessi riprovevoli nell’esercizio del diritto di azione (si vedano le sentenze nn. 45, 56, 83, 113 del 1963; nn. 30, 47, 69, 91, 100 del 1964; n. 80 del 1966). In altre pur risalenti occasioni la Corte costituzionale ha sottolineato l’estraneità dei tributi giudiziari (ovvero, dei contributi imposti e riscossi non soltanto in occasione della prestazione del servizio giudiziario, ma anche e soprattutto al fine di conseguire atti o attività propri di quel servizio) all’ambito di applicazione dell’art. 53 della Costituzione (ad esempio, la sentenza n. 23 del 1968).
La sentenza n. 62 del 1977 mantenne ferma la distinzione tra i tributi “lato sensu” giudiziari, gravanti su soggetti che fruiscono divisibilmente (cioè in modo misurabile per ogni singolo atto) del servizio giudiziario in rapporto o all’esercizio del proprio ministero davanti ad organi giurisdizionali o all’emanazione di provvedimenti giurisdizionali (in quanto tali esclusi dall’assoggettamento al principio della capacità contributiva), e le prestazioni contributive che sono, al contrario, caratterizzate dal conseguimento di finalità generali distinte da quelle particolari relative al compimento di singoli atti, e perciò restano incluse nella garanzia dell’art. 53 Cost.
In anni più recenti (ad esempio, le sentenze n. 333 del 2001 e n. 522 del 2002) la Corte costituzionale ha ribadito la distinzione fra oneri imposti allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze ed oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali, ravvisando l’illegittimità di quegli impedimenti alla tutela giurisdizionale dei diritti costituiti dall’adempimento di obblighi fiscali privi di qualsiasi connessione con il processo stesso.
Da ultimo, la sentenza n. 140 del 2022 ha affermato che la Costituzione non vieta di imporre prestazioni fiscali in stretta e razionale correlazione con il processo, ma, se, in linea di principio, possono esistere casi in cui il dovere tributario può tradursi in oneri concernenti l’esercizio dello stesso diritto alla tutela giurisdizionale, in concreto ciò può avvenire solo nel rispetto del principio di proporzionalità e in particolare della stretta necessità, risultando costituzionalmente legittimo, quindi, solo quando l’adempimento di tale dovere non possa essere adeguatamente tutelato in altro modo. Di tal che, il diritto alla tutela giurisdizionale non può comunque essere sacrificato in nome di esigenze di tutela dell’interesse fiscale.
7.3. La giurisprudenza costituzionale è stata, inoltre, più volte investita anche di questioni afferenti alla disciplina della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali nei giudizi civili (ad esempio, nelle sentenze n. 152 del 2016, n. 139 del 2019 e n. 87 del 2021). Meritano richiamo, in questa sede, le parole della sentenza n. 77 del 2018, secondo cui «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento». Opera, dunque, un «principio di responsabilità», per il quale chi è risultato essere nel torto si deve far carico, di norma, anche delle spese di lite. Le riforme degli ultimi anni, avvertiva la sentenza n. 77 del 2018, muovono dalla consapevolezza che, «a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera».
- L’ordinanza interlocutoria n. 33271 del 2022 prospetta altresì la tesi interpretativa della natura sanzionatoria della disposizione dettata nel comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 come base per dare soluzione alla questione posta all’attenzione di queste Sezioni Unite.
8.1. La dottrina sembra schierata in modo compatto nel qualificare come “tributo” il contributo unificato dapprima introdotto dall’art. 9, legge 23 dicembre 1999, n. 488, quindi regolato negli artt. 9-18 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, trattandosi di prestazione patrimoniale doverosa, erogata in mancanza di un rapporto sinallagmatico, connessa ad un presupposto economicamente rilevante e destinata a sovvenire pubbliche spese. Benché correlato alla fruizione del servizio giudiziario, il contributo unificato si rivela privo di sinallagmaticità, giacché commisurato forfetariamente sulla base del valore economico della causa e non del costo della prestazione resa.
8.2. In particolare, il contributo unificato costituirebbe una “tassa”, in quanto ha come presupposto impositivo l’espletamento del servizio pubblico della giustizia richiesto dal soggetto che promuove la lite (non rivelandosi, di norma, indice di capacità contributiva, ai fini della sua erogazione, la mera partecipazione al giudizio). Il «contributo unificato» ha così dato luogo ad un metodo di imposizione sui «servizi giurisdizionali» che ha sostituito i previgenti sistemi analitici di tassazione giudiziaria per lo più «d’atto» con un prelievo tributario una tantum, normalmente commisurato al valore della lite, rendendo il processo, nei suoi singoli gradi, un unico evento presupposto.
8.3. Identica natura tributaria si riconosce generalmente all’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione», anche incidentale, che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002. Ciò evitando di utilizzare l’argomento generale che le sanzioni mantengono la stessa natura dei tributi cui conseguono, visto che il “raddoppio” del contributo unificato non è correlato all’inadempimento dell’obbligo tributario primario, quanto perché al legislatore si riconosce ampia discrezionalità nel perseguire svariate finalità con l’imposizione fiscale, ed una di esse ben può essere quella di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose, apprestando un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario.
8.4. Questo effetto dissuasivo e deflattivo del processo, cui ambisce la disciplina del contributo unificato, ed in particolare del suo raddoppio per le impugnazioni respinte, non smentisce il fine finanziario della normativa.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Quinta sezione, 6 ottobre 2015, n. 61 (Causa C-61/14), ha affermato, del resto, che un tributo giudiziario contribuisce al buon funzionamento del sistema giustizia, in quanto “costituisce una fonte di finanziamento dell’attività giurisdizionale degli Stati membri e dissuade l’introduzione di domande che siano manifestamente infondate o siano intese unicamente a ritardare il procedimento”.
L’omogeneità di natura tra la prestazione base ed il suo duplicato imposto dal comma 1-quater nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 sembra trasparire anche dal significato proprio delle parole adoperate dal legislatore: quando l’impugnazione venga respinta integralmente, o sia dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’abbia proposta è tenuta a versare un importo che la legge definisce “ulteriore”, che dunque si aggiunge a quello precedente dovuto per la medesima impugnazione, ma comunque come il primo viene prescritto “a titolo di contributo unificato”. È conforme ad un principio di giustizia distributiva allocare il costo del processo in capo a colui che ne abbia cagionato lo svolgimento.
Tale considerazione non deve tuttavia ingenerare una confusione fra doverosità del contributo unificato, o, in particolare, del suo raddoppio, e soccombenza, criterio che regola il diverso profilo delle spese processuali. Non necessariamente i tributi giudiziari ricadono sulla parte soccombente. Così, il contributo unificato dev’essere versato da chi per primo fa accesso al giudice, per ciascuna fase del processo; il relativo importo, anticipato dall’attore, dall’appellante o dal ricorrente, può poi essere recuperato ove la sentenza che chiude il processo condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte.
Al contrario, l’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione», anche incidentale, che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, non è mai compreso nel contenuto della condanna del soccombente al rimborso delle spese sostenute dal vincitore, in quanto esso è dovuto dal soccombente sin da quando insorge la relativa obbligazione ex lege.
8.5. La ricostruzione appena accennata porta a smentire il riconoscimento di una qualche natura sanzionatoria del raddoppio del contributo unificato. Il proprium di un tributo giudiziario è concorrere alla spesa pubblica, non perseguire una finalità punitiva. Il presidio sanzionatorio avverso condotte di abuso del diritto di impugnazione è, piuttosto, fornito dalla responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.
D’altro canto, al raddoppio del contributo unificato posto a carico dell’impugnante non è applicabile la disciplina definitoria e di riscossione delle sanzioni pecuniarie processuali prevista dagli artt. 1, 3, comma 1 lett. u) e 202 del d.P.R. n. 115 del 2002. Non contraddice questa affermazione neppure la constatazione che il contributo unificato raddoppiato, pur mantenendo natura di misura esclusivamente tributaria, assolva ad una funzione secondaria della fiscalità, non punitiva in senso proprio, quanto disincentivante rispetto ad una superflua richiesta di prestazioni giudiziarie.
È, dunque, proprio e soltanto l’esito integralmente negativo del giudizio di impugnazione che giustifica il maggior costo del servizio imposto al richiedente, il quale ha vanamente sollecitato il riesame di una decisione meritevole di passare in giudicato ed ha fatto svolgere un ulteriore grado di giudizio rivelatosi del tutto superfluo. Il comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002 mantiene, così, coerenza, con la rubrica “Importi” di tale articolo, ravvisando nel raddoppio proprio un criterio di determinazione dell’importo.
La misura del contributo dovuta in forza dell’art. 13, comma 1-bis, per i giudizi di impugnazione e per i processi dinanzi alla Corte di cassazione costituisce un anticipo della somma reale da corrispondersi, la quale è pari al doppio dell’importo iniziale e deve essere versata alla fine. L’accoglimento del gravame giustifica il trattamento tributario agevolato in favore di chi abbia avuto bisogno dell’ulteriore prestazione del servizio giustizia allo scopo di sovvertire la decisione ingiusta maturata nel grado precedente. Viceversa, se l’impugnazione viene respinta, o dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte deve a saldo l’intero carico fiscale del servizio.
- La natura di obbligazione tributaria del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, fa ormai parte anche dell’acquis giurisprudenziale e si trova affermata a chiare lettere nella sentenza n. 4315 del 2020 resa da queste Sezioni Unite: ciò sia perché l’obbligo “ulteriore” al c.d. “doppio contributo” presuppone normativamente l’obbligo di versare il “primo” contributo unificato e, quindi, partecipa della natura di esso; sia perché il versamento “ulteriore” assolve la funzione di ristorare l’amministrazione della Giustizia dall’aver essa dovuto impegnare le limitate risorse dell’apparato giudiziario nella decisione di una impugnazione non meritevole di accoglimento (ciò, si scriveva in quella sentenza“, non disgiuntamente dal perseguimento di “una funzione preventivodeterrente – e, quindi, vagamente sanzionatoria – nei confronti della parte che, avendo già ottenuto la decisione della causa dal giudice di primo grado, non se ne accontenti, ma adisca infondatamente il giudice superiore”).
Occorre qui richiamare per sintesi, e cioè per quanto rilevi nel caso in esame, alcuni dei passaggi esplicitati nella sentenza n. 4315 del 2020. Non spetta al giudice civile, al fine di rendere l’attestazione di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, accertare la debenza del contributo unificato iniziale, che poi costituisce altresì il fatto costitutivo di diritto sostanziale tributario dell’obbligo di versare il suo duplicato. Spetta, piuttosto, al giudice civile dell’impugnazione verificare la sussistenza del fatto costitutivo di diritto processuale attinente alla conformità della decisione resa al modello legale della pronuncia di integrale rigetto, di inammissibilità o di improcedibilità del gravame.
Poiché l’obbligo di versare il raddoppio è normativamente dipendente dalla sussistenza dell’obbligo della parte impugnante di versare il contributo unificato iniziale, il giudice civile dell’impugnazione nell’attestazione di sussistenza dei presupposti processuali condiziona il primo all’esistenza dell’altro: egli deve rendere l’attestazione che il comma 1-quater gli affida anche nel caso in cui il primo importo non sia stato versato per una causa diversa da quella legata alla assoluta e definitiva esenzione da esso stabilita dalla legge.
- Possono allora trarsi le seguenti conclusioni.
10.1. La questione rimessa a queste Sezioni Unite dalla ordinanza interlocutoria della Sesta Sezione civile Tributaria si intende riferita alla sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nell’ipotesi in cui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, notificato ma non depositato, consegua alla iscrizione a ruolo del processo di cassazione operata dal controricorrente.
Come già chiarito nella sentenza n. 4315 del 2020, non spetta infatti al giudice civile dell’impugnazione (ed è, del resto, estranea altresì al tema del giudizio in esame) la pronuncia sulla debenza del contributo unificato iniziale, né quindi quella sul presupposto sostanziale dell’obbligo del ‹‹raddoppio››, essendo ciò materia rientrante nella giurisdizione del giudice tributario e nell’ambito del diverso processo in cui l’Amministrazione finanziaria richieda il pagamento del tributo nei confronti del soggetto ad esso obbligato.
10.2. La pronuncia con cui la Corte di cassazione dichiara l’improcedibilità del ricorso, per effetto del mancato deposito dello stesso a norma dell’art. 369 c.p.c., a seguito della iscrizione a ruolo a tal fine richiesta dalla parte cui il ricorso sia stato notificato, deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, essendo il provvedimento adottato inquadrabile nei tipi previsti dalla norma. Anche in tal caso, invero, non può dirsi escluso dalla legge l’obbligo di versare il contributo unificato iniziale, né rileva, peraltro, che esso non sia stato in concreto versato dal ricorrente, avendo comunque provveduto al pagamento (o, eventualmente, prenotato a debito il relativo importo, nei casi di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 115 del 2002) il controricorrente “diligente”.
L’art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 individua la parte che per prima si costituisce in giudizio come tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato, senza che possa così distinguersi, nel giudizio di cassazione, tra le posizioni del ricorrente o del controricorrente (salvo il criterio del pagamento dell’autonomo contributo cui siano poi tenute le altre parti ai sensi del comma 3 della stessa norma).
L’importo versato a titolo di contributo unificato dal controricorrente, che abbia richiesto l’iscrizione a ruolo del processo al fine di far dichiarare l’improcedibilità del ricorso non depositato, può essere recuperato in sede di regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione secondo soccombenza. Il pagamento del contributo unificato rientra, invero, nell’onere di anticipazione delle spese delineato dall’art. 8 del d.P.R. n. 115 del 2002, e trova poi sistemazione finale in base agli artt. 91, 92 o 310, comma 4, c.p.c.
Viceversa, l’«ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione» che sia respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, grava ex lege sulla parte soccombente, anche quando questa non si sia costituita, oppure quando sia disposta dal giudice la compensazione delle spese processuali.
Ricorre, del resto, anche in ipotesi di dichiarazione di improcedibilità del ricorso notificato e non depositato, la funzione, propria dell’obbligo tributario del versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, di ristorare l’amministrazione della Giustizia dall’aver essa dovuto impegnare le limitate risorse dell’apparato giudiziario nella decisione di una impugnazione non meritevole di accoglimento.
L’improcedibilità del ricorso per cassazione notificato e non depositato postula comunque lo svolgimento di un grado del giudizio rivelatosi del tutto superfluo e giustifica il maggior costo fiscale del servizio.
10.3. Va quindi enunciato il seguente principio di diritto: “la pronuncia con cui la Corte di cassazione dichiara l’improcedibilità del ricorso, per effetto del mancato deposito dello stesso a norma dell’art. 369 c.p.c., a seguito della iscrizione a ruolo a tal fine richiesta dalla parte cui il ricorso sia stato notificato, deve rendere l’attestazione della sussistenza del presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, essendo il provvedimento adottato inquadrabile nei tipi previsti dalla norma”.
- In definitiva, il ricorso notificato da Rossana Recinella deve essere dichiarato improcedibile, con condanna della ricorrente a rimborsare alla controricorrente Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di cassazione nell’importo liquidato in dispositivo. Non vi è ragione di procedere alla compensazione delle spese, in quanto il contrasto rimesso alla decisione di queste Sezioni Unite non concerneva una questione dirimente oggetto del giudizio di cassazione. Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.